23 dicembre
Cari lettori, nel salutarci per le festività vi diamo appuntamento per il prossimo gennaio
2020
con i nostri più cari auguri di BUON NATALE
e FELICE ANNO NUOVO …
(La Natività di Giotto nel transetto destro della basilica inferiore di Assisi)
… e Tanto Amore
“La vita è una cosa molto seria, anche i simboli lo sono”
“L’odio non ha futuro”
“Siamo qui per parlare d’amore e non di odio. “Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera e guardiamoci da amici, anche se ci incontriamo solo per un attimo”. Con queste parole d’amore, come nella poesia di Primo Levi, “Agli amici”, Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, oggi sotto scorta a causa di ripetute minacce antisemite, ha parlato dal palco alle tantissime persone raccolte in piazza della Scala a Milano dove si è conclusa la manifestazione dei sindaci contro l’odio. La senatrice è stata abbracciata da seicento sindaci venuti da tutta Italia per consegnarle la fascia tricolore. La manifestazione “L’odio non ha futuro” è stata organizzata dal Comune di Milano, insieme ad Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), Autonomie Italiane (ALI) e Unione province italiane (UPI), per testimoniare la vicinanza di piccoli, medi e grandi comuni alla senatrice. Più di trent’anni fa, Liliana Segre scelse di dedicarsi alla trasmissione della sua esperienza. Un impegno costante, doloroso nella rievocazione del ricordo, pesante da sostenere considerando che oggi la senatrice a novant’anni. Una missione per non dimenticare “ciò che è stato” e raccontare ai giovani affinché “come future candele della memoria”, come ama definirli la senatrice, possano tenere viva la memoria e ricordare fino a dove possa arrivare l’odio: “sono diventata un rifiuto della società civile cui credevo di appartenere, esclusa dalle scuole, tradita dagli amici, deportata ad Auschwitz, strappata dal papà che non rivedrà più”. Inflessibile nel suo messaggio d’amore Liliana Segre è la testimonianza di come l’amore sia la risposta a qualsiasi male.
“Agli amici” è una lirica del 1985 inclusa nella raccolta “Ad ora incerta” di Primo Levi. Il testo è ora raccolto nel secondo volume delle “Opere, Romanzi e poesie”, pubblicate da Einaudi, Torino, 1988.
Agli amici di Primo Levi
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
Mary Titton
16 dicembre
DALLA STORIA
Arthur Clarke, Stanley Kubrik e “2001: Odissea nello spazio”
Oggi ricorre l’anniversario della nascita di Arthur Clarke, l’autore di “2001 Odissea nello spazio”. Era nato nel 1917 in Inghilterra a Minehead, nel Somerset. Inventore e scrittore di fantascienza, Clarke è considerato uno dei più grandi autori del genere. Aveva iniziato ad occuparsi di fantascienza ancora prima della guerra mondiale anche se i suoi primi scritti risalgono al 1946. Romanzi pubblicati, in Italia, nella storica collana “Urania” come: “Le sabbie di Marte”, “Spedizione di soccorso”, “Le porte dell’oceano” e “La sentinella”, raccolta di racconti da cui fu tratto il film: “2001: Odissea nello spazio”, uno dei film più noti di Stanley Kubrik.
Clarke, laureato in matematica e fisica, “era uno scienziato, autore di importanti testi di divulgazione scientifica, ferrato studioso degli abissi cosmici e marini e tuttavia uno degli scrittori di fantascienza in cui l’aspetto metafisico è più intenso, più struggente. Il vero tema di molte sue narrazioni, lunghe e brevi, è l’avventura della razza umana fra i misteriosi fondali dell’universo, l’enigma del nostro destino fra gli astri o la calata dal nostro cielo di invisibili angeli: del bene? del male?”. A partire dal 1956 Clarke si traferì in Sri Lanka (Ceylon) dove morì all’età di novant’anni. Nel 1968 uscì “2001: Odissea nello spazio”. Grazie al genio di Kubrik che firmò la sceneggiatura con Clarke, il film è diventato un classico di culto, tra i film di fantascienza più belli di sempre.
(Kubrik e Clarke durante la realizzazione del film)
Esso fa riferimento alle domande escatologiche di sempre: chi siamo e così via lasciando senza risposta la maggior parte dei quesiti consentendo a ciascuno di arrivare a una propria impressione: “Non era proprio previsto che capissimo “2001: Odissea nello spazio” alla prima visione” commentò esplicitamente Clarke in un’intervista. Il finale del film resta comunque la parte più controversa dove soltanto negli anni 80 Kubrik spiega la sua versione: “In realtà ho cercato finora di non dare spiegazioni. Se cerchi di spiegare le tue idee alla fine sembrano folli. Ma ci proverò. Il protagonista viene prelevato da queste entità che sono quasi divine, creature fatte di pura energia, intelligenti, senza un corpo o una forma precisa. Lo mettono in questo luogo, che sarebbe come uno zoo umano, perché vogliono studiarlo e la sua vita comincia a passare in quella stanza, senza percepire lo scorrere del tempo. Accade così, come lo vediamo nel film. Queste entità provano a replicare l’arredamento francese ma è tutto molto inaccurato, perché loro possono solo averne un’idea, senza esserne sul serio sicuri. Proprio come facciamo noi negli zoo, quando cerchiamo di replicare l’ambiente naturale degli animali. In ogni caso, quando finiscono con lui, diventa una specie di super essere vivente e viene rimandato sulla terra, proprio come succede in molti miti appartenenti a diverse culture, come se fosse diventato una specie di Superman. Possiamo solo immaginare cosa succederà quando tornerà sulla terra. Si tratta di uno schema vicino a moltissime mitologie, ed è proprio quello che cerchiamo di evocare”. Per chi non l’avesse visto, anche se è molto improbabile vista la notorietà del film, ecco la trama: “Un oggetto di chiara origine extraterrestre scatena e registra le fasi cruciali dello sviluppo del genere umano. All’alba dell’umanità, un misterioso monolite influisce sui primati, facendoli evolvere dalla condizione di raccoglitori a quella di cacciatori. Dopo molti millenni, un simile monolite scoperto presso una base lunare emette un allarmante segnale radio diretto verso Giove. Per cercare una spiegazione del fenomeno un’astronave con a bordo gli impassibili Frank Poole (Gary Lockwood) e David Bowman (Keir Dullea) si dirige verso Giove. La nave è governata da un sofisticato computer, il quasi umano Hal 9000, che però impazzisce uccidendo i membri dell’equipaggio. Bowman, l’unico astronauta superstite, riesce faticosamente a disattivarlo ma entra in un “corridoio” spaziotemporale: rapidamente invecchia, muore e rinasce per avviare una nuova fase dell’esistenza umana. Una trama complessa, che per anni è stata giudicata addirittura incomprensibile. Influente, unico, distaccato ossessivo, pretenzioso, controverso, stupefacente, sempre affascinante: tutto questo è “2001: Odissea nello spazio”. Certo, una deviazione dall’interno che Kubrik aveva espresso: trarre un classico film di fantascienza dall’intrigante racconto “La sentinella” di Arthur C. Clarke. Il risultato fu una sfida alle convenzioni del genere. Le immagini del film sono sconcertanti: gli innovativi effetti speciali (meticolosamente progettati da Kubrik e realizzati da Douglas Trumbull) sono una sorprendente miscela di arte e di scienza. L’accurato lavoro degli attori e dei truccatori per le sequenze preistoriche sono leggendari (anche se non al livello del lavoro di John Chambers per il “Il pianeta delle scimmie”, uscito nello stesso anno). Tante le sequenze indimenticabili: l’inaspettata e splendida dissolvenza tra l’osso scagliato in aria da una scimmia e un satellite orbitante; il meraviglioso allineamento di terra e Sole alla sommità del monolite; il valzer di Strauss che accompagna come in una danza la stazione e una navicella in attracco; l’interno circolare della Discovery (poi imitato dalla Nasa, in scala ridotta, per gli Shuttle). Anche la colonna sonora è particolarmente ricca: musiche corali sperimentali, temi classici (“Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss e “Il bel Danubio blu” di Johann Strauss) ormai associati al film, oltre ai dialoghi minimalisti, spesso citati e omaggiati.
“2001: Odissea nello spazio” si può interpretare come un’avventura misteriosa, una parabola, una visione o un “viaggio” psichedelico da cultura hippie, ma in ogni caso rimane un esempio insuperato di grande spettacolo in grado di emozionare e far pensare. I suoi difetti, gli eccessi di astrazione, la narrazione disarticolata e la speculazione irrisolta sulle origini e sul destino della specie umana, vengono più che compensati dalla riflessione sul rapporto tra uomo e macchina, dalla purezza visuale, dal poetico stupore di fronte alle meraviglie del cielo”. (Recensione di Angela Errigo, da “I Grandi Capolavori del Cinema”, 2003. Atlante).
Mary Titton
14 dicembre
DALLA STORIA
Nostradamus
(Nostradamus in un ritratto del XVI secolo)
Lo speziale, medico e astrologo francese Michel del Nostredame, più noto sotto il nome latinizzato di Nostradamus, nacque nel sud della Francia, a Saint-Rémy de Provence, il 14 dicembre 1503. Della sua infanzia si sa poco a parte che era figlio di un commerciante di cereali e ricco notaio, che la madre si chiamava Reyniér, o Renée de Saint-Rémy, che era di origini ebree e che era stato educato dal bisnonno, circostanza tuttavia smentita da altre fonti. Alcuni ritengono “che i poteri e le speciali doti di preveggenza per cui Nostradamus è noto a tutti, derivano si dai suoi studi, ma anche pare dalla dote congenita nelle origini della sua famiglia. Il nonno Pietro de Notre-Dame, anch’egli medico e astrologo, discendeva dalla tribù ebrea di Isscar. Questa tribù si dice che si impossessò dei documenti rinvenuti nelle camere di iniziazione egizie, di tutte le formule geometriche, cosmologiche e algebriche usate in seguito nella Torah e nella costruzione del tempio di Salomone. Dopo la diaspora il sapere si tramandò fino ad arrivare nelle mani di Nostradamus. Anche nella Bibbia vi è testimonianza del fatto che i discendenti di Isscar avessero speciali doti profetiche”. (biografieonline). Dopo che un’epidemia di peste lo costrinse a interrompere gli studi di matematica, retorica, astronomia e astrologia per la laurea all’ Università di Avignone, Nostradamus si dedicò alla ricerca eboristica e divenne speziale. Nel 1530, benché sprovvisto di laurea, iniziò a praticare la medicina e divenne famoso per le sue innovative terapie contro la peste, creò una pillola rosa che si supponeva proteggesse dalla peste. Iniziò a scrivere profezie attorno al 1547 e nel 1550 cominciò a pubblicare almanacchi con predizioni astrologiche, previsioni del tempo e consigli sulle epoche di piantagione. “… Avevo deciso di spingermi fino a dichiarare … le cause future degli avvenimenti”, scrisse in una lettera al figlio Cesar, nel marzo 1555. Ebbe successo il che gli procurò richieste di oroscopi da parte dei ricchi e lo stimolò a comporre profezie più complesse in forma poetica che pubblicò con il titolo di “Les Prophéties”, il libro che lo rese famoso e che a tutt’oggi ne sono state pubblicate più di duecento edizioni in tutto il mondo, e raramente è stato fuori stampa. Nostradamus attirò l’attenzione di Caterina de’ Medici, la regina consorte di Enrico II di Francia, convinta che una sua profezia avesse predetto la morte del marito:
“Il giovane leone il vecchio sormonterà
Nel campo bellico in singolar tenzone
Nella gabbia d’oro gli occhi perforerà
Due ferite (o flotte) in una, poi morire, morte crudele”.
Enrico II, nel 1559, si avviò a giostrare in un torneo indetto per celebrare i matrimoni di sua sorella Margherita con il duca di Savoia e di sua figlia Elisabetta con il re di Spagna. Sia Enrico che il suo giovane opponente, conte di Montgomery, avevano leoni a sbalzo incisi sui loro scudi. Il re perse: molteplici ferite sulla faccia e sulla gola lo portarono alla morte, con una terribile agonia durata dieci giorni. Nostradamus divenne, quindi, consigliere della Corona, redigendo oroscopi per i figli della regina e medico ufficiale di corte, fino alla sua morte avvenuta il 2 luglio 1566. Fu seppellito nella locale cappella, ma poi, durante la Rivoluzione francese, la salma fu trasferita nella Collégiale Saint-Laurent, a Salon-de-Provence, nel sud della Francia, dove si trova tuttora.
(Copia di una traduzione inglese di Garencières del 1672, conservata alla Nixon Medical History Library della University of Texas Health Science Center at San Antonio)
La controversa opera “Les Prophécies” si componeva di 353 strofe di quattro versi, o quartine, che pretendevano di predire gli eventi futuri. Le quartine erano strutturate in gruppi di cento, centurie. Nelle edizioni successive furono aggiunte altre quartine, portando il totale a nove centurie con 942 quartine. Le reazioni alla pubblicazione del libro furono discordanti. Fu molto popolare tra la nobiltà e i reali francesi, che ritenevano autentiche le profezie, mentre altri ritennero che Nostradamus fosse un pazzo o un ciarlatano. Fu universalmente criticato dal clero, che insinuò che il libro fosse opera del demonio: peraltro, le profezie non furono mai concretamente condannate e, Nostradamus non affermò mai che fossero frutto di ispirazione spirituale, ma bensì che erano basate sul quella che è nota come “astrologia mondana”. Per formulare le sue predizioni, Nostradamus calcolò le posizioni future dei pianeti e cercò allineamenti analoghi verificatisi nel passato. Poi, attingendo liberamente dagli storici dell’antichità, come Svetonio e Plutarco, e a profezie precedenti, abbinò gli allineamenti passati agli eventi narrati dagli storici: creò quindi un’immagine globale del futuro in base alla convinzione che la storia si ripeta. Inevitabilmente, le sue predizioni erano piene di terribili catastrofi come pestilenze, incendi, guerre e inondazioni. Gli astrologi professionisti criticarono aspramente i suoi metodi e lo accusarono di incompetenza e di non possedere le nozioni astrologiche più elementari. Forse per tutelarsi dalle critiche, o persino da un’accusa di eresia, Nostradamus oscurò deliberatamente il significato delle profezie per mezzo di codici, metafore e una miscela linguistica di provenzale, greco antico, latino e italiano. Di conseguenza, queste si prestano all’interpretazione più aperta, tanto che è possibile leggervi di tutto: ma una platea di entusiasti sostiene che abbiano previsto ogni cosa, dall’ascesa di Napoleone alla Rivoluzione francese, dall’ascesa di Hitler agli attentati dell’11 settembre, fino alla recente elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
Mary Titton
13 dicembre
PRIMO PIANO
Elezioni in Gran Bretagna: vittoria di Boris Johnson, leader dei Tories.
Le elezioni nel Regno Unito hanno fatto registrare la vittoria di Boris Johnson e dei Tories, che si sono aggiudicati un totale di 365 seggi su 650, pari a 47 seggi in più rispetto al voto precedente alle elezioni anticipate, un risultato storico, il migliore dai tempi della “Lady di ferro” Margaret Thatcher, un vero e proprio terremoto politico che assegna ai conservatori, già al governo, un mandato ancora più forte. La vittoria di Boris Johnson, subentrato a Theresa May, cui spettò il gravoso compito di trattare l’accordo di uscita della Gran Bretagna dall’Europa, significa anche un’accelerazione netta sulla Brexit, che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. Ora il premier avrà mani libere per rendere più veloce il processo già dal prossimo 31 gennaio. La parola d’ordine di Johnson è: “Get Brexit done”. Il grande sconfitto è il Partito Laburista, che ha riportato il peggiore risultato storico del dopoguerra, un tracollo politico che il presidente del partito laburista, Ian Lavery, scagionando Corbyn, attribuisce alla Brexit, “il tema che ha polarizzato il voto, perché i labour nel 2019 hanno promesso un secondo referendum sulla Brexit” e, secondo la sua analisi, “la gente, molto giustamente, si è chiesta perché dovrebbe esserci un secondo referendum quando ce ne è stato uno nel 2016”. Il Brexit Party, un partito politico britannico euroscettico, populista e sovranista, che è stato costituito nel 2019, non avrà alcun rappresentante a Westminster e Nigel Farage, schieratosi fortemete a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, non ha ottenuto nemmeno un seggio. Il Partito nazionale scozzese, invece, ha fatto il pieno di voti in Scozia conquistando 55 dei 59 seggi in palio, una vittoria anti Brexit quasi da record per la sua leader Nicola Sturgeon, che sull’onda del risultato delle urne, è pronta a chiedere un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia. I Liberal Democrats, il partito più radicalmente anti Brexit, si fermano a 9 seggi: un netto calo rispetto al già modesto risultato di due anni fa. Il vero sconfitto è stato il Partito Liberale, la 39enne Jo Swinson sarebbe dovuta diventare l’alternativa a Johnson e Corbyn, invece è stata bocciata nel suo collegio (East Dunbartonshire) in Scozia. L’affluenza alle urne è stata del 67,17%, 1,49% in meno rispetto al voto del 2017
11 dicembre
PRIMO PIANO
Nuova Zelanda: Riprende l’attività del vulcano della White Island.
Il vulcano della White Island, in Nuova Zelanda, dopo l’eruzione di lunedì scorso, che ha causato 6 vittime, sta ora emettendo gas venefici e fa registrare piccoli terremoti, che hanno costretto i soccorritori a interrompere i loro sforzi. All’appello mancano ancora otto dispersi. Sei sono le vittime accertate, mentre 25 persone si trovano in condizioni critiche in ospedale con gravi ustioni. Il vulcano, noto con il nome di Whakaari, è esploso travolgendo con i suoi detriti decine di turisti che si trovavano sull’isola. “Ho parlato con molte persone coinvolte nell’operazione e sono molto, molto ansiosi di andare lì e portare a casa i propri cari”, ha detto il Primo Ministro Jacinda Ardern ai giornalisti. “Dalle 4:00 di questa mattina il livello di tremore vulcanico è notevolmente aumentato sull’isola”, ha dichiarato in una nota l’agenzia geologica GeoNet, precisando che “la situazione rimane fortemente incerta per quanto riguarda il resto della giornata” e non escludendo nuove eruzioni nelle prossime 24 ore. La violenta eruzione di cenere e vapore bollente è avvenuta proprio mentre un gruppo di turisti era vicino al cratere e molti si chiedono perché sia stata data l’autorizzazione a sbarcare sull’isola dopo che gli esperti il mese scorso avevano alzato il livello di allarme del vulcano. Lo scorso 18 novembre, infatti, l’agenzia geologica nazionale GeoNet aveva segnalato l’inizio di una possibile nuova fase eruttiva e la scorsa settimana aveva reso noto di poter certificare l’avvio di una fase ad alta attività eruttiva. White Island, chiamata Whakaari, “il drammatico vulcano” dagli abitanti del posto, attira ogni anno 10.000 turisti, l’escursione costa 229 dollari e il volantino pubblicitario è chiaro: “I visitatori devono essere consapevoli che c’è sempre un rischio di eruzione a prescindere dal livello di allerta”. Al momento dell’esplosione, sull’isola c’erano 47 persone: 24 australiani, 9 americani, 5 neozelandesi, 4 turisti provenienti dalla Germania, 2 dal Regno Unito, 2 dalla Cina e 1 dalla Malaysia. Le immagini scattate da un turista mostrano la violenza dell’eruzione, con l’isola improvvisamente avvolta da un’enorme colonna di fumo e cenere, arrivata fino all’altezza di 3,6 chilometri. Un giovane, Michael Schade, aveva appena finito il tour del cratere che domina l’isolotto e si trovava a bordo di un battello per rientrare sulla terraferma, quando c’è stato il terribile boato dell’eruzione. “È così incredibile. Tutto il nostro gruppo si trovava letteralmente sul bordo del cratere solo trenta minuti fa. – ha scritto in diretta pubblicando le foto su Twitter – Il mio pensiero va ai dispersi.” Un fermo immagine di una telecamera sul cratere mostra un gruppo di turisti proprio vicino al cratere pochi secondi prima della strage. White Island appartiene alla famiglia Buttle di Auckland dal 1936 ed è una delle poche isole di proprietà privata della Nuova Zelanda. I tre fratelli Buttle, ciascuno proprietario di un terzo dell’isola, si sono detti costernati per quanto successo e uno si è recato immediatamente sul posto per seguire le operazioni di ricerca e salvataggio. White Island fu visitata la prima volta nel 1800 dai Maori che vi praticavano la caccia. Poi fu acquistata dalla NZ Sulphur Company per produrre sale “usando le fumarole per l’evaporazione dell’acqua di mare”. Dopo lo scioglimento della società, passò nelle mani di George Buttle. “Rimarrà in famiglia. È molto insolito possedere un vulcano.” dicono gli eredi che hanno voluto ringraziare tutti coloro che si sono adoperati per salvare le persone, compresi i primi soccorritori, il personale medico e la gente del posto.
DALLA STORIA
Aleksandr Solženicyn e l’esperienza del gulag.
Lo scrittore russo Aleksandr Solženicyn, premiato con il Nobel per la letteratura nel 1970 è noto per aver rivelato al mondo l’orrore dei gulag, i campi di lavoro forzato presenti in Unione Sovietica durante la dittatura stalinista. L’autore di “Arcipelago Gulag”, un’inchiesta sui gulag in chiave narrativa, era nato in Russia, l’11 dicembre 1918 da una famiglia discretamente agiata. Morto il padre pochi mesi prima della sua nascita, la madre si trasferì col piccolo a Rostov-sul-Don. Nel 1924, a causa degli espropri ordinati dal regime, i due si trovarono nella miseria. Nello stesso anno si arruolò come volontario nell’Armata Rossa e venne inviato sul fronte occidentale. Ricevette perfino un’onorificenza. Ma nel febbraio del 1945, per un’allusione a Stalin in una sua lettera, venne arrestato, trasferito nella prigione moscovita della Lubjanka e condannato a otto anni di campo di concentramento e al confino a vita iniziando così il lungo calvario da un gulag all’altro. Anna Achmatova in una sua celebre prosa “davanti alle carceri di Leningrado” rende tangibili, attraverso la lirica dei suoi versi, il dolore e il senso di impotenza davanti a tanta crudele sopraffazione inflitta dal potere sovietico ai prigionieri e a chi come lei, in fila insieme con altre donne, faceva lunghe code per lasciare ai parenti detenuti pacchi di viveri e vestiti. Se il pacco era accettato, era segno che il prigioniero era vivo. In caso contrario era sicuramente deceduto:
“Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando):
“Ma questo lei può descriverlo?”
E io dissi:
“Posso”.
Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.
Il Gulag, acronimo russo di “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”, era il ramo della polizia politica dell’URSS che costituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché questi campi fossero stati pensati per la generalità dei criminali, il sistema dei gulag è noto soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell’Unione Sovietica. In aggiunta alla categoria più comune di campi nei quali si praticavano lavoro fisico pesante e vari tipi di detenzione, esistevano anche altre forme: un tipo singolare di gulag detti “luoghi d’ozio”, erano in realtà laboratori di ricerca dove gli scienziati arrestati, molti dei quali dotati di enorme ingegno, venivano riuniti e sviluppavano in segreto nuove tecnologie e ricerche di base. Solženicyn in uno di essi aveva scontato alcuni anni di prigionia ed ambientato il romanzo “Il primo cerchio”; un altro tipo di gulag detto “Manicomio” era il trattamento medico forzato mediante imprigionamento psichiatrico, utilizzato al posto del campo di lavoro, al fine di isolare ed esaurire psichicamente i prigionieri politici. Questa pratica divenne comunissima dopo lo smantellamento ufficiale del sistema dei gulag; o i gulag chiamati “campi o zone speciali per fanciulli” per i disabili e per le madri con neonati. Queste erano considerate improduttive e spesso soggette a molti abusi. I campi per mogli di traditori della Patria (esisteva una categoria particolare di repressi “Membri familiari dei traditori della Patria”). Nell’ambito del programma sovietico per la bomba atomica fino alla sua destituzione nel 1953, migliaia di prigionieri furono usati per estrarre minerale di uranio e preparare le attrezzature per i test. In 43 campi di sterminio dell’Unione Sovietica i prigionieri furono forzati a lavorare in condizioni pericolose e insane, responsabili di una morte certa. In essi si identificavano tre tipi di campi: i campi dai quali nessuno uscì vivo (miniere di uranio e impianti di arricchimento); campi di lavoro pericoloso per l’industria bellica (impianti nucleari ad alto rischio); i campi di lavoro pericoloso responsabile di disabilità e malattie fatali (impianti senza ventilazione). I detenuti erano spesso costretti a lavorare in condizioni disumane a dispetto del clima brutale, non erano mai adeguatamente vestiti, nutriti né veniva loro fornito alcun mezzo per combattere l’avitaminosi che conduceva a malattie come lo scorbuto o sindromi quali la cecità. Le condizioni di lavoro erano talmente insopportabili che alcuni prigionieri si provocavano volontariamente gravi lesioni o addirittura amputazioni pur di restare a riposo per un certo periodo. Gli amministratori rubavano ordinariamente dagli accantonamenti per guadagno personale e per ottenere favori dai superiori: scremavano i medicinali, i tessuti e i generi alimentari più nutrienti. In alcuni campi si praticava la selezione per eliminazione: quando i prigionieri si allineavano per il turno di lavoro, all’ultimo che si presentava si sparava come monito per gli altri, oppure gli si negava la razione giornaliera di cibo. “Per fare le camere a gas, ci mancava il gas” commentò, in seguito, Solženicyn. La maggior parte dei gulag era situata in aree ultraremote della Siberia nordorientale. Comunque, campi se ne trovavano in tutta l’Unione Sovietica sempre sotto il controllo diretto dell’amministrazione centrale “Gulag”. L’area lungo il fiume Indigirka, nell’estrema periferia della Siberia, conosciuta col nome di “Gulag dentro il Gulag”, in un villaggio si registrò la temperatura record di-71.2° C. Varlam Tichinivic Salamov, lo scrittore sovietico sopravvissuto dopo lunghi anni all’esperienza del gulag, ne “ I racconti di Kolyma” scrive: “… se c’è una nebbia gelata, fuori fa meno quaranta; se l’aria esce con rumore dal naso, ma non si fa ancora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacinque; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora sono meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo”. I gulag erano anche un mezzo per concentrare forza lavoro a basso prezzo. Molti progetti durante la rapida industrializzazione degli anni Trenta, durante la seconda guerra mondiale e dopo, furono compiuti gravando sulle spalle dei condannati utilizzati anche in ampi settori dell’industria sovietica. Parti della famosa Metropolitana di Mosca e dei campus dell’ Università statale della città furono costruiti da lavoratori forzati. Il numero dei prigionieri è impronunciabile, si parla di milioni di persone: nel 1938, legata alle purghe, la loro crescita contò 1.8881.570 per poi diminuire durante la seconda guerra mondiale. Nel 1944, a causa dei reclutamenti nell’esercito, i prigionieri furono 1.179.819 e così via in funzione alla richiesta del regime di “materia umana”. C’è una testimonianza molto vasta in letteratura sull’argomento. Gli intellettuali, i poeti, gli artisti e tutti coloro che non erano allineati al regime erano le vittime predestinate al sistema concentrazionario dell’Unione Sovietica. Osip Emil’evic Mandel’stam è uno di questi: dopo la poesia “A Stalin” egli fu arrestato “per attività controrivoluzionarie”, la dettò lui stesso all’ufficiale della Lubjanka che lo interrogava, se la cavò con un confino. Ma qualche anno dopo un nuovo arresto finirà con la condanna ai lavori forzati e alla sua morte in un lager di transito. Nel 1936 Anna Achmatova andò a trovare coraggiosamente Mandel’stam, al confino a Voronez: “ma nella stanza del poeta in disgrazia / vegliano a turno la paura e la Musa. / Ed una notte avanza / che non conosce aurora”
A Stalin
Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi
e dove c’è spazio per un mezzo discorso
là ricordano il montanaro caucasico.
Le sue dita tozze sono grasse come vermi
e le parole, del peso di un pud, sono veritiere,
ridono i baffetti da scarafaggio
e brillano i suoi gambali.
E intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,
si diletta dei servigi di mezzi uomini,
chi fischia, chi miagola, chi frigna
appena apre bocca e alza un dito.
Come ferri di cavallo forgia decreti su decreti
a chi dà nell’inguine, a chi sulla fronte, a chi nelle sopracciglia, a chi negli occhi
ogni morte è per lui una cuccagna
e l’ampio petto di osseiano.
(Osip Emil’evic Mandel’stam uno dei più grandi poeti del XX secolo, esponente di spicco dell’acmeismo, insieme a N. S. Gumilev, S.M. Gorodeckij, Anna Achmatova e M. A. Kuzmin, in una foto segnaletica del 1934, all’epoca del suo primo arresto)
Mary Titton
10 dicembre
PRIMO PIANO
Mattarella a Torino per i 55 anni dell’Arsenale della pace.
Il Sermig, Servizio Missionario Giovani, fondato nel 1964 da Ernesto Olivero, ha festeggiato i suoi 55 anni di attività alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in visita privata con la figlia Laura a questa storica ex fabbrica di armi della città di Torino, trasformata con il lavoro volontario di migliaia di giovani e ribattezzata Arsenale della Pace. Il Sermig, partito da un piccolo gruppo di ragazzi impegnati contro la fame nel mondo, oggi è il cuore di una realtà di solidarietà, che è presente con progetti di sviluppo nei cinque continenti e conta tre Arsenali: quello in Brasile, dove vengono accolte ogni giorno 1200 persone che vivono in strada, quello in Giordania, che dà asilo a centinaia di bambini disabili cristiani e musulmani e quello sulle colline di Torino, che ospita molti bimbi malati con le loro famiglie. Dal 2 agosto 1983 la sede dell’associazione è l’ex arsenale militare di Torino, ribattezzato Arsenale della Pace, una superficie di quarantacinquemila metri quadrati, che con il lavoro e i contributi economici volontari di migliaia di persone è stato trasformato in una casa di accoglienza per i poveri. La struttura offre rifugio per la notte, pasti, cure sanitarie e sostegno a persone che vogliono cambiare la loro vita. Ospita anche l’“Università del Dialogo”, dedicata alla formazione dei giovani su temi quali l’educazione alla convivenza tra culture, la pace e in generale le grandi tematiche esistenziali. Sono presenti inoltre una scuola per artigiani restauratori e un laboratorio di musica, riconosciuti dal Ministero della Pubblica Istruzione italiano. Il Sermig definisce l’Arsenale della Pace di Torino, che in quarant’anni ha portato avanti 2100 progetti di sviluppo a servizio delle comunità più povere in 88 paesi del mondo e dove si totalizzano ogni giorno 1500 ore di volontariato,“una casa dove ognuno può ritrovare silenzio e spiritualità, se stesso e il respiro del mondo”. Nel suo saluto il Capo dello stato, esprimendo il suo compiacimento per questa realtà di solidarietà e di pace, ha detto tra l’altro: “I cambiamenti che il mondo sta attraversando creano disorientamento e paure e le paure generano contrapposizioni pericolose. Le paure sono contagiose, ma anche la pace lo è. La pace non è raggiunta una volta per tutte, va sviluppata, difesa, consolidata, e aggiornata. La pace richiede impegno e lavoro attivo”. Ha poi aggiunto il suo ringraziamento ad Ernesto Olivero: “Un impegno costante attivo e concreto per la pace è quello che garantisce e può difendere da tanti pericoli … Quello che hanno avviato qui tanti anni fa Ernesto e sua moglie Maria, e che si è sviluppato con dimensioni economicamente rilevabili, allora imprevedibili e inimmaginabili, e per me per tanta parte ancora inspiegabili, è non solo una grande opera in sé ma una semina che si diffonde in maniera importante nella società e nel Paese. Per questo mi associo al ringraziamento di Olivero per quanti hanno lavorato qui in questi 55 anni, ma soprattutto dico un grande grazie a Ernesto per il suo lavoro. Non solo ha trasformato un arsenale, un luogo di guerra in luogo di pace, ma fatto molto di più, qui si lavora quotidianamente per la pace, che non è data una volta per tutte.” Il presidente della Regione Alberto Cirio, presente nell’auditorium insieme con la sindaca di Torino Chiara Appendino, ha lanciato l’idea di candidare il Sermig a patrimonio dell’Unesco per i beni immateriali.
9 dicembre
PRIMO PIANO
Toscana: Forte scossa di terremoto nella notte e rilevante sciame sismico.
Questa notte in provincia di Firenze è stata registrata una lunga serie di scosse di terremoto, di cui la più forte di magnitudo 4.5 è avvenuta alle 4:37 e ha avuto l’epicentro, tra 6 e 9 km di profondità, a Scarperia San Piero, poco dopo, alle 4:42, c’è stata un’altra scossa a Barberino di Mugello, poi dalle 20:38 di ieri sono state registrate 70 scosse di minore intensità a Scarperia San Piero. La scossa di magnitudo 4.5 è stata nettamente avvertita anche a Firenze città e a Pistoia. Numerose persone in preda alla paura, nel Mugello, si sono riversate in strada e, poiché pioveva si sono sistemate nelle auto. Tante le chiamate ai pompieri e le richieste di sopralluogo per la caduta di calcinacci. Il prefetto di Firenze, Laura Lega, che è in contatto da stanotte con i vari sindaci del territorio, ha rassicurato la popolazione dicendo che “non c’è nessuna situazione di allarme, non ci sono danni a persone”. Stamattina, alle 7:00, la Sala Integrata di Protezione civile della Città Metropolitana e della Prefettura di Firenze ha aperto il Centro coordinamento soccorsi che si è riunito di nuovo a mezzogiorno. Secondo quanto spiegato dal prefetto, al momento sarebbero oltre 25 gli interventi dei vigili del fuoco per crepe in alcune abitazioni, ma i danni registrati in alcuni edifici “non sono particolarmente gravi”. In seguito alla sequenza sismica, in via precauzionale, è stata decisa la chiusura delle scuole in tutto il Mugello, dalle 8.45 è ripreso poi, e sta tornando progressivamente alla normalità, il traffico ferroviario sulle linee AV Bologna-Firenze e Firenze-Roma direttissima e convenzionale, ma i ritardi superano le due ore. In tarda mattinata è ripresa anche la circolazione sulle linee regionali. Il terremoto nel Mugello arriva un secolo dopo quello del 29 giugno 1919 che causò oltre 100 morti nella stessa area appenninica. In una domenica assolata, poco dopo le 10:00 del mattino, si registrò una scossa tra il settimo e il nono grado della scala Mercalli con epicentro nella zona di Vicchio, dove ci furono una quarantina di vittime e crollò la metà degli edifici. Tra i comuni più colpiti anche quelli di Dicomano, Borgo San Lorenzo, San Godenzo, Marradi, Firenzuola, Scarperia, Barberino, Londa, San Godenzo e in parte anche Rufina e Pontassieve. I soccorsi raggiunsero subito i centri del basso Mugello, mentre nelle lontane frazioni appenniniche e nei casolari sperduti dell’Alto Mugello e del Santerno molte persone rimasero sotto le macerie e furono trovate solo dopo diversi giorni. Gravi danni interessarono anche decine di località situate sul versante romagnolo dell’Appennino. I terremoti in corso in Toscana, nel Mugello, sono più vicini alla faglia che si è attivata nel 1542 che a quella che ha causato il sisma del 1919: lo ha detto il direttore dell’Osservatorio Nazionale Terremoti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Salvatore Stramondo, alla luce delle analisi condotte finora. “Non ci sono ancora elementi certi – ha osservato Stramondo – per stabilire che si tratti della stessa faglia che si è attivata nel 1542 causando un terremoto di magnitudo stimata intorno a 6.0. Quello che al momento notiamo è che i terremoti in corso avvengono a ridosso dell’area colpita nel 1542, a soli 8-10 chilometri a nord-ovest.” Si trova invece a 15-20 chilometri a est l’area nella quale un secolo fa è avvenuto il terremoto di magnitudo 6.4, uno dei più importanti della regione, con oltre 100 morti. “Sappiamo che l’area del Mugello è fortemente sismica, ma non possiamo fare previsioni sull’evoluzione futura. – ha detto ancora Stramondo – In quell’area negli ultimi 10-12 anni sono avvenute almeno tre sequenze sismiche con terremoti di magnitudo superiore a 4.0. Il meccanismo che li ha generati è quello tipico di tutti i terremoti che avvengono negli Appennini, ossia di tipo estensionale, nel quale la crosta terrestre si distende nell’area compresa tra la costa tirrenica e quella adriatica.”
DALLA STORIA
Winckelmann o nascita di una scienza.
(Angelica Kauffmann, nel 1764, a Roma fece un disegno del suo maestro Winckelmann. Con la penna in mano egli siede davanti a un libro aperto; grandi occhi scuri si schiudono sotto una fronte spirituale. Il naso è grande, e, in questo ritratto, quasi borbonico, la bocca e il mento sono morbidi e tondi e la testa sembra più di un artista che di un erudito. “La natura aveva messo in lui, disse Goethe, tutto quanto fa e adorna l’Uomo”)
Celebrato come il maggiore archeologo del secolo XVIII Johann Joachin Winckelmann, con i suoi scritti, ha fissato i canoni della moderna storia dell’arte inventando così la nuova scienza dell’archeologia. “Da occupazione di pochi privilegiati, l’arte acquistava così effettivo valore di facoltà spirituale e di fenomeno sociale al pari della poesia. Così concepita e realizzata, la storia dell’arte rappresenta, per opera di Winckelmann, una delle maggiori conquiste XVIII secolo, permettendo di identificare la storia dei monumenti con la storia della stessa civiltà”. “Figlio di un ciabattino, egli era nato in Prussia, a Stendal il 9 dicembre 1717. Da fanciullo correva in cerca di tutte le tombe degli Unni che si trovavano nei dintorni e incitava i compagni a scavare con lui alla ricerca di vecchie urne. Nel 1743 aveva ottenuto il posto di direttore aggiunto a Seehausen. “Ho fatto con molto impegno il maestro di scuola e insegnavo l’alfabeto a fanciulli dalle teste tignose; ma mentre mi occupavo di questo, desideravo ardentemente pervenire alla conoscenza del Bello e recitavo le metafore di Omero come preghiere”. Nel 1748 egli si recò in qualità di bibliotecario presso il marchese di Bunau, presso Dresda, abbandonando senza rimpianto la Prussia di Federico II che considerava un “paese dispotico” e che ricordava solo con orrore (“almeno ho sentito più degli altri la schiavitù”). Questo trasferimento decise dell’indirizzo della sua vita. Frequentò un gruppo di artisti notevoli e conobbe a Dresda la più vasta collezione di antichità della Germania, di fronte alla quale abbandonò ogni altro progetto (accarezzava l’idea di recarsi in Egitto). Cominciano ad apparire i suoi primi scritti e se ne sparge l’eco per tutta l’Europa. Sempre più indipendente dal punto di vista spirituale, religioso ma non dogmatico, Winckelmann abbracciò il cattolicesimo per ottenere un posto in Italia; Roma gli valeva bene una messa. / Nel 1758 divenne bibliotecario e ispettore delle collezioni del cardinale Albani. Nel 1736 fu nominato ispettore generale di tutte le antichità di Roma e dintorni e visitò Ercolano e Pompei. Nel 1768, a Trieste, di ritorno da un viaggio in patria, fu assassinato! … / Tre soprattutto, sono le opere di Winckelmann che hanno condotto alla fondazione di un metodo di ricerca scientifico sulle antichità: Il Rapporto sulle scoperte di Ercolano, il suo capolavoro “Storia dell’arte presso gli antichi” e i “Monumenti antichi inediti”.
In “Storia dell’arte presso gli antichi” riuscì a classificare, secondo un’ordinata visione, la messe sempre più copiosa di antichi monumenti, e descrivere “senza modello”, come egli stesso osservava con orgoglio, e per la prima volta, lo sviluppo dell’arte antica. Sui dati lacunosi fornitigli dagli antichi, Winckelmann costruì un sistema, interpretando con acume eccezionale le nuove nozioni di cui disponeva; e la forma entusiastica in cui egli seppe trasmettere queste nozioni ai suoi contemporanei contribuì a scatenare nel mondo della cultura una vivissima corrente di attrazione verso gli antichi ideali, che avrebbe dominato l’età del “classicismo”. / Il libro esercitò sull’archeologia un’influenza decisiva. Esso accese il desiderio di rintracciare la bellezza dovunque ancora si celasse, e indicò la strada per trovare attraverso l’indagine sui monumenti la chiave della cultura antica; e destò la speranza di raggiungere con la vanga nuove meraviglie sepolte, come era avvenuto a Pompei.
(Casa scoperta nel 1833 innanzi a S.A. il Gran Duca di Toscana. Biblioteca dell’Accademia di architettura, Mendrisio)
Con i “Monumenti antichi inediti” pubblicati nel 1767 Winckelmann pose nelle mani della giovane archeologia uno strumento veramente scientifico. “Senza modello” egli divenne un modello! Quando Winckelmann, per spiegare e interpretare i monumenti, percorse l’intero ciclo della mitologia greca, traendo da minimi indizi importanti conclusioni, il metodo fino allora adottato fu liberato da tutte le pastoie filologiche e si svincolò dall’asservimento ad antichi storiografi ai quali si era attribuita un’importanza canonica. / Molte asserzioni di Winckelmann erano sbagliate e molte delle sue deduzioni troppo frettolose. L’immagine che si era fatta degli antichi era idealizzata, poiché l’Ellade non era stata abitata solo da “uomini simili agli dèi”. La sua conoscenza dell’arte greca era rimasta, anche con tanta abbondanza di materiale, molto limitata. Quello che egli aveva veduto erano soprattutto copie di età romana, lavate fino ad aver assunto un biancore immacolato e levigate da bilioni di gocce d’acqua e di granelli di sabbia. Il mondo degli antichi non era così severo, né così candidamente splendente in un paesaggio radioso. Esso era variopinto, e in un modo che noi, che pure siamo da tempo forniti di più esatte nozioni, possiamo immaginare. La scultura greca originale era colorata. La statua marmorea di una figura femminile dell’Acropoli di Atene mostra i colori rosso, verde, blu e giallo. E non di rado le statue, oltre alla colorazione rossa delle labbra, avevano occhi sfavillanti di pietre preziose e ciglia artificiali, che appaiono assai strane al nostro gusto. Tuttavia il merito di Winckelmann rimane quello di aver introdotto l’ordine dove non era che il caos e di aver portato la scienza dove non regnavano che ipotesi e leggende. Egli rese possibile, attraverso la rivelazione del mondo antico, il classicismo di Goethe e di Schiller, e preparò gli strumenti che sarebbero un giorno serviti agli archeologi per strappare alle tenebre del tempo altre e più antiche civiltà”. (“Civiltà sepolte”. 1949. Ceram. Einaudi)
Mary Titton
6 dicembre
PRIMO PIANO
Gian Maria Volonté. “Il più grande attore italiano del suo tempo”. (Felice Laudadio)
(Gian Maria Volonté in una scena del film di Sergio Leone “Per un pugno di dollari”, 1964)
“Andare oltre la parte per essere tra l’arte e la vita”.
Gian Maria Volonté è considerato uno dei maggiori attori della storia del cinema italiano, un interprete versatile e incisivo, ricordato per la presenza magnetica e la recitazione matura (notevole la sua capacità di trasformarsi integralmente nel personaggio che impersonava per la durata, non solo delle riprese, ma anche fuori dal set, per tutto il periodo in cui veniva girato il film). Volonté si era diplomato a Roma nel 1957, all’Accademia d’Arte Drammatica dove era considerato come un “giovane di grande talento”. Nella stagione 1958- 1959 recitò nella compagnia del teatro Stabile di Trieste e l’anno successivo iniziò a recitare i classici negli sceneggiati televisivi. Il suo esordio cinematografico avvenne, a partire dal 1960, dove ricoprì parti marginali ma sempre con registi importanti: Luigi Comencini, Giuseppe Masini, Valerio Zurlini, ecc. La sua carriera cinematografica decollò quando Sergio Leone lo volle “Per un pugno di dollari”, considerato uno dei capisaldi del genere spaghetti-western; l’interpretazione di Volontè, nel ruolo del cattivo, fu così convincente che lo consacrò definitivamente al grande pubblico e gli conseguì una fama internazionale. L’attore fu comunque ricordato come “il volto del cinema italiano d’impegno sociale e politico degli anni Settanta”. Memorabile la sua interpretazione ne “La classe operaia va in Paradiso”, nel ruolo dell’operaio Ludovico Massa, detto Lulù in cui viene raccontato il rapporto alienato degli operai con la macchina e i tempi di produzione. Nel film viene esplicitamente espressa l’accusa verso il movimento studentesco, spesso troppo distante e “astratto” dai reali problemi degli operai, e verso i sindacati, spesso collusi con i padroni con cui concertano e decidono della vita degli operai stessi, per arrivare fin dentro le case, evidenziando come l’alienazione dell’uomo-macchina continui anche nella vita di tutti i giorni, contaminando i rapporti personali. Diretto da Elio Petri, nel 1971 e scritto con Ugo Pirro, vinse il Gran Prix per il miglior film al festival di Cannes.
(Una scena del film “La classe operaia va in paradiso”, 1971 di Elio Petri)
Sempre di Petri, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” vede uno straordinario Volonté che interpreta il capo della Squadra Omicidi di Roma che ammazza l’amante, Florinda Bolkan e semina volutamente tracce e indizi per dimostrare che, come garante della legge e rappresentante del Potere, è al di sopra di ogni sospetto. Uscito indenne alle indagini, si autoaccusa. Le musiche sono di Ennio Morricone. La pellicola, nel 1970, vince l’Oscar per il miglior film straniero e Volontè riceve il Nastro d’argento.
(L’attore con Florinda Bolkan sul set di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”)
“Il caso Mattei” e “Uomini Contro”, di Francesco Rosi sono altri due film di approfondimento e di denuncia del grande regista napoletano interpretati magistralmente dall’attore nel ruolo del protagonista. Il caso Mattei”, del 1972, è dedicato alla figura del primo presidente dell’ENI, morto in un attentato aereo il 27 ottobre 1962. Il film assume la connotazione di un giallo politico che esce dalle convenzioni e attrae sia per la composizione narrativa a mosaico, sia per il ritmo serrato del racconto in cui il regista vaglia, di volta in volta le diverse ipotesi sulla morte di Mattei senza però avvalorarne alcuna. Il film è considerato uno dei migliori film-inchiesta del cinema italiano. E ancora “Uomini contro”, del 1970, tratto dal libro “Un anno sull’altipiano”, del 1938, di Emilio Lussu (uno dei libri più belli sulla Grande Guerra) sceneggiato da Tonino Guerra e Raffaele La Capria, un film pacifista, in aperta polemica con l’irrazionalità e insensatezza della guerra, con l’esasperata disciplina della gerarchia militare, in uso, al tempo. Nella trama un giovane ufficiale italiano interventista, sull’altipiano di Asiago tra il 1916 e il 1917, scopre la follia della guerra: battaglie ed eroi sono molto diversi da come li immaginava. E ancora, nel 1972, di Marco Bellocchio in “Sbatti il mostro in prima pagina”, Volontè interpreta un redattore capo di un grande quotidiano che strumentalizza un delitto sessuale per screditare la sinistra extraparlamentare nella Milano dopo la bomba di piazza Fontana e i funerali di Gian Giacomo Feltrinelli. Un giallo politico in cui il regista fonde finzione e cronaca. Con Gillo Pontecorvo, nel 1979, Volontè recita nel film d’azione “Ogro”, sul terrorismo basco. La storia parla della vicenda del 20 settembre 1973 quando, a seguito di un attentato, muore l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, capo del governo spagnolo e presunto successore di Francisco Franco. Gli esecutori sono quattro rivoluzionari dell’ETA. E ancora, Volontè sarà il notabile democristiano di “Todo Modo”, del 1976 di Elio Petri e reciterà ancora per Francesco Rosi in “Lucky Luciano”, nel 1973; in “Cristo si è fermato a Eboli”, nel 1979 e “Cronaca di una morte annunciata”, nel 1987. Volonté ormai “attore-simbolo” del cinema d’impegno civile, lavorerà ancora con i registi del calibro di Mario Monicelli in “L’armata Brancaleone”, “Banditi a Milano” (Carlo Lizzani), “Quién sabe?” (Damiano Damiani), “Il sospetto” (Francesco Maselli), “Giordano Bruno” e “Sacco e Vanzetti” (Giuliano Montaldo), “La Certosa di Parma” (Mauro Bolognini), “Il caso Moro” (Giuseppe Ferrara), “Un ragazzo di Calabria” (Luigi Comencini), “Porte aperte” (Gianni Amelio), “Vento dell’Est” (Jean-Luc Godard), “Sotto il segno dello scorpione” (fratelli Paolo e Vittorio Taviani), “La ragazza con la valigia” (Valerio Zurlini), solo per cintarne alcuni perché per gli stessi registi e molti altri ancora, reciterà in più occasioni fino al 6 dicembre 1994, giorno della sua morte avvenuta, a soli 61 anni, in Grecia, sul set del film “Lo sguardo di Ulisse”, di Theodoro Angelopulos.
(Gian Maria Volonté ne “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara, 1986)
Mary Titton
5 dicembre
PRIMO PIANO
Roma: acceso l’albero di Natale in piazza San Pietro.
Nel pomeriggio di oggi in piazza san Pietro, alla presenza di una folla di fedeli, di cori tradizionali, di gruppi di sbandieratori e delle delegazioni provenienti dal Trentino e dal Veneto, è stato acceso l’albero di Natale ed è stato inaugurato il presepe, segni di gioia e di speranza presenti per tutte le festività natalizie. Il presepe in legno, espressione della tradizione locale, proviene da Scurelle, comune della Valsugana in provincia di Trento, giunge invece dall’Altopiano di Asiago l’imponente abete rosso, alto circa 26 metri, con un diametro di 70 centimetri, innalzato accanto all’obelisco, donato, un anno dopo il disastro ecologico che colpì molte zone del Triveneto, insieme con una ventina di alberi più piccoli, dal Consorzio di usi civici di Rotzo-Pedescala e San Pietro in provincia di Vicenza. Albero e presepe sono legati insieme dal comune ricordo della tempesta dell’ottobre-novembre 2018 che devastò molte zone del Triveneto. Quest’anno, inoltre, il Gruppo Presepio Artistico Parè di Conegliano, in provincia di Treviso, ha curato l’allestimento del presepe all’interno dell’Aula Paolo VI. Papa Francesco, nel salutare, nell’Aula Paolo VI, i donatori del presepe e dell’albero di Natale allestiti in Piazza San Pietro, ha colto l’occasione per rimarcare la necessità di tutelare l’ambiente, dicendo che “si tratta di eventi che spaventano, sono segnali d’allarme che il creato ci manda, e che ci chiedono di prendere subito decisioni efficaci per la salvaguardia della nostra casa comune.” “Ho appreso con piacere – ha aggiunto- che, in sostituzione delle piante rimosse, saranno ripiantati 40 abeti per reintegrare i boschi gravemente danneggiati dalla tempesta del 2018, l’abete rosso che avete voluto donare rappresenta un segno di speranza specialmente per le vostre foreste, affinché possano essere al più presto ripulite e dare così inizio all’opera di riforestazione.” Bergoglio, dopo aver ricordato la sua visita di domenica scorsa a Greccio, dove San Francesco realizzò il primo presepe vivente, “un segno semplice e mirabile della nostra fede”, ha osservato “che i tronchi di legno, provenienti dalle zone colpite dai nubifragi che fanno da sfondo al paesaggio del presepe, sottolineano la precarietà nella quale si trovò la Sacra Famiglia in quella notte a Betlemme” e ha invitato “a essere solidali con le persone più fragili e più deboli.”
4 dicembre
PRIMO PIANO
Le nuove frontiere della medicina: impiantato in un bambino di 5 anni un bronco in 3D.
Un bronco riassorbibile stampato in 3D è stato impiantato all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma in un bambino di 5 anni per consentirgli di respirare. Il piccolo era affetto da broncomalacia, un cedimento della parete bronchiale che impedisce il normale flusso di aria nel polmone. L’intevento sperimentale è il primo di questo genere in Europa. Il dispositivo è stato interamente progettato al Bambino Gesù con sofisticate tecniche di imaging e bioingegneria e, realizzato grazie a un lavoro d’équipe durato oltre 6 mesi, ha consentito al bambino di respirare autonomamente. Il bronco in 3D è stato stampato con materiale bioriassorbibile che verrà progressivamente eliminato dall’organismo dopo aver accompagnato la crescita dell’apparato respiratorio del bambino e restituito al bronco la sua funzionalità. A poco meno di un mese dall’intervento, il piccolo paziente è potuto tornare a casa. Il delicato intervento, durato 8 ore, è stato eseguito il 14 ottobre da Adriano Carotti, responsabile dell’unità di funzione di cardiochirurgia complessa con tecniche innovative, in collaborazione con i chirurghi delle vie aeree del laryngo-tracheal team, diretto da Sergio Bottero. Il bronco 3D è il risultato di un progetto dell’ospedale romano basato su uno studio dell’Università del Michigan, dove sono stati eseguiti i primi 15 impianti del genere. Il dispositivo personalizzato è stato disegnato sull’anatomia del paziente partendo dalle immagini bidimensionali (Tac) realizzate nel Dipartimento di diagnostica per immagini guidato da Aurelio Secinaro e poi rielaborate con sofisticate tecniche di bioingegneria da Luca Borro dell’Unità di Innovazione e Percorsi Clinici. Il modello tridimensionale, una “gabbietta” cilindrica che riproduce la struttura del bronco, è stato stampato con policaprolattone e idrossiapatite, composto bioriassorbibile che viene eliminato dall’organismo in circa 2 anni.
3 dicembre
PRIMO PIANO
Ocse: studenti italiani deboli in lettura e scienze.
Gli studenti italiani di 15 anni hanno competenze in lettura e scienze inferiori a quelle che avevano i loro coetanei dieci anni fa, in matematica mantengono un livello medio sufficiente, in linea con quello dei coetanei dei paesi Ocse, mentre per quanto riguarda le scienze il risultato medio è “significativamente inferiore” alla media Ocse. Gli studenti italiani in lettura ottengono un punteggio di 476, inferiore alla media Ocse (487), collocandosi tra il 23° e il 29° posto. Il punteggio non si differenzia da quello di Svizzera, Lettonia, Ungheria, Lituania, Islanda e Israele. Le province cinesi di Beijing, Shanghai, Jiangsu, Zhejiang e Singapore hanno un punteggio medio superiore a quello di tutti i paesi che hanno partecipato al PISA (acronimo di Programme for International Student Assessment). L’indagine, relativa al 2018, a cui hanno partecipato 79 paesi di cui 37 paesi Ocse, è stata diffusa oggi. In Italia i divari territoriali sono molto ampi con la conferma di quello Nord-Sud: gli studenti delle aree del Nord in lettura ottengono i risultati migliori (Nord Ovest 498 e Nord Est 501), mentre i loro coetanei delle aree del Sud sono quelli che presentano le maggiori difficoltà (Sud 453 e Sud Isole 439). I quindicenni del Centro ottengono un punteggio medio di 484, superiore a quello degli studenti del Sud e Sud Isole, inferiore a quello dei ragazzi del Nord Est, ma non diverso da quello dei quindicenni del Nord Ovest. Grandi anche le differenze fra le tipologie di scuola frequentate: i ragazzi dei Licei ottengono i risultati migliori (521), seguono quelli degli Istituti tecnici (458) e, infine, quelli degli Istituti professionali (395) e della Formazione professionale (404). A livello medio Ocse, circa il 77% degli studenti raggiunge almeno il livello 2, considerato il livello minimo di competenza in lettura. In scienze gli studenti italiani ottengono, poi, un risultato medio molto basso rispetto a quello dei coetanei dei Paesi Ocse (468 contro 498). Uno studente su 4 in Italia non raggiunge il livello base di competenze scientifiche, nei Paesi Ocse 1 su 5. È “low performer” in scienze il 15-20% di studenti del nord Italia e oltre il 35% di quelli del sud. Nei Paesi Ocse le ragazze hanno ottenuto risultati leggermente superiori a quelli dei ragazzi, pari a 2 punti in più; in Italia non ci sono differenze di genere rispetto al punteggio medio, anche se tra gli studenti più bravi i maschi superano le femmine di 11 punti. Da questa indagine emerge anche che nel nostro Paese in lettura le ragazze superano i ragazzi di 25 punti, mentre in matematica i risultati si ribaltano, i ragazzi ottengono, infatti, un punteggio superiore di 16 punti. La capacità di leggere e comprendere un testo, come le competenze base in scienze, è fondamentale: i dati pubblicati devono far riflettere sulle metodologie applicate nelle nostre scuole e sulla opportunità di un maggiore impegno da parte dei docenti nel fare esercitare di più i ragazzi in simili tipologie di prove.
2 dicembre
PRIMO PIANO
Nell’Africa meridionale il primo Homo Sapiens.
Uno studio australiano del gruppo del Garvan Institute of Medical Research e dell’Università di Sydney guidato da Vanessa Hayes, a cui ha preso parte anche l’italiana Benedetta Baldi, ha individuato il luogo esatto della comparsa dell’uomo moderno attraverso l’analisi del Dna. La casa dei primi Homo Sapiens era nell’Africa Meridionale, nell’attuale Botswana settentrionale, dove il nostro antenato è vissuto tra 200 mila e 130 mila anni fa per 70 mila anni, prima di migrare. Era un luogo lussureggiante e i cambiamenti climatici avvenuti dopo quell’epoca hanno aperto corridoi verdi verso altre regioni, innescando le migrazioni. La scoperta si è basata sull’analisi del Dna della popolazione che vive oggi in quell’area, in particolare è stato analizzato il Dna mitocondriale, ossia il materiale genetico che si trova nelle centraline energetiche delle cellule, che viene trasmesso solo per via materna. Questo tipo di Dna, poiché conserva le tracce dei cambiamenti avvenuti nel corso delle generazioni, permette di risalire a ritroso alle nostre antenate. In questo modo è stato possibile individuare le tracce genetiche dei primi gruppi di uomini moderni, il cosiddetto lignaggio “L0”. Combinando l’epoca in cui è emerso il lignaggio L0 con la distribuzione geografica di queste popolazioni, è emerso che 200.000 anni fa il primo gruppo di Homo sapiens viveva a Sud del fiume Zambesi, nel Botswana settentrionale. Oggi quella regione è arida, ma all’epoca era umida e lussureggiante. Ricostruire l’ambiente in cui vivevano i primi Sapiens è stato possibile grazie a simulazioni al computer del clima dell’epoca. E’ emerso così che cambiamenti climatici, dovuti all’oscillazione dell’asse terrestre, che ha modificato l’incidenza delle radiazioni solari nell’emisfero australe, hanno aperto corridoi verdi nelle regioni precedentemente più aride, portando le popolazioni a migrare prima verso Nord-Est, circa 130 mila anni fa, e poi verso Sud-Ovest, circa 110 mila anni fa. “E’ uno studio bellissimo: circoscrive per la prima volta, e bene, il luogo d’origine dell’uomo moderno ed è coerente con le nostre aspettative”, ha detto all’ANSA Stefano Benazzi, direttore del laboratorio di Osteoarcheologia e Paleoantropologia dell’università di Bologna. Era noto che i primi uomini anatomicamente moderni sono comparsi in Africa circa 200.000 anni fa e analisi genetiche precedenti avevano suggerito che l’area di origine fosse l’Africa meridionale, ma senza individuare l’area precisa. Tuttavia, secondo Benazzi, “c’è un unico dato che stride con questa ricostruzione” ed è la scoperta in Israele, pubblicata nel 2018, del frammento di una mascella attribuita all’Homo sapiens, risalente a 170-180 mila anni fa. Questo significa per l’esperto che “vi è stato un altro corridoio che si è aperto prima oppure che questo frammento è appartenuto a un Sapiens più arcaico, come ipotizzano alcuni studiosi.”