26 novembre

PRIMO PIANO

Terremoto distruttivo in Albania: almeno 23 morti e 650 feriti.

Alle 3:54 di martedì 26 novembre un violento terremoto di magnitudo 6.2 ha scosso l’Albania e in particolare il porto di Durazzo, suscitando paura e caos tra la gente. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) italiano e del servizio geologico statunitense Usgs, il sisma ha avuto l’ipocentro a circa dieci chilometri di profondità e l’epicentro tra Shijak e Durazzo. La scossa principale, a cui sono seguite oltre cento di assestamento, avvertite in tutti i Balcani e anche in Puglia e in Basilicta, ha fatto tremare anche la capitale Tirana, dove la gente è scesa in strada in preda al panico. Tre alberghi si sono accartocciati su se stessi, causando almeno quattro vittime – due donne, un anziano e il nipote adolescente – tra le macerie dell’hotel Vila Palma, un edificio di tre piani. Secondo quanto ha reso noto il ministero della Difesa albanese, il secondo hotel è crollato nella zona della spiaggia, dove un uomo è stato trovato privo di vita. “È successo il finimondo. Gli intonaci venivano giù uno dopo l’altro, si vedevano i mattoni spuntare fuori dai muri, mi sono sentito dentro un film apocalittico”, ha raccontato Antonio Imperiale, uno dei tantissimi italiani che da tempo si sono stabiliti in Albania. Anche nel villaggio di Thumana, circa quaranta chilometri a nord di Tirana, si sono registrati almeno cinque morti e sono crollate diverse palazzine. Nella vicina Kurbin un uomo è morto dopo essersi gettato dal suo palazzo in preda al panico. Per i soccorritori è scattata una corsa contro il tempo per la ricerca di superstiti sotto le macerie. Video e foto sui social mostrano anche normali cittadini impegnati a scavare tra i detriti a mani nude, sotto gli occhi dei familiari dei dispersi, impotenti e in attesa di buone notizie. Una quarantina di persone sono state tratte in salvo, tra loro anche un bambino, estratto miracolosamente vivo, terrorizzato e in lacrime, con il pigiamino coperto di polvere, dalle macerie di un palazzo di cinque piani a Durazzo. La sua immagine ha fatto il giro del mondo. L’Italia ha inviato squadre e mezzi di soccorso: oltre duecento uomini tra team dei Vigili del Fuoco e squadre USAR di ricerca e soccorso, personale medico della Regione Lombardia, volontari delle colonne mobili delle Regioni Puglia e Molise, unità cinofile dell’UCIS e della Guardia di Finanza e tecnici del Dipartimento della Protezione Civile. Spiega il geologo Luigi Bignami: “La regione mediterranea è sismicamente attiva a causa della convergenza verso nord, alla velocità di 4-10 mm/anno, della placca africana rispetto alla placca eurasiatica, lungo un confine molto complesso tra le due placche. Questa convergenza iniziò all’incirca 50 milioni di anni fa ed era associata alla chiusura del Mare della Tetide, il cui ‘residuo moderno’ è il Mar Mediterraneo. I più alti tassi di sismicità nella regione mediterranea si trovano lungo la zona di subduzione ellenica della Grecia meridionale, cioè dove la placca africana va ancora sotto a quella euroasiatica, lungo la zona di faglia dell’Anatolia settentrionale (Turchia occidentale) e la zona di subduzione calabrese dell’Italia meridionale … Il terremoto di Citera del 1903 (magnitudo 8.2) e quello di Rodi del 1926 (M7.8) sono i maggiori terremoti del Mediterraneo registrati strumentalmente, entrambi associati alla tettonica delle zone di subduzione: il terremoto in Albania è perfettamente inquadrabile in questo meccanismo.” Il terremoto ha sollevato il suolo di circa 10 centimetri vicino alla città di Durazzo, come indicano le immagini radar riprese dai satelliti Sentinel-1 e analizzate dai sismologi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Per gli esperti è impossibile stimare l’entità delle future scosse.


25 novembre

PRIMO PIANO

Salerno: “Leonardo infinito …”

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Sabato 23 novembre scorso, in una giornata dal clima eccezionalmente mite, la città di Salerno, nell’ambito delle Manifestazioni indette per le XX Giornate della Scuola Medica Salernitana, è stata protagonista di un evento di elevato spessore culturale, nella ricorrenza del Cinquecentesimo anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci. La mattina, nella splendida cornice della Cappella Palatina Principe Arechi, si è svolto il convegno “Leonardo infinito”, organizzato dall’Università Popolare Nuova Scuola Medica Salernitana (UNIPOSMS) insieme a Progetto Editoriale, che è impegnato da oltre venti anni nella proposta e diffusione delle più importanti Opere di Leonardo da Vinci. Moderato dal giornalista Aniello Palumbo, il meeting è stato aperto da Carlo Montinaro, Preside dell’Università Nuova Scuola Medica Salernitana, al cui pregevole intervento ha fatto seguito la relazione di Pina Basile, Presidente della Società Dante Alighieri di Salerno, che ha messo in relazione Leonardo e Dante, due figure universali per la loro genialità. Sono intervenuti, poi, Alfonso Tortora, Professore di Storia Globale e Moderna presso l’Università degli studi di Salerno, che ha approfondito i periodi storici in cui sono vissuti Leonardo e Dante, evidenziandone le specifiche caratteristiche, e Xante Battaglia, artista e docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera, che ha spiegato lo sfumato leonardesco, da cui hanno preso poi Tiziano e Raffaello, e ha parlato anche della tecnica del restauro, che a suo modo di vedere dovrebbe essere conservativa. La conclusione è stata di Francesco Malvasi, Direttore artistico di Progetto Editoriale, che ha spiegato come l’elemento che lega Leonardo a Salerno sia la passione per la ricerca: la Scuola Medica Salernitana, infatti, fin dalla sua fondazione (IX secolo), si è caratterizzata per il metodo empirico e una vasta cultura fitoterapica e farmacologica applicati nel campo della medicina, studi, che ne hanno fatto l’antesignana delle moderne Università; Leonardo, che sicuramente non è mai stato a Salerno, alcuni secoli dopo, si è dedicato, nella sua poliedricità, alla ricerca in ogni campo, e, in particolare, da scienziato agli studi del corpo umano e all’anatomia, aprendo la strada, nel corso della storia, agli studi scientifici moderni (Encyclopédie). Il programma pomeridiano, dopo la messa in onore di santa Caterina Alessandrina, patrona della della Scuola Medica Salernitana, officiata dall’arcivescovo di Salerno, mons. Andrea Bellandi, che Francesco Malvasi ha omaggiato con la consegna dell’esemplare in argento del Cenacolo vinciano, prodotto da Progetto editoriale, è continuato con il Premio internazionale della Scuola Medica Salernitana, presieduto dal Rettore dell’Università Popolare Pio Vicinanza e dal Preside Carlo Montinaro, suddiviso in due sezioni: il “Premio Trotula”, in ricordo di Trotula de Ruggiero, medichessa della Antica Schola attiva nell’XI secolo, è stato assegnato alla Prof.ssa Ariela Milani, Ricercatrice Fondazione Mario Negri di Milano, alla Dott.ssa Sandra Hochscheid, Ricercatrice Stazione Zoologica Anton Dohrn e alla Dott.ssa Simona Abate, Psicologa Clinica. Il “Premio Lumen et Magister” è stato, invece, conferito al Maestro Lucio Afeltra, Artista e pittore, al Prof. Felice Pastore, Archeologo, Scrittore e Ricercatore, al Prof. Giordano Salvatore, Cardiochirurgo e al Dott. Nicola Russo, Magistrato. In seguito, alle 19:30, nello storico palazzo Genovese, si è svolto l’altro importante evento in onore di Leonardo: l’inaugurazione della mostra itinerante “Immaginare Leonardo”, che resterà aperta fino al 28 novembre, cui seguirà una tappa particolarmente significativa a Roma, presso la Galleria Vittoria di via Margutta. Sono esposte oltre trenta opere di noti artisti italiani insieme ad esponenti significativi della Nuova Scuola Romana e della galleria Vittoria di via Margutta a Roma, i quali si sono ispirati alla figura e all’opera di Leonardo e alla sua straordinaria attualità, in considerazione del fascino indiscusso di “genio tra passato e presente”. “Ognuno ha interpretato Leonardo a modo suo nella sua curiosità, quella che gli ha fatto scoprire tante cose,” ha spiegato la curatrice della Mostra, Tiziana Todi, “la stessa curiosità che hanno avuto questi artisti nell’interpretare Leonardo, dall’Annunciazione, all’Ultima cena, all’Uomo vitruviano, alle donne di Leonardo, una senza volto e una con un volto a metà.” Francesco Malvasi, direttore di Progetto Editoriale, che ha organizzato la mostra, ha dichiarato all’Ansa: “Una serie di artisti hanno tentato, su nostra richiesta, di immaginare Leonardo, quindi un lavoro d’introspezione, di ricerca fra le pieghe e la misteriosità di questo grandissimo personaggio, che, ancora oggi, a cinquecento anni di distanza, possiamo intendere, forse, come il primigenio dell’intellettuale europeo moderno per cultura, per varietà, per poliedricità dell’impegno.” Malvasi ha anche sottolineato l’attività della Casa editrice su un terreno molto controverso come quello della cultura, perché, ha detto, “la nostra missione, in qualche modo, non è mettere una parola definitiva su questi concetti, ma, a maggior ragione, operare proprio sul terreno del rilancio del dibattito e della discussione.”

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DALLA STORIA

“Trappola per topi”, di Aghata Christie. (Uno spettacolo teatrale dal primato straordinario)

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C’è un uno spettacolo teatrale che va in scena da più di mezzo secolo al New Ambassador Theatre di Londra, nel West End. Chi può avere scritto un testo teatrale così avvincente da diventare una vera e propria istituzione se non l’inglesissima Aghata Christie, la signora del “giallo” per antonomasia? Il dramma venne scritto dalla scrittrice nel 1952 come rifacimento teatrale di un suo vecchio racconto intitolato “Tre topolini ciechi”. Oltre ad essere un capolavoro della letteratura è considerato un classico del teatro del Novecento: è lo spettacolo più replicato della storia del teatro e l’unico esempio di commedia di genere poliziesco tuttora rappresentato ininterrottamente ogni giorno, a partire dal debutto (prima all’Ambassador, poi dal 1974, nel vicino teatro St. Martin’s). Uno spettacolo eseguito più di 24.000 volte, con numerose repliche in giro per il mondo, in 45 Paesi diversi che si avvale della traduzione di 24 lingue. Un record difficilmente eguagliabile, merito del genio creativo di Aghata Christie che, quando adattò il racconto, seppe creare un giallo insuperabile, in cui ironia e suspence si fondono alla perfezione. La stessa scrittrice, che faticava a spiegarsi un simile successo, definiva così il suo capolavoro: “è il tipo di commedia alla quale si può portare chiunque. Non è proprio un dramma, non è proprio uno spettacolo dell’orrore, non è proprio una commedia brillante, ma qualcosa di tutte e tre e così accontenta la gente dai gusti più disparati”.

 image001(La locandina della prima rappresentazione all’Ambassador” nel 1952)

L’azione si svolge in un albergo della campagna londinese appena inaugurato, durante una tormenta di neve. La radio trasmette in continuazione appelli della polizia, che è alla ricerca di un pazzo omicida. I due proprietari dell’albergo “Castello del Frate”, un artista un po’ matto, una signora di mezza età noiosa e petulante, un maggiore dell’esercito inglese in pensione, una ragazza disinibita e mascolina, un ospite straniero inatteso, e un sergente della polizia: questi sono, stando alle apparenze iniziali, gli otto protagonisti del dramma. Intanto tutte le vie di comunicazione sono bloccate per la neve, e qualcuno ha tagliato i fili del telefono. “Castello del Frate” è letteralmente isolato dal mondo e una musichetta sinistra aleggia per le stanze alludendo la presenza dell’assassino. “Trappola per topi” è una miscela perfetta di suspance, thriller e comicità in cui il non detto e i giochi di sguardi, di cui è ricco il testo, creano un’atmosfera un po’ retrò e la tensione psicologica che cresce scena dopo scena, immergono lo spettatore in una atmosfera in stile “anglosassone” in cui la tensione scorre sul filo ma i personaggi restano imperturbabili, anche di fronte al pericolo si scorge una certa freddezza, assumono un’aria aristocratica, di sprezzo se solo traspare un’emozione. Il teatro di Aghata Christie crea la suspence con elementi poco vistosi e poco plateali. L’ambiente descritto è del tutto simile a quello apparentemente pacato e tranquillo dei suoi romanzi, cioè un ambiente chiuso e soffocante, dove il senso di claustrofobia viene enfatizzato dal fatto che tutti i personaggi si conoscono bene tra loro, spesso sono membri della stessa famiglia. L’ambientazione, con l’unica eccezione di “Appointment with Death (La domatrice, 1945), che si svolge tra le rovine di Petra nel Medio Oriente, è sempre il salotto di una casa di campagna dove c’è l’immancabile biblioteca. Aghata Christie con la sua scrittura è diventata universale ed immortale. Da giovane, in un primo momento, voleva dedicarsi alla musica, sua grande passione, e diventare concertista, ma la sua grande timidezza, che l’accompagnò per tutta la vita, la fece desistere dal disagio di apparire in pubblico. Bravissima in matematica, pensò di dedicarsi a questa scienza. Finì, invece, col fondere le sue doti attraverso una letteratura curata con grande abilità, con atmosfere intriganti, con descrizioni accurate, senso della suspance e della sintesi, con ambientazioni realistiche e dettagliate, con personaggi in cui ciascuno di noi può trovare aspetti comuni e a volte, insospettabilmente, inquietanti, come, a volte, si rivela la natura umana (espressione che la Christie amava ripetere nei suoi romanzi). È la scrittrice inglese più tradotta e più letta: viene subito dopo la Bibbia e le opere di William Shakespeare. Occorre dire altro?

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Mary Titton


21 novembre

DALLA STORIA

21 novembre 1905: Albert Einstein pubblica la “Teoria della relatività ristretta”.

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Nel 1905, dopo aver condotto le sue ricerche continuando contemporaneamente a lavorare come impiegato all’ufficio brevetti di Berna, Albert Einstein pubblicò tre notevoli studi che avrebbero cambiato il corso della fisica. Uno di questi, la “Teoria delle relatività ristretta”, dimostrava che le leggi fisiche dello spazio e del tempo sono identiche se due oggetti si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro; ma c’era un problema: la gravità non rientrava in quella teoria perché comportava un’accelerazione. Così Einstein trascorse i dieci anni successivi a lavorare infaticabilmente a una spiegazione più ampia che tenesse conto dell’accelerazione nello spazio e nel tempo. Il risultato fu il testo “Teoria della relatività generale”, che lo scienziato presentò a Berlino nel 1915, secondo cui oggetti massicci provocano una distorsione spazio-temporale che è avvertita come gravità. Spiegava anche perché alcune cose accelerano le une rispetto alle altre. Einstein sosteneva che la gravità non attrae la materia, come pensava Newton, nel XVII secolo, bensì la respinge. Lo scienziato inglese era convinto che la gravità influenzasse qualunque cosa, dalla mela che cadeva da un albero ai pianeti che orbitavano intorno al Sole. Non era stato però in grado di spiegare da dove venisse la gravità, né quali leggi fisiche la governassero. Einstein considerò queste difficoltà teoriche un rompicapo su cui indagare e volle risolvere il mistero di come funziona la gravità. Egli teorizzò l’esistenza di uno spazio curvo intorno alla Terra che preme sull’atmosfera e su tutti gli oggetti presenti sul pianeta. La Teoria della relatività ristretta contiene la famosa e rivoluzionaria equazione E = mc² la quale indica che l’energia è uguale alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce dove E: è la misura dell’energia, m: è la misura della massa e c: è la velocità della luce al quadrato. Einstein, con questa formula matematica, ci dice che l’energia è uguale alla massa se questa raggiunge una certa velocità. Cioè, l’energia si può trasformare in massa, così come la massa si può trasformare in energia! In pratica, il fisico tedesco con la sua teoria dimostra che un corpo, ad esempio un pianeta, se dovesse raggiungere il quadrato della velocità della luce, potrebbe scomparire del tutto, disintegrarsi e dare origine a una grande energia. La massa non scompare ma si trasforma in qualcos’altro (Lavoisier: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”). Tuttavia, essendo un’equazione, è vero anche che l’energia divisa per quadrato della velocità della luce, si trasforma in materia. Da qui i fisici hanno tratto teorie sull’origine dell’universo, come quella famosa del Big Bang in cui si ritiene che tutto l’universo sia nato dall’esplosione di un unico corpo ad altissima densità la cui forza di gravità, incommensurabilmente enorme, come quella che caratterizza i buchi neri, abbia raggiunto temperature elevatissime (energia) tali da esplodere espandendosi nello spazio. (“L’infinitamente piccolo è uguale all’infinitamente grande”, Einstein). In questo modo si può considerare la situazione opposta in cui l’universo intero possa tornare a ricompattarsi fino a diventare nuovamente una minuscola pallina che, a sua volta, “schiacciata” (implosione), darà luogo a un’energia tale (pressione, temperatura) da provocare una nuova esplosione in cui la materia “scaraventata” all’esterno ad una velocità a noi inimmaginabile, si trasforma in energia. Un continuum ad limitum! Fa pensare allo yin e yan, alla sistole e diastole del cuore, al  movimento di espansione e contrazione che caratterizza la natura duale in cui viviamo, agli opposti: vita/morte, veglia/sonno, bianco/nero e così via. Quando nel 1919 fu dimostrata l’esattezza di un’ipotesi chiave della Teoria della relatività generale, che la gravità piegasse la luce, Einstein divenne un personaggio di fama mondiale. Nel 1921 venne insignito del Nobel per la fisica ma, con l’ascesa del nazismo e le minacce a lui rivolte essendo ebreo, lo costrinsero, nel 1932, a emigrare negli Stati Uniti, dove trascorse il resto della vita.

image002(Massa ed energia due facce di una stessa medaglia)

image003(La deflessione della luce)

Mary Titton


20 novembre

PRIMO PIANO

La Giornata Mondiale dei diritti dei bambini compie 30 anni.

Era il 20 novembre 1989 quando l’Assemblea generale delle Nazioni unite approvò la convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ratificata due anni dopo anche dall’Italia. Il documento riconosce a tutti i bambini e bambine del mondo diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici. Non esistono esseri umani più vulnerabili e indifesi dei bambini, verità che si conferma ancora più drammatica in contesti precari, come quelli di tanti Paesi dell’Africa sub-sahariana. I diritti di questi bambini vanno tutelati e onorati, essendo loro la forza e la speranza di un continente intero. “Un bambino non può dormire senza aver mangiato” dichiara uno dei tanti bambini protagonisti del nuovo video di Amref, con Simone Cristicchi, proposto in occasione delle celebrazioni del trentesimo anniversario della “Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza”, approvata il 20 novembre 1989. Nel video il cantautore decide di raccontare la “Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza”, accompagnato dai bambini della Bandacho Primary School, in Kenya. Il messaggio che è alla base delle fondamenta del video è che “il bambino ha diritto ad essere un bambino”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha ricevuto questa mattina al Quirinale una delegazione di Unicef Italia, ha detto tra l’altro: “Molto resta ancora da fare per i bambini che vivono in contesti difficili o in condizioni di fragilità e nell’implementazione dei diritti basilari in un mondo in trasformazione. Non possiamo abbassare il livello di guardia nella tutela dei minori vittime di conflitti armati, di quanti appartengono a minoranze, di coloro i quali necessitano di specifica protezione e sostegno per situazioni di vita o condizioni fisiche”. “L’indice di progresso di una società si misura dal modo in cui tutela i minori, nonché dalle risorse e dalle scelte che dedica loro. In questo ambito è il futuro stesso della società a essere in gioco.”

 


19 novembre

PRIMO PIANO

Hong Kong: 100 studenti ancora asserragliati nel Politecnico.

La situazione è molto tesa al Politecnico di Hong Kong, dove restano asserragliati ancora un centinaio di studenti. Da domenica hanno lasciato l’Università situata nell’area di Hung Hom 600 giovani, tra cui 200 minori che si sono consegnati alle forze dell’ordine. A loro è stato concesso di tornare a casa dopo un controllo dei documenti, ma la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, non ha escluso che possano comunque essere perseguiti. Appena usciti, i manifestanti hanno ricevuto l’aiuto dei paramedici, che hanno fornito coperte di emergenza e sedie a rotelle a chi ne avesse bisogno, in seguito sono stati ricoverati in cinque ospedali. Un altro gruppo di cinquanta persone è stato, invece, curato all’interno della struttura. La governatrice ha invitato i manifestanti ad “arrendersi, uscendo in modo pacifico e seguendo le istruzioni della polizia” e ha assicurato che il suo governo sta cercando “una soluzione pacifica”. La resa senza condizioni prevede però, una volta usciti dalla struttura, l’immediato arresto, per questo alcune decine di studenti si sono calati appesi a una corda da un ponte al di sotto del quale vi erano motociclisti in attesa di prelevarli. Altri hanno utilizzato i condotti d’aria della struttura per cercare di raggiungere l’esterno sfuggendo all’arresto. Molti genitori fuori del campus, angosciati, hanno implorato l’amministrazione e la polizia di lasciare uscire indenni i loro figli dall’Università accerchiata e venti dirigenti di altre scuole superiori hanno chiesto di potere entrare all’interno del campus. La polizia ha permesso l’ingresso nel campus di un gruppo di persone, tra cui l’ex presidente dell’Assemblea Legislativa, Tsang Yok-sing, e il docente di legge Eric Cheung, per convincere gli studenti a terminare l’occupazione. La governatrice Carrie Lam ha parlato di università diventate “fabbriche di armi”, perché, secondo un portavoce della polizia di Hong Kong, nel corso delle ispezioni, sono state ritrovate oltre 3.900 molotov nella Chinese University of Hong Kong e dai suoi laboratori, così come da quelli del Politecnico, sono state portate via pericolose sostanze chimiche. Negli ultimi giorni, i più difficili da quando sono iniziate le proteste pro-democrazia quasi 6 mesi fa, sono state arrestate circa 1.100 persone. Le manifestazioni, iniziate a giugno, derivano dalla proposta di una legge sull’estradizione che, se approvata dal Parlamento locale, consentirebbe alla Cina continentale di processare gli accusati per crimini gravi, quali stupro e omicidio. I gruppi e i movimenti in difesa dei diritti umani vedono nella legge un passo decisivo per l’ingerenza cinese nel sistema di Hong Kong, nonché uno strumento che la Cina potrebbe usare contro i suoi oppositori; nulla impedirebbe al regime di inventare scuse allo scopo di estradare qualcuno. I manifestanti chiedono il ritiro definitivo del disegno di legge che prevede l’estradizione verso la Cina e che potrebbe rappresentare un primo passo verso l’ingerenza cinese nel sistema giuridico di Hong Kong. Questa richiesta è stata accettata dalle autorità a inizio settembre, quando la governatrice Carrie Lam ha annunciato che la proposta di legge sulle estradizioni in Cina è “del tutto ritirata”. Le altre richieste dei manifestanti sono: le dimissioni della stessa leader dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, che però non ha aperto a questa ipotesi. Ancora: un’inchiesta sulla brutalità della polizia durante le proteste e il rilascio dei manifestanti che sono stati arrestati. Infine, più in generale, gli studenti rivendicano maggiori libertà democratiche. L’Alta Corte di Hong Kong ha respinto il ricorso di Joshua Wong, attivista di punta pro-democrazia, e la sua richiesta di espatrio per un viaggio in Europa a causa del pericolo di fuga. Lo riferisce un post sull’account di Telegram di Demosisto, il partito da lui cofondato. Wong, libero su cauzione da fine agosto, è sotto indagine per la partecipazione a manifestazioni non autorizzate e sarebbe dovuto venire anche in Italia, ospite il 27 novembre a Milano della Fondazione Feltrinelli. “Privandomi della libertà di movimento, la Corte ha imposto una punizione ulteriore, prima che venissi giudicato colpevole.” L’Onu ha espresso grave preoccupazione per “la crescente violenza da parte di gruppi di giovani impegnati nelle proteste a Hong Kong. Un portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti umani ha affermato oggi a Ginevra: “La stragrande maggioranza della popolazione di Hong Kong ha esercitato il proprio diritto alla libertà di riunione pacificamente e nel rispetto della legge e le autorità hanno generalmente rispettato l’esercizio di questo diritto, ma il ricorso alla violenza estrema – anche contro le forze di polizia – da parte di alcune persone coinvolte nelle proteste non può essere giustificato”, lanciando un appello a rinunciare all’uso della violenza. Riguardo alla situazione nel Politecnico di Hong Kong, l’Onu esorta le autorità al dialogo al fine di trovare soluzioni pacifiche.


18 novembre

PRIMO PIANO

Flash mob delle “sardine” anche a Modena.

Anche a Modena, nonostante la pioggia battente, in circa 7mila hanno risposto all’appello delle“sardine”, presentandosi, alle 19:00, senza simboli di partito, in Piazza Geande: migliaia di persone con i loro ombrelli colorati, corredati dalle immancabili sardine applicate sopra o tenute in mano dai manifestanti, hanno invaso Piazza Grande e le traverse adiacenti, per portare una forma di protesta pacifica sotto le finestre del Comune e davanti alla celebre Torre della Ghirlandina, patrimonio dell’Unesco e simbolo della città. Al grido “Modena non si Lega” e al canto di “Bella Ciao” si è ripetuto quanto già visto giovedì scorso a Bologna, dove Piazza Maggiore è risultata gremita di gente, in concomitanza con il mega evento al Paladozza, dove il leader della Lega Matteo Salvini ha dato il via ufficiale alla campagna elettorale per le regionali della candidata leghista Lucia Bergonzoni. Il flash mob anche questa volta ha avuto un aspetto pacifico e gioioso, con persone di tutte le età, soprattutto giovani e famiglie, che in modo composto hanno manifestato contro quelle che definiscono “le politiche di odio e razzismo” e per ribadire il loro “no” al governo della Lega in Emilia-Romagna. Ma chi sono le “sardine” e perché si chiamano così? I promotori del movimento sono quattro amici, poco più che trentenni e “insonni”, come si definiscono. L’ideatore è Mattia Santori, 32 anni, laureto in Scienze Politiche e istruttore di frisbee, che ha mandato un messaggio agli altri tre amici, suoi coinquilini ai tempi dell’Università: Andrea Garreffa, 30 anni, guida turistica; Roberto Morotti, 31 anni, ingegnere impegnato nel riciclo; Giulia Trappoloni, 30 anni, fisioterapista. “L’idea mi è venuta perché non riuscivo a dormire.” ha raccontato al Resto del Carlino Santori, che, sapendo che Salvini e Bergonzoni avevano organizzato la serata al Paladozza, ha pensato di portare in piazza la parte di Bologna che non vota Lega. Dal gruppo Facebook “6.000 sardine contro Salvini” è partita l’organizzazione del flash mob che, anche tramite volantini, telefonate e passaparola, ha portato in Piazza Maggiore giovedì scorso a Bologna più di 15mila persone. La scelta del nome la spiegano così: “Volevamo dare un messaggio: staremo stretti come le sardine, perché saremo in tanti”. E poi il simbolo: un pesce silenzioso, contrapposto agli urlatori dei comizi. Niente bandiere di partiti, nessun altro simbolo: solo quello delle sardine. L’immagine di Piazza Maggiore vista dall’alto ha fatto il giro del web e il messaggio delle “sardine” è andato oltre Bologna e Modena. In altre città, infatti, si stanno organizzando gruppi per replicare il successo dell’iniziativa. Per il movimento delle “sardine”, accanto agli apprezzamenti, non sono mancate da destra le polemiche: dalla Lega, infatti, qualcuno ha insinuato che dietro quella che si definisce un’iniziativa apartitica ci sia invece la spinta di qualche esponente politico molto vicino all’area della sinistra emiliana. “Abbiamo chiesto a tutti da subito di slegare questo evento da ogni bandiera politica”, si difendono gli organizzatori e in un post pubblicato su Facebbok hanno aggiunto: “Siamo partiti dal basso che più basso non si può. E per questo siamo vulnerabili. I nostri avversari lo sanno e hanno già attivato la macchina del fango.”

DALLA STORIA

Ebensee

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Il 18 novembre 1943 a circa 70 km. da Salisburgo, in Austria, apriva uno dei maggiori campi satellite di Mauthausen, il famigerato campo di concentramento di Ebensee. Il progetto Zemet (cemento), nome in codice del lager di Ebensee, aveva lo scopo, utilizzando il lavoro forzato di migliaia di prigionieri, di costruire enormi gallerie sotterranee scavate nella montagna per rendere possibile il trasferimento di una parte del centro di ricerca e collaudo missilistico di Peenemude in un ambiente ritenuto sicuro da incursioni aeree. I sottocampi così come erano chiamati i campi di concentramento che dipendevano da Mauthausen aumentarono decisamente a partire dal 1943, di pari passo con la decisione di utilizzare i deportati come schiavi nelle fabbriche di armamenti. Nel novembre del ’44, per esempio, a Mauthausen furono censiti 73.000 deportati di cui 60.000 inviati in 22 campi satellite. Il durissimo lavoro per la costruzione di reticoli di gallerie lunghi kilometri, le condizioni indicibilmente disumane a cui erano costretti gli internati provocarono migliaia di morti. Nei primi mesi di esistenza dei Lager i morti venivano trasportati, per l’incenerimento, a Mauthausen. Con il numero sempre crescente di decessi, si rese necessaria la costruzione di un crematorio a Ebensee. Il 6 maggio 1945, alle ore 14,50 le truppe americane al comando del Capitano Timothy C. Brennan, raggiunsero il Lager e lo liberarono. Ecco cosa Brennan scrisse alla moglie quando si trovò davanti a quell’Inferno:

… da qualche parte in Austria, addì 16 maggio 1945 …

“Cara Vera e caro Timmie,
bene, la guerra in Europa è finita, e io non mi sento cambiato neanche un po’. Sono certo che nessuno più cercherà di spararmi addosso, ma l’ultimo giorno di guerra noi ci siamo trovati davanti a qualcosa che basta da solo a cambiare l’intera concezione che un uomo ha della vita.
È una buona storia e così cercherò di raccontarvela. L’ultimo giorno di guerra stavamo ancora correndo come fulmini, cosa che è stata una costante fin dal momento in cui attraversammo il Reno. Alla mia Compagnia venne ordinato di muovere verso una città austriaca e di tenerla. Entrammo in città senza la minima opposizione. Era uno dei luoghi più belli che io avessi mai visto, situato su uno splendido lago con le Alpi a far da corona. Impossibile descrivere la bellezza di quella zona.
Ci era stato comunicato che la guerra stava per finire e che avremmo dovuto stare là per un po’. Questa mi sembrò la migliore delle fortune perché c’erano barche e ogni sorta di possibilità di riposarsi ed il riposo necessitava sicuramente alla mia Compagnia. La gente della città era in preda all’isteria e pensai che questo fosse alquanto strano, dato che, di norma, austriaci e tedeschi non hanno affatto paura delle truppe americane. Avrei trovato ben presto la ragione di tutto quell’agitarsi.
Sulle colline proprio fuori città sorgeva uno di quegli infami campi di concentramento dei quali si legge sui giornali e a cui si dà appena uno sguardo distratto, dato che non puoi immaginare che cose di quel genere esistono nel mondo civile. In questo posto erano rinchiusi 18.000 uomini, ed era il luogo più oscenamente puzzolente del mondo; oltre 300 persone morivano di fame ogni giorno; un grande crematorio, capace di bruciare otto cadaveri per volta, funzionava 24 ore su 24. Quando arrivai al campo trovai ben 400 cadaveri nel crematorio in attesa di venire inceneriti, e molti altri ancora dovevano essere raccolti all’interno delle baracche.
Per quanto riguarda i prigionieri, la maggior parte di loro erano come animali. Erano stati trattati per così tanto tempo come animali che lo erano diventati. Avrebbero combattuto come lupi per un tozzo di pane e avrebbero potuto uccidere per qualche buccia di patata. Le guardie SS, che controllavano il campo, se l’erano squagliata un momento prima dell’arrivo della nostra Compagnia. Non credo che la loro paura fosse dovuta ai miei carri armati, ma piuttosto erano terrorizzati dai prigionieri, perché i pochi membri SS che tardarono un po’ a fuggire vennero letteralmente fatti a pezzi. Appena dopo il mio arrivo, trovai i prigionieri che si apprestavano a marciare sulla città armati di fucili e pistole sottratte dall’arsenale SS. Sono certo che se si fosse permesso loro di entrare in città l’avrebbero distrutta, e rasa al suolo. Per impedire ciò dovemmo impiegare i carri armati per respingere i prigionieri all’interno del campo. Non avevano avuto un solo grammo di cibo dai tedeschi durante gli ultimi tre giorni ed erano impazziti dalla fame.
Il cibo era il problema principale: decidemmo di chiudere ai civili ogni negozio e panetteria della città e cominciammo a far pane per il campo. Via radio inviai al maresciallo un messaggio e così tutte le truppe dello Squadrone si misero all’opera. Avete mai provato a preparare un pasto per 18 mila persone impazzite dalla fame? Fortuna che i cuochi del campo si mostrarono collaborativi e presto venne organizzata la cucina. Poi ci toccò scoprire che le SS avevano distrutto l’impianto idrico e nel campo non c’era acqua. Questo vuol dire che tutta l’acqua la dovemmo raccogliere e trasportare al campo dentro secchielli, scatole di latte e qualunque cosa riuscimmo a trovare. Questo richiese un bel po’ di tempo, ma alla fine potemmo servire una bella zuppa densa e del pane, almeno abbastanza da nutrire tutti. A paragone di quello a cui erano abituati i prigionieri, quello che noi servimmo poteva sembrare un banchetto! Io sapevo cosa sarebbe successo al momento della distribuzione delle razioni, così feci predisporre una serie di miei uomini armati tutto intorno alle file di distribuzione del cibo; non ero tuttavia preparato a quanto accadde, quando un’enorme massa si slanciò in avanti verso il cibo. Dapprima sparammo in aria, ma non ci fu risultato; quindi sparammo una spanna al di sopra delle loro teste e così si ebbe una qualche forma di ordine.
Sotto scorta armata fu portato il cibo nelle baracche per quei prigionieri che non potevano muoversi a causa della debolezza o delle malattie. Io e i miei uomini andavamo in mezzo alle file di prigionieri per aiutare i più deboli ad avere la loro razione; hai sentito spesso che i deboli muoiono e i forti sopravvivono. Bene, è quanto certamente sarebbe accaduto se noi non avessimo aiutato i deboli, perché i forti mangiavano il doppio di loro e i deboli non riuscivano ad avvicinarsi alle tavole di distribuzione del cibo. C’erano persone a digiuno da oltre sei giorni, e sebbene venissero ammonite attraverso gli interpreti a non ingozzarsi di cibo, ma a mangiare a piccoli bocconi e molto lentamente, alcuni prigionieri si ingozzarono di cibo e di lì a qualche minuto erano agonizzanti.
Finalmente, verso mezzanotte, tutto il campo aveva ricevuto le razioni ed era stato raccolto cibo sufficiente a sfamarli anche il giorno seguente. Per 24 ore eravamo a posto, ed entro quel termine sapevo per certo che l’Esercito avrebbe fatto scaricare tonnellate di viveri e sarebbero giunte le Unità ospedaliere.
Mentre veniva preparato il cibo (operazione che durò per ore), ispezionai il campo, riscontrando l’alta efficienza dei Tedeschi. Questi prigionieri erano usati per costruire una fabbrica sotterranea nelle Alpi austriache. I lavoratori forti stavano in una parte del campo, quelli così-così in un’altra, i deboli in un’altra ancora e i non idonei a qualsiasi lavoro ancora in un’altra. Come avrai già indovinato, questi ultimi erano acquartierati nei pressi del crematorio e se non si sbrigavano a morire da soli, le SS avevano tutti i mezzi per sollecitarli… Sembra qualcosa preso di peso da una rivista dell’orrore, non è vero?
C’erano una dozzina di ragazzini, di età compresa fra gli 11 e i 14 anni, che vennero immediatamente adottati dai miei uomini e portati giù in città, ripuliti e vestiti e nutriti: adesso sono considerati membri della Compagnia. Alcuni di questi bambini erano nel campo da quattro anni ed avevano completamente dimenticato la vita civile.
Nel campo si trovavano uomini di ogni fascia sociale: dottori, avvocati, preti, artisti, musicisti, contadini, criminali e ogni altra professione uno voglia nominare.
Tuttavia, non sarebbe stato possibile distinguere uno dall’altro. Uomini di cultura, criminali, contadini, tutti, sembravano uguali e tutti lottavano per il cibo dato che sapevano bene che anche un solo giorno senza cibo li avrebbe così indeboliti da renderli incapaci di lottare e senza lottare il giorno successivo sarebbero certamente finiti nell’edificio accanto al crematorio.
Quando il nostro cappellano udì che nel campo c’erano dei preti si mise immediatamente all’opera perché essi venissero evacuati. Io portai al mio Quartier Generale un famoso pianista e un violinista. Il pianista pianse come un bambino quando gli fu permesso di suonare e neppure sei anni di prigionia in un campo di concentramento avevano spento il suo genio. Suonò per me e fu straordinario.
Il giorno seguente io potei scoprire un famoso artista polacco che mi chiese il permesso di farmi un ritratto ad olio, quasi ad altezza naturale, che mi ritrae a mezzo busto. È un dipinto magnifico e io spero di poter fare in modo di spedirlo a casa.
È impossibile descrivervi questo luogo e la gente che ho incontrato; ho una quantità di foto del campo, ma non posso mandarne a voi moltissime che sarebbero considerate oscene. Sono delle autentiche fotografie dell’orrore e voi le vedrete quando ci vedremo. Ve ne invierò alcune, che voglio serbiate per me.
Tutta questa lettera ruota intorno all’argomento del campo, ma l’ho vissuto per così tanto tempo che mi è impossibile non parlarne, e inoltre, se non posso dirlo a te, a chi lo dirò?
Ora so che la guerra è finita e so che tu vuoi sapere quando tornerò a casa, questa è la domanda da un milione di dollari! Ancora non so, ma credo che siamo programmati per il teatro indo-orientale (Cina-Birmania-India), ma è possibile che facciamo una volata a casa prima di ripartire. È tutto quello che so e se lo so è perché l’ho letto sui giornali.
Inoltre, ti farà piacere sapere che tuo marito è stato decorato: ho ricevuto la Stella d’Argento per meriti in azione e io ti allego la Menzione al merito. Mi piacerebbe spedire anche la medaglia a casa, ma temo che possa andare persa: è un bell’oggetto di solido oro. Se avrò occasione di andare all’ufficio postale americano la manderò per raccomandata via aerea”.

Adesso chiudo, con tutto il mio amore
Timmy

Quella dei Lager è una realtà che lascia sgomenti al punto che non esistono, nel linguaggio universale, parole adatte a descrivere un tale orrore né espressioni verbali capaci di spiegare i sentimenti dei sopravvissuti davanti alla loro raccapricciante esperienza nei Lager. È importante che i testimoni raccontino che “ciò è stato” (Primo Levi) e che la Memoria resti viva e tramandata alle nuove generazioni per ricordare a tutti di non derogare, per qualsiasi motivo, dalla propria umanità. Non ci sono motivi validi a che un uomo debba rinunciare alla propria umanità quando a determinarlo è proprio questo sentimento. Una sua distrazione o una superficiale ignoranza rispetto alla sua identità di essere umano può aprire all’emersione di un Male talmente “inumano” da essere, per lui, impronunciabile.

Claudio Magris autore di “Danubio”, 1990, Garzanti, in cui racconta il suo itinerario lungo i luoghi bagnati dal grande fiume che attraversa l’Europa, un percorso alla ricerca del senso della vita e della storia, arrivato a Mauthausen scrive:

Mauthausen, pag. 165

“In questo Lager, sono morte più di centodiecimila persone. L’immagine più terribile, forse più ancora della camera a gas, è la grande piazza in cui i prigionieri venivano raccolti e inquadrati per l’appello. La piazza è vuota, assolata e afosa. Niente più di questo vuoto rende l’irrapprensentabilità di ciò che si è svolto fra queste pietre. Come il volto della divinità per le religioni che vietano di disegnarne l’immagine, lo sterminio e l’abiezione assoluta non mi lasciano ritrarre, non si prestano all’arte e alla fantasia, a differenza delle belle forme degli dèi greci. La letteratura e la poesia non sono mai riuscite a rappresentare adeguatamente quest’orrore; anche le pagine più alte sbiadiscono dinanzi al nudo documento di questa realtà, che sovrasta ogni immaginazione. Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche e le camere a gas. Soltanto chi è stato a Mauthausen o ad Auschwitz può cercare di dire quell’orrore radicale; Thomas Mann o Brecht sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una storia di Auschwitz le loro pagine sarebbero state edificate letteratura d’appendice rispetto a “Se questo è un uomo”. / Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure le vittime, bensì carnefici, Eichmann o Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz, probabilmente perché, per dire cos’era veramente quell’inferno, lo si può soltanto citare alla lettera, senza commenti e senza umanità. Un uomo che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore, lo shock di quella mostruosità. Forse per questo è quasi imbarazzante incontrare per caso, a un inoffensivo e amabile pranzo, un sopravvissuto dei Lager, scoprire sul braccio del nostro gentile o antipatico vicino di tavola il numero di matricola del campo; c’è sempre un divario paralizzante fra la sua inimmaginabile esperienza e l’insufficienza dei gesti o delle parole con le quali egli vi accenna, facendola apparire quasi una routine. Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a morte e l’impiccagione, Rudolf Hoss. La sua autobiografia, “Comandante ad Auschwitz”, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la stessa possibilità di raccontarle. Nella pagina di Hoss lo sterminio sembra narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e all’infamia; la penna registra imperturbabile ciò che accade, l’ignominia e la viltà, gli episodi di bassezza e d’eroismo fra le vittime, le dimensioni immani del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea un attimo, sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati. / Hoss non è il solito burocrate, pronto a seconda degli ordini a salvare o ad assassinare con eguale efficienza; non è un torturatore come Mengele, non è neppure Eichmann, che racconta e rielabora la propria vicenda perché interrogato dagli israeliani, tentando di non pagare il fio dei suoi delitti. Hoss scrive dopo la condanna a morte, senza che nessuno glielo chieda; la  molla che lo spinge a scrivere è oscura, non si lascia spiegare dal desiderio di nobilitare la propria figura, perché l’autoritratto che ne risulta è certo quello di un criminale e il libro sembra obbedire a un’imperiosa esigenza di verità, a un bisogno di ribadire la propria vita, dopo averla vissuta, di protocollarla con precisione, di passarla impersonalmente agli atti. Per questo il libro è un monumento, la registrazione della barbarie, preziosa contro i reiterati e abietti tentativi di negarla o almeno si smussarla, sfumarla. Il comandante di Auschwitz, assassino di centinaia e centinaia di migliaia di innocenti, non è più abnorme del professore Faurisson, che ha negato la realtà di Auschwitz. / Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su questi 186 gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti o a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali impervi, il sole scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche di sacrifici umani, le piramidi di Teotihuacan e idoli aztechi, anche se dèi più moderni e civili non hanno impedito ai torturatori di torturare. Il libro di Hoss è terribile, terribilmente istruttivo, perché la sua epica concatenazione di fatti mostra come nella meccanica ruota delle cose si possa giungere, un passo dopo l’altro, a diventare non solo vigili urbani o cuochi dell’esercito del Terzo Reich, comparse dell’orrore, ma anche primattori e registi dello sterminio, comandanti ad Auschwitz. / Gli scalini sono alti, sono stanco e sudato. Adorno ha detto che dopo i campi d i sterminio è impossibile scrivere poesia. Quella sentenza è falsa, e infatti è stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse scrivere “dopo Maidanek”; altro terribile Lager, ma che ha scritto “dopo Maidanek”; è falsa anche perché non c’è stato soltanto il nazionalsocialismo, e pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, i gulag o Hiroshima la rima fiore-amore è altrettanto problematica. / La sentenza è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio estremo di annullamento dell’individuo, di quell’individualità senza la quale non c’è poesia. Su questa scala di Mauthausen si sente, fisicamente, la superficialità dell’individuo, il suo annichilimento, la sua sparizione; come se egli fosse un dinosauro o un okapi, un animale estinto o in via di estinzione. / Non solo la svastica, ma la storia universale, i processi generali cospirano a questo esautoramento. Il protocollo dell’interrogatorio di Eichmann è un documento estremo di una parcellizzazione dell’esistenza, della persona e del suo agire, che abolisce responsabilità e creatività. Eichmann non uccide, provvede al convoglio e al trasporto di coloro che devono essere uccisi; la responsabilità sembra non coinvolgere nessuno, perché ognuno, anche ad altissimo grado, è solo anello di una catena di trasmissione di ordini, o tutti, ad esempio pure le organizzazioni ebraiche, che i nazisti costringono a collaborare e a scegliere gli ebrei da deportare. Su questi scalini, il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo, che evidentemente dà segni di squilibrio mentale, uno di quei numeri di matricola che l’ufficio competente del Lager incideva sul braccio dei detenuti. / Ma su questi gradini l’individuo ha saputo anche rendersi unico e incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia. Quella giovane donna che, sulla soglia della camera a gas di Auschwitz, si volta verso Hoss, e gli dice, sprezzante, com’egli racconta, che non ha voluto farsi selezionare, come avrebbe potuto, per seguire i bambini che le erano affidati, e poi entra sicura con loro nella morte, è la prova dell’incredibile resistenza che l’individuo può opporre a ciò che minaccia di annientare la sua dignità, il suo significato. Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea dell’abiezione. / Mentre sono ancora sulla scala, ho davanti agli occhi una fotografia di un uomo senza nome, probabilmente, dall’aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi, l’espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato nel cuore dell’inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita”. 

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(Lungo i centottansei gradini di questa scala i deportati erano costretti a salire più volte al giorno portando a spalla sacchi pieni di massi. Spesso l’uso della scala era un semplice pretesto per eliminazioni di massa dei deportati). “Tra l’ingresso del campo e i primi gradini della cava c’era una discesa assai ripida. Questa, in inverno era spaventosa perché il terreno gelato assomigliava a una pista di pattinaggio e le suole di legno degli zoccoli, sul ghiaccio, sembravano làmine di pattini. Le numerose scivolate erano drammatiche poiché, nella confusione generale, alcuni perdevano l’equilibrio e cadevano verso sinistra, cioè verso il precipizio, e la voragine della cava li inghiottiva dopo una caduta verticale di cinquanta o sessanta metri: invece, quelli che partivano in scivolata verso destra, oltrepassavano la zona “proibita” e i tiratori aprivano il fuoco su quei fuggiaschi”. (“I 186 gradini – Mauthausen”, pag. 10 di Christian Bernadac)

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Mary Titton


15 novembre

PRIMO PIANO

La passeggiata spaziale di Luca Parmitano.

È la giornata della passeggiata spaziale più avventurosa di sempre, nella quale l’astronauta Luca Parmitano, impegnato nella missione Beyond dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), e il collega Andrew Morgan della Nasa devono “ringiovanire” il cacciatore di antimateria Ams-02 (Alpha Magnetic Spectrometer). Secondo il programma di Esa e Nasa, la prima cosa che deve fare Luca Parmitano è raggiungere il braccio robotico della Stazione Spaziale, il Canadarm: un’operazione che richiederà circa 15 minuti. Altrettanto sarà il tempo necessario ad AstroLuca per agganciarsi al braccio robotico, che dovrà trasportarlo, in modo davvero acrobatico, fino allo strumento Ams-02, una struttura delle dimensioni di una stanza e pesante oltre sette tonnellate. La missione è stata più veloce del previsto: Luca “Skywalker”, come è stato soprannominato per l’occasione dai colleghi, ha eseguito il lavoro con un’ora di anticipo, seguendo un’ottima tabella di marcia. Smontato il pannello che protegge dai detriti spaziali il sistema di raffreddamento del cacciatore di antimateria AMs-02 (Alpha Magnetic Spectrometer), come previsto, lo ha lasciato andare nello spazio. Quindi ha proseguito a installare le maniglie di sicurezza, alle quali agganciarsi nelle prossime passeggiate spaziali. L’apertura sarà, infatti, il punto di accesso per le operazioni delle prossime passeggiate spaziali. Il ruolo di Morgan è assistere AstroLuca per passargli gli strumenti di lavoro, progettati a Terra negli ultimi tre anni. Si è trattato di una passeggiata spaziale mai vista: come un acrobata, agganciato all’estremità del braccio robotico della Stazione Spaziale Internazionale, AstroLuca ha sorvolato i moduli della stazione orbitante fino a raggiungere l’area di lavoro nei pressi dello strumento. Tutto questo senza dimenticare che la Iss si muove a 27.600 chilometri l’ora, 400 km sopra le nostre teste. Ai comandi del braccio robotico Canadarm2, che ha posizionato gli spacewalker in corrispondenza dell’Ams, l’astronauta americana Jessica Meir. Il fisico Roberto Battiston dell’Università di Trento e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che con il Nobel Samuel Ting del Cern ha visto nascere l’Ams-02, ha osservato: “Dopo sette anni di attività continua le pompe di raffreddamento di Ams, che sono simili a quelle dei rover della Nasa, devono ormai essere riparate, altrimenti rischiano di fermarsi. Sono stati sviluppati strumenti eccezionali, come quelli per un intervento a cuore aperto.”AstroLuca sarà leader dell’intera serie di passeggiate spaziali previste per sostituire le pompe di raffreddamento di Ams-02. Il capo del Gruppo di esplorazione dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Bernardo Patti, a poche ore dalla prima attività extraveicolare per l’Ams condotta da AstroLuca con il collega Anrew Morgan della Nasa, ha detto: “Questa serie di passeggiate spaziali potrebbe comprenderne da 3 a 5, a seconda delle eventuali difficoltà. Al momento le attività extraveicolari previste sono tre, ma sappiamo che con molta probabilità potranno essere fino a 5, a seconda delle difficoltà che si potrebbero incontrare.” Patti ha poi aggiunto: “In ogni caso Luca Parmitano sarà leader di tutte le passeggiate spaziali per l’Ams-02: è la persona giusta, è lui che ha l’addestramento per eseguirle, considerando la sua preparazione come pilota sperimentatore dell’Aeronautica Militare.” Luca Parmitano è il primo astronauta europeo ad avere il ruolo di leader di una passeggiata spaziale ed è riconoscibile per le strisce rosse su braccia e gambe, la tuta di Andrew Morgan è invece completamente bianca.


14 novembre

PRIMO PIANO

Cucchi, sentenza Appello Ter: 12 anni ai carabinieri responsabili del pestaggio.

Il processo ter per la morte di Stefano Cucchi si è concluso con la condanna a12 anni dei carabinieri responsabili del pestaggio. I giudici della I Corte d’Assise del Tribunale di Roma, presieduta da Vincenzo Capozza, hanno condannato a 12 anni i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per la morte del geometra romano, avvenuta nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto per possesso di droga, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio preterintenzionale in seguito alle lesioni procurate a Cucchi tramite percosse nella stazione Casalino perché il geometra romano si era rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. Condannati anche a tre anni e otto mesi il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante della stazione Appia, accusato di falso nella redazione del verbale d’arresto, e a due anni e mezzo il carabiniere Francesco Tedesco accusato di falso sempre per la compilazione dello stesso. Per quanto riguarda l’aspetto legato alla parte medica, la sentenza ha stabilito il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dei quattro medici dell’ospedale Sandro Pertini e l’assoluzione per un quinto medico. I giudici hanno assolto per non aver commesso il fatto Stefania Corbi e prescritto le accuse per Aldo Fierro, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, che si occuparono a vario titolo di Stefano durante il ricovero nel reparto protetto. L’accusa per tutti era di omicidio colposo. Il sostituto procuratore generale, Mario Remus, nell’udienza del 6 maggio scorso aveva chiesto il non doversi procedere per prescrizione del reato. “La prescrizione del reato è una sconfitta per la giustizia, ma questo processo è stato fatto fra mille difficoltà” aveva sottolineato il pg nella sua requisitoria. Rita Calore, la mamma di Stefano Cucchi, ha detto: “Non volevamo un colpevole, volevamo i colpevoli e finalmente dopo 10 anni li abbiamo.” “ Questa sentenza parla chiaro a tutti.” ha aggiunto il papà di Stefano, Giovanni Cucchi. E la sorella Ilaria: “Stefano è stato ucciso, questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni. Forse ora potrà riposare in pace. Il nostro pensiero va al carabiniere Casamassima e alla moglie.” Riccardo Casamassima, il carabiniere che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire il dossier sui pestaggi e nel 2015 è diventato supertestimone decisivo per l’apertura dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, lamenta che, dopo aver parlato, la sua vita è diventata “un inferno” e considera punitivo il suo trasferimento dall’8 Reggimento alla Scuola allievi, dove dichiara “mi sono ritrovato ad aprire e chiudere un cancello.” Il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri, dopo la sentenza ha espresso “dolore e vicinanza alla famiglia: “Abbiamo manifestato in più occasioni il nostro dolore e la nostra vicinanza alla famiglia per la vicenda culminata con la morte di Stefano Cucchi. Un dolore che oggi è ancora più intenso dopo la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Roma che definisce le responsabilità di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell’Istituzione. Sono valori a cui si ispira l’agire di 108mila carabinieri che, con sacrificio e impegno quotidiani, operano per garantire i diritti e la sicurezza dei cittadini, spesso mettendo a rischio la propria vita, come purtroppo testimoniano anche le cronache più recenti.”

DALLA STORIA

La Grande Alluvione del Polesine.
(14 novembre 1951: dopo due settimane di pioggia il Po straripa. Gran parte delle acque si riversano nelle campagne al ritmo di tremila cubi al secondo. È una tragedia, circa cento vittime e più di 180.000 senzatetto)

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Alle 19,45 del 14 novembre l’argine maestro del fiume Po ruppe a Vallone di Paviole nel comune di Canaro. Alle ore 20,00 si verificò una seconda rotta in località Bosco nel comune di Occhiobello. La terza falla si produsse poco più tardi, alle ore 20,15 circa, a Malcantone, una località dello stesso comune. La massa d’acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane, due/tre volte la portata del fiume che si riversò sulle campagne e sui paesi causando circa cento vittime, 84 solo nel “camion della morte” che, con una novantina di fuggiaschi a bordo fu inghiottito dall’acqua a Frassinelle. Più di 180.000 furono i senza tetto e, oltre al cordoglio delle vittime, immani furono le conseguenze sociali ed economiche. La catastrofe arrivò dai fiumi, ma fu innescata, oltre che dal diluvio che scese dal cielo, da una sottovalutazione storica dei problemi idraulici del territorio. Sotto l’aspetto meteorologico, tutto iniziò ad ottobre, quando un flusso d’aria fredda atlantica si scontrò con un fronte caldo proveniente dal Nord Africa: dopo il Sud, il maltempo cominciò ad interessare il Nord, con piogge ininterrotte per sei giorni di fila, poi il 13 novembre uscì il sole, ma il disastro era ormai imminente: mentre nei comuni dell’Alto Polesine, da Melara a Stienta, gli abitanti e i sindaci, per evitare le tracimazioni,  lavoravano freneticamente per alzare gli argini, in certi casi anche di un metro. Le popolazioni dei comuni di monte, scoraggiate e impaurite anche da false notizie, come quella che il Po avesse già rotto gli argini a Bergantino, a Occhiobello e a Canaro, caricate le masserizie sui carri, legate mucche e maiali, in lunghe file si preparavano a fuggire e, quelli che salirono sul camion arrivato da Rovigo, per recuperare le famiglie delle case più isolate, andarono incontro alla morte. Le immagini in bianco e nero degli archivi dell’epoca danno tutto il senso della tragedia: il Po con le sue onde scure e ribollenti che piomba su case, stalle e campagne, sommergendo e trascinando via tutto con la furia di un mare in tempesta, le file degli sfollati, che su barche di fortuna cercano di mettersi in salvo.

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L’ingegnere Capo del Genio Civile di Rovigo, ingegnere Mario Sbrana, propose di aprire varchi idonei a far defluire le acque sugli argini della Fossa Polesella, una richiesta di fronte alla quale il Prefetto, Umberto Mondio insediatosi a Rovigo da pochi giorni, considerò con incertezza, trattenuto anche a causa della protesta di alcuni sindaci dei comuni posti a est di detto corso d’acqua appoggiati dai relativi abitanti restii di fronte a tale intervento. La situazione era drammatica e le decisioni da prendere con tempestività per limitare la tragedia erano davvero difficili da valutare. Commovente fu la solidarietà nazionale ed internazionale che scattò nei confronti delle popolazioni colpite, moltissime famiglie in tutta Italia accolsero gli sfollati nelle proprie case. In seguito, un enorme numero di polesani non fecero ritorno alla propria terra d’origine, in parte per la devastazione di quelle zone dopo la tragedia e, soprattutto coloro che vennero ospitati nelle aree del triangolo industriale di Torino, Milano, Genova,  preferirono restare in quella realtà industriale emergente in cui era più facile trovare un lavoro. Ciò diede luogo a quel processo di spopolamento che ha interessato il Polesine a seguito dell’alluvione che si è protratto sino ai nostri giorni. Solo a partire dal 2001, per la prima volta dopo il 1951, la popolazione polesana ha visto un incremento numerico con la nascita di alcune realtà produttive nel settore della piccola industria, dei servizi e del turismo. Ancora una volta un disastro che si sarebbe potuto evitare, come denunciò lo storico Paolo Sorcinelli, dell’Università di Bologna: “L’alluvione è stata causata da venti anni di incuria del territorio, disboscamento e opere di protezione malfatte”.

Mary Titton

 

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Raffaella, se tu ci sei il mondo è più bello. Mary

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13 novembre

PRIMO PIANO

Emergenza maltempo: acqua alta e danni gravissimi a Venezia.

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L’Italia continua ad essere spazzata da venti forti, nubifragi e temporali. Piogge torrenziali e raffiche di vento si sono abbattute particolarmente sul Veneto. Drammatica la situazione a Venezia, che è stata sommersa dall’acqua alta, sfiorando il record del 1966. La notte scorsa il vento è soffiato a 100 km all’ora, facendo tremare le case, spostando le barche, spaccando le balaustre e strappando l’intonaco dai muri. Le gondole in Riva degli Schiavoni sono state letteralmente spostate e sono finite contro i muri dei palazzi e dell’hotel Danieli, che appare semidistrutto. I danni sono “inimmaginabili”, come ha sottolineato il governatore Luca Zaia: molte vetrine di hotel di lusso sono stae spaccate dalla pressione dell’acqua, tantissimi commercianti sono ancora all’opera per pulire i negozi dalla salsedine, ma non è finita perché anche nei prossimi giorni sono previste ancora perturbazioni; scuole, teatri, conservatori e locali sono chiusi; molti gli hotel devastati e allagati, a cominciare dallo storico Gritti, traghetti e motoscafi affondati. L’isola di Pellestrina, dove è morto un anziano colpito da un fulmine mentre tentava di riparare una pompa idraulica, è ancora senza corrente e praticamente isolata. I danni sono nell’ordine delle centinaia di milioni di euro, ha anticipato il sindaco Luigi Brugnaro, che ha passato la notte a far sopralluoghi ed ha chiesto la dichiarazione di stato di emergenza. In città, nel pomeriggio, è arrivato anche il premier Giuseppe Conte, che si fermerà a Venezia anche domani e ha detto: “È una situazione drammatica, c’è una comunità che soffre.” Anche la Basilica di San Marco, allagata per la sesta volta in 1200 anni, ha subito gravi danni. La prima ondata di marea alta 127 centimetri ha invaso il nartece, la parte iniziale della chiesa, sommerso da 70 centimetri d’acqua, con possibili danni ai mattoni e alle colonne dell’edificio oltre ai marmi recentemente sostituiti. Durante la notte l’acqua è salita ancora. Dal comando della Polizia municipale si apprende che tutta la cripta è stata sommersa e dentro la basilica, nel momento di picco della marea (187 cm), si misurava quasi un metro e 10 di acqua dalla pavimentazione, mentre resta al sicuro il resto della Basilica, ossia la parte dedicata alle funzioni religiose e al culto. Esiste un sistema di protezione dall’acqua, che, in casi come questo, risale dai tombini e dagli scoli, ma è in grado di proteggere la Chiesa solo con maree inferiori agli 85 centimetri. Per quanto riguarda il nartece, l’allagamento “genera danni per capillarità” nei mattoni – ha spiegato Pierpaolo Campostrini, Procuratore della Basilica: “Un terremoto o un crollo di un edificio sono evidenti, ma un’invasione mareale ripetuta come questa accresce il danno che è subdolo, perché nascosto. L’acqua va via ed evapora, ma il sale rimane dentro.” Oltre la Basilica di San Marco, l’acqua alta non ha risparmiato neppure il Teatro La Fenice, invadendo le aree di servizio e rendendo inutilizzabile il sistema elettrico e quello anti incendio. Tutto il centro storico, dove – secondo quanto riferito dalla Protezione Civile – si sono registrati numerosissimi danni, ha un aspetto spettrale. La drammatica situazione ha determinato la ripresa delle polemiche sul Mose, la grande opera progettata per tutelare Venezia dall’acqua alta, al centro di polemiche e continui ricorsi, dopo lo scandalo delle mazzette del 2014, costata miliardi, iniziata nel 2003 e non portata a termine. Il movimento Fridays For Future e Italia Nostra contestano la grande opera per le gravi carenze tecniche e gli alti costi di manutenzione. Anche altre zone d’Italia sono state gravemente colpite dalla violenta ondata di maltempo: la città di Matera e i Sassi sono stati allagati per un violentissimo nubifragio, trombe d’aria hanno scoperchiato alcune case sulla costa del metapontino e investito Porto Cesareo, una maxi voragine si è aperta a Napoli, le isole Eolie sono isolate da 3 giorni e sulle Dolomiti sono caduti 50 cm di neve, 15mila sono senza luce.


12 novembre

DALLA STORIA

Il 12 novembre 1954 Ellis Island chiude definitivamente i battenti.

“Ho sempre sperato che questa terra potesse diventare un rifugio sicuro e gradito per la parte virtuosa e perseguitata dell’umanità, a qualunque nazione appartenesse”. (George Washington)

image001(Nei suoi primi trent’anni, Ellis Island vide passare l’80% degli immigrati negli Stati Uniti: quasi 12 milioni di persone)

“A Ellis Island apre un centro per l’immigrazione per gestire gli arrivi negli Stati Uniti”

“Aperta il 1° gennaio 1892, Ellis Island, insieme alla Statua della Libertà, divenne un simbolo del vasto flusso di immigrati che si riversavano negli Stati Uniti. Questo centro di immigrazione gestì forse 12 milioni di persone e si ritiene che ben il 40% della popolazione immigrata negli Stati Uniti abbia almeno un parente passato attraverso questa immensa macchina burocratica. Costruita su un’insignificante isola sabbiosa nella baia di New York, nei pressi della costa del New Jersey, Ellis Island disponeva di un ampio spazio per accogliere le persone che arrivavano. Qui venivano gestiti gli immigrati appena arrivati, che parlavano una varietà impressionante di lingue. Prima di affrontare una serie di semplici domande per stabilire la loro idoneità, erano sottoposti a visita medica. La grande maggioranza era poi accettata e acquisiva la cittadinanza americana, mentre meno del 2% fu respinto. Ellis Island chiuse definitivamente i battenti il 12 novembre 1954”.

“L’America è il crogiolo di Dio, la più grande mescolanza di razze”

“Alla metà del XIX secolo il mondo stava attraversando un incremento demografico senza precedenti, in particolare in Europa e l’aumento sarebbe proseguito nel XX secolo e oltre. / Ciò era dovuto in parte al miglioramento delle condizioni di salute, sostenuto da una maggiore disponibilità di cibo grazie al perfezionamento delle tecniche agricole. Era anche l’esito dell’industrializzazione e della crescita delle città, nonché della prosperità e di un più elevato tenore di vita prodotti da questi due fattori. Pure la stabilità politica ebbe un suo ruolo: dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815, l’Europa godé di quasi cento anni di pace pressoché ininterrotta. / Anche la natura ebbe un ruolo nell’aumento delle migrazioni. La carestia irlandese delle patate negli anni ’40 del XIX secolo, dovuta ai mancati raccolti, fu l’ultima grande carestia europea, ma causò sofferenze di livello sbalorditivo: i morti furono forse un milione. Una delle conseguenze fu che provocò tra i sopravvissuti una vasta ondata di emigrazione che interessò oltre un milione di persone; quasi tutte si diressero verso gli Stati Uniti. Nel 1841 la popolazione dell’Irlanda era di 6,5 milioni, nel 1871 era ridotta a 4 milioni. L’industrializzazione produsse un paradosso analogo. Malgrado l’orgoglio civico e lo stile altisonante dei nuovi e immensi centri urbani della rivoluzione industriale, specialmente in Gran Bretagna, si stava creando un nuovo sottoproletariato urbano, disperatamente impoverito, che viveva in condizioni di estremo squallore. / Per i cittadini dell’Europa continentale l’attrattiva di nuovi territori in cui godere di libertà e prosperità si rivelò irresistibile. Nel 1848, dopo la repressione delle rivolte nazionaliste un gran numero di tedeschi, cechi e ungheresi abbandonò l’Europa centrale. Dal 1870 emigrarono analogamente moltissimi ebrei russi e polacchi, 1,5 milioni solo nel 1901-1910, per sfuggire ai pogrom antisemiti. / I numeri coinvolti in questo enorme trasferimento di popolazioni erano straordinari. Dalla metà del XIX secolo al 1924 dalla Gran Bretagna emigrarono 18 milioni di persone, 9,5 milioni dall’Italia, in gran parte dal meridione, 8 milioni dalla Russia, 5 milioni dall’Austria-Ungheria e 4,5 milioni dalla Germania. Fra il 1820 e il 1920 gli Stati Uniti attirarono 33,6 milioni di immigrati, che spesso si trovarono in condizioni di vita misere in città in rapida espansione come Chicago e New York, favorendo con la loro manodopera a buon mercato la crescita dell’industria americana. Nello stesso periodo, 3,6 milioni di europei si stabilirono in America del Sud e 2 milioni in Australia e Nuova Zelanda. / Questo processo di trasferimento non fu esclusivamente europeo. Immigrati indiani si stabilirono in Sudafrica, i cinesi in tutte le Indie Orientali, immigrati giapponesi si stabilirono in California e molti scoprirono di essere sgraditi. Vi furono anche vittime di emigrazione forzata: in tutto il mondo venivano ancora trasportati schiavi africani neri. Nel 1910 oltre un abitante su sette degli Stati Uniti era nato all’estero”.

image003  (Immigrati italiani a Ellis Island)

Fonte : “Il libro della Storia”. 2017. Gribaudo

Mary Titton


11 novembre

PRIMO PIANO

Iraq: attentato contro i militari italiani, 5 i feriti.

Un ordigno rudimentale (Ied – Improvised Explosive Device), nascosto sotto terra, è esploso intorno alle 11:00, ora locale, al passaggio di un team misto di Forze speciali italiane di ritorno da una missione andata a buon fine. Non si conosce ancora con certezza dove sia avvenuto l’incidente, lo stesso Stato Maggiore della Difesa non ha rilasciato dettagli: l’ipotesi di Kirkuk sembra poco probabile, alcune fonti parlano di Palkana, a metà strada fra Erbil e Kirkuk, altre di Suleimaniyah, in pieno Kurdistan iracheno, altre ancora di Makhmour, città a maggioranza curda, che sta però al di fuori del Kurdistan autonomo.Dei cinque feriti, sempre secondo quanto è stato possibile apprendere, tre sono incursori della Marina appartenenti al Goi, il Gruppo operativo incursori Comsubin della Marina militare e due sono effettivi al nono reggimento d’assalto paracadutisti Col. Moschin dell’Esercito. Secondo quanto si apprende, il team, parte della Task force 44, stava svolgendo attività di addestramento (“mentoring and training”) probabilmente in supporto alle forze irachene impegnate nella lotta all’Isis, sembra invece poco plausibile l’ipotesi che gli italiani stessero lavorando con i Peshmerga curdi. I cinque militari coinvolti sono stati subito soccorsi, evacuati con elicotteri Usa e trasportati nell’ospedale americano di Baghdad, dove stanno ricevendo le cure del caso. Le famiglie sono state informate. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, “è stato prontamente messo al corrente dell’attentato dal capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, e segue con attenzione – viene sottolineato – l’evolversi della situazione”. Tre dei cinque militari, tutti in prognosi riservata, sono in condizioni gravi, ma non sarebbero in pericolo di vita. Dei tre il più grave ha riportato un’emorragia interna, un altro ha perso alcune dita di un piede e il terzo ha gravissime lesioni a entrambe le gambe, che gli sono state parzialmente amputate. Gli altri due militari coinvolti nell’esplosione, invece, hanno riportato solo micro fratture e lesioni minori. Il generale Marco Bertolini, ex comandante della Folgore e del contingente italiano in Afghanistan, ha spiegato che contro gli ordigni rudimentali Ied, “non esiste una contromisura che garantisca la sicurezza assoluta. I militari che operano sul campo sono persone preparate, che sanno quello che fanno e lo fanno con passione”, ma ci sono dei rischi perché l’addestramento “non si fa in una caserma ma sul terreno”. L’attentato probabilmente è opera dell’Isis, ma finora non è stato rivendicato.


DALLA STORIA

Paul Signac. (Diede vita, assieme a Georges Seurat, al Puntinismo e alla tecnica del Divisionismo)
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L’11 novembre 1863 nasceva a Parigi Paul Signac. Era figlio di commercianti parigini e il suo bisnonno, ufficiale di marina durante la Rivoluzione, morì in prigionia sui pontoni inglesi. Figlio unico, fu molto viziato dalla madre e dal nonno. Pochi anni dopo la sua nascita, la famiglia si trasferì nei pressi di Place Pigalle, nel cuore di Montmartre, popolata da artisti, modelle e mercanti d’arte e da numerosi locali bohémiens, come “Le Chat noir”, il famoso cabaret che Signac, fin da ragazzo amò frequentare; questi ambienti letterari influiranno sulla sua decisione di dedicarsi alla pittura. Dopo la morte del padre si trasferì ad Asnières e qui cominciò a dipingere “en plein air”. Strinse amicizia con Camille Pissarro e George Seurat, con i quali, nel 1884, partecipò al primo Salon des Artistes Indépéndants e nel 1886 espose all’ottava e ultima mostra degli impressionisti. Signac è uno dei maggiori esponenti e teorici dello stile puntinista e del gruppo neoimpressionista, da lui definito “cromo-luminarista”. Tra il 1887 e il 1891 lavorò in stretta collaborazione con il critico Félix Fénéon e con Seurat, dopo la morte di quest’ultimo, ne prese il posto come guida del gruppo neoimpressionista e diventò presidente della Société des Artistes Indépéndants dal 1908 al 1934, partecipando a tutte le nove mostre del gruppo. Giunto alla piena maturità artistica viaggiò e dipinse molto, approfondendo le ricerche teoriche, che presentò nel saggio dei suoi studi sull’arte e sull’ottica. Negli ultimi anni sperimentò varie soluzioni del suo stile divisionista, accompagnate da una buona attività come incisore: attenuò il rigore scientifico e diede spazio alla luce e ai valori emotivi; nello stesso tempo si mostrò attento alle esperienze delle avanguardie, soprattutto all’uso dei colori degli esponenti dell’espressionismo. Muore a Parigi il 15 agosto del 1915.

image002(“Quiete del mattino”. 1891, olio su tela, collezione privata)

L’ultima mostra degli impressionisti, quella del 1886, fu il loro canto del cigno. Dei trenta pittori che avevano partecipato alla prima esposizione, quella storica del 1874, erano rimasti solo Degas, Guillaumin, Berthe Morisot, Pissarro e Rouart. Gli artisti presenti stavano già percorrendo strade espressive diverse, molto lontane dallo spirito originario. Pissarro insisteva affinché le sue opere, quelle di suo figlio Lucien, di Seraut e Signac, venissero esposte in una sala separata, per meglio mostrare i risultati raggiunti nelle loro ricerche divisioniste, basate sulle teorie ottiche di Chevreul e di Charles Henry del 1885. Il primo ad accorgersi di questi nuovi indirizzi fu il critico Félix Fènèon, secondo il quale l’impressionismo era ormai morto, superato da questa nuova forma di arte scientifica, per cui coniò il termine di “neoimpressionismo”. (Da “Gli Impressionisti”. 1999. Mondadori)

 image001(“Marsiglia. La Bonne mère. Bruma mattutina”. 1907, olio su tela, collezione privata)

Dopo il 1905 Signac seguì meno rigorosamente le teorie puntiniste e preferì esprimere i propri sentimenti con maggior libertà, cercando più l’effetto e l’atmosfera che la fedeltà assoluta alla scomposizione divisionista dei colori. In quegli anni si recava frequentemente in una villa a Saint Tropez, poco lontano da Le Lavandou, dove soggiornava Henri Edmond Cross, un altro membro della Société del Artistes Indépendants: entrambi trovavano in Costa Azzurra la luce e il calore mediterranei, che schiarivano e illuminavano ancor più le loro opere. In questa veduta di Marsiglia cominciarono a comparire i piccoli rettangoli di colore, tipici del suo stile maturo. Proprio in quel periodo i due artisti incontrarono Matisse, che aveva iniziato a trascorrere le estati nel sud della Francia e si interessava a alle loro ricerche sul divisionismo, di cui si servirà quando darà vita al movimento fauve. (Da “Gli Impressionisti”. 1999. Mondadori)

image004(“Costantinopoli. La Costa d’oro”. 1907, olio su tela, collezione privata)

Nel 1907 Signac compie un lungo viaggio di studio in treno, da Venezia a Costantinopoli, in compagnia dell’amico pittore Henry Person. L’ambiente naturale, le testimonianze dell’antica civiltà ottomana e l’incontro con popolazioni dagli usi e costumi così diversi dai suoi lo entusiasmano, come annota nel suo quaderno di appunti che riempie di schizzi e bozzetti, ma anche di riflessioni e di osservazioni. Per questo dipinto si è ispirato alle marine di Turner, anch’esse ricche di luci e di colori, ovviamente filtrate dallo stile puntinista. In particolare ha saputo rendere con rara maestria il contrasto tra il movimento rapido e leggero della barca a vela in primo piano, in cui prevalgono le sfumature del verde e del grigio, e l’imponente e maestosa architettura della moschea sullo sfondo, dai toni lievemente velati, tali da creare un’atmosfera altamente suggestiva. (Da “Gli Impressionisti. 1999. Mondadori)

image005(“Il pino di Bertaud. Saint Tropez”. 1909, olio su tela, Mosca, Museo Puskin)

Gli studi teorici di Charles Henry sono molto importanti per la definizione dello stile puntinista: nel 1888 questi pubblica “Cercle cromatique”, in cui viene presentato un disco che studia scientificamente i rapporti tra i colori e le leggi per utilizzarli. Signac collabora direttamente con lui, componendo i bozzetti e i diagrammi illustrativi del libro. Prendendo come spunto i fenomeni della durata di un’impressione luminosa sulla retina, riempie lo spazio pittorico con piccole macchie uniformi di colore, poste l’una accanto all’altra. Il risultato operato dal nostro occhio e dalla nostra mente è la sintesi, la mescolanza ottica dei toni e dei colori. L’opera di Signac, che verrà studiata con attenzione dai divisionisti italiani, crea le premesse fondamentali per la nascita del fauvismo e suggestiona gli espressionisti, i simbolisti, fino agli esiti più recenti della Pop Art statunitense. (Da “Gli Impressionisti”. 1999. Mondadori)

Mary Titton


9 novembre

PRIMO PIANO

Trenta anni fa la caduta del Muro di Berlino.

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Nel trentesimo anniversario della caduta del Muro il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, in un discorso davanti alla Porta di Brandeburgo, dove si sono radunate migliaia di persone per festeggiare la ricorrenza, ha detto: “Così siete arrivati alla Porta di Brandeburgo, un luogo che era il simbolo della separazione del nostro Paese, adesso è un simbolo di libertà, un simbolo di unione, un simbolo di una città aperta. Il muro di Berlino non c’è più ma oggi esistono altri muri, muri di odio, di frustrazione”, muri che “sono invisibili ma dividono lo stesso.” Ha poi aggiunto: “Il Muro di Berlino è stato l’ultimo”, ma “ci sono nuovi muri che non sono fisici, sono stati creati da noi e solo noi li possiamo buttare giù. Non guardiamo dall’altra parte, ma andiamo oltre questi muri una volta per tutte.” La notte del 9 novembre del 1989 cadeva il Muro di Berlino, simbolo della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi. E’ questa una data destinata a rimanere nei libri di storia, perché l’apertura di quel muro ha rappresentato il cambiamento, la volontà di voltare pagina, la riunificazione di una nazione: la Germania. Il Muro di Berlino, in tedesco Berliner Mauer, nome ufficiale Antifaschistischer Schutzwall (Barriera di protezione antifascista), era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania Est (Repubblica Democratica Tedesca, filosovietica) per impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest (Repubblica Federale di Germania). Considerato durante la guerra fredda il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra la zona d’influenza statunitense e quella sovietica, il muro, lungo 155 km, ha diviso in due la città per 28 anni, dal 13 agosto 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale decretò l’apertura delle frontiere con la Repubblica federale. In realtà si trattava di due muri, separati da 150 metri, la famigerata “striscia della morte”, con cani, torri di guardia, proiettori, fossato anticarro e guardie armate con ordine di sparare per uccidere; un altro muro, con più di 1milione di mine, fu eretto lungo il confine di 1370 km circa tra Germania Est e Ovest. Questa barriera di cemento, voluta dalle autorità dell’Est perché la gente non passasse ad Ovest, dove le condizioni di vita erano migliori, spaccò in due la città di Berlino, separando famiglie, parenti, amici. Un vero e proprio dramma! Secondo i dati ufficiali, furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest, alcuni studiosi sostengono che furono più di 200 le persone uccise o catturate e in seguito assassinate. Tuttavia più di 5.000 riuscirono a fuggire, nascondendosi in compartimenti segreti di auto provenienti dall’ Occidente, volando oltre il muro in mongolfiere, viaggiando attraverso tunnel berlinesi scavati sotto il muro, nuotando attraverso canali o corsi d’acqua o semplicemente correndo. Tante le storie e le vite spezzate, come quella di Winfried Freudenberg, che, fuggito in mongolfiera l’8 marzo 1989 senza aver avuto il tempo di riempire tutto il pallone, dopo diverse ore sul cielo di Berlino Ovest, precipitò a Berlin-Zehlendorf e morì nel giardino di una villa, o quella di Chris Gueffroy, ultimo ad essere ucciso con un’arma da fuoco mentre, nella notte tra il 5 ed il 6 febbraio 1989, stava attraversando a nuoto il Britzer Verbindungskanal. La vittima più giovane fu il neonato Holger H., che nel 1973 morì soffocato dalla mamma che gli chiuse la bocca con la mano mentre piangeva, per evitare che venissero scoperti al Checkpoint Bravo durante un tentativo di fuga, poi riuscito, la vittima più anziana fu Olga Segler, ottantenne, che morì per le ferite riportate dopo essersi buttata dalla finestra del suo appartamento al secondo piano in Bernauer Straße. Le vittime erano prese in carico dalla Stasi, “Ministero per la Sicurezza di Stato”, principale organizzazione di spionaggio della Germania Est, che decideva su tutto: dopo le reazioni dell’opinione pubblica alla vicenda di Peter Fechter, che fu lasciato morire dissanguato davanti agli occhi di tutti, senza essere aiutato da nessuno, la Stasi diede l’ordine ai soldati di spostare il prima possibile dalla vista i feriti ed i morti per evitare le reazioni negative della stampa occidentale, così spesso i soldati nascondevano i corpi nei loro mezzi per poi effettuare il trasporto delle salme di notte. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e a Berlino Ovest sarebbero state permesse, subito molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato, in un’atmosfera festosa. Alla porta di Brandeburgo festeggiarono tutta la notte con musiche, canti e balli. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito furono usate macchine industriali per abbattere quasi tutto quello che era rimasto del muro. Oggi chi visita la città di Berlino, anche se le tracce del passato sono ancora visibili, capisce che la Germania ce l’ha fatta. Potsdamer Platz è il più sorprendente esempio di come, negli anni novanta, il rinnovamento urbano abbia potuto trasformare Berlino nella “Nuova Berlino” di oggi: con l’ Atrium Tower, il grattacielo di Renzo Piano, la Panoramapunkt, situata a 100 metri d’altezza, a cui si accede attraverso il più veloce ascensore d’Europa, il Sony center con la sua cupola spettacolare, Potsdamer Platz è una piazza viva, affollata di turisti, un’area in cui fare shopping, un centro culturale per gli amanti del cinema in lingua inglese, con oltre 40 sale divise in tre cinema. Berlino e i berlinesi sono tornati a vivere. Cicerone nel “De oratore” afferma: “Historia magistra vitae”, ma tale monito oggi più che mai viene disatteso da quegli stati e da quei governi, che, dimenticando la lezione del passato, progettano, per risolvere le problematiche attuali, di costruire nuovi muri, fonte di divisione, di sangue, di morte, segno di assoluto disprezzo per la vita e la dignità di ogni essere umano.


DALLA STORIA

Jack lo Squartatore

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Londra, 9 novembre 1888. Viene trovato il corpo di Mary Jane Kelly, l’ultima vittima di Jack lo Squartatore. Il numero ufficiale delle vittime di questo seriale ed efferato assassino, tra i più “bestiali” che la storia abbia mai conosciuto, corrisponde a  cinque prostitute anche se ne vennero trovate, prima e dopo questa data, molte altre. Ecco la cronaca di quel delitto tratto dal libro “Nero di Londra” di Cinzia Tani, 2001. Mondadori : “Mary Jane Kelly aveva venticinque anni, lunghi capelli biondi, occhi blu e un aspetto attraente. L’8 novembre, verso le sette e mezzo della sera, il suo ex convivente, Joseph Barnett era passato a trovarla. Nonostante si fossero separati, erano rimasti amici e si vedevano spesso. Quella sera l’uomo era dispiaciuto perché non aveva soldi da darle. E a Mary Jane i soldi servivano subito per pagare l’affitto della stanza o il proprietario, John McCarty, l’avrebbe mandata via. Poco dopo Joseph se ne andò.  … Alle due, un operaio vide Mary Jane all’angolo di Flower e Dean Street in cerca di clienti … continuò a guardarla allontanarsi, finchè non vide un uomo che le si accostava e le metteva una mano sulla spalla. Le disse anche qualcosa di divertente, perché Mary Jane scoppiò a ridere e poi rispose: “Va bene”. Lui aggiunse: “Andrà bene per quello che ti ho detto” e le passò un braccio intorno alle spalle. I due tornarono verso Dorset Street  e oltrepassarono l’operaio, che ebbe modo di osservare bene l’uomo. L’avrebbe poi descritto come un “forestiero”, “con un cappotto lungo e scuro, con colletto e polsini di astrakan, giacca e pantaloni scuri, cappello di feltro tirato giù sulla fronte, stivali abbottonati con ghette scure, colletto di lino e una cravatta nera fermata con una spilla a forma di ferro di cavallo. In una mano aveva dei guanti marrone e nell’altra un pacchetto. Aveva circa trentacinque anni, era alto un metro e settanta, di carnagione chiara e portava i baffi”. L’operaio seguì la coppia per un tratto. Li vide fermarsi davanti al vicolo che portava in Miller’s Court per circa tre minuti … poi la coppia si incamminò per Miller’s Court ed entrò in casa. L’operaio attese tre quarti d’ora, ma non li vide ricomparire. … Alle 10,45 John Mc Carthy, proprietario della casa di Dorset Street mandò un suo commesso, Thomas Bowyer, a incassare l’affitto di Mary Jane Kelly che era in ritardo di sei settimane. Bowyer bussò ripetutamente alla sua porta, ma poiché non ottenne risposta, guardò attraverso il buco della serratura senza vedere nulla. Poi infilò la mano nella finestrella della stanza che aveva il vetro e scostò la tendina. La prima cosa che notò furono degli ammassi di carne sopra il tavolino e, in secondo piano, sul letto, quel che restava del corpo di Mary Jane. Avvertì John McCarthy, che scese a vedere e che poi avrebbe dichiarato al “Times” che l’omicidio sembrava più “opera di un demonio che di un essere umano”. Mary Jane giaceva supina in mezzo al letto, in sottoveste. Aveva la gola tagliata, l’addome e le cosce erano stati scorticati e la cavità addominale era stata svuotata delle viscere. L’utero e un rene si trovavano sotto la testa. Le mammelle erano state recise e posate sul tavolo. Fra i piedi era stato piazzato il fegato, gli intestini sulla parte destra del corpo e la milza su quella sinistra. Il viso era stato sfregiato in modo tale che non fu possibile riconoscere la fisionomia della ragazza. Il naso, le guance, le sopracciglia e le orecchie erano parzialmente staccati. Lembi di pelle e brandelli di carne erano stati messi sul tavolo vicino alla finestra. Il cuore non fu mai più ritrovato. All’obitorio ci sarebbero volute più di sei ore per rimettere insieme il corpo. … I delitti di Jack lo Squartatore avvennero a Whitechappel, nell’Est End di Londra, la più affollata, povera e negletta zona della città. Novecentomila abitanti, più della metà dei quali immigrati, chiamati “forestieri”. La maggior parte dei lavoratori erano artigiani che guadagnavano circa una sterlina alla settimana, molti altri erano venditori ambulanti. Un gran numero di bambini moriva prima di compiere i cinque anni. La piaga dell’alcolismo si propagava senza che niente e nessuno vi ponesse un freno: una casa su cinque aveva uno spaccio di gin. Le circa duecentocinquanta case popolari ospitavano soprattutto prostitute, ladri e disoccupati. Sessantadue di queste erano bordelli. Le prostitute erano milleduecento, adescavano i clienti per la strada e, se non avevano i quattro scellini per pagarsi un letto, approfittavano degli angoli bui dei vicoli e delle piazze per guadagnarsi i loro soldi. Spesso erano ricattate da bande di malviventi, che pretendevano una percentuale sui loro guadagni. Gli omicidi di queste donne erano talmente comuni che i giornali non se ne occupavano affatto. In tanto degrado e miseria il crimine e il vizio facevano parte della vita quotidiana quanto la disperazione, il fallimento e la morte …

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Il dottor Bond, dopo aver eseguito l’autopsia su Mary Jane Kelly, scrisse per l’ispettore Abberline un rapporto che riguardava i delitti di Jack lo Squartatore precisando le sue teorie … “L’assassino deve essere stato un uomo di grande forza fisica e audacia. Non ci sono prove che avesse un complice. Secondo me era un uomo soggetto a periodici attacchi di manie omicide ed erotiche. La tipologia delle mutilazioni suggerisce che potesse trovarsi in una condizione sessuale chiamata satirasi. È naturalmente possibile che l’impulso omicida possa essersi sviluppato da uno stato mentale vendicativo o malinconico o anche da una mania religiosa, ma non credo molto a questa ipotesi. L’apparenza dell’uomo è quella di un tipo assolutamente inoffensivo, probabilmente è di mezza età ed è vestito in modo corretto e rispettabile. Penso che abbia l’abitudine di indossare un mantello o un soprabito, altrimenti sarebbe stato notato nelle strade se il sangue sulle mani e sui vestiti fosse stato visibile. Presumendo che l’assassino sia una persona così come l’ho descritta, avrebbe delle abitudini solitarie ed eccentriche, probabilmente sarebbe un uomo senza un’occupazione fissa che deve quindi percepire qualche rendita o pensione. Probabilmente vive tra persone rispettabili che conoscono il suo carattere e le sue abitudini e che forse sarebbero riluttanti a comunicare i loro sospetti alla polizia per paura della pubblicità, mentre se ci fosse la possibilità di una ricompensa potrebbero vincere i loro scrupoli. …”

Jack lo Squartatore è stato il primo serial killer inglese definito tale dai criminologi. Il mistero della sua identità non si è ancora risolto. Negli anni, gli investigatori hanno stilato circa centosessanta profili e numerosi sospettati senza arrivare alla soluzione del caso. Ogni tanto viene ripescato dai mass-media, come il vero Jack lo Squartatore, qualcuno tra le figure appartenenti all’aristocrazia o all’alta borghesia inglese come membri o medici della Casa Reale, scrittori come Lewis Carrol (anagrammando alcuni suoi scritti si ottengono le confessioni dei suoi delitti) e così via. Recentemente la scrittrice di gialli, Patricia Cornwell sostiene, nel suo libro “Ritratto di un assassino”, Mondadori che, il mostruoso killer era il pittore inglese Walter Richard Sickert morto nel 1942. “Possiamo affermare, con cautela, che delle sequenze di Dna mitocondriale di Sickert e di Jack lo Squartatore possono pervenire dalla stessa persona”. Il test del Dna condotto presso il prestigioso Bode Technology Group di Spriengfield ed altre indagini su Sickert non hanno risolto tutti i dubbi. Infatti, il pittore fu cremato e le poche tracce del codice genetico sono rimaste solo sulle lettere. Probabilmente non sapremo mai chi fu Jack lo Squartatore anche se rimane il caso preferito da criminologi, storici e appassionati di delitti.

 image002(Walter Sickert, 1908 – Omicidio di Camden Town)

Mary Titton


7 novembre

PRIMO PIANO

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Molto bello il Concerto di solidarietà del 6 novembre della Banda Musicale della Marina Militare al quale siamo stati invitati in rappresentanza della nostra Casa Editrice che ormai da diversi anni si pregia della collaborazione con lo Stato Maggiore e l’Ufficio Storico nella realizzazione di Opere editoriali come la recente edizione di “Civiltà del Mare. La Grande Storia della Marineria Italiana”. Il concerto si è svolto nella “Sala Santa Cecilia” dell’Auditorium Parco della Musica a Roma. Uno spettacolo di alto valore culturale per la qualità del suono, la varietà del repertorio, la duttilità degli orchestrali e dei gruppi strumentali, di grande impatto emozionale tale da coinvolgere il pubblico in sala, foltissimo ed estasiato, che si è profuso in un continuum di applausi per l’intensità dell’esecuzione dei 102 musicisti che compongono la storica Banda Militare (uno dei complessi più prestigiosi a livello nazionale e internazionale) diretta dal Capitano di Vascello Maestro Antonio Barbagallo. Ad intensificare la performance e l’effetto scenico la presenza del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. 90 ragazzi tra i 7 e i 14 anni, diretti dal Maestro Piero Monti che all’unisono con la Banda e i brani interpretati dalla magnifica voce di Rita Pilato, diplomata in canto jazz e pop e altri artisti d’eccezione, hanno portato la musica ad altezze vertiginose. Ricco e composito, il programma musicale si è aperto con “l’Inno di Mameli” per arrivare al “Gugliemo Tell” di Rossini, alla colonna sonora del film “La vita è bella” di Nicola Piovani (regista Roberto Benigni), al “Jazz Suite” di Shostakovich risalendo agli anni ’80 con i brani “Silence and I” e “Sirius” degli Alan Parson Project cantata, in modo vibrante, sempre dalla solista Rita Pilato. Bravissimo il Direttore Barbagallo come ha tenuto a precisare l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, salito sul palco per salutare il pubblico a pochi mesi dall’insediamento come Capo di Stato Maggiore e dove, ha espresso la sua ammirazione per lo stesso Barbagallo, anche per la sua abilità e autorevolezza nel creare un’onda sinuosa, facendo alzare e poi sedere “a grappoli” gli orchestrali (tutti selezionati maestri dal talento ineccepibile) al tocco della sua bacchetta magica, quasi fosse Harry Potter. Ha poi aggiunto: “La musica nella Marina Militare è sempre stata fondamentale”, ribadendo l’importante attività istituzionale che la Banda è chiamata a svolgere con grande sensibilità verso il sociale nella costante attività di solidarietà promossa molte volte proprio grazie ai concerti. Infatti l’iniziativa del 6 novembre è stata in favore della “Lega del Filo d’Oro” che dal 1964 è impegnata nell’assistenza, educazione, riabilitazione e reinserimento nella famiglia e nella società di bambini, giovani e adulti sordociechi e pluriminorati psicosensoriali. Testimonial da oltre trent’anni Renzo Arbore, come ha raccontato dal palco lo showman, dialogando con la brava e brillante presentatrice Benedetta Rinaldi. Arbore si è poi intrattenuto per qualche minuto con il pubblico raccontando alcuni aneddoti divertenti della sua carriera. Sono saliti sul palco per un saluto anche una rappresentanza degli atleti distintisi alle Olimpiadi Militari Mondiali in Cina: Tommaso Rinaldi, Gabriele Auber e Gianni Landi. Bravissimi tutti quindi, dai presentatori Tenente di Vascello Florinda Bruschi e Tenente di Vascello Edoardo Farina, particolarmente versatili persino nelle gag preparate del regista e scenografo del Concerto Umberto Petri e naturalmente gli orchestrali tutti. Da sottolineare le performance del Maestro Marco Bellucci con il suono conturbante della sua chitarra elettrica, del Maestro Marco Cherubino al basso elettrico, della concertista Sara Convertino, diplomata con menzione d’onore al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma che ha suonato il bajan, fisarmonica di origine russa e la portentosa batteria del Maestro Giovanni Carruozzo.

Durante la manifestazione convinti applausi sono stati riservati a Massimo Sestini, le cui suggestive fotografie illustrano l’ormai storico Calendario da Collezione della MMI, dedicato nel 2020 ad uno dei Reparti più prestigiosi, la Brigata San Marco.

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Arbore

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Foto: Arch. Tommaso Fera

Mary Titton


6 novembre

PRIMO PIANO

A Dehli adorano il sole immersi nel fiume più inquinato del mondo.

Il fiume Yamuna, la principale fonte d’acqua per Delhi, è uno dei fiumi più inquinati del paese. Diciannove scarichi nel corso nel fiume contribuiscono per il 96% al totale degli inquinanti del fiume, soltanto 5% delle acque reflue scaricate nel fiume, però, è trattato, con gravi rischi per la salute. Ai fedeli non resta, dunque, che pregare. Nella città indiana di Dehli migliaia di devoti hanno offerto preghiere lungo le rive del fiume Yamuna per segnare la fine di Chhath Puja e pregare il dio sole. Domenica 3 novembre, al mattino presto, uomini e donne sono entrati nell’acqua del fiume per offrire fiori e frutta fresca, in uno scenario apparentemente alpino, con le acque del fiume rese bianche non da neve, ma da una schiuma bianca tossica che galleggia stabilmente sulla superficie dell’acqua inquinata. Un rischio per la salute che non ha frenato i fedeli che si sono immersi in acqua per recitare le preghiere di Chhath. Alcune giovani donne sono state addirittura viste mentre facevano selfie, in piedi nel mezzo della schiuma puzzolente. A Delhi l’inquinamento non è una piaga soltanto per il fiume, ma anche per l’aria, tanto che il Primo Ministro di Delhi Arvind Kejriwal, che ha partecipato ai riti, ha chiesto un intervento urgente al governo nazionale. In città le persone camminano con le mascherine per la pessima qualità dell’aria che ha reso difficile una visione completa del sole nascente, proprio a causa del denso smog che copriva lo skyline di Delhi. Kejriwal ha definito la situazione “insopportabile” e ha affermato che il popolo di Delhi soffriva per “nessuna colpa sua”, ma molti lo accusano per non aver fatto nulla per contrastare l’inquinamento nei quattro anni e mezzo di governo della città. Intanto le scuole di Delhi, Noida, Gurgaon e Faridabad sono chiuse fino a martedì. Il picco di inquinamento della città di Nuova Delhi è in continua crescita e nella notte di ieri ha raggiunto ‘livelli preoccupanti’. “Delhi è diventata una camera a gas” ha sintetizzato Arwind Kejriwal, governatore della capitale dell’India. Il pericolo è serio: l’Aqi (Air Quality Index, l’Indice di Qualità dell’Aria), un indicatore che misura i veleni nell’aria, è a 480. A 500 c’è una minaccia seria per bambini, anziani, convalescenti e cardiopatici. Numerose misure sono state prese in tutta fretta dall’amministrazione: le scuole di ogni ordine e grado saranno chiuse fino al 5 novembre e i bambini sono stati invitati a restare all’interno delle case, evitando le attività all’aperto e i giochi nei parchi. È stata avviata la distribuzione porta a porta di 5 milioni di maschere antismog in tutte le famiglie nelle quali ci siano bambini o anziani. L’Epca, il Dipartimento per la prevenzione e il controllo dell’inquinamento, ha fermato tutti i lavori di costruzione e i cantieri, sia edili che stradali, fino al 5 novembre. Il Dipartimento ha anche bloccato tutte le aziende della cintura industriale che utilizzano petrolio o carbone e che non si sono convertite al gas naturale o ai biocarburanti. E ha proibito di bruciare all’aperto ogni tipo di plastica e rifiuti. Sul fronte del traffico, da domani scatterà fino al 12 la circolazione a targhe alterne. Un’apocalisse che creerà enormi disagi e avrà pesanti conseguenze economiche. Ma un’apocalisse necessaria per evitare conseguenze ancora più pesanti: oggi Delhi si è svegliata per il secondo giorno consecutivo avvolta in una coltre di smog che limita la visibilità e che rende difficile anche respirare normalmente. La frase del governatore, che ha definito la sua città “una camera a gas”, non è una resa, ma un attacco politico, molto deciso, verso i colleghi degli Stati confinanti accusati di non intervenire per bloccare i contadini: la tesi di Kejriwal e di molti esperti, infatti, è che gran parte dei veleni che ammorbano la capitale in questi giorni derivino dagli incendi delle stoppie per preparare i campi alle nuove semine, negli Stati dell’Haryana e del Punjab. In effetti, rilevazioni satellitari della Nasa ieri hanno mostrato oltre 3500 incendi accesi poco a nord della capitale. Ma oltre alle abitudini dei contadini, va registrata anche l’incoscienza degli abitanti di Delhi che, incuranti dei pericoli e dei divieti, la notte di Diwali hanno acceso migliaia di fuochi d’artificio in tutti i quartieri. Unico dato positivo, secondo gli esperti, è che l’emergenza di queste ore – i disagi, le maschere filtranti, verso le quali gli indiani nutrono forti resistenze, l’allarme generalizzato, le bronchiti – può portare a qualcosa di nuovo: la consapevolezza della serietà del problema sembra ormai diffusa. L’India, o almeno Delhi, sta per dichiarare una seria guerra all’inquinamento.


5 novembre

PRIMO PIANO

Messico: Strage di mormoni, tra le vittime anche donne e bambini.

Una decina di mormoni statunitensi, tra cui almeno 4 bambini, due gemelli di sei mesi e le loro madri, sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco in una imboscata in Messico, alcuni di loro sono stati bruciati vivi. Secondo quanto riferito da uno dei leader della comunità, Julian Lebaron, cugino di una delle vittime, la strage è avvenuta nel nord del Messico, in una zona di confine tra gli stati di Chihuahua e Sonora. Il quotidiano El Universal, citando fonti della famiglia, ha ricostruito così i fatti: il 4 novembre mattina, alle 9.30, tre donne con i loro 14 figli sono partite dalla località di Bavispe, nello stato di Sonora, dirette verso la comunità mormone di La Mora. Durante il tragitto uno dei veicoli, a bordo del quale viaggiavano donne e bambini, ha avuto un guasto, per cui uno dei mezzi, con due donne e dieci minori, ha fatto ritorno a Bavispe, dove hanno trovato i corpi carbonizzati di una donna e dei suoi quattro figli, due gemelli di sei mesi e due bambini di otto e dieci anni. A questo punto sono intervenuti di nuovo uomini armati, che hanno ucciso barbaramente le due madri e 5 bambini. Altri 5 sarebbero fuggiti e risultano dispersi. Le vittime appartenevano tutte alla famiglia LeBaron, legata a una comunità mormone stabilitasi nel nord del Messico decine di anni fa. Si tratta di una comunità costituita dai discendenti dei mormoni fuggiti dagli Stati Uniti nel XIX secolo, dopo essere stati perseguitati per le loro tradizioni, tra cui la poligamia. Tutti appartenenti alla folta comunità mormone e tutti di origine statunitense, svolgono attività missionaria per la loro chiesa in Messico. Julian Lebaron ha detto che sua cugina stava andando all’aeroporto quando è stata aggredita e uccisa in auto insieme con i suoi quattro figli. “È stato un massacro”, ha ripetuto più volte l’attivista, che ha denunciato la presenza di gruppi criminali nella zona. Dentro uno dei veicoli sono stati trovati i corpi di una madre e dei suoi quattro figli con i corpi crivellati di proiettili. Altre due auto sono state ritrovate alcune ore dopo a una certa distanza, con all’interno i cadaveri di altre due donne e due bambini. Altri cinque o sei bambini sarebbero riusciti a fuggire e sono tuttora dispersi. A trovare i corpi carbonizzati sono stati i parenti delle vittime. Al momento non è chiaro chi siano gli autori dell’attacco, per la polizia locale sono stati “I cartelli della droga”, un gruppo della criminalità organizzata attivo nella zona, che tra l’altro ha bloccato l’accesso all’area per evitare un possibile intervento delle forze di sicurezza. Indagini sono state avviate dalle autorità degli stati di Chihuahua e Sonora, ma un membro della comunità, Lafe Langford Jr., ha denunciato come siano “loro a cercare” i minori scomparsi, mentre “governo ed esercito non fanno niente”, e ha invocato l’intervento dell’Fbi.

DALLA STORIA

5 novembre 1997: muore Camilla Cederna, maestra di giornalismo, intransigente e spregiudicata accusatrice della corruzione e dei “misteri “ italiani.

image001(La giornalista durante un’intervista)

“Camilla Cederna è stata una giornalista e scrittrice che più di chiunque altro in Italia ha creato uno stile con quel suo linguaggio preciso e nutrito di particolari, a volte inconsapevolmente snob, a volte asciutto come una cronaca. Molte l’hanno imitata; molte, più modestamente, si sono ispirate alla sua tenacia, all’umorismo distaccato con cui osservava le mostruosità quotidiane. Le donne, tutte, l’hanno ammirata perché, con Irene Brin, giornalista di costume e scrittrice, donna di grande cultura e intelligenza, è stata la prima a inventarsi un linguaggio che era fatto di senso morale, acutezza, attenzione. …” (Giusi Ferré, “L’Europeo” n° 6, 2004). All’inizio, la Cederna scriveva  di moda e di costume: “riflesso di ogni evoluzione sociale, economica, ideologica e culturale del paese” commentava e, a sorpresa, concludeva gli articoli con una stoccata satirica, una riflessione di carattere polemico prima dissimulato. Nata e vissuta a Milano, la Cederna aveva per questo un punto di osservazione privilegiato. In quegli anni Milano era la Milano del boom economico, centro mondano e culturale d’Italia che la giornalista restituiva con  commenti perlopiù comici stereotipi sulle mode, le abitudini, i gerghi, gli usi e costumi. Poi, dopo la strage di piazza Fontana, che segnò una linea di demarcazione tra un prima e un dopo, tra una visione ancora “innocente” nel sentire degli Italiani che, dopo “la strage delle stragi”, si trasformò in sentimenti di tensione e terrore, la Cederna fa la scelta di professione e di vita: “Il sangue che cola sul marciapiede. I volti angosciati dei feriti. I parenti chiamati a riconoscere le salme”. Dai salotti alla rabbia. Giommaria Monti, scrittore e giornalista, ne “Le voci del ’68”, Editori Riuniti, 1998 ci parla della Cederna: “Camilla Cederna è stata probabilmente la cronista più attenta agli avvenimenti del ’68. Figlia di buona famiglia della borghesia milanese, inizia a scrivere nel 1943 e i suoi guai cominciano immediatamente. Il 7 settembre, il giorno prima della disfatta dell’esercito, pubblica sul Corriere della sera un feroce articolo (“Moda nera”) sulle donne dei gerarchi fascisti, in particolare Claretta Petacci, amante di Mussolini. L’articolo non passa inosservato, tanto che i repubblichini di Salò la cercano e la trovano in Valtellina (dove la famiglia si è rifugiata), la processano e la condannano a sette anni di carcere. Passerà un mese prigioniera dei fascisti. Finita la guerra inizia a lavorare all’Europeo e più tardi all’Espresso di Arrigo Benedetti e Eugenio Scalfari. Si occupa di moda, di costume, di prime alla Scala con una scrittura sferzante e ironica. La sua origine borghese le consente di frequentare i salotti milanesi che pure spesso sbeffeggia anche nei libri (Noi siamo le signore, 1957; La voce dei padroni, 1963; Signore e signori, 1966). Quando iniziano le occupazioni delle facoltà Camilla Cederna va di persona a parlare con gli studenti della Cattolica e della Statale insieme a pochi colleghi come Corrado Stajano e Ibio Paolucci. Racconta anche di come la polizia carica gli studenti, irrompe nelle facoltà, esegue ordini scoordinati di questori in preda al panico e, a volte alla ferocia. “L’assalto alla Statale, scrive, è stato talmente feroce da rappresentare una delle pagine più nere di Milano”. È amica di Mario Capanna e quando nel 1973 la polizia ricerca il leader studentesco latitante, la giornalista è accusata di favoreggiamento, la sua casa perquisita. Ma è con la strage di Piazza Fontana che Camilla Cederna si fa molti nemici. Non crede alla versione ufficiale della pista anarchica e della morte di Giuseppe Pinelli. Scrive decine di articoli e un libro (Pinelli, una finestra sulla strage) nei quali smonta le versioni  ufficiali e attacca duramente il commissario Luigi Calabresi, che è indicato dall’estrema sinistra (e in particolare da Lotta continua, in una durissima campagna di stampa) come il responsabile della morte dell’anarchico. Il questore di Milano parlerà di Camilla Cederna come del “mandante morale dell’omicidio Calabresi”. La borghesia di Milano la considera una traditrice e non perde occasione per insultarla. Successivamente si occupa anche della morte dell’editore Feltrinelli e, soprattutto, del presidente della Repubblica Giovanni Leone: nel 1978 il suo libro-inchiesta “Giovanni Leone, la carriera di un presidente” porterà alle dimissioni del capo dello Stato”. / Camilla Cederna sottolineava: “La gente, drogata dal telecomando, legge molto meno, mentre leggere è vivere, e chi non legge più è còlto da asfissia morale”.

image002(La targa del comune di Milano intitolata a Camilla Cederna)

Mary Titton 


4 novembre

PRIMO PIANO

Alzheimer: nuovo farmaco estratto da un’alga autorizzato in Cina.

Il nuovo farmaco, GV-971, approvato per il mercato cinese dalla National Medical Products Administration, è il frutto di 22 anni di ricerca e si basa su uno studio clinico di fase 3 condotto su 1.199 persone, della durata di 36 settimane, dal quale è emerso che il farmaco induce “un miglioramento cognitivo solido e coerente” in pazienti con Alzheimer da lieve a moderato. Il nuovo farmaco anti-Alzheimer deriva da un estratto di alga bruna ed è basato sulla capacità di regolare il tipo di colonie di batteri. Il team guidato da Geng Meiyu, ricercatrice dello Shanghai Institute of Materia Medica Accademia cinese delle Scienze, in un recente studio pubblicato sulla rivista Cell Research, ha analizzato il meccanismo alla base. Usando modelli animali si è scoperto come, durante la progressione dell’Alzheimer, l’alterazione della composizione del microbiota intestinale porti all’accumulo periferico di fenilalanina e isoleucina, stimolando la proliferazione delle cellule proinfiammatorie Th1. Queste, infiltratesi nel cervello, contribuiscono alla neuroinfiammazione associata al morbo. La molecola GV-971 (sodium oligomannate) sopprime lo squilibrio dei batteri, ‘imbriglia’ la neuroinfiammazione e inverte il deterioramento cognitivo. È plausibile, spiega all’ANSA il professor Marra, responsabile della Clinica della Memoria presso la Fondazione Policlinico Gemelli Irccs, “che la molecola abbia un qualche effetto, in quanto sono noti sia il ruolo del microbiota che quello dell’infiammazione nello sviluppo di disturbi cognitivi, ma finora queste terapie testate su pazienti non hanno dimostrato efficacia. I nuovi risultati indicano che la ricerca nel campo non deve essere abbandonata. La rapida approvazione ottenuta in Cina, permetterà, tra qualche anno, di aver dati real world sull’efficacia e sicurezza di questa molecola, che ancora presenta delle incognite da approfondire.” La ricerca procede anche sul fronte della genetica, in particolare con studi di resilienza alla malattia, come riporta un lavoro su Nature Medicine. È stata isolata, infatti, nel Dna di una donna colombiana una mutazione (APOE3ch) in grado di proteggere dall’Alzheimer, benché nel suo cervello fosse presente un accumulo di ‘beta-amiloide’: i sintomi della malattia sono comparsi solo tre decenni dopo.


2 novembre

PRIMO PIANO

Le catacombe: luogo di arte, testimonianza e fede.

Oggi, nel giorno della commemorazione dei defunti, alle 16.00, Papa Francesco ha scelto di celebrare la Messa in uno dei luoghi più antichi della testimonianza cristiana: le Catacombe di Priscilla, la “regina catacumbarum”, come era chiamata in tutti i documenti topografici e liturgici antichi. Il cimitero dei martiri, sulla Via Salaria, è stato scavato nel tufo tra il II e il V secolo su ambienti preesistenti occupati dalle tombe della famiglia degli Acili Glabrioni cui apparteneva la nobildonna Priscilla, donatrice del terreno, ed è venuto alla luce nel XVI secolo. Si estende per circa 13 km di gallerie, in cui ci sono le tombe dei martiri e gli arcosoli, tombe di nobili, spesso decorate, come il cubicolo della velata, che prende il nome dalla nicchia con una figura femminile che prega e che contiene pitture del XIII secolo molto ben conservate. Sulle lapidi tombali frequenti sono i simboli significativi per i cristiani tra cui il più noto è il pesce, che, attraverso le iniziali delle cinque lettere greche che compongono la parola “ICTUS”, pesce, nasconde le cinque parole “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Di particolare valore artistico la “Cappella greca” con l’Adorazione dei magi e la Nicchia che contiene la più antica immagine della Vergine Maria col Bambino sulle ginocchia e accanto un profeta, che nella sinistra tiene un rotolo e con la destra addita una stella, probabilmente raffigurazione della profezia di Balaam: “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17). La presenza del profeta sta a indicare nel Bambino il Messia atteso per secoli. Papa Francesco, parlando a braccio e dicendo che è “la prima volta nella vita che entra in una catacomba”, nella sua omelia ha affermato: “Possiamo pensare alla vita di questa gente, che doveva nascondersi, che aveva questa cultura di sotterrare i morti e celebrare l’Eucaristia qui dentro … è un momento di storia brutto, ma che non è stato superato: anche oggi ce ne sono. Ce ne sono tanti. L’identità di questa gente che si radunava qui per celebrare l’eucaristia, per lodare il Signore è la stessa dei paesi dove oggi essere cristiano è un crimine, è vietato, non è un diritto. Ancora oggi ci sono dei paesi dove le persone devono fare finta di fare una festa, un compleanno, per celebrare l’eucarestia perché in quel paese è vietato. Anche oggi ci sono cristiani perseguitati, sono più dei primi secoli.” Francesco ha poi insistito sulle beatitudini, che sono la carta d’identità dei cristiani, che non devono aspirare ad essere “cristiani qualificati”, ma a vivere la carità, soccorrendo chi è nel bisogno, secondo il capitolo 25 di Matteo: avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero forestiero …


1 novembre

PRIMO PIANO

Nell’Africa meridionale il primo Homo Sapiens.

Uno studio australiano del gruppo del Garvan Institute of Medical Research e dell’Università di Sydney guidato da Vanessa Hayes, a cui ha preso parte anche l’italiana Benedetta Baldi, ha individuato il luogo esatto della comparsa dell’uomo moderno attraverso l’analisi del Dna. La casa dei primi Homo Sapiens era nell’Africa Meridionale, nell’attuale Botswana settentrionale, dove il nostro antenato è vissuto tra 200 mila e 130 mila anni fa per 70 mila anni, prima di migrare. Era un luogo lussureggiante e i cambiamenti climatici avvenuti dopo quell’epoca hanno aperto corridoi verdi verso altre regioni, innescando le migrazioni. La scoperta si è basata sull’analisi del Dna della popolazione che vive oggi in quell’area, in particolare è stato analizzato il Dna mitocondriale, ossia il materiale genetico che si trova nelle centraline energetiche delle cellule, che viene trasmesso solo per via materna. Questo tipo di Dna, poiché conserva le tracce dei cambiamenti avvenuti nel corso delle generazioni, permette di risalire a ritroso alle nostre antenate. In questo modo è stato possibile individuare le tracce genetiche dei primi gruppi di uomini moderni, il cosiddetto lignaggio “L0”. Combinando l’epoca in cui è emerso il lignaggio L0 con la distribuzione geografica di queste popolazioni, è emerso che 200.000 anni fa il primo gruppo di Homo sapiens viveva a Sud del fiume Zambesi, nel Botswana settentrionale. Oggi quella regione è arida, ma all’epoca era umida e lussureggiante. Ricostruire l’ambiente in cui vivevano i primi Sapiens è stato possibile grazie a simulazioni al computer del clima dell’epoca. È emerso così che cambiamenti climatici, dovuti all’oscillazione dell’asse terrestre, che ha modificato l’incidenza delle radiazioni solari nell’emisfero australe, hanno aperto corridoi verdi nelle regioni precedentemente più aride, portando le popolazioni a migrare prima verso Nord-Est, circa 130 mila anni fa, e poi verso Sud-Ovest, circa 110 mila anni fa. “È uno studio bellissimo: circoscrive per la prima volta, e bene, il luogo d’origine dell’uomo moderno ed è coerente con le nostre aspettative”, ha detto all’ANSA Stefano Benazzi, direttore del laboratorio di Osteoarcheologia e Paleoantropologia dell’università di Bologna. Era noto che i primi uomini anatomicamente moderni sono comparsi in Africa circa 200.000 anni fa e analisi genetiche precedenti avevano suggerito che l’area di origine fosse l’Africa meridionale, ma senza individuare l’area precisa. Tuttavia, secondo Benazzi, “c’è un unico dato che stride con questa ricostruzione” ed è la scoperta in Israele, pubblicata nel 2018, del frammento di una mascella attribuita all’Homo sapiens, risalente a 170-180 mila anni fa. Questo significa per l’esperto che “vi è stato un altro corridoio che si è aperto prima oppure che questo frammento è appartenuto a un Sapiens più arcaico, come ipotizzano alcuni studiosi.”


31 ottobre

PRIMO PIANO

Mozione Segre per la creazione di una commissione su razzismo e antisemitismo: sì del Senato.

Ieri l’aula di Palazzo Madama ha approvato la mozione di maggioranza, a prima firma Liliana Segre, per l’istituzione di una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. I sì sono stati 151, nessun voto contrario, 98 gli astenuti (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia). È quindi mancata l’unanimità, cosa di cui si è rammaricata la senatrice a vita sopravvissuta a Auschiwitz, che, da giorni bersaglio di attacchi sul web, ha detto: “Speravo in sintonia di tutti i partiti”. Il voto è stato accolto con un lungo applauso da tutto l’emiciclo, rivolto a Liliana Segre, che, sopravvissuta alla Shoah, secondo il recente report dell’Osservatorio sull’antisemitismo, riceve una media di 200 insulti a sfondo antisemita al giorno. La mozione prevede che la Commissione sia composta da 25 membri e abbia compiti di osservazione, studio e iniziativa per l’indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base dell’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche. La Commissione avrà anche una funzione propositiva, di stimolo e di impulso, nell’elaborazione e nell’attuazione delle proposte legislative, e promuoverà anche ogni altra iniziativa utile a livello nazionale, sovranazionale e internazionale. Nel mirino ci saranno soprattutto i fenomeni di hate speech, i discorsi d’odio sempre più proliferanti nel web, forme di espressioni che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o più in generale l’intolleranza, ma anche i nazionalismi e gli etnocentrismi, gli abusi e le molestie, gli epiteti, i pregiudizi, gli stereotipi e le ingiurie che stigmatizzano e insultano. Secondo la senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà “la collega Segre è un faro di lucidità, equilibrio, passione per la libertà, l’eguaglianza e il rispetto reciproco. L’istituzione di una Commissione speciale è importante per cominciare a ricucire il tessuto sociale e civile di questo Paese, per ritornare ad un uso responsabile del linguaggio ad ogni livello e soprattutto per imparare a riconoscere la violenza e dunque ad individuare gli strumenti più adeguati a combatterla”. La senatrice del Carroccio Stefania Pucciarelli, annuunciando l’astensione della Lega, nel suo intervento ha spiegato che “non aver voluto trovare punti di condivisione per far nascere la commissione col consenso di tutti è stata un’occasione persa.” Oggi, a un giorno dal voto in Senato, continuano le reazioni all’astensione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia: il Segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin si à detto preoccupato per la mancata convergenza su valori fondamentali; sconcerto è stato anche espresso dal Presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, che ha detto: “La Commissione Segre è un grande risultato istituzionale per il nostro Paese, di grande valore. Certo sconcerta un po’ l’astensione di alcune forze politiche, una scelta che riteniamo sbagliata e pericolosa. In questo momento c’è bisogno di unità e non bisogna lasciare adito ad alcuna ambiguità.” Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi, al Quirinale, in occasione della cerimonia di consegna delle insegne dell’Ordine militare d’Italia, nel giorno dell’Unità nazionale e giornata delle forze armate, ha esortato a “Non abbassare mai la guardia e non sottovalutare tentativi che negano o vogliono riscrivere la storia contro l’evidenza, allo scopo di alimentare egoismi, interessi personali, discriminazioni e odio.”


30 ottobre

PRIMO PIANO

Morte di Al Baghdadi: i retroscena del blitz.

Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 2019 Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’Isis, si è ucciso in Siria durante un blitz delle forze armate Usa nel compound dove si nascondeva. Il raid statunitense, che Donald Trump ha definito “qualcosa di grande”, è durato in tutto due ore ed è iniziato, secondo quanto riporta il Guardian, dopo che un informatore curdo, infiltrato nell’Isis, ha rivelato le indicazioni esatte sul nascondiglio dell’uomo più ricercato dal Pentagono. I curdi “hanno giocato un ruolo chiave nella sua individuazione”, come sottolinea il dipartimento di Stato americano, parlando alla Cnn dell’operazione militare che ha portato alla morte del Califfo. A spiegare all’emittente la strategia dei curdi è Mustafa Bali, portavoce delle forze curde in Siria: le Sdf si sono servite di un loro informatore nell’Isis per localizzare il covo di Al Baghdadi. Non solo: l’informatore ha ottenuto campioni del sangue e un pezzo di biancheria intima del Califfo, che sono poi serviti per confermarne, con l’esame del Dna, l’identità, prima che il raid avesse luogo. I vertici militari americani sono stati “in stretto contatto” con il comandante delle forze curde, il generale Mazloun Abdi. Un’altra figura chiave per la cattura di al Baghdadi è stato il cognato del califfo, che ha portato i funzionari iracheni in un tunnel nel deserto al confine siriano-iracheno, dove sono stati trovati oggetti – tra cui armi, borse e mappe – appartenenti al leader dell’Isis; insieme a una delle mogli e a un nipote di al Baghdadi, a inizio settembre, aveva anche fornito le informazioni necessarie ai curdi e alla CIA per localizzare il Califfo nella provincia di Idlib, in un’area chiamata Jebel al-Druze. Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, alle 23:00 in Siria, le 17:00 alla Casa Bianca, scatta l’operazione seguita nella Situation Room dal presidente statunitense Trump e dai suoi stretti collaboratori. Le forze speciali della Delta Force e dei Ranger entrano nel cuore del compound senza registrare perdite, solo uno dei cani a sostegno della missione rimane ferito. Fra i mezzi a disposizione anche un robot, non usato, portato in via precauzionale nella consapevolezza che al Baghdadi potesse essere imbottito di esplosivo. Nella roccaforte si trovano 11 bambini, che rimangono feriti. Una volta rintracciato, il leader dell’Isis rifiuta la resa e cerca una via di fuga addentrandosi nei tunnel sotterranei. “Scappava ma è finito in un vicolo cieco trascinando con sé tre dei suoi figli”, ha raccontato Trump. A inseguirlo i cani, mentre lui “urlava e piangeva”. Una volta capito che non c’era più scampo, al Baghdadi si è fatto esplodere insieme ai tre figli. Nello scoppio è crollato il tunnel, ma le truppe Usa sono riuscite a mettere le mani sui resti del cadavere e a portare a termine sul posto i primi esami del Dna. Le parole della certezza, arrivano 15 minuti dopo l’esplosione “This is a confirmation, Sir”. I resti raccolti sono quelli di al Baghdadi. I test condotti confermano la sua identità. Nel corso del raid – riferisce il New York Times – vengono arrestate due persone legate al leader dell’Isis. Si trovano al momento in Iraq, dove sono già sottoposte agli interrogatori dei militari americani. I resti di al-Baghdadi sono stati poi dispersi in mare perché non divenissero oggetto di culto. Donald Trump ha detto di aver “visto in diretta” il blitz contro Abu Bakr al Baghdadi nella Situation Room della Casa Bianca, ma rimangono dubbi e lacune nel racconto della cattura e dell’uccisione dell’ex leader dell’Isis. “Con l’uccisione di Al-Baghdadi nella lotta contro lo Stato islamico non cambia nulla, il vero problema restano quelle decine di migliaia di prigionieri dell’Isis che sono detenuti in Siria senza alcun supporto internazionale, anzi con la Turchia che di fatto cerca di farli scappare.” Ha detto Davide Grasso, uno dei giovani italiani che in questi anni hanno combattuto in Siria nelle Ypg. “Al-Baghdadi – ha aggiunto Grasso ad Adnkronos – aveva un ruolo simbolico e la leadership era condivisa tra diverse figure alcune delle quali uccise, altre ancora vive e altre sostituite. Non è dunque l’uccisione di questo personaggio a distruggere l’organizzazione e neppure a diminuirne il morale. È un’organizzazione che si basa su una visione fortemente religiosa e quindi morto un califfo se ne fa un altro, anche se non è dato sapere se avesse già lasciato indicazioni.”


29 ottobre

PRIMO PIANO

La rivoluzione di Internet.

Internet compie 50 anni: era infatti il 29 ottobre del 1969 quando fu effettuata la trasmissione di un primo pacchetto di dati tra due computer, uno all’università di Los Angeles, sotto la supervisione dell’informatico Leonard Kleinrock, e l’altro al Research Institute di Stanford. La rete non si chiamava internet, ma Arpanet, ed era un progetto voluto da un’agenzia del dipartimento della Difesa Usa, l’Arpa (Advanced research projects agency). A far decollare internet è stato, 20 anni dopo, il papà del Web Tim Berners-Lee: nel 1989 presentò un saggio al Cern di Ginevra che rappresentava la base teorica del World wide web, mentre nel 1991 fu online il primo sito web. La nascita della Rete è stata una vera rivoluzione per l’umanità: con la crescita del web e di servizi come la posta elettronica, internet è diventato la rete di telecomunicazioni globale che oggi connette miliardi di persone e oggetti, anche se quasi la metà della popolazione mondiale è ancora tagliata fuori. C’è un elemento importante che ha favorito l’estensione capillare della Rete: la diffusione del computer, che da strumento ingombrante è diventato oggetto di uso domestico, “personal computer” o pc, presente sulle scrivanie degli uffici e sui tavoli delle nostre case. Per ricordare quel 29 ottobre di mezzo secolo fa, che ha cambiato le abitudini dell’umanità ed è stata una vera e propria rivoluzione nella comunicazione, si celebra dal 2005 l’Internet Day, per sottolineare come da allora la tecnologia, grazie alla rete, continui a migliorare la qualità della nostra vita.Tale ricorrenza mira anche ad aumentare la consapevolezza e stimolare il dibattito pubblico sul suo utilizzo. Internet infatti nasce come valore democratico, in grado di fornire, grazie al libero accesso, pari opportunità e stessi vantaggi nella condivisione dei servizi e della conoscenza. A 50 anni di distanza emergono, però, anche i suoi lati negativi: big data e algoritmi usati per scopi commerciali, minacce alla privacy e fake news. E’ importante far conoscere alle giovani generazioni la storia di internet, che da strumento di democrazia ha intrapreso una strada alternativa, quella commerciale, dove i nostri dati diventano merce di scambio e gli algoritmi tracciano tutti i nostri movimenti, le nostre scelte e le decisioni online. Dopo 50 anni, inoltre, internet non è ancora alla portata di tutti, quasi metà della popolazione mondiale è ancora tagliata fuori: secondo l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), alla fine del 2018 gli utenti di internet erano 3,9 miliardi, pari al 51,2% della popolazione mondiale. Dalle nostre scelte dipenderà il futuro della rete e dell’umanità.


28 ottobre

PRIMO PIANO

Elezioni regionali in Umbria: vince il centrodestra con 20 punti di vantaggio

Terminato lo spoglio delle schede, durato tutta la notte, i dati ufficiali attestano la vittoria della candidata del centrodestra Donatella Tesei, con il 57,55%, davanti al rivale Vincenzo Bianconi, candidato dell’alleanza centrosinistra-Ms5, che si è fermato al 37,5%. Il dato assegna per la prima volta una regione dell’Italia centrale storicamente del centrosinistra al centrodestra con Donatella Tesei, che sottolinea: “È un’impresa storica, è importantissima per questa Regione che ha saputo dimostrare una grande forza e determinazione di credere, questa volta, in un progetto di cambiamento.” La nuova governatrice è leghista, è senatrice del Carroccio e presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama, è stata inoltre sindaco di Montefalco dal 2009 al 2019. Questi i risultati per i partiti: Lega (37,0%), Fdi (10,4%), Forza Italia (5,5%), Lista Tesei (3,9%) e Umbria civica (2,1%); Pd (22,3%), M5s (7,4%), Bianconi per l’Umbria (4,0%), Europa verde (1,4%) e Sinistra civica verde (1,6%). Possiamo constatare che il voto ha confermato i sondaggi delle scorse settimane e gli exit poll di domenica notte: il partito di Matteo Salvini è la prima forza in regione con il 36.9%. Fa registrare un exploit anche Fratelli d’Italia, che supera i dieci punti (10,4%) e doppia Forza Italia, ferma al 5,5%. La vittoria leghista riaccende la battaglia interna alla coalizione del centrodestra, con Forza Italia che rischia di subire una diaspora in direzione Meloni da un lato e Renzi dall’altro. D’altro canto la sconfitta del candidato della coalizione di centrosinistra e pentastellati incide sull’alleanza tra Pd e M5s, che ha preso meno della metà dei voti dei dem. Sia i democratici che i grillini non mettono in discussione il governo, ma per le regionali 2020, a cominciare da Emilia Romagna e Calabria, ritengono che l’esperimento non sia da ripetere. Il voto in Umbria è “un test da non trascurare affatto”, ma “noi siamo qui a governare con coraggio e determinazione, il nostro è un progetto riformatore per il Paese. Un test regionale non può incidere, se non avessimo coraggio e lungimiranza sarebbe meglio andare a casa tutti.” ha detto il premier Giuseppe Conte, commentando i risultati, a margine della seconda edizione di “Sindaci d’Italia”, organizzata da Poste Italiane.

DALLA STORIA

Jesus Christ Superstar: Gesù a tempo di rock.

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Quando nell’ottobre 1973 uscì nelle sale il bellissimo e rivoluzionario film musicale americano Jesus Christ Superstar, dove Gesù viene rappresentato in versione rocker, lo sdegno di larghe fasce di conservatori gridarono allo scandalo. I benpensanti ritenevano che quel modo inusuale e “antistorico” di parlarne, profanasse l’immagine sacra del Cristo. Non consideravano che proprio Gesù, nel suo passaggio terreno e con la sua crocefissione è stato l’esempio più radicale e rivoluzionario di tutti i tempi: Colui che ha indicato all’uomo il cammino per diventare libero (dalle menzogne del mondo) e che, certamente, non passa attraverso il pregiudizio e il pensiero reazionario. Gesù, al tempo e al ritmo del rock, come Lo si vede nel film, è un’idea originale, in linea con il linguaggio musicale portabandiera della generazione beat di quegli anni, in piena rivoluzione culturale. Originale anche l’impostazione non convenzionale con cui vengono sviluppati i personaggi e la storia che apre a spunti di riflessione: il conflitto umano e ideologico tra Giuda Iscariota e Gesù come in “Il Paradiso nelle loro menti” cantata da Giuda, la figura di Maria Maddalena rappresentata come palesemente innamorata di Gesù nel brano “Non so amarlo” e alcuni elementi che pur discostandosi dalla tradizione secolare conservano intatto il Suo insegnamento. Tant’è che, malgrado i detrattori, il film ebbe subito un successo planetario. Ancora oggi, lo spettacolo teatrale con cui l’opera esordì nel maggio 1971 continua a essere messa in scena in tutti teatri del mondo. L’album, nato come doppio album, colonna sonora indimenticabile del film continua ad esser richiesto con entusiasmo, quasi come quando uscì la prima volta nel 1970. Infine, il film musicale, nel 1973, resta tra i più significativi sull’argomento e, per coloro che come me che all’epoca erano poco più che ragazzi(e) l’avanguardia di quella espressione cinematografica, innovativa è stata elettrizzante. Una forma d’arte dirompente, rappresentativa per quella generazione che si ispirava alla libertà di espressione, alla solidarietà e all’amore per il diverso. Indimenticabile la scena finale con quelle tre croci sul Calvario nere, così emblematiche, simboli di un Mistero così incisivo per la forza che sprigiona da diventare, ineluttabilmente e sorprendentemente, chiave di vita.   

Ma ecco come ci racconta Jesus Christ Superstar Ernesto Assante, autore del libro “I giorni del rock”, (Gli eventi che hanno fatto la storia della musica), 2016. Edizioni Withe Star:

“Era il 1970 quando arrivò nei negozi di dischi un doppio album, firmato da Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, “Jesus Christ Superstar”, con la voce di Ian Gillan nel ruolo di Gesù. L’album riscosse un clamoroso successo, al punto che nel breve giro di un anno divenne uno spettacolo teatrale che nel 1971 esordì a Broadway e nel 1972 in Europa. Un anno dopo, nelle sale cinematografiche apparve un film destinato a un grande successo e a scatenare un altrettanto ampia serie di polemiche, Jesus Christ Superstar diretto da Norman Jewison. Il disco ha ancora una forza straordinaria, lo spettacolo teatrale che nel 1971 esordì a Broadway e nel 1972 in Europa. Un anno dopo, nelle sale cinematografiche apparve un film destinato a un grande successo e a scatenare un altrettanto ampia serie di polemiche, Jesus Christ Superstar diretto da Norman Jewison. Il disco ha ancora una forza straordinaria, lo spettacolo teatrale viene continuamente riproposto, con cast vecchi  e nuovi, ma gli anni non pesano soprattutto sul film che, pur restando fortemente legato all’epoca in cui fu realizzato (nel pieno dell’esplosione planetaria della cultura hippy, all’indomani della rivoluzione del 1968, in un decennio, gli anni ’70, in cui il livello dello scontro fra generazioni si era fatto ancora più forte e violento del precedente), non ha perso nulla della sua potentissima carica emotiva e, se mi si passa il termine, “rivoluzionaria”. / Jesus Christ Superstar cambiava molte delle regole del cinema musicale, dopo aver rinnovato in maniera drastica anche quelle del musical teatrale, al suo esordio sui palchi del West End londinese. Il film, completamente cantato, senza parti recitate, mette in scena la vita di Gesù come se fosse una rappresentazione fatta da una compagnia di action theatre, giocando costantemente sull’ambiguità fra la messa in scena e la realtà. Le innovazioni sceniche sono dunque molte, l’uso della musica, rigorosamente rock e soul, è diverso anche da quello di altri musical “hippy” come “Hair”, e poi c’è la scelta, fonte di innumerevoli critiche, di rappresentare i discepoli e Gesù stesso come un gruppo di hippies e di raccontare gli ultimi sette giorni di vita del Cristo dalla prospettiva di Giuda, di rappresentare Gesù principalmente come un uomo e di affiancarlo a una Maddalena che è visibilmente innamorata. / Il cuore del successo del film, che conquistò due nomination ai Golden Globe, è proprio nella musica, in una serie di brani che portarono la colonna sonora a vendere più di 7 milioni di copie e a essere, ancora oggi, amatissima dal pubblico. Protagonista della prima versione del musical, quella registrata su disco nel 1970, fu Ian Gillan, il leggendario cantante dei Deep Purple, nei panni di Gesù: “Cantare in Jesus Christ Superstar è stato uno dei momenti più belli e soddisfacenti della mia carriera”, ha detto Gillan, “Webber e Rice avevano ascoltato la mia voce in “Child in time” e mi chiamarono. Andai nell’appartamento di Webber, lui suonò la melodia di “Gethsemane’ al pianoforte e Rice mi diede le parole. Ero molto emozionato, ma tutto andò bene”. Due anni dopo, Norman Jewison pensò di nuovo a lui per la versione cinematografica, ma nel frattempo il successo dei Deep Purple era cresciuto a dismisura e sostenere l’impegno per Gillan fu impossibile. Il ruolo di Gesù, quello che tutti abbiamo conosciuto al cinema, andò a Ted Neeley, che nonostante le molte critiche divenne popolarissimo, proprio per il suo mettere insieme uno stile vocale “hard rock”, con tanto di falsetto, con l’impianto melodico di Webber. Il terzo celebre Gesù del musical fu Jeff Fenholt, che ricoprì per primo il ruolo nella versione teatrale, riscuotendo un grande successo a Broadway. / Jesus Christ Superstar è stato il primo tentativo, molto ben riuscito, di far entrare la controcultura nel mainstream pop, di trasmettere messaggi nuovi, in aperta alternativa alla tradizione religiosa ma in perfetta sintonia con la cultura delle giovani generazioni, utilizzando molti degli strumenti della comunicazione di massa, musica, teatro e cinema. Il film scatenò innumerevoli polemiche al tempo del suo primo arrivo nelle sale cinematografiche: in tutto il mondo, davanti a molti cinema ci furono proteste e incidenti: reazionari, ultracattolici e simpatizzanti di destra si davano convegno davanti alle sale cinematografiche cercando di impedirne la proiezione. Con il passare degli anni; Jesus Christ Superstar è riuscito a conquistare un posto di rilievo non solo nella storia del cinema musicale e nel cuore degli spettatori meno ortodossi e bacchettoni, ma anche in quello del pubblico più religioso, che ha compreso come la lettura di Webber e Rice fosse tutt’altro che blasfema o antisemita. Sta di fatto che Jesus Christ Superstar fu, insieme a “Hair”, un’opera che contribuì in maniera fondamentale al rinnovamento del musical, sia teatrale sia cinematografico, stabilendo dei nuovi standard di realizzazione, molto più liberi e creativi, portando il rock al centro della scena, consentendo a un’intera generazione di riscoprire il musical e il suo linguaggio e aprendo la strada a una nuova schiera di autori in grado di realizzare opere che nei decenni seguenti avrebbero tenuto conto delle innovazioni portate da Jewison al cinema e da Webber e Rice nei teatri. Da quel momento in poi, lo spazio teatrale del rock, divenne il palcoscenico, aprendo la strada a quegli artisti che, come David Bowie, portarono tutto alle estreme e geniale conseguenze”. 

Mary Titton


24 ottobre

DALLA STORIA

24 ottobre 1942: Cristoforo Colombo arriva a Cuba.

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… “In Spagna, grazie alle sue amicizie, Cristoforo Colombo riuscì ad incontrare i Re Cattolici. Ci vollero sette anni affinché la Corona desse il suo assenso al progetto e tutto ciò avvenne solo dopo la caduta del regno di Granata, avvenuta il 3 gennaio 1492, che segnava la fine della “Reconquista”. Il 17 aprile del 1492, a Santa Fè, furono firmati i Capitolati tra i Re Cattolici e Cristoforo Colombo. Ormai il momento della partenza era vicino: il 3 agosto 1492 iniziava la Grande Avventura. In soli sei giorni Colombo giunse in vista delle Canarie e qui avvenne il primo incidente tecnico, si ruppe il timone della Pinta che dovette essere sostituito. Il 6 settembre il carico fu terminato, la velatura rinnovata, il timone rifatto, nulla poteva ora ostacolare l’inizio del “grande” viaggio. Le navi salparono dalla Gomera e l’8 settembre l’Ammiraglio dette ordine di puntare al mare aperto. Il vento di nord-est continuò a spirare con forza e all’alba di domenica, 9 settembre, scomparve anche l’ultimo lembo di terra dell’isola del Ferro, che per centinaia d’anni cosmografi e cartografi avevano preso e continueranno a prendere come inizio della graduazione della longitudine. Da quel momento le tre piccole navi rimasero sole in balia del vento e del mare, di quel mare chiamato Mar Tenebroso. Il 16 settembre l’Ammiraglio  iniziò a descrivere il suo incontro con uno strano mare d’erba, che variava di giorno in giorno aspetto e che egli chiamava di volta in volta chiazza, erbe folte, molta erba, mare d’erba: si trattava del Mar dei Sargassi; una delle tante novità descritte dal Genovese nel suo Giornale di bordo. Fu la prima volta nella storia della navigazione che un equipaggio riuscì a passare al di là e a darne notizia. Osservando in continuazione la bussola con l’andamento delle stelle, Colombo notò che l’ago deviava stranamente rispetto a quanto succedeva nel Mediterraneo e nella navigazione atlantica costiera, diceva che gli aghi “gregheggiavano”, ossia invece che indicare la stella polare, ruotavano verso nord-est. Era la prima volta che il fenomeno della declinazione magnetica occidentale veniva indicato in modo così minuzioso, così come quello tramandato da Colombo. Il 7 ottobre l’ammiraglio ordinò un cambio di rotta, con indicazione sud-est e, nella notte tra l’11 e il 12 ottobre, annotava sul Giornale di bordo alcuni indizi che facevano supporre la presenza della terra. Alle due di notte del 12 ottobre Juan Rodriguez di Triana, dal castello di prua della Pinta, dette l’annuncio dell’avvistamento della terra. Una piccola, sottile striscia bianca si allungava all’orizzonte, quasi iridiscente alla luce dell’ultimo quarto di una luna tropicale. Fu il primo vero impatto degli uomini della vecchia Europa con il paesaggio del Nuovo Mondo. Colombo notò anche altre cose che sfuggirono ai capitani delle due caravelle, tra esse la barriera corallina. Non l’aveva mai vista, ma capì immediatamente che poteva costituire un pericolo, per questo ordinò alle navi di gettare l’ancora e, malgrado l’impazienza di scendere a terra, attese il sorgere del sole prima di proseguire verso la favolosa India, dove credeva di essere giunto. All’alba Colombo ordinò di superare con le scialuppe la barriera corallina e, con l’equipaggio, scese a terra. Stupenda gli dovette sembrare in quel terso mattino d’ottobre la spiaggia dell’isola di Guanahani, con la folta vegetazione che si stagliava contro l’azzurro del cielo, la sabbia bianca, formata non dalla dissoluzione della roccia, come nel Mediterraneo e nell’Atlantico orientale, ma dalla decomposizione dei microrganismi che formano la barriera. Guanahani era di fatto San Salvador. L’Ammiraglio sbarcato su questa nuova terra ne prese immediatamente possesso, in nome dei Re Cattolici, davanti ai suoi uomini e al notaio della flotta e davanti ad una folla d’indigeni. Dal 15 ottobre Colombo e i suoi esplorarono quel mare sconosciuto e scoprirono numerosi arcipelaghi: Bahamas, Turks, Caicos, fino a quando, il 24 ottobre, le tre navi giunsero in vista dell’isola di Cuba, presso il Cayo Moa Grande. Iniziò quindi il periplo di parte dell’isola che lo stesso ammiraglio nominerà nei suoi scritti come la “Tierra mas Hermosa” … L’incontro con Cuba sarà determinante perché sarà proprio in quest’isola che prenderà contezza di tutte le novità vegetali e animali, che risulteranno veramente essere la rivoluzione delle “cose nove” americane. Il 6 dicembre, avendo lasciato l’isola di Cuba, Colombo giunse in vista di Haiti, battezzata col nome di Hispaniola. Nella notte del 24 dicembre del 1492 la nave andò a sbattere sulla barriera corallina dove avvenne il naufragio che portò alla costruzione del primo insediamento europeo in America: il forte della Navidad”. … (Simonetta Conti, geografa).

Tratto da “Civiltà del Mare. La Grande Storia della Marineria Italiana”. Progetto Editoriale Editions

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Mary Titton


23 ottobre

PRIMO PIANO

Ricostruito per la prima volta un orecchio in 3D all’ospedale Meyer di Firenze.

All’ospedale Meyer di Firenze è stato ricostruito ex novo un orecchio a un bambino grazie alla stampa in 3D. Il ragazzo, 13enne, è nato senza entrambi i padiglioni auricolari a causa della microtia, una malformazione congenita rara, nel suo caso bilaterale, che colpisce 5 bambini su 10.000 e porta a un’assenza di sviluppo dell’orecchio esterno, il padiglione auricolare. Nell’intervento, spiega il Meyer, la forma esatta delle cartilagini del bambino con le quali ricostruire l’orecchio è stata acquisita mediante Tac, poi, grazie ad un software di ultima generazione, è stata stampata in 3D una copia delle cartilagini. Da questo modello tridimensionale si è potuta vedere al millimetro la porzione di cartilagini da prelevare dalle costole del ragazzo. Inoltre, per definire con la massima precisione che forma avrebbe avuto un orecchio “naturale” del bambino, è stato preso a modello un orecchio della sua mamma. Numerose sono state le simulazioni fatte dai chirurghi prima di procedere all’intervento vero e proprio in sala operatoria. Si tratta, sottolinea ancora il Meyer, del primo intervento in Italia che si avvale della tecnologia 3D: col team di chirurghi dell’ospedale pediatrico fiorentino, guidati dal dottor Flavio Facchini, in sala erano presenti alcuni ingegneri del laboratorio T3Ddy. Il risultato eccellente è stato conseguito grazie alla collaborazione fra il Meyer e il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Firenze, che si pone l’obiettivo di applicare tecnologie 3D altamente innovative nella pratica clinica. L’orecchio è stato stampato in tutte le sue parti e, una volta in sala, è stato fondamentale per plasmare le cartilagini ottenendo un orecchio esteticamente uguale a quello vero. Grazie alla tecnologia utilizzata, le stampe 3D dell’orecchio e delle cartilagini, prima di arrivare in sala operatoria l’intero intervento è stato simulato più volte dal team dell’ospedale pediatrico fiorentino: questo ha consentito di affinare la tecnica, arrivando a un risultato di grande precisione, riducendo anche i tempi di esecuzione (6 ore) e la relativa anestesia. Lapo (nome di fantasia), tra qualche mese, verrà sottoposto ad un secondo intervento per ricostruire con la stessa tecnica anche il secondo orecchio. “Per un bambino con una malformazione che era così evidente, il recupero estetico acquista una grande valenza psicologica e sociale – commenta il capo dell’equipe chirurgica, Flavio Facchini, specialista in Chirurgia Plastica e Ricostruttiva – lui non aveva problemi di udito, ma la malformazione gli creava grande disagio”.


22 ottobre

PRIMO PIANO

Oslo: attentato con ambulanza, 5 feriti.

Stamattina nel distretto di Torshovun, quartiere residenziale nella parte nord di Oslo, un uomo di nazionalità norvegese di 32 anni con una donna di 25 anni ha rubato un’ambulanza e si è lanciato sulla folla ferendo diverse persone. Nell’ambulanza, oltre al fucile da caccia usato per dirottarla, a una pistola e a una mitragliatrice, sono stati trovati grandi quantitativi di droghe. Secondo quanto riportato dai media locali, che citano fonti mediche e della polizia, le persone travolte sono una coppia di anziani ed una donna che spingeva il passeggino con due gemelli di sette mesi. Dei due bambini uno sarebbe rimasto leggermente ferito, mentre dell’altro non si conoscono le condizioni. Entrambi, con la donna che era con loro, sono stati portati in ospedale. Sul posto sono arrivati molti agenti armati e un elicottero. La polizia ha aperto il fuoco, riuscendo a bloccare l’uomo e ad arrestarlo, mentre la giovane donna in un primo tempo sarebbe riuscita a fuggire, per poi essere arrestata dopo alcune ore in un negozio della città. Non sono ancora chiari i motivi del folle gesto: la polizia norvegese ha dichiarato di “non avere al momento informazioni sul fatto che l’incidente a Oslo sia legato al terrorismo”. L’uomo e la donna arrestati, entrambi di nazionalità norvegese, già noti alle forze dell’ordine, sarebbero vicini ad ambienti di estrema destra. Il 32enne è un ex funzionario di polizia legato a un gruppo neonazista, “Movimento di resistenza nordica”. L’uomo vive nella zona di Oslo ed è stato più volte condannato per reati che vanno dalle minacce alle rapine e sono legati all’uso di armi da fuoco e droghe. Alcuni testimoni lo hanno visto scendere da un’auto, che poi si è allontanata, con un grande sacco blu, e poi impossessarsi di un’ambulanza. Nel marzo 2017 fu arrestato al termine di un lungo negoziato e imprigionato per un mese, dopo essersi barricato in una abitazione ad Asker al termine di un inseguimento, scatenatosi per un mancato stop a un controllo. Nell’abitazione fu trovata una bomba antincendio. In passato era stato sottoposto a un programma di disintossicazione da stupefacenti e condannato diverse volte. Aveva iniziato la formazione per operatore ambientale o sanitario. È presente sui social, dove afferma di avere un figlio piccolo. La complice viene descritta come una giovane donna di 25 anni, alta un metro e 65, dai capelli castani e probabilmente ubriaca, come hanno riferito alcuni media norvegesi.

DALLA STORIA

Robert Rauschenberg.  (Uno dei più grandi artisti sperimentatori del secolo).

“La pittura è in rapporto sia con l’arte che con la vita. Nessuna delle due può essere costruita. Io tento di operare nello spazio che c’è tra le due”.

image001(Robert Rauschenberg, 1966 by Denis Hopper)

L’artista statunitense Robert Rauschenberg (pseudonimo di Milton Ernest Rauschenberg) nato il 22 ottobre 1925, in Texas, era di origini multietniche: il padre era di discendenza tedesca e indiana Cherokee mentre la madre era anglosassone. Rauschenberg, con le sue opere, ha incarnato lo spirito della sua epoca, quello dell’arte contemporanea. Già nei primi anni Quaranta, si posero le premesse per un fenomeno assolutamente nuovo: lo spostamento del centro artistico mondiale da Parigi a New York e in generale dalla vecchia e tradizionale Europa ai giovani Stati Uniti. Questo nuovo linguaggio artistico contemporaneo che si esprime attraverso una serie di movimenti in divenire, si propone in contesti e momenti eterogenei: sicuramente le gallerie e i musei, ma anche nelle strade, davanti agli occhi dei passanti o persino attraverso il corpo. Si manifesta su tele ma anche con il metallo e con la carta, con il legno e, perché no, con gli stracci o ancora, semplicemente attraverso l’azione, il movimento. Il lavoro di Rauschenberg è contemporaneo a quello di Andy Warhol, “Sono nel presente. Cerco di celebrare il presente”. “Contro la finitezza formale dell’oggetto mercificato dell’arte Pop, Rauschenberg propone l’oggetto vissuto e di scarto, vecchie cianfrusaglie che non trovano posto nel mondo dei consumi, quale veicolo interpretativo, in chiave ironica e dadaista, della realtà”. Insieme a Jasper Johns (artista “Neo Dadaista” che riprese il messaggio di Marcel Duchamp del ruolo dell’osservatore in grado di modificare il significato dell’arte) che lo definì “l’uomo che più ha inventato in questo secolo dopo Picasso”, Rauschenberg è considerato come un importante precursore della Pop Art, anche se non vi aderì realmente innescando invece una inedita corrispondenza con l’espressionismo astratto. Questa corrente artistica, il cui termine venne proposto dal critico Robert Coates nel 1944, “designa una tendenza che unisce un gruppo piuttosto eterogeneo di artisti che hanno come comun denominatore da un lato la contrapposizione al realismo con istanze sociali molto sentite negli anni Trenta e, dall’altro, la progressiva emancipazione al realismo influenzato dalle avanguardie europee”. Lo spostamento della leaderschip da Parigi a New York (che si definisce chiaramente alla fine degli anni Cinquanta) è determinato anche dall’emigrazione durante la guerra di un gran numero di intellettuali, letterati e artisti europei (soprattutto astrattisti e surrealisti) che danno vita a un ambiente culturale fondamentale per la nascita della nuova avanguardia americana. Il commento di Rauschenberg riguardante il “vuoto creato fra arte e vita” può essere visto come un’affermazione che fornisce un punto di partenza per una comprensione come artista. In particolare la sua serie di opere che aveva chiamato “Combines paintings”, termine che definisce un nuovo genere artistico, servono come esempi per mostrare che i confini delineati fra arte e scultura possono essere spezzati, così che entrambi possono essere presenti in una singola opera d’arte. I “Combines” vennero realizzati da Rauschenberg tra il 1954 e il 1962, ma l’artista aveva iniziato a lavorare con i collage di carta di giornale e materiali fotografici con l’impeto di combinare, sia i materiali da pittura, che oggetti di tutti i giorni, come l’abbigliamento, rottami urbani e animali tassidermici, impeto che si concretizza nell’opera, “Monogram”. Continuò con questa tecnica, dall’aspetto provocatorio, per tutta la sua vita artistica.

image002(Robert Rauschenberg. “Monogram”, 1955-1959. Olio su tavola, capra impagliata, pneumatico, materiali di recupero)

“Quest’opera è uno dei più famosi combine-paintings di Rauschenberg: sulla tela, stesa orizzontalmente e dipinta secondo metodi ancora legati all’Espressionismo Astratto, campeggia una capra impagliata, memoria di una capretta posseduta dall’artista da bambino. Il suo corpo è stato infilato in un copertone, proprio come negli antichi monogrammi una lettera veniva intrecciata all’altra. Dal punto di vista tecnico si tratta di un assemblaggio di disegni, fotografie istantanee e oggetti recuperati che prendono ispirazione dal sovrapporsi, nel nostro campo visivo e nella nostra memoria, di informazioni di ogni tipo, senza che venga rispettata alcuna gerarchia tra i messaggi culturalmente elevati e quelli più comuni. L’uso disinvolto e innovativo dei materiali poveri deriva dall’Informale europeo di matrice materica, in particolare dalle opere di Burri, ma con un’insistenza maggiore sull’indissolubile legame tra l’arte e la vita vera, semplice e quotidiana. È l’Uomo il protagonista della società dei consumi. La potenza espressiva di questo modo di dipingere di ascendenza gestuale viene enfatizzata dal rapporto stridente con la presenza fisica, concreta dell’oggetto: prelevare un oggetto dal reale per tradurlo in un’altra dimensione, quella dell’arte. Rauschenberg fa arte con la realtà, annullando ogni illusione virtuale e, in tal modo, rinnova il linguaggio artistico non tanto dimenticando le vecchie leggi della tradizione, ma sovvertendole. Come un letto può essere appeso in verticale (Bed, 1955), così un quadro può essere posto sul piano orizzontale”.

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Il critico d’arte Leo Steinberg chiarì la portata innovativa della serie “Combine paintings”: “Monogram supera il concetto di piano pittorico della tradizione artistica. L’assemblaggio non è più solo l’estensione dello spazio dell’osservatore ma diventa una nuova realtà. Il piano sul quale è composta l’opera diventa quindi una superficie percettiva sulla quale sono sparpagliati dati visivi e oggettuali. Monogram è posato al suolo quindi il visitatore è libero di osservare l’opera in ogni sua parte”.

“In “Monogram” la tecnica del collage esplode, si appropria della tridimensionalità fino a rendere difficile o forse addirittura impossibile stabilire se si tratti di un quadro o di una scultura. Nelle opere di Rauschenberg la sfera dell’esperienza personale è messa in rapporto con i simboli e gli oggetti della società dei consumi e dei rifiuti, icone del tempo o immagini della nostra memoria.” (Da “Arte contemporanea”. Ed. Electa)

image003(Bed, 1955)

“Desidero integrare nella mia tela qualsiasi oggetto legato alla vita”(Rauschenberg). Anche se Rauschenberg non aderisce totalmente al nuovo movimento Pop (infatti è definito New Dada piuttosto che Pop) sente il bisogno di porre al centro dell’attenzione il suo letto, un comunissimo letto, con coperte, lenzuola, cuscino, come farà poi con la sua sedia.

image004(Retroactivo II, 1963)

image005(Pilgrim, 1960)

Mary Titton


21 ottobre

PRIMO PIANO

L’Uomo Vitruviano di Leonardo è al Louvre.

Lo “Studio di proporzioni del corpo umano”, meglio noto come “Uomo Vitruviano” di Leonardo, è giunto a Parigi per essere esposto al Louvre in occasione della mostra-evento per il cinquecentenario della morte dell’artista, avvenuta proprio in Francia, ad Amboise. Il Tar del Veneto ha respinto il ricorso di Italia nostra che aveva contestato la decisione sul prestito al Louvre del capolavoro, ponendo fine a una polemica che negli scorsi mesi aveva acceso l’opinione pubblica, divisa tra chi sosteneva che un’opera così fragile non poteva essere spostata e chi, invece, non vedeva nessun problema nel prestito. Le motivazioni alla base del ricorso erano che l’opera fa parte del fondo identitario delle Gallerie dell’Accademia e quindi, come prevede l’articolo 66 del Codice dei Beni culturali, non può essere spostata all’estero e poi che il disegno, stando a una perizia realizzata l’anno scorso dal Gabinetto dei disegni delle Gallerie dell’Accademia, non poteva affrontare un viaggio così rischioso, sia per la fragilità della carta, sia per il pericolo a cui sarebbe stato esposto. Essendo però l’opera stata acquisita nel 1822 dal collezionista milanese Giuseppe Bossi e non essendo mai stata esposta in maniera continuativa, il disegno non possiede carattere identitario rispetto alla città di Venezia, ma solo pertinenziale. Secondo i giudici amministrativi: “le criticità possono considerarsi risolvibili con precise cautele sulla movimentazione, sulla riduzione del numero di giorni di esposizione e con condizioni di illuminamento limitate a 25 lux”. L’Uomo Vitruviano è un disegno a penna e inchiostro su carta (34×24 cm) di Leonardo da Vinci, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano, dimostra come esso possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure “perfette” del cerchio, che rappresenta il Cielo, la perfezione divina, e del quadrato, che simboleggia la Terra. L’opera viene attribuita al periodo in cui Leonardo, in viaggio per Pavia (dal 21 giugno 1490), ebbe modo di conoscere Francesco di Giorgio Martini, che lo rese partecipe del suo Trattato di architettura e della lezione di Vitruvio del cui trattato “De architectura” Martini aveva iniziato a tradurre alcune parti. Leonardo si definiva “omo senza lettere” (uomo senza cultura), poiché non aveva avuto un’educazione che gli permettesse di comprendere il testo latino, per questo la rielaborazione in volgare dei concetti vitruviani fu per lui molto utile, come risulta anche dal cosiddetto Manoscritto B (Parigi, Institut de France), dedicato all’urbanistica e all’architettura religiosa e militare. A seguito del rigetto del ricorso non solo l’opera di Leonardo andrà in Francia, ma il prossimo anno, per i 500 anni di Raffaello, la Francia presterà per la mostra alle Scuderie del Quirinale due dipinti famosissimi del pittore, il Ritratto di Baldassarre e l’Autoritratto con un amico, confermando così la serenità dei rapporti culturali tra i due Paesi.


17 ottobre

PRIMO PIANO

Barcellona: ancora scontri tra polizia e manifestanti catalani.

barcellona

In Catalogna, in particolare a Barcellona e a Girona, è stata la terza notte di scontri con la polizia dopo la condanna al carcere dei leader separatisti. Le proteste sono iniziate lunedì dopo che la massima autorità giudiziaria di Madrid ha inflitto, con l’accusa di sedizione, pene detentive che variano dai nove ai tredici anni a nove ex leader catalani per il loro ruolo nell’organizzazione del referendum per l’indipendenza del 2017. Tra questi il vicepremier Oriol Junqueras, condannato a 13 anni, la ex speaker del Parlamento catalano Carmen Forcadell, Jordi Sanchez, Jordi Cuixart, gli ex ministri Dolors Bassa, Joaquim Forn, Raul Romeva, Jordi Turull e Josep Rull. Gli altri tre imputati, a piede libero, Carles Mundó, Meritxell Borras e Santi Vila, sono stati condannati a delle ammende per il solo reato di disobbedienza. A nessuno è stato imputato il reato più grave di ribellione, per il quale l’accusa aveva chiesto 25 anni. I catalani, infuriati per la condanna dei leader separatisti, si sono scontrati con la polizia a Barcellona all’esterno del ministero degli Interni della regione, hanno eretto barricate in strada, dato fuoco ad alcune auto e lanciato oggetti contro gli agenti che hanno risposto con cariche e lancio di lacrimogeni. È di almeno 80 feriti, tra cui 46 poliziotti, il bilancio degli scontri nella notte più violenta da quando sono cominciate le proteste: la polizia ha arrestato 33 persone. Le forze dell’ordine hanno usato manganelli per respingere la folla inferocita, come hanno mostrato le immagini trasmesse dal canale allnews 24. Migliaia di altre persone si sono riunite nella strada principale della capitale per una manifestazione pacifica: hanno lanciato rotoli di carta igienica in aria come segnale che nella regione “tante cose devono essere pulite”. Sono aumentate le richieste di dimissioni del responsabile degli Interni catalano, Miquel Buch, che ha condannato i manifestanti e difeso le azioni della polizia. Le manifestazioni non si sono fermate con il sorgere del nuovo giorno e i dimostranti hanno bloccato numerose strade in tutta la Catalogna, inclusa l’autostrada verso la Francia. Il premier spagnolo ad interim Pedro Sanchez presiederà una riunione con esperti del ministero dell’Interno ed altri ministeri sulla sicurezza. Oriol Junqueras, ex vicepremier del governo della Catalogna e fra i leader indipendentisti condannati per il tentativo di secessione nel 2017, ha lanciato un appello via Twitter: “Dobbiamo restare mobilitati ma respingendo la violenza da qualunque parte essa provenga”. Anche Carles Puigdemont, ex presidente della Catalogna, fuggito in Belgio dopo il tentativo di secessione dalla Spagna nel 2017 e ora destinatario di un mandato d’arresto internazionale con le accuse di sedizione e appropriazione indebita, le stesse che hanno portato alla condanna degli altri leader, ha scritto sempre su Twitter: “Non abbiamo bisogno della violenza per vincere, è lo Stato che ne ha bisogno per sconfiggerci. Mobilitazione e non violenza”. “Non ci sono giustificazioni per bruciare le auto né per qualsiasi atto di vandalismo. La protesta deve sempre essere pacifica”, ha detto poi il presidente del governo catalano Quim Torra. “Non possiamo permettere che un gruppo di infiltrati danneggino l’immagine dell’indipendentismo”, ha aggiunto attribuendo la responsabilità delle violenze a gruppi estranei.


16 ottobre

PRIMO PIANO

Giornata mondiale dell’alimentazione 2019: “Un’alimentazione sana per un mondo #FameZero”.

Il 16 ottobre ricorre la Giornata mondiale dell’alimentazione e in questo giorno, data dell’anniversario della sua fondazione, la Fao, istituita a Québec city in Canada nel 1945, ha lanciato il rapporto 2019 sullo “Stato del cibo e dell’agricoltura”, un documento di 182 pagine, che mette in evidenza quanto ancora oggi siamo scarsamente informati sulle perdite di cibo lungo l’intera catena alimentare, sul perché e come queste avvengano. Sulla terra è presente una quantità di cibo sufficiente a sfamare tutta la popolazione mondiale, eppure, come ha evidenziato la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura), mentre più di 820 milioni di persone nel mondo soffrono la fame, un terzo del cibo prodotto ogni anno viene buttato nella spazzatura, senza arrivare sulla tavola. Lo spreco alimentare è una crudele violazione del diritto al cibo, che, inserito nel primo paragrafo dell’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, come tale va garantito a tutti, in qualunque parte del mondo. Il diritto al cibo, ricorda infatti l’organizzazione dell’Onu, è presente nelle carte costituzionali di oltre 20 paesi e circa 145 stati hanno ratificato il Patto Internazionale sui Diritti economici, sociali e culturali del 1966. La lotta allo spreco è uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (adottati nel 2015), che punta a dimezzare le perdite alimentari globali a tutti i livelli entro il 2030. Buttare il cibo nei rifiuti significa spreco di risorse, come l’acqua e i terreni destinati alle coltivazioni; significa perdite di denaro; comporta un forte impatto ambientale (il cibo buttato in un anno è responsabile dell’8% delle emissioni di gas serra). Il rapporto della Fao spiega che lo spreco avviene a tutti i livelli e in tutte le fasi del processo alla base di un prodotto alimentare: nella fase di produzione (agricoltura, allevamento, raccolta) e di prima trasformazione gli sprechi sono spesso legati all’incapacità di ottimizzare il lavoro nei terreni agricoli, alla carenza di infrastrutture, ai problemi nel trasporto; nella fase di distribuzione lo spreco riguarda soprattutto la lavorazione industriale ed è legato a fattori come la necessità che un prodotto soddisfi certi criteri estetici; ma è nella fase del consumo, sia quello domestico sia della ristorazione, che si producono i maggiori sprechi, spesso legati a un comportamento non corretto, all’ignoranza dei sistemi di conservazione, alla scarsa attenzione alle etichette e alle scadenze, ad acquisti che superano il reale bisogno quotidiano. Stando sia al rapporto della Fao, sia a un recente studio del World Resources Institute, centro di ricerca con sede a Washington, le perdite variano parecchio a seconda non solo dei prodotti, ma anche delle parti del mondo. Gli sprechi nella fase del consumo avvengono quasi esclusivamente nei paesi più ricchi, mentre le perdite durante la fase produttiva e della distribuzione sono più elevate nelle aree più povere del pianeta. A livello generale, per quanto riguarda gli alimenti, gli sprechi di frutta e verdura sono più elevati rispetto a quelli di cereali e legumi. Gli italiani sembrano mostrarsi sempre più sensibili al problema. Sempre secondo Waste Watcher (indagine del 2018), nove italiani su dieci sono consapevoli del danno economico e ammettono di sentirsi in colpa per il cibo sprecato. Per quattro italiani su cinque buttare cibo ancora commestibile è un’assurdità. Quattro su dieci dichiarano di avere ridotto i loro sprechi nell’ultimo anno con dei semplici accorgimenti, come controllare cosa serve davvero in casa prima di fare la spesa o congelare gli alimenti. Mangiare evitando o riducendo gli sprechi è una questione di giustizia. L’appello della Fao è che tutti abbiano accesso a diete sane e sostenibili e che ognuno di noi inizi a riflettere su quello che mangia. Anche papa Francesco ha inviato un messaggio alla Fao evidenziando come sia necessario un ritorno alla semplicità e alla sobrietà negli stili di vita per coltivare un rapporto sano con noi stessi, i fratelli e l’ambiente: “È crudele, ingiusto e paradossale che, al giorno d’oggi, ci sia cibo per tutti e, tuttavia, non tutti possano accedervi; o che vi siano regioni del mondo in cui il cibo viene sprecato, si butta via, si consuma in eccesso o viene destinato ad altri scopi che non sono alimentari.”

DALLA STORIA

16 ottobre 1943: la deportazione degli ebrei di Roma

“Vi fu antisemitismo di Stato e non di popolo”. (Elio Toaff, già Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma)

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La “soluzione finale” per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l’ordine da Berlino di “trasferire in Germania” e “liquidare” tutti gli ebrei mediante un’azione di sorpresa”. Il telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razzali, gli ebrei a Roma non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è “città aperta”, e poi c’è il Papa, sotto l’ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza. Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell’Europa dell’est sono ancora scarse e imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di consegnare 50 chili d’oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso, nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l’ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno stanno già organizzando il bliz del 16 ottobre.

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Sergio Lepri, giornalista e direttore per un trentennio all’Agenzia stampa “Ansa”, racconta quell’inconcepibile giorno: “Il 16 ottobre 1943 era sabato mattina, festa del Succot. Il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte, portavano un bigliettino. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete essere pronti in venti minuti, portare cibo per otto giorni, soldi e preziosi; via anche i malati, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermeria”. Così Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ricorderà questa mattina. La grande razzia comincia intorno alle 5,30. Vi prendono parte oltre duecento SS (questo è il racconto di un altro sopravvissuto) che si sono irradiati nelle ventisei zone in cui è stata divisa per catturare, casa per casa, gli ebrei che abitano fuori del vecchio Ghetto; ma l’antico quartiere ebraico è l’epicentro di tutta l’operazione. Le SS entrano di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Tutte le persone prelevate vengono raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati sono adulti, spesso anziani, ma ci sono anche ragazzi e bambini. Non viene fatta nessuna eccezione, né per le persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che hanno ancora i piccoli al seno. … L’azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione. “I tedeschi bussavano” racconta Giacomo Debenedetti “e poi, se non avevano ricevuto risposta, sfondavano le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola”. “Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria” scriverà Settimia Spizzichino nel suo libro “Gli anni rubati”. “I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi, mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di regina Coeli. Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? “Campo di concentramento” allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il lager”.

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Arminio Wachberg, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz, ricorda che il comandante delle SS, Herbert Kappler, gli ordinò di salire su un tavolo e, visto che conosceva il tedesco, di tradurre agli ebrei ammassati nel locale queste parole: “Voi partirete per un campo di lavoro in Germania. Gli uomini lavoreranno, le donne baderanno ai bambini e si occuperanno delle faccende di casa. Ma ciò che avete portato con voi, i soldi ed i preziosi, potrà servire a migliorare la vostra situazione. Comincerete col consegnare all’amministrazione, che si occuperà delle vostre sostanze, tutto il denaro ed i gioielli. Se qualche ebreo cercasse di nasconderli sarà passato per le armi. Mettete, dunque, nella manodestra i preziosi e nella sinistra i soldi: passerete in fila e mi consegnerete tutto”. Di fianco a Kappler fu posta una cassa in cui egli deponeva il bottino, “ma quando vedeva un bel gioiello, se lo metteva semplicemente in tasca”. … Alle 14 la grande razzia è terminata. I sequestrati sono 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini. Dopo un esame rigoroso delle carte d’identità e di altri documenti, vengono liberati coniugi e figli di matrimonio misto, coinquilini e personale di servizio che si trovavano nelle case al momento della retata; sono 235 persone. … Nella notte una donna di 23 anni, Marcella Perugia sposata Di Veroli, al nono mese di gravidanza, comincerà ad avere le doglie e partorirà sotto il porticato del Collegio: una bimba, che si aggiungerà ai due fratellini di cinque e sei anni (nessuno tornerà; il marito, Cesare Di Veroli, è riuscito a sfuggire alla retata). Fra due giorni, lunedì 18, all’alba, i prigionieri saranno fatti salire su autocarri e condotti allo scalo merci della stazione di Roma-Tiburtina, dove verranno caricati su un convoglio di 18 carri bestiame (65-75 su ogni carro). Il treno per tutta la mattina rimarrà su un binario morto e una ventina di tedeschi armati impediranno a chiunque di avvicinarsi. Dalla stazione Tiburtina il treno dei deportati si muoverà alle 14. Venerdì 22, dopo sei giorni e sei notti, arriverà ad Auschwitz-Birkenau, vicino a Cracovia. In data 23, nel registro del lager verrà redatta questa nota: “Trasporto di ebrei da Roma. Dopo la selezione, 149 uomini registrati con i numeri 158451-158639 e 47 donne registrate con i numeri 66172-66216 sono stati ammessi nel campo di detenzione. Gli altri sono stati gassati. Di 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne torneranno soltanto 16, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino; 24 anni, trenta chili di peso. Non tornerà nessuno dei 207 bambini; 208 col neonato”.

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Mary Titton


15 ottobre

DALLA STORIA

Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio.

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Il 15 ottobre del 1970, nel manicomio di Pozzuoli, moriva Leonarda Cianciulli, serial killer italiana nota come la “saponificatrice di Correggio”. La Cianciulli fu così soprannominata perché confessò di aver ucciso tre donne con un colpo di scure alla nuca, di aver fatto poi bollire i loro corpi nella soda caustica e di aver quindi confezionato saponette con l’allume di rocca e la pece greca; di aver gettato poi i resti nel pozzo e usato il sangue delle vittime insieme a latte e cioccolato per farne dei biscotti per i figli, con la convinzione di salvarli dalla morte. Alle vittime Leonarda prendeva quanto avevano indosso, poi gli abiti e i mobili e rivendeva tutto. Clamoroso fu il processo perché l’autrice di questi macabri fatti descrisse con calma, quasi con entusiasmo, la sua abilità nel sezionare i cadaveri, bollirli, trasformarli, fare torte straordinarie. Tommaso Besozzi, il grande cronista e storica firma de “L’Europeo”, ne raccontò le fasi nel 1946, a circa sei anni dagli efferati omicidi, in un articolo pubblicato sul n° 26 del settimanale a pag. 3: Il processo della “saponficatrice di Correggio” si svolge davanti a un pubblico numeroso, ma non eccessivo. Il primo giorno, in fondo alla grande aula della Assise di Reggio Emilia, c’era persino un piccolo spazio vuoto e i carabinieri messi di guardia all’ingresso potevano di tanto in tanto fare due passi in punta di piedi, per sgranchirsi le gambe. Ma non è che il processo si svolga in un’atmosfera d’indifferenza. Anzi, si può dire che rare volte una vicenda giudiziaria abbia suscitato un interesse così vivo e appassionato. Se, lavorando pazientemente di gomiti, vi accorgereste che non in tutti quei crocchi, stretti spalla a spalla, si parla di grano o di formaggio o di vacche da latte. Molti discutono, con tutto il calore che gli emiliani sanno mettere nelle loro discussioni, di Leonarda Cianciulli, del figlio Giuseppe, del cascinaio Abelardo Spinabelli e del prete di San Giorgio don Adelmo Frattini. Discutono, anzi, di preferenza attorno ai due ultimi personaggi e questa è proprio la ragione che spiega il relativamente scarso affollamento dell’aula giudiziaria. Nel processo di Reggio, Abelardo e Adelmo sono figure di secondo piano mentre una grossa parte dell’opinione pubblica li considera tra gli attori principali. A Correggio, per non uscire dall’atmosfera di stregoneria nella quale si muovono le figure di questa orribile storia, si dice chiaramente che il processo della “saponificatrice” è stato “affatturato”. Ed in realtà la stessa ricostruzione dei delitti fatta in un primo tempo dalla polizia dava ad Abelardo e ad Adelmo un ruolo molto importante. Poi, nel corso della lunga istruttoria, il numero degli imputati si ridusse a due: Leonarda Cianciulli ed il figlio maggiore, Giuseppe. Il che, effettivamente, non convince nessuno. I delitti che formano la materia del processo di Reggio Emilia sono avvenuti circa sei anni fa, tra il novembre 1939 ed il dicembre 1940. Parecchi anni prima l’impiegato dell’ufficio del Registro Raffaele Pansardi era stato trasferito a Correggio ed aveva affittato un appartamento al terzo piano di una vecchia casa, in via Cavour 11/A, abitava con la moglie Leonarda Cianciulli e con i quattro figli. Venivano da Laurana ed avevano perduto tutti i loro averi nel terremoto della Marsica. Raffaele Pansardi fumava allora tre sigarette popolari al giorno (c’è una testimonianza che lo precisa), dormiva su un materasso disteso a terra ed i suoi figli giravano per Correggio infagottati nei vecchi abiti regalati dai vicini. La loro miseria era commovente e tutti si erano mostrati larghi di aiuti verso i “terremotati”. Poi, con il denaro riscosso a risarcimento dei danni, Raffaele Pansardi acquistò i mobili più necessari; Leonarda Cianciulli, dal canto suo, iniziò un commercio di roba usata; ebbe fortuna, le condizioni di vita della famiglia Pansardi migliorarono rapidamente. Nei suoi traffici la Cianciulli si dimostrò abile, intelligente, piena di iniziativa. Era una donna strana; talvolta il suo modo di agire faceva nascere il sospetto che non tutte le sue facoltà fossero normali; a nessuno, tuttavia, riusciva antipatica. Sulla sua fedeltà coniugale non si poteva giurare. I più informati sostenevano che il cascinaio Abelardo Spinabelli fosse il suo amante. È certo, peraltro, che essa fu sempre un’ottima madre e che i guadagni del suo piccolo commercio avevano un notevole peso nel bilancio familiare. Al tempo in cui avvenne il primo delitto, il signor Raffaele Pansardi fumava “Macedonia” e non era più costretto a limitare il numero delle sigarette quotidiane; ogni sera, immancabilmente, si recava al cinematografo; aveva una domestica fissa. Il figlio maggiore era iscritto alla facoltà di Lettere dell’università di Milano; era occupato come istitutore al Collegio nazionale di Correggio ed arrotondava lo stipendio dando lezioni private; il secondo ed il terzogenito studiavano al ginnasio; la bambina ultima nata frequentava ancora l’asilo, in un istituto di suore. Da parecchio tempo Leonarda Cianciulli aveva stretto rapporti di amicizia con tre donne di Correggio: Ermelinda Faustina Setti detta Rabitti, Clementina Soavi e Virginia Cacioppo vedova Fanti. Queste tre donne vivevano sole. La Setti aveva avuto in gioventù una figlia illegittima che era morta qualche anno prima; la Soavi era una vecchia zitella che si occupava anch’essa del commercio di abiti usati e gestiva una specie di asilo privato custodendo una dozzina di bambini nelle ore in cui le mamme erano al lavoro; la Cacioppo, delle tre, era l’unica che godesse la fama di essere danarosa. Non era esatto: in realtà essa durava fatica a sbarcare il lunario; ma era stata una soprano lirica di un certo nome; aveva cantato spesso all’estero, specie in America, in Francia e in Egitto; i capelli ossigenati, la vistosa eleganza dei suoi abiti e certe bizzarre manie dalle quali non era riuscita a staccarsi la facevano ritenere ricca. In particolare, la gente di Correggio era convinta ch’essa possedesse molti e preziosi gioielli. Nel novembre del 1939 Rabitti, cioè la vecchia Ermelinda Setti, cominciò a fare strane confidenze alle sue conoscenti. Disse d’essere alla viglia di prender marito. Il suo antico amante, convinto da una buona signora che si interessava molto a lei, aveva finalmente deciso di sposarla. La sera dell’8 dicembre si recò dal parrucchiere e gli affidò i suoi capelli bianchi per la permanente, quindi fu vista per l’ultima volta entrare nella casa di via Cavour 11/A. Il giorno dopo, Leonarda Cianciulli cominciò ad offrire in vendita i mobili, la biancheria, i vestiti di Rabitti: ne aveva avuto incarico dalla proprietaria prima che partisse per raggiungere lo sposo in un paese dell’Umbria che desiderava restasse a tutti ignoto. La Setti aveva venduto anche la casa di sua proprietà, ricavandone quarantamila lire ed aveva saldato un debito di diecimila lire contratto qualche mese avanti. Nell’agosto 1940 anche Clementina Soavi confidò piangendo alle amiche d’essere in procinto di compiere un grave passo. Una signora che le voleva bene le aveva procurato il posto di direttrice di un collegio fiorentino. Tra qualche giorno sarebbe venuto un vescovo a prenderla, in automobile; ed essa era felice d’aver trovato un’occupazione che le permetteva di vivere senza stenti, ma nello stesso tempo era commossa all’idea di dover lasciare, forse per sempre, Correggio. Il 5 settembre Clementina Soavi scomparve. Qualche giorno dopo Leonarda Cianciulli iniziò la vendita degli effetti personali e dei mobili, ripetendo d’averne avuto incarico dalla signora direttrice del collegio fiorentino. Fu a quell’epoca che cominciarono a correre le sinistre voci sulla fine delle due donne; ma sia la Setti che la Soavi non avevano parenti e nessuno si prese il fastidio di richiamare l’attenzione della polizia sulle misteriose sparizioni. Due mesi dopo anche l’ex cantante Virginia Cacioppo annunciò di essere alla vigilia della partenza. Una sua cara amica aveva ottenuto per lei un posto di magazziniera all’Amministrazione dei monopoli di Firenze e si era offerta di prestarle le diecimila lire che le mancavano per completare la cauzione richiesta. Il 29 novembre la signora Cacioppo sale dalla padrona di casa per la visita di congedo; appare molto commossa; chiede se non abbia una rivoltella da prestarle per qualche giorno. Il mattino seguente la vedono per l’ultima volta, mentre varca la soglia di casa Pansardi, e poiché, ventiquattr’ore dopo Leonarda Cianciulli inizia la vendita dei mobili, dei materassi, dei vestiti, la voce che le tre donne siano state soppresse si fa generale e insistente. La signora Fanti, cognata della Cacioppo, ne parlò al maresciallo dei carabinieri di Correggio, il quale eseguì qualche indagine e concluse che non c’era nulla di vero in quelle voci. Ma la signora Fanti non si arrese. Qualche giorno fa è stata interrogata dai giudici: alta, magra, implacabile, un vistoso uccello del paradiso in atto di spiccare il volo dall’alto del suo cappello di paglia nera, interrompeva la sua deposizione ogni dieci parole per ripetere con voce tagliente: “La giustizia deve ringraziare me. Sono io che ho scoperto tutto”. Non aveva tutti i torti. Rimase appiattita per intere giornate sotto un portone di via Cavour; mandò confidenti a bazzicare nella casa della Cianciulli; interrogò centinaia di persone nella città e nelle campagne vicine. Stabilì che Leonarda Cianciulli aveva venduto tutte le scarpe, tutti i vestiti e l’unico cappotto d’inverno della cognata: con quali abiti essa si era dunque recata a Firenze?

image002(La signora Fanti, cognata della Cacioppo, al processo)

Il questore di Reggio Emilia giudicò che i sospetti della signora Fanti potevano essere fondati. Si incaricò personalmente delle indagini e per prima cosa diramò a tutte le banche della regione l’elenco dei titoli ch’erano appartenuti alla ex cantante. (Qualche anno prima  lo aveva essa stessa affidato alla cognata, entrando in una clinica, per una grave operazione chirurgica). Verso la metà del gennaio alla succursale di Reggio del Banco di San Prospero si presenta don Adelmo Frattini, parroco di San Giorgio in Correggio, ed offre in vendita un pacchetto di titoli tra i quali è anche il buono del tesoro serie H, numero 241985. È uno di quelli compresi nell’elenco. Il sacerdote dice d’averlo avuto dal cascinaio Abelardo Spinabelli; lo Spinabelli afferma d’averlo a sua volta ricevuto da Leonarda Cianciulli. La donna è arrestata. Si compiono ricerche nella sua casa; dal pozzo nero si estrae una dentiera; sul solaio si scopre un pugno d’ossa frantumate. I medici stabiliscono che si tratta di ossa umane. Leonarda Cianciulli confessò quasi subito, ma la sua prima versione dei fatti differisce molto da quella che fece in seguito al giudice istruttore. Essa disse d’aver ucciso di sua mano la Setti, d’averne fatto a pezzi il cadavere e d’averlo distrutto facendolo bollire in un calderone, assieme ad una forte quantità di soda caustica. Le carni saponificate della sua prima vittima erano state poi disperse con la spazzatura; le ossa, ridotte in frantumi, erano state gettate nel pozzo nero. Non volle però spiegare quale fosse stato il movente del delitto. Disse solo che le trentaduemila lire che la Setti aveva indosso erano finite nelle mani dello Spinabelli. Quanto alla seconda ed alla terza vittima, era stato lo stesso Spinabelli ad ucciderle dopo essersi nascosto d’accordo con lei in uno stanzino buio. I loro cadaveri erano stati poi squartati rapidissimamente dal cascinaio, il quale sino a pochi anni prima era stato un macellaio rinomato per la forza e per l’abilità, ed alla sua complice era rimasto solo il compito di farne scomparire i pezzi, saponificandoli. Abelardo Spinabelli venne arrestato, nella sua abitazione si rinvenne un cofanetto ch’era appartenuto alla Cacioppo; si accertò che effettivamente la saponificatrice aveva consegnato a lui il denaro tolto alla Setti ed, in parte, anche quello rapinato alle altre due vittime. Ma i due avevano avuto parecchi affari in comune, regolati da una contabilità estremamente complicata. Era difficile stabilire se con quel denaro la Cianciulli avesse saldato un debito, o dato al complice la parte che gli spettava. Un giorno l’assassina asserì d’aver consegnato allo Spinabelli anche gli oggetti preziosi tolti di dosso alle sue vittime. Li aveva chiusi in una scatola di latta e la scatola era stata poi incastrata in un blocchetto di cemento. L’intesa era che i gioielli fossero consegnati a don Adelmo Frattini, per nasconderli. Anche il sacerdote venne arrestato, ma sulle prime negò recisamente. Fu soltanto dopo parecchi interrogatori che si decise ad  indicare il nascondiglio: il blocco di cemento, grande come un mezzo mattone, era stato nascosto nella cassetta delle elemosine della chiesa di Vezzano sul Crostolo. Lo stesso don Adelmo ne aveva levato e poi riavviato il coperchio. Si infranse il mattone di cemento e si trovò che conteneva effettivamente i gioielli della Setti, della Soavi e della Cacioppo. Su di essi erano evidenti tracce di sangue. Questo fatto, unito alla circostanza che gli oggetti preziosi erano stati celati dal sacerdote in quello straordinario nascondiglio circa un mese dopo l’arresto della Cianciulli e dello Spinelli, quando ormai era radicata in tutti la certezza che i due avessero compiuto assieme i delitti a scopo di rapina, portò all’incriminazione di don Adelmo Frattini per favoreggiamento e ricettazione. La Cianciulli e lo Spinabelli furono denunciati all’autorità giudiziaria per omicidio premeditato e rapina. Il figlio della saponificatrice ebbe l’imputazione minore di favoreggiamento. Alcuni mesi dopo, quando l’istruttoria del processo era quasi terminata, la Cianciulli ebbe un pentimento. Chiese un colloquio straordinario con il giudice e gli narrò che, avendo sognato quella notte la Vergine con un bambino nero in braccio ed interpretando quel sogno come un invito a dire intera la verità, si era decisa a confessare d’aver mentito in tutte le precedenti deposizioni. Spinabelli ed il prete erano innocenti. Essa sola aveva ucciso, squartato, saponificato i cadaveri. L’istruttoria dovette ricominciare da capo. Appariva assolutamente impossibile che quella donna piccola ed esile avesse potuto avere la forza fisica necessaria per compiere da sola quei tre spaventosi delitti; così venne ad aggravare la posizione del figlio maggiore della saponificatrice, sospettato ora non più di favoreggiamento, ma di complicità.

image003(L’abbraccio con il figlio in tribunale. Per scagionare il figlio Roberto dell’accusa di complicità, la Cianciulli spiegò per filo e per segno come procedeva alle operazioni di taglio dei cadaveri e di saponificazione. “I pezzi non adatti alla saponificazione li versavo un po’ nel gabinetto, un po’ nel canale fuori casa”)

Il cascinaio ed il sacerdote si trovarono a dover rispondere soltanto di ricettazione; ma poi sopravvenne un’amnistia e si levarono anche il fastidio di quell’imputazione. A Correggio la maggior parte della gente ha inghiottito male quell’inaspettato colpo di scena. Quasi tutti continuano a pensare che la prima versione sia la vera. Che ci perde la Cianciulli ad addossarsi intera la colpa? Meno che nulla. La più grave accusa fatta al figlio, poi, non essendo convalidata da alcuna prova sicura, non può certo preoccuparla eccessivamente. “Vorremmo vedere invece” dicono a Correggio “come vive oggi il signor Raffaele Pansardi. Se non se la passa meglio da qualche anno in qua!”. Quelli di Correggio torcono la bocca a sentir la storia delle streghe e dei sacrifici umani propiziatori. Per questo l’aula delle Assise non è mai troppo affollata. Invece hanno torto. Il lungo racconto che Leonarda Cianciulli ha fatto per giustificare l’uccisione delle tre donne è stato senza dubbio di un enorme interesse. Dopo aver sognato la Vergine con il bambino nero in braccio ed avere di conseguenza discolpato il cascinaio Abelardo, essa era stata rinchiusa nel manicomio criminale di Aversa, dove aveva avuto il tempo di scrivere le sue memorie, che riempiono complessivamente oltre settecento pagine dattiloscritte, divise in sei grossi fascicoli. Il titolo di quest’opera monumentale è “Confessioni di un’anima amareggiata”. La materia è una narrazione minuti dei fatti che portarono la Cianciulli a commettere i tre delitti e la descrizione di quell’orrendo lavoro di smembramento, di bollitura, di dispersione. È l’opera di una pazza, ma di una pazza estremamente lucida. Accogliendo questa sua seconda versione, perché uccise, dunque, la saponificatrice? Essa intese di compiere dei sacrifici umani propiziatori. Ventisette anni fa, sposando Raffaele Pansardi, essa si era ribellata alla volontà della madre che l’aveva destinata invece ad un cugino, e la madre, in punto di morte, l’aveva maledetta, predicendole che tutti i suoi figli sarebbero morti prima di lei. Infatti Leonarda aveva dato alla luce diciassette creature, tredici delle quali le erano mancate nei primi mesi di vita. Ogni volta che le capitava di sognare la propria madre, essa era certa che la morte le avrebbe strappato uno dei figli. Per vincere il maleficio la Cianciulli aveva tentato ogni sorta di esorcismo e di pratiche di stregoneria. Ma la maledizione materna si era mostrata sempre invincibile. La morte si sarebbe dunque impadronita anche dei quattro superstiti? Quando il maggiore dei suoi figli cominciò a frequentare il liceo e l’università, Leonarda Cianciulli si dedicò alla lettura di molti dei suoi libri. Apprese così dei sacrifici umani espiatori compiuti per placare le ire degli dei crudeli e si convinse che quella era la strada ch’essa avrebbe dovuto percorrere per salvare la vita delle sue creature minacciate. Essa doveva offrire alla morte una vita umana in cambio di ognuna di quelle che intendeva salvare. Tuttavia non si decise subito: anche ad essa il sistema sembrava un po’ forte. Un giorno le capitò tra le mani il libro di un americano, “Il mistero della 5a strada”, nel quale si narra la storia di uno scienziato che uccide i suoi simili e riesce a rivestire l’anima delle sue vittime di un nuovo corpo più perfetto. “Nel libro c’era spiegato bene”. Dice la Cianciulli “come si doveva fare”. Si convinse d’essere capace anch’essa di tanto e mise definitivamente da parte ogni scrupolo superstite. Così venne uccisa la Setti. La Soavi che, a detta della saponificatrice, era al corrente della cosa e credeva fermamente nella rinascita dopo la morte, pregò essa stessa la sua carnefice di ucciderla, persuasa che dai vapori del suo cadavere la strega avrebbe tratto un corpo vivo più perfetto. Nei riguardi del Cacioppo l’assassino dice d’aver avuto qualche esitazione, visto che nei due primi esperimenti non era assolutamente riuscita a far risuscitare le sue vittime; finché una notte sognò un braccio che la stava tirando irresistibilmente in un precipizio e non interpretò quel sogno come un ordine di agire senza indugi. Nelle “Confessioni di un’anima amareggiata” si legge anche di torte fatte di sangue umano mescolato a marmellata, cannella ed essenza di vaniglia, cosparse poi di polvere d’ossa ed offerte alle amiche; come si accenna alle candele che la saponificatrice avrebbe fabbricato con il grasso delle sue vittime affiorante nell’immondo calderone. Ma nel corso del processo la saponificatrice di Correggio non ha ancora avuto il modo di parlare di questi particolari. Forse, per decidersi a discorrerne, aspetterà il giorno in cui il pubblico si accalcherà molto più fitto in fondo all’aula”.

image004(Museo criminologico di Roma: strumenti della serial killer Leonarda Cianciulli e foto delle vittime)

Mary Titton


14 ottobre

PRIMO PIANO

Il Premio Nobel economia 2019 a 3 studiosi della povertà.

Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato congiuntamente agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. L’economista di nazionalità indiana Abhijit Banerjee, 58 anni, e sua moglie, la franco-americana Esther Duflo, 47 anni, insegnano al Massachusetts Institute of Technology, mentre l’americano 54enne Michael Kramer è docente ad Harvard. Duflo è la seconda e la più giovane donna a ricevere il riconoscimento in questa categoria. Il Comitato per i Nobel, nell’annunciare i vincitori dell’edizione 2019, ha spiegato come i risultati delle ricerche dei tre studiosi “hanno migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”. In particolare, “come risultato di uno dei loro studi, più di 5 milioni di ragazzi indiani hanno beneficiato di programmi scolastici di tutoraggio correttivo”. I tre vincitori “hanno introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale: suddividere questo problema in questioni più piccole e più gestibili, come ad esempio gli interventi più efficaci per migliorare la salute dei bambini”. A metà degli anni ’90, Kremer e i suoi colleghi “hanno dimostrato quanto possa essere efficace un approccio sperimentale, usando test sul campo per mettere alla prova una serie di interventi che avrebbero potuto migliorare i risultati scolastici nel Kenya occidentale”. Banerjee e Duflo, inoltre, spesso in collaborazione con lo stesso Kremer, “hanno condotto studi simili su altre questioni e in altri paesi, tra cui l’India. I loro metodi di ricerca sperimentale ora sono centrali negli studi economici sullo sviluppo”. Il premio, dell’importo di 9 milioni di corone (circa 915 mila dollari), è stato istituto dalla Banca Centrale Svedese nel 1968 e, anche se non è stato ideato dal fondatore Alfred Nobel, viene comunque assegnato alla sua memoria e a tutti gli effetti è considerato parte dei riconoscimenti assegnati ogni anno dalla Fondazione Nobel.

DALLA STORIA

Erwin Rommel, “La volpe del deserto” e il “suicidio di Stato”.

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Il 14 ottobre 1944 il feldmaresciallo Erwin Rommel si tolse la vita rompendo tra i denti una fiala di cianuro. Stratega militare di eccezionale abilità e uomo valoroso nelle azioni di guerra, il Generale tedesco era altamente stimato da tutti: dai suoi soldati (contrariamente agli altri generali, non si limitava a seguire i combattimenti da distanza di sicurezza, ma era sempre presente in prima linea impartendo ordini e guidando i suoi uomini in battaglia) e anche dai suoi nemici. Lo stesso Churchill nel discorso alla Camera dei Comuni disse: “Abbiamo di fronte a noi un avversario molto audace e abile e, se posso dirlo al disopra delle stragi di guerra, un grande generale”. Rommel dimostrò grandi doti di comando già dalla Prima guerra mondiale. Fu il più giovane e, con il grado di tenete, a ricevere la più alta onorificenza militare tedesca, l’ordine Pour le Mérite, per le capacità di comando dimostrate, soprattutto durante la battaglia di Caporetto nell’autunno 1917. Durante la Seconda guerra mondiale si distinse nella campagna di Francia nel 1940 e, godendo della piena fiducia di Adolf Hitler, assunse il commando dell’Afrikakorps tedesco in Nordafrica dove per quasi due anni dimostrò grande abilità tattica e operativa, infliggendo una serie di sconfitte alle truppe britanniche grazie alla sua superiore capacità nella conduzione di agili e spericolate manovre con i mezzi corazzati nel deserto che gli valse il soprannome di “volpe del deserto”.

image001-2(Rommel, stratega di eccezionale abilità, mentre parla ai suoi ufficiali nella campagna del deserto)

A seguito di questi successi e molti altri ottenuti nel periodo di ben due Guerre mondiali, Rommel, nonostante la diversità di giudizi di esperti e storici e le critiche mosse ad alcune sue scelte strategiche, rimane uno dei più famosi comandanti militari della Seconda guerra mondiale, un simbolo delle migliori tradizioni militari. “Rommel non era un membro del Partito nazista, ma ebbe sempre stretti rapporti con Hitler col quale conservò un’amicizia genuina nel corso degli anni, malgrado le complicazioni personali. Come altri ufficiali della Werhermacht, subì piuttosto che partecipare alla venuta del nazismo”. La moglie di Rommel, Lucie, riferirà riguardo al marito: “Credeva, fino al 1942, anche in Hitler … . Poi, in Francia, incontrò un generale, che gli parlò delle stragi degli ebrei; il generale le aveva viste proprio con i suoi occhi, ma noi, anche se pare impossibile, non ne sapevamo nulla. Mio marito capì che era finita e lo disse anche a Hitler, capì che Hitler era un pazzo furioso. Disse a Hitler: “Mio Führer, io farei gli ebrei Gauleiter, tutti i Gauleiter dovrebbero essere ebrei”. Chi ci perdonerà per le nostre colpe, le nostre vergogne? “Mio Fhürer disse anche, “aiutiamoli perché trovino in Palestina una patria”. “Palestina? sorrise Hitler “Ma scherza? Troppo vicini. Dovrebbero andare almeno in Madagascar”.  Durante il comando in Francia, Hitler gli ordinò di deportare la popolazione ebrea; Rommel disobbedì. Scrisse inoltre molte lettere di protesta contro il trattamento degli ebrei e davanti alla ferocia, non solo delle stragi, ma anche davanti a singoli episodi di crudeltà. Il razzismo fu elevato a sistema di governo da Hitler e dai suoi collaboratori per piegare le coscienze del popolo tedesco a un delirio collettivo di onnipotenza nazionale. Un male così radicale, in cui la presenza della componente umana è talmente assente, da costituire un fenomeno tra i più agghiaccianti tra quelli perpetrati, a milioni, nei secoli della storia. Esistono numerosi esempi della cavalleria di Rommel verso i prigionieri di guerra alleati, come “la sua disobbedienza all’infame Ordine commando di Hitler, che seguì alla cattura dei tenenti Roy Woodridge e George Henry Lane durante L’Operazione Fortitude. Ugualmente ignorò l’ordine di fucilare i prigionieri di guerra ebrei”. “Sicuramente era un uomo ambizioso che si servì della sua vicinanza ad Hitler anche per propri scopi grazie anche alla propaganda militare disegnatagli addosso appositamente da Goebbels. Da un lato egli era intenzionato a ricevere delle promozioni ed a realizzare i propri ideali, dall’altro egli voleva rimanere un “uomo della truppa” senza essere considerato alla stregua dei grandi generali aristocratici. Egli non aveva ambizioni politiche ma preferiva rimanere un semplice soldato, tratti che incarnavano perfettamente lo spirito del popolo tedesco dell’epoca, stimolando inoltre il mito guerresco del cavaliere medievale al fronte”. (“Patton And Rommel: Men of War in the Twentieth Century”, di Dennis Showalter, 2006). Ma veniamo al suicidio. Nel 1944 ormai è evidente che la Germania va verso la sconfitta. Il 20 luglio 1944 un gruppo di ufficiali e aristocratici della Wehrmacht guidati dal Conte von Stauffemberg tentano, per salvare la Germania dalla disfatta, di eliminare Hitler per negoziare la pace. Rommel viene, in qualche modo, sospettato di aver preso parte all’attentato; quali siano state le circostanze del suo coinvolgimento, ancora oggi, sono oggetto di discussione tra gli studiosi ed è improbabile, in futuro, arrivare alla verità. Ma di come avvenne la morte del “Generale preferito” di Hitler resta agli atti come una inconfutabile testimonianza di ripugnante menzogna; la menzogna, anch’essa elevata a sistema di governo da Hitler e adepti. Rommel sospettato di aver preso parte all’attentato al Fhürer è vittima della rappresaglia attuata da Bormann su ordine di Hitler. La Gestapo circonda per giorni la sua casa, fino a costringerlo alla scelta: suicidio con il veleno oppure un processo con inevitabile coinvolgimento penale per tutti i familiari. Rommel non ha dubbi. E si uccide. “Con asciutto autodominio e supremo ma paradossale sacrificio, fece tacere la voce della coscienza e recò un indiretto ma grande aiuto al regime hitleriano che aveva cercato di abbattere, a Hitler che aveva voluto uccidere. La sua formazione non gli permetteva di distinguere nettamente, neanche in quel momento, il suo paese e il regime che lo pervertiva e tradiva, affermando di incarnarlo. Del resto gli stessi alleati, diffidenti e ottusi nei confronti delle proposte avanzate da esponenti dello Stato Maggiore tedesco per abbattere il nazismo, non hanno avuto certo poca responsabilità, fin dalla pace cartaginese di Versailles, in questa letale identificazione tra paese e regime. Nella scelta di Rommel ha certo giocato un ruolo eminente quell’educazione tedesca al rispetto e alla fedeltà che è di per sé un grande valore, la lealtà verso chi sta a fianco e verso la parola data, ma che affonda radici così profonde da non riuscire a strapparle neanche quando il suolo natio è divenuto un putrido pantano. Quella fedeltà è così forte che impedisce talora di accorgersi dell’inganno di cui si è vittima, di capire che si è diventati fedeli non ai propri dèi ma a mostruosi idoli e che, in nome dell’autentica fedeltà, è doveroso ribellarsi a chi la esige abusivamente. / Anche von Stauffenberg, l’attentatore era lacerato dalla scissione tedesca tra fedeltà alla patria e fedeltà all’umanità, e ciò può aiutare a capire la difficoltà di una resistenza armata e organizzata in Germania. Ma certo non soltanto nella Germania del Terzo Reich si presentava il fondamentale dilemma, mascherato in tante forme, tra fedeltà all’universale e fedeltà al proprio compito immediato, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità, come ha detto Max Weber, diagnostico ancora insuperato delle contraddizioni fra i sistemi di valori entro i quali si muove la nostra civiltà. Fra i delitti del nazismo v’è anche la perversione dell’interiorità tedesca; nella messa in scena di quel funerale davanti al municipio di Ulm, c’è la tragedia di un uomo rappresentata come menzogna”. (“Danubio”, di Claudio Magris. Garzanti, 1986).

image004(Il funerale “farsa” di Rommel)

 Mary Titton


11 ottobre

PRIMO PIANO

Al premier etiope Abiy Ahmed il Nobel per la pace 2019.

Il premio Nobel per la pace 2019 è stato assegnato al premier etiope Abiy Ahmed Ali “per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”, come si legge nella motivazione. “In Etiopia – ricorda il Comitato – anche se rimane molto lavoro da fare, Abiy Ahmed ha avviato importanti riforme per dare a molti cittadini la speranza per una vita migliore e un futuro più luminoso. Come primo ministro, Abiy Ahmed ha cercato di promuovere la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale.” Abiy Ahmed, 43 anni, di etnia oromo, il gruppo etnico maggioritario del Paese, ma anche il più marginalizzato, è stato nominato primo ministro il 2 aprile 2018, dopo tre anni di proteste di piazza da parte della propria etnia contro il presidente Hailé Mariàm Desalegn, di etnia tigrina, culminate con 300 morti e la dichiarazione dello stato di emergenza. Considerato un politico riformista, Abiy Ahmed nei suoi primi cento giorni di governo ha privatizzato alcune grandi imprese statali, ha liberato migliaia di prigionieri politici, ha denunciato l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza e ha ordinato il licenziamento dei funzionari carcerari accusati di violazione dei diritti umani. Il suo governo ha promosso la pace con l’Eritrea, rinunciando alle rivendicazioni territoriali nella zona di Badme, ha sostenuto l’applicazione dell’accordo di pace promosso dalle Nazioni Unite nel 2000, che prevede la cessione di alcuni territori all’Eritrea, ha concordato con il dittatore eritreo Isaias Afewerki la riapertura delle rispettive ambasciate e la ripresa dei commerci. È stata anche ristabilita la rotta aerea diretta tra le capitali dei due paesi e le linee telefoniche dirette tra i due Stati, interrotte da circa vent’anni. “Siamo orgogliosi come nazione.” E’ il commento su Twitter dell’ufficio del primo ministro etiope Abiy Ahmed, che ha anche diffuso un comunicato in cui si afferma “che questo riconoscimento è una testimonianza senza tempo degli ideali di unità, cooperazione e mutua esistenza che il primo ministro ha con coerenza difeso.” Il Comitato per il Nobel norvegese ha anche precisato in un tweet che “Il premio Nobel per la pace 2019 intende anche riconoscere tutte le parti interessate che lavorano per la pace e la riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nordorientale”, dove secondo Amnesty International c’è ancora molto lavoro da fare per il riconoscimento dei diritti umani.

DALLA STORIA

Concilio Vaticano Secondo: Papa Giovanni XXIII riunisce un concilio ecumenico della Chiesa Cattolica Romana a 92 anni di distanza dall’ultimo.

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L’11 ottobre 1962, in una giornata bella e pungente di inizio autunno, si apriva a Roma su iniziativa di Giovanni XXIII, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, il Concilio Vaticano II. Fu subito evidente che il carattere effettivamente ecumenico e non più eurocentrico di questo grande evento, rappresentava una realtà completamente nuova della Chiesa, disegnando di fatto una diversa identità di comprensione, di presenza e di missione pastorale ben oltre i programmi e le iniziali intenzioni. Con le sue innovazioni, il Concilio Vaticano II avrebbe, si potrebbe dire con una frase abusata, “portato la Chiesa verso il popolo”. Un’espressione che sintetizzava il pensiero della parte meno intransigente e tradizionalista della Chiesa che riteneva che “alcune innovazioni erano attese da secoli” e che la Chiesa doveva aggiornarsi “ai rivolgimenti della storia e del costume”. C’era il problema drammatico per il Papa di condurre avanti, sulla nuova strada, tutta la Chiesa, con i suoi fermenti rinnovatori e con la tradizione. All’apertura dei lavori si riunirono circa 2.500 vescovi cattolici di tutta la Terra e gli osservatori delegati di quasi tutte le comunità cristiane separate da Roma. Sempre in chiave ecumenica, il Concilio apriva le porte al dialogo tra la Chiesa di Roma e l’ebraismo. “Prima ancora di aprirsi” si legge nella stampa di allora e specificatamente sul settimanale “Epoca”, del 7 ottobre 1962, “ha già un retroscena fatto di ansie, di piccoli drammi e di momenti polemici”. Nel suo discorso inaugurale, però, il Papa invitava i “padri conciliari” a un lucido ottimismo: “Ci feriscono talora l’orecchio le suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazioni e rovina …” A noi sembra di dover dissentire di codesti profeti di sventura … Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo a un nuovo ordine di rapporti umani …”. La stessa Enciclica “Mater et Magistra”, promulgata il 15 maggio 1961, nella quale papa Giovanni XXIII aveva ripreso ed ampliato il tradizionale insegnamento della Chiesa in ordine ai problemi sociali, che valeva per tutti i Paesi del mondo, in quel momento assumeva, nei confronti dell’Italia, un significato particolare. Il documento, eloquentissimo, di ispirazione democratica era in perfetta armonia coi “tempi nuovi”. Tra le innovazioni: la riforma della liturgia, con la possibilità di celebrare la messa nella lingua nazionale e non solo più in latino (e con il sacerdote che non volterà più le spalle ai fedeli); il riconoscimento della presenza di “semi di verità” anche nelle altre Chiese cristiane e nelle altre confessioni religiose; il rigetto dell’accusa di deicidio agli ebrei e la deplorazione dell’antisemitismo teologico; il riconoscimento dei vincoli con le Chiese separate; il principio della libertà religiosa (che porta con sé anche il rifiuto di imporre la fede con la forza) … Molti intrepretarono il Concilio come una serie di strappi alla tradizione, cosa che suscitò entusiasmi in alcuni e rifiuto in altri: eclatante la ribellione di monsignor Lefevre, che rifiutò la riforma della liturgia e altri elementi di “eccessiva apertura”, come quelli sull’ecumenismo. Diversamente, l’arcivescovo francese Garrone commentò: “La Chiesa ha fatto toeletta  per poter parlare al mondo”.  E ancora si sentiva dire: “Dopo questi passi che hanno scavalcato i secoli non si tornerà più indietro”. I lavori si conclusero il 7 dicembre 1965. Papa Roncalli era morto nel giugno del 1963 sostituito sul trono da Paolo VI. Il Concilio fu portato a termine da Papa Paolo VI “che intervenne molto più del suo predecessore nei lavori conciliari e ribadì, anche dopo la fine del Concilio, il suo divieto a cambiare alcune regole che alcuni progressisti sembravano pronti a cancellare, come il celibato per i preti, il divieto per la contraccezione e la negazione di un ruolo attivo per i divorziati. “Secondo molti storici il “riflusso” intransigente introdotto da Paolo VI è la chiave per comprendere la storia della Chiesa nei decenni successivi”. Come in tutte le vicende umane le tesi in opposizione si contendono. E come abbiamo visto, anche all’interno dell’Istituzione della Chiesa, regolata da leggi fatte da uomini, anche se finalizzate all’elevazione dello Spirito, hanno in nuce e nella manifestazione diretta il peccato. Si potrebbe concludere che ogni cosa ha una sua ragion d’essere e che il vero amore ce l’ha insegnato Cristo.

(Roma, 11 ottobre 1962. Papa Giovanni XXXIII pronuncia il celebre “discorso della luna” dalla finestra del palazzo Apostolico della Città del Vaticano, alla folla riunita in piazza San Pietro per la fiaccolata serale di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Stanco per gli impegni della giornata, Roncalli, chiamato a gran voce, decise di affacciarsi per limitarsi a benedire i presenti. Poi si convinse a pronunciare un discorso semplice e breve che è divenuto una delle allocuzioni più celebri della storia della Chiesa).

Mary Titton


8 ottobre

PRIMO PIANO

Il “taglio dei parlamentari” è legge.

Con 553 voti a favore, quattordici contrari e due astenuti, la Camera dei deputati ha approvato il taglio di 315 parlamentari. Nello specifico la Riforma prevede la modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione e fissa il numero totale dei parlamentari a 600, con 400 deputati e 200 senatori (al momento sono 630 e 315). È previsto anche un taglio dei senatori eletti all’estero, non più 6, ma 4 e di quelli a vita, nominati dal Presidente della Repubblica, il cui numero non potrà essere superiore a 5; viene ridotto, infine, anche il numero minimo di senatori per ogni Regione o Provincia autonoma, che da 7 passerà a 3, ad eccezione del Molise e della Valle d’Aosta che, come è previsto nella legge attuale, avranno rispettivamente 2 e un 1 eletto in Senato. Il disegno di legge, fortemente voluto dal Movimento 5 stelle, è stato approvato da una maggioranza trasversale: per il sì si sono schierati, oltre al M5s , anche Pd, Leu e Italia viva e pure Fdi, Fi e Lega; i contrari sono tutti esponenti del gruppo Misto più una rappresentante di Forza Italia. Il problema più rilevante che potrebbe sorgere con il Parlamento riformato è quello della rappresentanza. Nel 1948, i padri costituenti avevano legato alla popolazione il numero dei parlamentari, che potevano aumentare o diminuire in base a questo rapporto: un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 200.000. Questo principio è stato abbandonato del 1963 con la revisione costituzionale che ha stabilito che gli eletti dovessero essere in totale 945, più i senatori a vita. In rapporto alla popolazione, oggi in Italia c’è un deputato ogni 96.006 abitanti circa e un senatore elettivo (senza considerare i senatori a vita e i senatori di diritto a vita) ogni 188.424. Con il Parlamento riformato si passa a un deputato ogni 151.210, e a un senatore ogni 302.420. Con questa nuova proporzione, l’Italia diventa il Paese europeo con il minor numero di eletti in una camera bassa (Camera dei deputati) in relazione alla popolazione, con 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, a fronte dello 0,8 della Spagna, dello 0,9 di Francia e Germania e dell’1 del Regno Unito. Il taglio dei parlamentari ha ricadute anche sul pluralismo e sul diritto di tribuna, un minor numero di eletti, infatti, rischia, soprattutto al Senato, di porre uno sbarramento quasi invalicabile per i partiti più piccoli. Per ovviare a questi “rischi”, i partiti di governo hanno siglato un accordo che prevede il progetto di una nuova legge elettorale entro dicembre 2019. Nei prossimi mesi, quindi, si aprirà il dibattito su quale formula adottare. Per i 5 stelle “È una giornata storica”, oggi infatti si realizza uno dei punti fondamentali del programma elettorale del Movimento. Per festeggiare i grillini si sono radunati davanti a Montecitorio e hanno esposto uno striscione con le foto delle poltrone e delle gigantesche forbici di cartone. “Meno parlamentari uguale più asili nido”, c’è scritto su uno dei cartelli. Per il premier Giuseppe Conte: “Quella del taglio ai parlamentari è una riforma che prelude anche a una maggiore efficienza dei lavori parlamentari“, nel corso delle dichiarazioni congiunte con il presidente designato del Consiglio Ue Charle Michel ha detto:“Ci attendiamo una maggiore vicinanza dei cittadini alle istituzioni. È un passaggio storico che, insieme ad altri progetti di riforma, prelude ad una maggiore efficienza del nostro sistema parlamentare.”


7 ottobre

PRIMO PIANO

Nobel per la medicina a Kaelin, Ratcliffe e Semenza.

Prende il via, anche quest’anno, la settimana di assegnazione dei Nobel con l’attribuzione del premio Nobel per la medicina e la fisiologia agli americani William Kaelin e Gregg Semenza e al britannico Sir Peter Ratcliffe per la scoperta del modo in cui le cellule utilizzano l’ossigeno. Come ha spiegato l’Accademia nel motivare la scelta, “Si tratta di uno dei meccanismi essenziali per la vita”, che viene messo alla prova durante l’attività fisica oppure per eventi traumatici come ferite, infarti o ictus. In molti tumori, inoltre, le cellule che crescono tumultuosamente consumano grandi quantità di ossigeno. L’ossigeno è essenziale per trasformare il nutrimento in energia, viene sfruttato in particolare dai mitocondri: organelli presenti nelle cellule che vengono soprannominati le “centrali elettriche” dell’organismo. Accanto alle carotidi esistono delle cellule specializzate nel misurare la presenza di ossigeno (per la loro scoperta è stato assegnato il Nobel per la Medicina del 1938), che comunicano direttamente con il cervello e regolano il ritmo del nostro respiro. Capire l’effetto del livello di ossigeno nelle cellule ha implicazioni per la cura di malattie come l’anemia e il cancro oltre che per l’allenamento degli atleti o per l’adattamento del corpo all’alta montagna. Chi sono i ricercatori: Sir Peter J. Ratcliffe, 65 anni, nato in Gran Bretagna, a Lancashire nel 1954, ha studiato a Cambridge e poi si è specializzato in nefrologia a Oxford, dove ha dato vita a un gruppo di ricerca ed ha avuto una cattedra nel 1996. Attualmente dirige il Centro per la ricerca clinica dell’Istituto Francis Crick di Londra ed è membro dell’Istituto Ludwig per la ricerca sul cancro. L’americano Gregg L. Semenza, 63 anni, nato a New York nel 1956, ha studiato biologia ad Harvard e poi all’Università della Pennsylvania, si è specializzato in pediatria nella Duke University e dal 1999 insegna nella Johns Hopkins University, dove dal 2003 dirige il programma sulla ricerca vascolare. William G. Kaelin, 62 anni, nato a New York nel 1957, dopo gli studi nelle Duke University, si è specializzato in Medicina interna e oncologia nella Johns Hopkins University, dal 2002 insegna a Harvard. Il merito di Kaelin, Ratcliffe e Semenza è quello di avere scoperto il meccanismo molecolare che, all’interno delle cellule, regola l’attività dei geni in risposta al variare dei livelli di ossigeno. Il loro è stato un traguardo inseguito per decenni. La posta in gioco era infatti altissima perché l’ossigeno è l’elemento fondamentale che permette a ogni essere vivente di convertire il cibo in energia, e che è alla base di processi fisiologici fondamentali, dallo sviluppo embrionale alle difese immunitarie. Il lavoro dei tre scienziati rappresenta una base fondamentale per lo studio non solo della regolazione fisiologica di risposta ai livelli di ossigeno (come può avvenire, ad esempio, sotto sforzo fisico o in alta montagna), ma anche di alcune condizioni patologiche. Il meccanismo di regolazione è infatti alterato nell’insufficienza renale cronica e ha un ruolo fondamentale nella carcinogenesi, perché stimola la produzione di nuovi vasi in grado di apportare ossigeno al tumore. Conoscere i dettagli molecolari di tale regolazioni è dunque fondamentale per lo sviluppo di nuovi farmaci che abbiano come target il sistema di risposta ai livelli di ossigeno.

DALLA STORIA

“L’orbo è Re nel Paese dei Ciechi”: Il bellissimo racconto di H.G. Wells, uno dei Padri della Fantascienza.

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Nell’ottobre del 1904 veniva pubblicato sulla rivista “Strand Magazine” un racconto di fantascienza di Herbert George Wells dal titolo “Il Paese dei Ciechi”. Wells come è noto è considerato insieme a Jules Verne uno dei padri del romanzo scientifico, precursore della fantascienza, in quanto riuscì a realizzare una felice fusione tra le atmosfere e il pensiero scientifico. Le sue opere, sebbene debbano molto al tema scientifico e fantastico, sono in realtà un solido strumento di analisi sociale e morale: da ciascun romanzo traspare la convinzione secondo cui la scienza debba essere funzionale a un progresso effettivamente benefico e che l’uomo debba risultare sempre e comunque in grado di controllare le forze da lui create. Wells è ricordato da tutti per la strepitosa invenzione della “Macchina del tempo”, il romanzo che gli diede la gloria, “L’uomo invisibile”, “L’isola del dottor Moreau”, “La guerra dei mondi” e numerosi altri tra romanzi e racconti divenuti dei classici. Da “La guerra dei mondi” fu tratto un dramma radiofonico omonimo interpretato da Orson Welles come una radiocronaca, diventato uno dei fatti più clamorosi del tempo perché talmente realistica e convincente da gettare nel panico milioni di ascoltatori statunitensi.

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Il “Paese dei Ciechi” che oggi si vuole ricordare è, secondo la critica e i cultori del genere, il più bello e famoso dell’autore britannico. Vi si narra l’avventura sottilmente angosciante di un uomo che sulle Ande scopre per caso una valle remotissima e isolata dal mondo dove tutti gli abitanti sono ciechi da molte generazioni, anzi negano ormai l’esistenza stessa della vista. Dopo aver sperimentato che la sua diversità non è un vantaggio, il protagonista affronta un dilemma terribile: se vuole restare e integrarsi dovrà diventare cieco anche lui. Lo stile narrativo del racconto è coinvolgente e la conclusione stimola la riflessione sulla libertà di pensiero e della difficoltà di esercitarla senza essere giudicati ed emarginati nei sistemi sociali in cui vige l’ortodossia. “A più di trecento miglia dal Chimborazo e a un centinaio dalle nevi del Cotopaxi, nelle più selvagge solitudini delle Ande dell’Ecuador, si trova una misteriosa vallata fra i monti, separata da tutto il resto del mondo: il Paese dei Ciechi. Molti anni fa, questa valle era accessibile soltanto agli uomini che, dopo aver attraversato gole spaventose e dopo aver superato un valico ghiacciato, avrebbero potuto raggiungere le sue praterie pianeggianti. E difatti uomini ci arrivarono, una famiglia o poco più di peruviani mezzosangue che fuggivano l’avidità tirannica di un feroce governatore spagnolo. Ebbe poi luogo l’eruzione del Mindobamba, quando a Quito ci fu notte per diciassette giorni, l’acqua si mise a bollire a Yaguachi e i pesci moribondi fluttuarono fino alla lontana Guayaquil. Dovunque lungo il versante del Pacifico ci furono frane, improvvisi disgeli e impetuose inondazioni, mentre un intero fianco della cresta del vecchio Arauca slittò precipitando con fragore di tuono e, precludendo per sempre il Paese dei Ciechi ad ogni accesso. Avvenne, però, che uno degli antichi coloni si trovasse al di qua delle gole quando il mondo venne così paurosamente sconvolto. Di fronte all’impossibilità di un ritorno, egli fu costretto a dolorosamente dimenticare la moglie e il bambino, gli amici e tutti i beni che aveva lasciato lassù per ricominciare penosamente una nuova vita nella pianura sottostante. …” . Per chi non l’avesse ancora letto è possibile trovarlo nel Volume “Le meraviglie del possibile”, nella collana “Gli struzzi”, di Einaudi insieme ad una selezione di sedici racconti degli autori più famosi e stimati dal pubblico e dalla critica: Ray Bradbury, Alfred E. van Vogt, Fredric Brown, M. St Clair, Clifford Simak, W. M. Miller jr, Isaac Asimov, W. Tenn, Robert Heilein, Robert Sheckley, Richard Matheson, Daniel Keyes, Arthur C. Clarke, ecc. La vecchia guardia che, con una produzione di opere originalissime, divenute dei cult, ha traghettato la narrativa fantascientifica da Letteratura di serie B in Letteratura di serie A.

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Mary Titton


2 ottobre

DALLA STORIA

2 ottobre 1902 viene pubblicata “La storia di Peter Coniglio”, di Beatrix Potter. Il libro per bambini diventerà uno dei maggiori successi editoriali mondiali.

“Uno dei libri per bambini più noto di sempre, “La storia di Peter Coniglio”, di Beatrix Potter, è il delizioso racconto di un coniglietto birichino, corredato dalle altrettanto deliziose illustrazioni dell’autrice. La storia ha venduto oltre quaranta milioni di copie e il personaggio di Peter Coniglio compare in altre cinque storie dell’autrice. La prima edizione fu autopubblicata. Negli anni ’90 dell’Ottocento, l’autrice inviò alcune storie ai figli della ex istitutrice, Annie Moore, e su consiglio di questa cercò un editore. Scelse la storia di Peter Coniglio, raccontata in una lettera illustrata che aveva scritto nel settembre 1893 al figlioletto di cinque anni di Moore, Noel, che era malato. “Mio caro Noel”, diceva, “non so cosa scriverti, per cui ti racconterò la storia di quattro coniglietti i cui nomi erano Flopsy, Mopsy, Cottontail e Peter”. La storia narrava le scorribande di Peter Rabbit nell’orto del vicino, Mr McGregor, dove provocava il caos. In seguito, l’autrice ampliò la storia e realizzò un’illustrazione a colori e 41 disegni al tratto, uno per ogni pagina. Potter riteneva che i bambini volessero libri piccoli, facili da tenere in mano, ma gli editori del tempo prediligevano i grandi formati. Irremovibile, decise quindi di autopubblicarsi, producendo nel dicembre del 1901, duecentocinquanta copie che a Natale regalò ad amici e famigliari. I libriccini si dimostrarono così popolari che nel giro di due mesi ne fece stampare altre duecento copie. L’editore Fredrick Warne e Co. ci ripensò e l’anno successivo pubblicò il libro in un’edizione di piccolo formato con illustrazioni a colori che ebbe un successo tale da indurre Beatrix Potter a scrivere altre 22 storie”.

image001(La prima edizione commerciale. Vista la popolarità della prima edizione, l’editore di libri per l’infanzia Fredrick Warne che in un primo momento aveva rifiutato la proposta, acconsentì a pubblicare e commercializzare il “libro dei coniglietti”. Voleva però illustrare a colori e in pochi mesi Potter rifece ad acquerello tutti i suoi disegni. Nell’ottobre 1902 uscirono 8.000 copie con stampe a colori; di queste, 2.000 erano rilegate con lussuose copertine di lino, le altre in brossura, come quella qui riprodotta)

image002(Fondamentale per il successo della scrittrice fu il modo in cui combinava il comportamento dei conigli con tratti umani: mangiano prezzemolo e sono nauseati dalla lattuga, ma bevono anche il tè dalla tazza. Mescolando realtà e fantasia, tutti i coniglietti erano disegnati con la precisione anatomica della naturalista esperta, ma si reggono su due zampe come gli uomini e indossano abiti. Le illustrazioni ad acquerello erano tenui e raffinate. Per renderle con precisione, Fredrick Warne dovette ricorrere alla recentissima stampa a tre colori di Hentschel)

“Grazie a Dio non sono mai andata a scuola; mi avrebbe privato di un po’ di originalità”, (Beatrix Potter)
La scrittrice, illustratrice  e naturalista britannica era nata a Londra in una famiglia agiata. Studiò per lo più con istitutrici e crebbe con l’amore per la natura, favorito dalle visite estive in Scozia e nel Distretto dei Laghi. Nell’Inghilterra vittoriana le donne erano scoraggiate dal proseguire gli studi e, in quella società maschilista, per loro non erano riservati posti di prestigio. Malgrado fosse un’esperta illustratrice scientifica, scrisse un importante saggio sui funghi, la richiesta di uno zio d’inserirla come studentessa presso il Royal Botanic Gardens di Kew verrà rigettata. Analogamente la Royal Society rifiuterà di pubblicare una sua raccolta, di 270 acquerelli di pregevole fattura. Donna anticonformista e di notevole vivacità intellettuale, Beatrix Potter illustrò anche storie per bambini e cartoline, ma il grande successo letterario arrivò con “La storia di Peter Coniglio”. Grazie al suo coraggio e alla sua tenacia, la Potter seppe rivendicare il proprio diritto all’espressione autonoma: “Credi in un grande potere che lavora in silenzio per il bene di tutte le cose, comportati bene e non ti curare del resto”, (Beatrix Potter). Si innamorò del suo editore, Norman Warne, nonostante la disapprovazione dei genitori e fu sconvolta dalla morte di lui appena un mese dopo il fidanzamento. Con i diritti delle sue pubblicazioni e un’eredità, nel 1905 acquistò una fattoria nel Distretto del Laghi e vi si trasferì; lì continuò a scrivere libri per bambini e nel 1913 sposò un avvocato del posto, William Heelis. Alla sua morte, nel 1943, per preservare il più a lungo possibile la bellezza naturale del posto, consentendo ai contadini di proseguire l’abituale attività agricola e di allevamento, lasciò al National Trust sedici fattorie e circa 4.000 acri di terra.

image004(La vecchia casa di Hill Top, Cumbria, di Beatrix Potter: National Trust / Images James Dobson. Oggi la casa è diventata un museo)

“Il successo ottenuto spinse Beatrix Potter a comporre altri 22 racconti per bambini, tutti pubblicati da Warne, che arricchirono editore e autrice grazie alle numerose ristampe. Purtroppo Warne non aveva registrato il copyright negli Stati Uniti, permettendo la stampa di copie pirata dal 1903 in poi, con una notevole perdita di introiti. L’intraprendente Potter imparò la lezione: quando creò un coniglio di pezza basato su Peter, stette ben attenta a registrarlo, facendone il primo personaggio letterario brevettato. Consapevole del potenziale di marketing della sua creatura, approvò anche la vendita di servizi di tè, vasetti, pantofoline e altre novità basate sui suoi personaggi. Nel 1904 inventò un gioco da tavolo, ridisegnato da Warne e messo in vendita nel 1917. Potter s’interessò personalmente della progettazione, determinata a far sì che i prodotti rimanessero fedeli ai personaggi dei suoi libri. Quando Walt Disney le propose una versione animata di Peter Rabbit, rifiutò, pensando che “allargare … evidenzierebbe tutte le imperfezioni”. Oggi quegli articoli sono ancora popolari e molti grandi negozi di giocattoli hanno interi reparti dedicati a questi teneri personaggi”. (I libri che hanno cambiato la Storia. Ed. Gribaudo).

 image003(… “Gatta ha il pelo lucido e nero, è seria e beneducata, ma solo in apparenza. In realtà è scaltra e intraprendente, e finisce per andare a caccia… di guai!” …)

Mary Titton


30 settembre

PRIMO PIANO

Il governo approva il Def 2020: stop all’aumento dell’Iva.

Il Consiglio dei ministri ha approvato la nota di aggiornamento al Def. La manovra per il 2020 sarà di circa 29 miliardi, come si evince dalla bozza della nota di aggiornamento al Def. Sono previsti interventi, tra nuove entrate e riduzioni di spesa, per circa 14,4 miliardi. La flessibilità sul deficit è di circa 14,4 miliardi, lo 0,8% del Pil. L’indebitamento tendenziale risulta all’1,4% mentre il programmatico è stato fissato al 2,2% nel 2019 e nel 2020, per poi calare nei due anni successivi. È stato scongiurato l’aumento dell’Iva, ma la sterilizzazione dell’Iva, oggetto di trattativa serrata all’interno della stessa maggioranza, è solo il primo passo nel cammino del governo giallorosso, come spiega nella conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri il premier Giuseppe Conte, che dice di non “accontentarsi” e di essere pronto a realizzare i “29 punti del programma su cui ha chiesto la fiducia” meno di un mese fa. Ha aggiunto infatti: “Vogliamo ridurre il cuneo fiscale, è il nostro obiettivo, come abbassare le aliquote dell’Iva, tutto non possiamo fare nel primo anno, ma abbiamo impostato le riforme.” “Già da quest’anno – ha affermato il presidente del consiglio – progettiamo la modernizzazione del Paese, la digitalizzazione, la semplificazione burocratica, la svolta verde, per orientare tutto il sistema verso l’economia circolare e proteggere da subito il nostro ambiente.” Conte ha spiegato poi che sarà adottato un codice per la disabilità e saranno incentivati l’utilizzo della moneta elettronica e i trasferimenti digitali per combattere l’evasione fiscale. Nel programma di governo c’è anche il salario minimo collegato a un contratto di riferimento e l’alleggerimento della pressione fiscale, che grava maggiormente sui redditi medio-bassi. Le risorse per il finanziamento degli interventi previsti dalla manovra per il 2020 sono pari a quasi 0,8 per cento del Pil (circa 14,4 miliardi) così suddivisi: 7,2 miliardi (0,4% del Pil) dalla lotta all’evasione, compresa la “diffusione di strumenti di pagamento tracciabili”, 1,8 miliardi dalla spending review (0,1% del Pil), 1,7 miliardi (circa lo 0,1% del Pil), il resto dovrebbe arrivare da tagli ai sussidi e da altre misure fiscali. In tema di privatizzazioni, nella bozza della nota di aggiornamento al Def si fissa un obiettivo di 3,6 miliardi nel 2020 e di 7,2 miliardi nel biennio 2021-2022. Secondo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri “Il quadro delineato dal Def in vista della manovra costituisce una base solida per un programma ambizioso che deve fare i conti con un’eredità impegnativa, sia per per il quadro internazionale, che per le ripercussioni sulla finanza pubblica che hanno avuto stagioni più tumultuose del quadro politico e dei rapporti con l’Europa.” Con la nota di aggiornamento al def  lo stesso Gualtieri ha precisato con soddisfazione:“Definiamo uno scenario di finanza pubblica per la prossima manovra solido e volto alla crescita”.

DALLA STORIA

Truman Capote (Una delle voci più originali della letteratura americana del Novecento)

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Il 30 settembre 1924 nasceva Truman Capote, scrittore americano dal talento precoce, autore di opere letterarie, alcune delle quali, oggi, riconosciute come classici della letteratura. Chi non conosce il film “Colazione da Tiffany”, uscito nel 1961, con Audrey Hepburn, uno dei più grandi film sentimentali prodotti a Hollywood e divenuto anch’esso un classico imperdibile? Il film fu ispirato dall’omonimo libro che Capote scrisse nel 1958. Lo scrittore aveva modellato il personaggio della protagonista pensando a Marilyn Monroe che venne sconsigliata di recitare quella parte perché sconveniente per la sua immagine (nel libro l’allegra Holly Golighhtly è chiaramente una ragazza squillo, ma nella versione cinematografica diventa una bohemienne: all’epoca argomenti del genere erano l’incubo dei censori). Bisogna precisare che oggi  sarebbe difficile immaginare un’attrice più adatta alla parte della Hepburn: nella memorabile scena iniziale, di fronte alla vetrina di Tiffany, la famosa gioielleria di Manhattan, il fascino della sua luminosa bellezza è ineguagliabile. Come Marilyn Capote ebbe un’infanzia infelice: i genitori divorziarono quand’era ancora piccolo e dopo il divorzio crebbe in casa di parenti. La madre gli faceva visita occasionalmente e capitava che lo portasse con sé ai suoi convegni d’amore chiudendolo a chiave, al buio, in una stanza d’albergo. Il padre fece la sua ricomparsa solo molti anni dopo, soltanto per chiedere denaro a un figlio che era diventato lo scrittore più famoso degli Stati Uniti. Nella sua terribile infanzia l’unico conforto gli venne dall’affetto di una cugina e dall’amica Harper Lee, che diventerà famosa con la pubblicazione del libro “Il buio oltre la siepe”, vincitrice del Premio Pulizer, romanzo in cui Truman appare ritratto nel bambino Dill. Nell’America fra gli anni Quaranta e Sessanta essere un genio, un personaggio sopra le righe e omosessuale dichiarato significava andare incontro all’incomprensione, alla derisione e infine all’isolamento. La sua richiesta d’amore resterà sempre delusa malgrado il successo e la notorietà che diventeranno, al contrario, occasione di sfruttamento e invidia da parte dell’ambiente letterario e di tanti personaggi famosi, da lui abitualmente frequentati. Personaggi che Capote, nella sua disposizione a denunciare l’ipocrisia e la falsità del jet set newyorchese e dell’ambiente dell’industria cinematografica della Hollywood di allora, raccontò nel romanzo “Preghiere esaudite”. Marilyn fu “l’unica persona che ha sentito vicina, una sorta di suo alter ego al femminile, anche lei segnata da un’infanzia difficile, anche lei costretta a recitare un personaggio, senza mai riuscire a trovare un’anima gemella in cui specchiarsi che le regalasse l’amore così ardentemente desiderato”.

image001(“Truman Capote è uno dei maggiori scrittori americani del Novecento e al tempo stesso un insuperabile maestro del reportage. Nella sua opera il confine tra la letteratura e il giornalismo, è spesso sfumato, indefinibile: “Musica per camaleonti”, pubblicato per la prima volta nel 1980, riesce a essere insieme grande letteratura e grande giornalismo. Raccontando pezzi di vita quotidiana e pettegolezzi, sregolatezze e bizzarrie, passando con naturalezza dallo snervante chiacchiericcio del jet-set e ai riti della provincia più dimenticata e profonda, Capote riesce a mettere a nudo tutta l’innocenza e la violenza dell’anima americana”)

“Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Così titolava un giornale di New York di quel periodo, pubblicizzando un’intervista allo scrittore. La sua esistenza estetizzante e distruttiva ricorda la figura dello scrittore-dandy brillante e maledetto anche se si potrebbe pensare, dalle affermazioni da lui più volte rilasciate, che il suo profondo disagio esistenziale derivava dal fatto di non essere stato amato da piccolo; ferita che lo accompagnerà sempre. Sarà la vertigine di questo vuoto, la sua personalità vulnerata, a suscitare la sua attenzione verso un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1959 in cui una famiglia era stata brutalmente assassinata nelle campagne del Kansas. L’efferatezza gratuita con cui i due assassini avevano infierito sulle vittime, padre, madre e due dei quattro figli, fece nascere in lui un interesse morboso e il bisogno di seguire da vicino come si erano svolti i fatti. Con i proventi della vendita dei diritti per il film sul libro “Colazione da Tiffany”, Capote si trasferì nel Kansas e concepì l’idea di riportare quel fatto di sangue in un romanzo, in modo tale, che sarebbe diventato il capostipite di un nuovo genere letterario. Ci vollero sei anni per scrivere “A sangue freddo”, un romanzo tra letteratura e giornalismo, definito romanzo-verità in cui le fasi di un’inchiesta giudiziaria venivano descritte in chiave narrativa. Questo grazie anche all’aiuto dell’amica d’infanzia Harper Lee che diede a Capote la possibilità di accedere ai verbali e alle foto delle indagini. Fondamentale fu la frequentazione dello scrittore con gli assassini che gli permise di stabilire con loro una stretta relazione, funzionale alla stesura del libro, nel tentativo di indagare la mente perversa dei due psicotici. L’incontro con i due assassini, in particolare con Perry Smith segnò profondamente l’esistenza dello scrittore e la critica non fu priva di polemiche dove l’autore fu addirittura accusato di voyeurismo. “L’interesse di Capote alla vicenda si comprende da una famosa intervista successiva in cui Capote “affermò che in uno dei due giovani assassini protagonisti del fatto egli aveva intravisto chi sarebbe stato se non avesse intrapreso una vita diversa, uscendo dalla propria triste infanzia dalla porta principale piuttosto che da quella sul retro, come invece accadde per l’omicida, accomunato allo scrittore da molti aspetti: la madre alcolizzata, il padre assente, la solitudine, l’abbandono affettivo e il disprezzo della gente. Il ballo in maschera al Plaza Hotel, il “Ballo in Bianco e Nero”, con cui Capote festeggiò l’ultima puntata del romanzo, venne riportato in prima pagina da tutti i giornali e divenne subito un evento-icona; per diverso tempo lo scrittore tenne banco sulle prime pagine dei quotidiani, fianco a fianco agli articoli sui summit Usa-Urss e alle principali notizie di cronaca mondiale”. Truman Capote morì per una cirrosi epatica il 25 agosto 1984, poco più di un mese prima del suo sessantesimo compleanno.

image002(Il romanzo capolavoro di Truman Capote che lo porterà definitivamente nell’Olimpo dei grandi scrittori d’America, ma allo stesso tempo critica e opinione pubblica faranno nascere in lui dubbi esistenziali che lo porteranno a non completare mai più alcun libro)

 Mary Titton


26 settembre

DALLA STORIA

George Gershwin, il padre della giovane musica americana.

“Ho costruito la “Rapsodia” come una specie di caleidoscopio musicale dell’America”, confessò l’autore: “col nostro miscuglio di razze, il nostro favoloso brio nazionale, i nostri blues, la nostra follia metropolitana.”

image001(George Gershwin, 26 settembre 1898 – Hollywood, 11 luglio 1937)

Tra il  XIX e XX secolo, per alcuni decenni, la musica americana era di fatto sagomata sui modelli europei. Diversamente dall’Europa che vantava una tradizione storica con tutte le sue infinite forme e trasformazioni in America, solo allora, si stava formando un’identità musicale americana grazie all’emersione di nuove sonorità di artisti fino allora emarginati dalla cultura statunitense per motivi razziali. Singole creatività si coagulavano formando movimenti spontanei basati sulla sperimentazione personale dei musicisti con risultati molto spesso geniali. Ben presto, accanto alla musica vincolata ai modelli europei nacque una nuova musica che prevedeva l’inserimento di temi e ritmi di derivazione folklorica (quelli autoctoni e quelli afroamericani d’importazione). Blues, gospel, spirituals fornirono l’ossatura sintattica e formale alla nascente letteratura jazz. Nel panorama di questo variegato mondo musicale, rappresentativo, quindi, della società americana multirazziale, si staglia un compositore, George Gershwin che, con l’eccezionalità del suo genio, seppe definire musicalmente l’integrazione di quella commistione di stili in una sintesi di immenso fascino. “La vera musica deve rispecchiare il pensiero e l’ispirazione della gente e dei tempi. La mia gente sono gli Americani e il mio tempo è oggi” (Gershwin).

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L’immediatezza espressiva dei suoi temi e la grande popolarità che raggiunse in vita ne fanno ancora oggi un simbolo del sogno americano: compositore, pianista, direttore d’orchestra, considerato l’iniziatore del musical statunitense, Gershwin ha saputo rappresentare magnificamente lo slancio vitale e l’intreccio di culture. Quando morì alla giovane età di 38 anni, all’apice della carriera, a Hollywood dove si era trasferito per seguire da vicino la lavorazione dei film per cui scrisse le colonne sonore rendendole universali, lasciò un numero impressionante di canzoni e una limitata, per quanto esemplare, produzione di musica da camera e per pianoforte “solo” in cui riluce un mondo sonoro altrettanto vario e coerente. I suoi concerti originalissimi, in cui mescola le suggestioni del jazz al genere musicale sinfonico classico a momenti di improvvisazione, come in “Rapsodia in blu”, fecero scalpore e vennero eseguiti alla presenza dei musicisti più in vista dell’epoca, da Rachmaninov a Stokowski, da Stravinskij a Sousa e così via. “Mi piace pensare alla musica come una scienza emozionale” (Gershwin) e l’emozione è travolgente quando si ascolta la leggendaria impennata del clarinetto in “Rapsodia in blu”, così come quando si ascolta “Summertime”, una delle arie più famose contenute nella composizione più ambiziosa di Gershwin dal titolo “Porgy and Bess”, uno dei pochi esempi moderni di melodramma. E ancora quando la sceneggiatura di  “Un americano a Parigi” è magistralmente accompagnata da una partitura considerata un gioiello della musica del nostro secolo,  “sia per le qualità di originalità assoluta, sia per l’estrosità con cui viene reinventato il rapporto tra programma e musica”. In omaggio al grande musicista è stato dedicato, a Broadway, il “George Gershwin Theatre”.

https://youtu.be/Ino4ey9b5kQ

Mary Titton


25 settembre

DALLA STORIA

Mark Rothko e i suoi vibranti blocchi di colore: espressione pittorica dei sentimenti attraverso l’esperienza del colore.

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“Probabilmente ci sono ancora così tante annotazione che non riescono a spiegare i nostri dipinti. La loro spiegazione deve sorgere da una profonda esperienza tra immagine e osservatore. L’apprezzamento dell’arte è un vero matrimonio dei sensi. E come in un matrimonio, se non viene consumato si giunge all’annullamento”. (Mark Rothko).

Nella “Teoria dei colori” di Goethe si legge: “Le forze spirituali che si nascondono nell’attività dei colori offrono un valido aiuto a pittori ed educatori nella ricerca di una coscienza nuova del fenomeno “colore”. Chi vede per la prima volta le opere di Rothko, le creazioni appartenenti alla fase matura dell’attività pittorica dell’artista, non quelle che ancora  presentano tracce di figurativismo, si sente quasi preso in giro dall’autore: il primo pensiero è che ogni individuo è in grado di realizzare un simile dipinto, in cui non vi è la possibilità di riconoscere un soggetto preciso. Al contrario, basta osservare dal vivo le opere di Rothko per capire che, il colore stesso è il soggetto che il pittore vuole rappresentare nella sua realtà più viva e attiva, nel suo movimento: si percepisce che il colore non è messo lì a ricoprire la superficie delle tele, diversamente esso è un interlocutore, “un’individualità” interattiva con l’osservatore. “Se si dà colore a una forma la si eleva sopra la quiete; essa viene immediatamente vivificata con ciò che nel mondo è anima perché il colore non appartiene soltanto alla forma, perché il colore che si dà alla forma colloca quest’ultima nell’intera connessione del suo ambiente, anzi, nell’intera connessione del mondo. Quando si colora una forma si dovrebbe quasi sentire che si va verso la forma in modo da dotarla di un’anima: viene insufflata anima in una figura morta quando questa viene vivificata con il colore (da Rudolf Steiner, ne “L’essenza dei colori”). Nel processo evolutivo dell’arte la necessità, per gli artisti, di indagare nuove forme espressive per rappresentare diversi livelli di coscienza acquisiti danno vita a numerosi movimenti. A New York, nell’immediato dopoguerra, prende forma il movimento dell’ “Espressionismo astratto” che deriva il suo nome dalla combinazione dell’intensità emotiva e autoespressiva degli espressionisti tedeschi con l’estetica anti-figurativa delle scuole di astrazione europee come il Futurismo, il Bauhaus e il Cubismo sintetico in cui si aggiunge un’immagine di ribellione, anarchica, altamente idiosincratica e secondo il pensiero di alcuni, piuttosto nichilista.

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Rothko, infatti, affermava: “Noi siamo per la forma ampia, perché essa possiede l’impatto dell’inequivocabile. Noi desideriamo riaffermare la superficie del dipinto. Noi siamo per le forme piatte poiché esse distruggono l’illusione e rivelano la verità”. L’occhio umano percepisce questo spazio tutto creato dall’affiancamento di colori di diverse luminosità che trapassano da un tono all’altro senza mai realmente compenetrarsi. Non sono in gioco soltanto valori percettivi, ma anche stimolazioni emotive e inconsce. La parte chiara assume l’aspetto di un bagliore o addirittura di una teofania, cioè di un’apparizione del divino attraverso la luce. Interessante il commento critico di Angelica Gioelino in “Arte senza il corpo”, tratto da Artecray.ue che qui segnaliamo: “Mark Rothko (25 settembre 1903 – 25 febbraio 1970), è un artista appartenete al gruppo di pittori americani che insieme a Pollock, Gottlieb, de Kooning, Still, Kline, Newman e Motherwell è possibile inserire nella corrente dell’Espressionismo astratto, dove i sentimenti vengono espressi tramite l’azione pittorica. Colorfield Painting è il movimento culturale a cui appartiene Rothko, ovvero pittura delle campiture, in cui ad assumere il ruolo che fa da padrone è la forza scaturita dal colore suscitante emozioni. La chiave per capire l’operato di Rothko dunque è proprio lo sguardo attento del pubblico in contatto con il dipinto. Il linguaggio figurativo astratto adoperato dal pittore nelle sue opere d’arte si esprime attraverso una relazione che coinvolge l’osservatore e il dipinto, le creazione cromatiche, caratterizzate da composizioni di colori rettangolari sfumate, sono un elemento di attrazione per lo spettatore, il quale viene imprigionato all’interno della composizione. Il pubblico è catturato dall’immensità dell’opera d’arte, la geometria dell’immagine e l’omogeneità del colore inducono la mente umana in un viaggio spirituale all’interno della creazione artistica, non si tratta di un viaggio allucinatorio, infatti i quadri di Rothko sono un emblema della rappresentazione della drammaticità, della tragedia esistenziale dell’artista stesso. È la tragedia del nascere, del vivere e del morire ad essere espressa dall’artista. Rothko è riuscito con la sua vena artistica a restituire alla pittura la qualità di suscitare atmosfere immateriali, un’atmosfera non terrena resa sublime grazie al colore e alla luce. Ciò non significa che l’artista sia riuscito ad andare oltre una normale tridimensionalità terrena, egli ha plasmato tramite l’utilizzo del colore un tonalismo non più legato alla raffigurazione naturalistica gli elementi”.

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(Descrizione di un’esperienza diretta dell’opera di Rothko)

Mary Titton


23 settembre

PRIMO PIANO

Leonardo a Livorno.

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Nella ricorrenza del Cinquecentesimo Anniversario della scomparsa del Maestro Vinciano, nell’incantevole cornice del castello mediceo di Sonnino, a picco sulla scogliera di Livorno, sabato 21 settembre si è tenuta l’esclusiva manifestazione “Leonardo a Livorno”, promossa dal nostro Gruppo editoriale. Momento clou dell’evento è stata l’inaugurazione della mostra “Immaginare Leonardo”, con l’intervento di Philippe Daverio, critico d’arte di fama internazionale, che con una interpretazione un po’ fuori dagli schemi, ha insistito nel definire il genio di Vinci “un mitomane rompiscatole”, caratterizzandone comunque la figura nel contesto artistico rinascimentale in un discorso fluido e piacevole e al contempo di grande spessore culturale. Ha detto tra l’altro il professore: “A Leonardo Da Vinci si attribuisce una curiosità di percezione scientifica e un’estetizzazione che rasenta la perfezione – una passione assoluta per l’innovazione. Nel suo lavoro riprende i parametri del De Architectura di Vitruvio dove si parla anche del concetto di ‘bello’ che è uno dei grossi problemi della nostra civiltà. Per i Romani è una cosa, per i Greci un’altra, per Agostino è la caratteristica della grazia, per Vitruvio invece riguarda l’equilibrio. Nella conferenza svoltasi nel giardino del castello ornato da verdi piante di limoni, oltre quella del famoso critico d’arte, pregevole è stata l’illustrazione da parte di Giosuè Allegrini, ufficiale del Genio Navale della Marina Militare e direttore dell’Ufficio Storico della MMI, dello studio dei fluidi e della realizzazione di macchine idrauliche da parte di Leonardo e del rapporto tra lo stesso e Livorno, di cui sicuramente “ha disegnato i punti strategici, il porto, la torre e il faro per immobilizzare, nel 1503, durante il conflitto tra i Fiorentini e i Pisani, in cui anche la città di Livorno era coinvolta, di fatto il porto pisano.” Francesco Malvasi, direttore artistico di Progetto Editoriale, ha ripreso tali aspetti, sottolineando l’eclettismo di Leonardo, pittore, architetto, scultore, teorico dell’arte, scienziato e ingegnere, precursore di una prima figura di intellettuale europeo e moderno, illustrando anche le ragioni del lungo impegno della Casa Editrice relativamente al pensiero ed all’opera del Maestro, che ha dato vita nel tempo ad una significativa politica editoriale di riferimento. La mostra ha messo insieme oltre trenta opere di artisti contemporanei appartenenti alla Nuova Scuola Romana in un dialogo ideale tra passato e presente, su cui si è soffermata Tiziana Todi, titolare della Galleria Vittoria in via Margutta a Roma e curatrice della rassegna stessa, che si avvale a corredo di un elegante Catalogo edito da Progetto Editoriale, nel quale sono riportate tutte le opere in esposizione nonché le schede descrittive degli artisti, che si sono ispirati a Leonardo e al suo genio.

 La mostra sarà aperta ad ingresso gratuito nelle giornate del 26/27/28 settembre e 3/4/5 ottobre il giovedì e venerdì dalle 15:30 alle 19:30, il sabato tutto il giorno dalle 9:30 alle 13:00 e dalle 15:30 alle 19:30.


18 settembre

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In occasione della Manifestazione “Leonardo infinito” dedicata al Cinquecentesimo Anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci che avrà luogo a Castel Sonnino, Livorno, la redazione della rubrica DayByDay sospende temporaneamente la pubblicazione degli articoli. Riprenderà con la consueta regolarità lunedì 23 settembre. L’evento, di particolare interesse culturale, è presentato, nella sua peculiarità, dall’editore Francesco Malvasi nella pagina centrale del nostro sito, accanto alla nostra rubrica.

Mary Titton.


17 settembre

PRIMO PIANO

Ancora una pagina di politica: Renzi lascia il Pd.

Questa mattina viceministri e sottosegretari del governo Conte II non avevano ancora finito di giurare a Palazzo Chigi, quando Matteo Renzi ha annunciato ufficialmente la sua uscita dal Pd e la cosituzione di una nuova formazione che si chiamerà “Italia Viva”. La decisione ha sorpreso tutti, alleati e colleghi di partito, e anche il presidente Conte, che esprime “perplessità” per la “singolare scelta dei tempi”, chiedendosi come mai non lo abbia fatto prima che nascesse il governo giallorosso, tanto dall’ex premier caldeggiato. L’annuncio è stato anticipato ieri sera da Renzi a Conte con una telefonata, nella quale l’ex presidente del Consiglio ha assicurato il suo sostegno al governo. Il nuovo movimento di Renzi, affiancando i gruppi civici di “Ritorno al futuro”, dovrebbe nascere in Parlamento con un gruppo autonomo e con una componente nel misto al Senato. Con Renzi dovrebbero lasciare il Pd una ventina di deputati e 10 senatori. L’ex premier in un’intervista a Repubblica ha affermato di voler combattere Salvini e ha spiegato: “Quello che mi spinge a lasciare è la mancanza di una visione sul futuro”, definendo poi l’attuale Pd “un insieme di correnti” e aggiungendo: “I parlamentari che mi seguiranno saranno una trentina, più o meno. Non dico che c’è un numero chiuso, ma quasi. I gruppi autonomi nasceranno già questa settimana. E saranno un bene per tutti: Zingaretti non avrà più l’alibi di dire che non controlla i gruppi Pd perchè saranno ‘derenzizzati’.” “Un errore dividere il Pd, specie in un momento in cui la sua forza è indispensabile per la qualità della nostra democrazia”, per il segretario del Pd Nicola Zingaretti, che conclude però: “Ora pensiamo al futuro degli italiani, lavoro, ambiente, imprese, scuola, investimenti. Una nuova agenda e il bisogno di ricostruire una speranza con il buon governo e un nuovo Partito democratico.” La scissione di Renzi fa molto discutere politici e giornalisti, molti non ne trovano le ragioni politiche e anche tra i suoi fedelissimi la scelta genera dubbi, alcuni ipotizzano che lo spinga il desiderio di visibilità e di rimettersi in gioco, altri ancora, ricordando il famoso “Enrico stai sereno”, pensano più realisticamente, che voglia tenere in pugno il governo e farlo cadere nel momento più conveniente per lui, nonostante abbia assicurato a Porta a Porta che è sua intenzione che il governo Conte bis vada avanti fino a fine legislatura. Vedremo.


16 settembre

PRIMO PIANO

Arabia Saudita: I ribelli yemeniti potrebbero attaccare ancora i pozzi petroliferi.

Il portavoce dei ribelli Houthi, attraverso Twitter, ha dichiarato che “Aramco, la compagnia petrolifera statale dell’Arabia Saudita, è ancora un obiettivo e potrebbe essere attaccata in qualsiasi momento.” I ribelli yemeniti hanno anche confermato e rivendicato l’attacco con i droni di sabato scorso agli impianti di lavorazione di Abqaiq e Khurais, il complesso più grande al mondo, nella parte orientale dell’Arabia Saudita. Il portavoce degli Houthi, Yahya Sarea, ha poi invitato il personale straniero a restare lontano dagli impianti della Aramco, chiedendo all’Arabia Saudita di fermare la sua “aggressione” allo Yemen. Il riferimento è all’intervento della coalizione militare guidata da Riad nel conflitto tra ribelli sciiti e forze governative, che dura da quattro anni. Gli scontri dei ribelli contro l’Arabia Saudita mantengono altissima la tensione nel Golfo Persico, anche tra Stati Uniti e Iran, accusato di sostenere gli Houthi e di fornire loro armi sofisticate. Due gli impianti colpiti: il primo è la più importante installazione al mondo per il trattamento del petrolio, mentre il secondo è un campo di estrazione gestito dalla Saudi Aramco. Dopo l’attacco gli impianti sono stati fermati e il Paese ha praticamente dimezzato la produzione petrolifera, riducendola di 5,7 milioni di barili al giorno. I prezzi internazionali del petrolio, quindi, oggi sono aumentati quasi del 20%, un record dall’inizio della Guerra del Golfo del 1991. Secondo il Financial Times la capacità di produzione di petrolio dell’Arabia Saudita potrebbe tornare a pieno regime solo tra diversi mesi. L’area interessata è in una situazione drammatica, lo Yemen è uno dei paesi più poveri al mondo e sta vivendo una crisi umanitaria con tre civili uccisi in media al giorno e lo sfollamento di migliaia di persone innocenti, soprattutto bambini. Ali Rabiei, il portavoce del governo di Teheran, accusato per gli attacchi agli impianti petroliferi sauditi di Aramco dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, ha declinato ogni responsabilità e ha detto: “L’Iran è pronto a lavorare con l’Onu e altri paesi per riportare la pace e la stabilità in Yemen e nella regione.”


13 settembre

DALLA STORIA

Walter Bonatti sits with a lunch tray on his knees, while talking and gesticulating; he is back from climbing Pointe Whymper in Grandes Jorasses, with the Swiss mountain climber Michel Vaucher. Grandes Jorasses, Mont Blanc (France), 1964.(Walter Bonatti nel 1964 Piolet d’or (in italiano Piccozza d’oro) alla carriera 2009, il massimo riconoscimento alpinistico a livello mondiale)

Walter Bonatti: l’uomo che sfidava l’impossibile.

“Se fosse vissuto ai tempi di Omero le sue imprese sarebbero state raccontate con un grande poema”. (Dino Buzzati)

Walter Bonatti, soprannominato “Il Re delle alpi”, è stato una delle figure più eminenti dell’alpinismo mondiale. Le sue imprese, eccezionali per un uomo comune, sono entrate nella storia e conservate negli archivi delle accademie geografiche e nella letteratura di settore per la sua capacità di aprire nuove vie da scalare, ritenute impossibili da affrontare solo con le proprie forze e una attrezzatura essenziale, come lui seppe, invece, fare: cercava tenacemente soluzioni ai problemi alpinistici dell’epoca spostando sempre più avanti i limiti dell’umanamente possibile. Bergamasco era nato il 22 giugno 1930 da una famiglia semplice. Compì la prima scalata, sulla Grigna, a diciott’anni. Per mantenersi, all’epoca, lavorava come operaio siderurgico presso un’acciaieria e andava sulle montagne lombarde solo la domenica, dopo il turno di notte del sabato. Nella sua carriera ha conquistato e scalato diverse montagne: nel 1951 la Est del Grand Capucin, nel cuore del Monte Bianco; nel 1954 partecipò alla spedizione del K2 dove rimase talmente deluso dall’atteggiamento dei suoi compagni da prediligere da allora in poi imprese alpinistiche condotte prevalentemente in solitaria. “Quello che riportai dal K2 fu soprattutto un grosso fardello di esperienze negative, direi fin troppo crude per i miei giovani anni” (Walter Bonatti, “Le mie montagne”). Ne nacque un caso che durò decenni. Per porre termine all’annosa vicenda, dopo il Club Alpino Italiano, fu la Società Geografica Italiana, a Villa Celimontana, la sede storica della Società a stilare, nel 2008, la versione definitiva chiarendo il ruolo di Bonatti nel raggiungimento della vetta. Bonatti informato in anticipo dalla Società Geografica Italiana della revisione che sarebbe stata effettuata rispose con una lettera: “A cinquantatré anni dalla conquista del K2, sono state finalmente ripudiate le falsità e le scorrettezze contenute nei punti cruciali della versione ufficiale del capospedizione prof. Ardito Desio. Si è così ristabilita in tutta la sua totalità, la vera storia dell’accaduto in quell’impresa nei giorni della vittoria… Si è (…) dato completa verità e dovuta dignità al grande successo italiano, una affermazione che ha saputo risvegliare, dopo gli anni bui, il vanto e l’orgoglio di tutti noi”. Nel 1955 Bonatti scala il pilastro ovest del Dru; nel 1957 il Pilier d’Angle sul Bianco; nel 1959 il Pilastro Rosso di Brouillard; nel 1962 apre la seconda via sul Pilier D’Angle e nel 1965 una nuova via in solitaria invernale sulla Nord del Cervino. Dopo l’impresa del Cervino, che gli valse la Medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica, a soli 35 anni, Bonatti si ritira dall’alpinismo estremo per intraprendere questa volta viaggi di esplorazione che affronta con lo stesso spirito di penetrazione e dedizione con cui scalava le vette più impervie mondo. Le sue avventure, dove poteva succedere di tutto, sono incredibili. Come la volta in cui si trovò a tu per tu con due leonesse, imperturbabile, vincendo l’impulso di scappare che non sarebbe servito a salvarlo, passò loro accanto e proseguì lentamente e indenne il suo cammino. Nella sua vita ha scritto una ventina di libri, tradotti in diverse lingue e per lunghi anni ha collaborato con il settimanale Epoca a cui inviava articoli che parlavano delle sue salite estreme che hanno, per molti, comportato la morte, di viaggi straordinari, corredati da bellissimi servizi fotografici, in luoghi inospitali e pieni di pericoli, emozionanti nel cimento dell’impresa. Si sorprendeva di constatare la veridicità di ciò che leggeva nei libri dei suoi autori preferiti: in quei romanzi d’avventura la descrizione dei luoghi in cui si muovevano i personaggi non era frutto dell’immaginazione dell’autore ma corrispondeva alla realtà che Bonatti sperimentava sul posto: “I miei maestri sono stati Hemingway, Jack London, Defoe, Melville, ai quali devo dire grazie se non ho paura di invecchiare. La loro avventura è stata la mia. Chi sta veramente solo? C’è sempre un telefono satellitare per gridare e chiedere aiuto. Dal mare, dalla montagna, dal deserto, dalla gola del vulcano. Devi stare solo con i tuoi mezzi, con le tue incertezze, per scoprire il tuo carattere, senza possibilità di aggrapparti a qualcosa o a qualcuno. La solitudine è angosciosa, ma è un percorso, acutizza le sensibilità, ti forza a cercare in te stesso la soluzione. Devi essere onesto, guadagnarti i tuoi saperi, costruirti con la prudenza e l’esperienza. … Ho cercato le risposte, non credo alla fortuna, un uomo è quello che vuole essere” (intervista a W. Bonatti di Emanuela Audisio, Repubblica 6 giugno 2010). Il pensiero di Bonatti, nella radicalità delle sue idee di integrità e onestà, è il pensiero di un uomo libero che nel misurarsi attraverso le sfide, mettendosi così alla prova, compie un salto qualitativo nelle proprie dimensioni dell’essere. “Io credo che la nitidezza che c’è in alta quota chiunque è andato in montagna quando tu vedi il profilo della roccia e il cielo azzurro dietro sono smaglianti. Ecco, quella nitidezza è quello che lascia Walter. È bello perché è luce” (Michele Serra, Sfide: Walter Bonatti, “Al di là delle nuvole, su You Tube). Il “Re delle Alpi” muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre 2011 all’età di 81 anni per un tumore al pancreas. Le sue ceneri verranno tumulate nel un piccolo cimitero di Porto Venere a picco sul mare.

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Di seguito viene riportato l’articolo di Walter Bonatti per il settimanale Epoca del 30 luglio 1961 sul n° 565 in cui racconta di quando tre italiani e quattro francesi, nel 1961, tentarono la scalata al Pilone Centrale del Monte Bianco. Del gruppo sopravvissero solo Gallieni, Mazeaud e Bonatti.

Tragedia sul Bianco.

Da nove anni aspettavo il momento di questa scalata. Domenica 7 luglio, quando sono partito con Andrea Oggioni e Roberto Gallieni, le condizioni del tempo erano perfette. Raggiungemmo in cordata la Fourche, prima tappa del nostro avvicinamento al Pilone attraverso la via del Canalone del Peuterey. Alla Fourche c’è un bivacco fisso: una capanna di lamiera sospesa nel vuoto dalla cresta e tenuta su con tiranti di acciaio. Può ospitare sei alpinisti. Pensiamo di ristorarci, ma appena entrati vediamo quattro uomini sulle cuccette. Riconosco Robert Guillaume e in attimo comprendo: anch’essi vogliono scalare il Pilone. Sbalordito, Guillaume mi dice: Ma non eri in Perù?”. Dopo essermi consultato con i miei compagni, mi rivolgo a lui: “Voi che siete arrivati per primi andate al Pilone, noi ripieghiamo su un’altra scalata”. Guillaume e Mazeaud mi rispondono: “No, non è giusto che tu debba rinunciare a un’impresa che sei stato il primo a progettare. Andiamo assieme. / Passa la nostra prima notte di bivacco, gelida ma serena, dopo oltre ventiquattr’ore di ininterrotto cammino. / Ci arrampichiamo spediti e raggiungiamo la base della cuspide finale verso mezzogiorno. Abbiamo notato delle nebbie vaganti sopra di noi, ma non ci preoccupiamo, data la quota che abbiamo raggiunto: pensiamo di essere in cima prima di un’eventuale bufera. Invece, il temporale ci coglie mentre Mazeaud e Kohlman stanno iniziando la scalata: rimangono solo ottanta metri di monolite strapiombante per uscire dal Pilone e giungere sulla crestina che conduce verso la vetta del Monte Bianco. Ci raduniamo nelle poche cenge esistenti in quel punto, mentre la tempesta di neve incomincia violenta: tuoni e lampi sfolgorano tutt’intorno, l’aria è satura di elettricità, il vento ci butta sul viso polvere di neve accecante. Siamo a oltre 4.500 metri, su quel Pilone che è il parafulmine del Monte Bianco. Noi tre italiani ci sistemiamo su una piccola cengia; i francesi stanno organizzandosi in due gruppi quando Kohlman viene sfiorato da una folgore. Sotto la sferza di fuoco sta per accasciarsi: Mazeaud con un  balzo lo afferra e riesce a sostenerlo. Kohlman è come paralizzato. Cerchiamo della coramina. E Mazeaud gliela fa trangugiare. Finalmente il francese si riprende e possiamo finire di sistemarci. La vetta del Bianco dista non più di dodici ore di scalata. Oltre la cima ci attendono la capanna Vallot e una facile discesa verso Chamonix. Basterebbe una schiarita di mezza giornata per realizzare questo sogno, ma lassù non ci arriveremo mai. / Comincia a imbrunire. Siamo chiusi dentro la tendina da bivacco e seguiamo la bufera soltanto attraverso l’intensità dei tuoni. Attraverso il telo opaco della tendina ci abbagliano i fulmini. Intorno a noi, assicurato agli stessi chiodi che ci sorreggono nel vuoto, sta appeso il materiale alpinistico per la scalata: chiodi, ramponi e piccozze non potrebbero diventare migliore esca per i fulmini. Vorremmo buttarli via, ma come faremmo a scendere o a salire se ce ne privassimo? Nessuno parla: ognuno si concentra in se stesso. Proprio mentre pensiamo per l’ennesima volta che siamo affidati al caso, sentiamo come una forza che ci vuol strappare le gambe. Siamo stati sfiorati tutti dalla folgore. Urliamo selvaggiamente. Siamo vivi, ma ormai sappiamo che la tempesta può incenerirci da un momento all’altro. Ci chiamiamo per accertarci che siamo tutti. Segue una pausa terrificante di vuoto: sappiamo che essa prelude a una ulteriore concentrazione di elettricità, che inevitabilmente esploderà ancora. Pochi minuti dopo si ripete in modo ancora più violento, sbalzandoci quasi dalla parete, l’urto già provato. Una voce fra le grida mi giunge perfettamente chiara: “Dobbiamo fuggire!”. / Miracolosamente, invece, il temporale sembra allontanarsi. (…) Passa tutta la notte e un chiarore lattiginoso annuncia l’alba del mercoledì. Ci invade una sensazione di felicità: l’enorme quantità di neve caduta, il gelo terribile sono forieri di buon tempo. Scatto alcune fotografie, poi smontiamo le tendina. Ma improvvisamente ci troviamo avvolti nella bufera. Il vento fortissimo fa turbinare tutta la coltre di neve fresca, non ci rendiamo conto se stia nevicando o se sia soltanto opera del vento. Ci infiliamo nuovamente nel nostro telo, e così fanno i francesi. / (…) Così passa la giornata di giovedì e giunge la notte. Oggioni e io soffriamo di mancanza d’aria. A lui confido la mia intenzione di scendere a ogni costo. Passa anche la notte di giovedì. Avevo messo la sveglia sulle 3.30. A quell’ora grido a tutti:” Non possiamo rimanere oltre, altrimenti ci mancherebbero le forze”. / (…) Prima che scenda la notte dal venerdì al sabato, dopo dodici ore di calata a corda doppia, siamo tutti sistemati per il bivacco. Fra tutti il più provato appare Kholman. Guillaume, con quello che rimane di una sua bomboletta di gas liquido, gli prepara del tè caldo e glielo dà. Dividiamo tra tutti i viveri rimasti: prugne secche, cioccolato, zucchero e un po’ di carne ormai gelata. Kholman mi mostra le dita delle mani: sono livide. Gli passo la borraccetta: se la porta alla bocca e comincia a trangugiarlo. E’ un gesto inconsulto, ma penso abbia scambiato l’alcol per un liquore. Gli strappo la borraccia: sarà riuscito a bere un paio di sorsi. Siamo già agli inizi della pazzia? / (…) La parete che precede i Rochers Gruber è spaventosamente carica di neve fresca, che potrebbe trasformarsi in slavina da un momento all’altro. Invito i compagni a raggiungermi e a mettersi al riparo, in modo da potermi trattenere con la corda se una slavina mi coglie mentre taglio il canalone per raggiungere i Rochers Gruber. Ci riesco, chiamo gli altri che passino uno a uno, ma quando è il turno di Vieille questi non ce la fa. Io intanto mi ero mosso per preparare la prima della lunghissima serie di calate sui Rochers Gruber. Odo gli incitamenti dei miei compagni rivolti a Vieille, che ancora non ha passato il canalone. A mia volta grido di fare presto se non vogliamo morire lassù. Non solo non compare nessuno, ma le voci vanno via via spegnendosi. Risalgo fin dove mi è possibile vedere il gruppo dei miei compagni: “Perché non scendete?”. Una voce, forse di Gallieni, mi dice: “Vieille sta morendo”. Rimango impietrito. / Davanti a me scorgo il gruppetto degli amici radunati intorno al corpo di Vieille, che sembra un fagotto scuro e inerte sul bianco della neve. E’ ancorato alle rocce e avvolto nella nostra tendina perché i corvi non lo attacchino. Nell’aria non si odono voci, solo il fruscio del vento. Ha ripreso a nevicare. Questa agonia non disturbata da nessuna parola umana è terribile. / (…) La fila si allunga. Oggioni si accascia ogni pochi passi, stremato. Brancoliamo sul ghiacciaio, ubriachi di fatica. Mi rendo conto che difficilmente in quelle condizioni riusciremo a giungere con la luce del giorno alla base del Colle dell’Innominata. Gallieni appare il meno provato. Decido di slegarmi con lui dal gruppo e di precedere i compagni, per attrezzare l’imbuto ghiacciato dell’Innominata; altrimenti gli altri, in quelle condizioni, non potranno mai salire, e l’operazione va compiuta prima di notte. I compagni seguono le nostre tracce. La nostra unica possibilità è di raggiungere le squadre di soccorso. / Raggiungo il Colle dell’Innominata che è buio pesto. E’ sabato sera e siamo fuori da sei giorni. Riprende a cadere il nevischio e da occidente arrivano i bagliori di un temporale che si sta avvicinando. Non ho la possibilità di fissare alcun chiodo per ancorare la corda che sorregge i miei quattro compagni. Sostengo la corda a spalle. Invoco i compagni a fare presto. L’operazione, invece è lunghissima, disperata. Gli ordini si accavallano con i lamento di dolore e di disperazione. Dietro Gallieni, Oggioni sembra incapace di reggersi. I due francesi sono giù in fondo che gridano e smaniano. E’ il caos. Passano tre ore e siamo sempre allo stesso punto. Il dolore della corda e del freddo mi fa quasi venir meno. Se crollo è la fine per tutti. In queste tre ore Oggioni non è riuscito a muoversi dal punto in cui era arrivato. Ogni incitamento sembra vano: è come in trance. / (…) Vediamo Kohlman che nel buio brancola lungo le corde, slegato. Gallieni, intuendo la sua follia, riesce ad afferralo e ad agganciarlo. In breve ci troviamo tutti e tre sul Colle dell’Innominata. Kohlman ci dice che ha fame e sete, e poi aggiunge: “Dov’è il Rifugio Gamba?”. E’ completamente fuori senno, ma non possiamo abbandonarlo. (…) Come Dio vuole, arriviamo in fondo. Cominciamo a riprenderci d’animo, quando succede un fatto inaspettato. A Gallieni cade un guanto. Si china per riprenderlo e cerca di riscaldarsi  la mano infilandola nel giubbetto. Kohlman che interpreta questo gesto come se Gallieni volesse estrarre la pistola, si scaglia su di lui e lo fa rotolare sul pendio. Gallieni riesce a liberarsi, io cerco di impedire i loro movimenti con la corda. Kohlman allora si scaglia su di me. Lo schivo, lui cade a terra, si contorce: è impazzito. Si alza, cerca di saltarci addosso, lo teniamo lontano tirando le corde, ognuno dalla propria parte. Siamo infatti legati tutti e tre e nessuno di noi può liberarsi. Non possiamo trascinarlo al rifugio, e tuttavia non dobbiamo perdere più neanche un minuto. / Per slegarci da lui dobbiamo sciogliere i nodi gelati. Non abbiamo un coltello eppure dobbiamo separarci da questo povero compagno impazzito. Lui spia ogni nostro movimento, pronto a saltarci addosso. Uno alla volta, tenendo la corda tesa coi denti, ci caliamo i calzoni per poter sfilare dai fianchi l’anello di corda che ci cinge la vita. Riusciamo nell’operazione senza che Kohlman se ne accorga. Quindi grido a Gallieni: “Molla! Fuggi!”, e corriamo via. (…) Facciamo in questo modo gli ultimi quattrocento metri che ci dividono dal Rifugio Gamba. È buio pesto. Grido.: “Fate presto! Ce n’è uno qui fuori! Gli altri sono sul canalino dell’Innominata!”. Sono le 3 della notte sulla domenica. La tormenta non cessa un attimo. Mi sdraio sul tavolo al centro del rifugio. Ci tolgono dai piedi i ramponi gelati, ci spogliano, ci mettono indumenti asciutti, ci danno bevande calde. Cado in un profondo sopore. Quando mi sveglio sono passate circa 3 ore. I corpi dei miei compagni sono stati raccolti a uno a uno, meno Vieille. Mi dicono che Oggioni è morto e un dolore incontenibile mi assale. Il caro Mazeaud, il solo che hanno trovato vivo, mi abbraccia e piange con me.

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Mary Titton

PRIMO PIANO

La squadra del governo Conte II è al completo.

Dopo una notte di lavoro per far quadrare nomi e incarichi, il Conte II ha completato la squadra di governo con la scelta di 32 sottosegretari e 10 viceministri. Questa mattina, al termine di un breve Consiglio dei ministri, durato circa 10 minuti, sono stati nominati i viceministri e i sottosegretari: in tutto 42. La maggioranza delle nomine va al Movimento 5 Stelle con 21 incarichi, di cui 6 da viceministri, al Pd vanno 18 sottosegretari e 4 viceministri, a Leu 2 sottosegtetari, alle Autonomie del Maie 1. La cerimonia del giuramento è stata fissata per lunedì mattina a Palazzo Chigi. Ci sono diverse conferme e qualche sorpresa, nomi noti ed altri sconosciuti, alcuni hanno già ricoperto incarichi, altri sono alla prima esperienza, le donne sono 14, tra queste le piemontesi Laura Castelli (M5s) viceministra all’Economia e Lucia Azzolina (M5s) sottosegretaria all’Istruzione, la viceministra Anna Ascani (Pd) sempre all’ Istruzione, i viceministri Emanuela Del Re (M5s) e Marina Sereni (Pd) agli Esteri, le sottosegretarie Anna Laura Orrico (M5s) e Lorenza Bonaccorsi (Pd) alla Cultura, Mirella Liuzzi (M5s) sottosegretaria al Mise. I viceministri sono 10: All’Interno Vito Crimi (M5s) e Matteo Mauri (Pd), agli Esteri Emanuela Del Re (M5s) e Marina Sereni (Pd), all’Economia i viceministri Laura Castelli (M5s) e Antonio Misani (Pd), al Mise il viceministro Stefano Buffagni (M5s), alle Infrastrutture e Trasporti il viceministro Giancarlo Cancelleri (M5s), all’Istruzione la viceministra Anna Ascani (Pd), alla Salute il viceministro Pierpaolo Sileri (M5s). Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, rispondendo a una domanda durante la sua visita ad Accumoli, ha dichiarato di essere molto soddisfatto della squadra “sufficientemente giovane ed amalgamata”.


12 settembre

PRIMO PIANO

L’immagine straordinaria di una valanga su Marte.

La potentissima fotocamera HiRISE installata sulla sonda Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) della NASA ha catturato nel mese di maggio la straordinaria immagine di una valanga su Marte. La fotocamera HiRISE (High Resolution Imaging Science Experiment) è stata progettata e costruita dagli scienziati del Lunar & Planetary Laborator, pesa 65 chilogrammi ed è costata 40 milioni di dollari. Si tratta di uno degli strumenti di imaging scientifico più sofisticati e potenti mai realizzati. L’immagine ha una larghezza di circa un chilometro. Lo scatto, effettuato quando la sonda si trovava ad appena 320 chilometri di altitudine dalla superficie del Pianeta Rosso, è di soli 32 centimetri per pixel e mostra blocchi di ghiaccio che si schiantano al suolo da una parete rocciosa alta 500 metri, sollevando un’enorme nube di polveri. Il fenomeno si è verificato a 370 km dal Polo Nord marziano. Come avviene sulla Terra, anche Marte ha il suo ciclo di stagioni. Anche su Marte, infatti, ci sono le stagioni con l’unica differenza che durano il doppio che da noi. Da marzo l’emisfero settentrionale del Pianeta Rosso è scaldato dal tepore primaverile e il ghiaccio accumulatosi sulle catene montuose a ridosso del Polo Nord può sciogliersi dando vita a spettacolari valanghe. “Ogni primavera il sole splende sul lato dei blocchi di ghiaccio del Polo Nord di Marte, noti come depositi di ghiaccio stratificati. Il calore destabilizza il ghiaccio e i blocchi si staccano”, ha scritto la professoressa Candy Hansen del Lunar & Planetary Laboratory (LPL) dell’Università dell’Arizona, commentando l’immagine.


11 settembre

DALLA STORIA

Beatrice Cenci

image002(Particolare del presunto ritratto di Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni, 1599)

La storia di Beatrice Cenci, vittima dell’inaudita violenza del padre e dell’ingordigia del potere nella figura del pontefice Clemente VIII che, al processo accusata di parricidio insieme ai fratelli, la condannò alla pena di morte per sottrarle i beni familiari, descrive la tragica condizione che le donne avevano in sorte in un mondo fondato sulla supremazia maschile. Nel Cinquecento, quando nacque Beatrice Cenci, accanto alla comparsa delle prime opere letterarie italiane per mano di letterate, tra le più celebri Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Isabella Morra (uccisa dai fratelli per una corrispondenza segreta con il poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, Isabella d’Este e pochissime altre che costituivano una rarità, nascere donna significava subire ogni forma di condizionamento e volontà maschile. Anche le donne dei ceti medi e altolocati dovevano necessariamente adeguarsi alle regole sociali del tempo: “dovevano essere caste, silenziose e obbedienti, dovevano apprendere le pratiche tessili e quelle relative alla gestione domestica, sottomettersi al dovere di procreare: “ogni 24 o 30 mesi ogni donna nel Rinascimento diventava madre e questo è testimoniato anche da esempi illustri come quello di Henrietta, moglie di Carlo I d’Inghilterra che fu incinta senza interruzione dal 1628 al 1639. Anche nella letteratura maschile veniva legiferato il codice comportamentale che le donne dovevano assumere all’interno della società del tempo. Nell’opera “Consigli a una moglie giovane” Ludovico Dolce considera il matrimonio il mezzo per dirigere nella vita sociale la forza sviante della figura femminile, per fare in modo che la sua imperfezione naturale possa disciplinarsi alla presenza dell’universo maschile. La donna deve riconoscere il marito come suo unico punto di riferimento e vivere in sua funzione, ha come dovere primario l’adattarsi ad ogni situazione e di amare sempre il consorte, non considerando come si comporta. Lei non gestisce il suo corpo, esso è “proprietà” del marito che ne usufruisce a suo piacimento”… e Dio solo sa quali altre coercizioni raccapriccianti venivano inflitte al genere femminile. Ma basta leggere i testi storici sull’argomento per entrare nel dettaglio sulla condizione della donna negli ultimi duemila anni! Ma torniamo a Beatrice Cenci, alla sua tetra vicenda, al suo processo e alla sua morte per decapitazione che tanto impressionò il popolo romano. Davanti al patibolo si trovava il Caravaggio che, colpito dall’esecuzione ne volle rivendicare l’ingiustizia in un suo dipinto ritraendo Giuditta, nel volto simile a Beatrice, nell’atto di uccidere Oloferne. Lo stesso tema venne inoltre realizzato da un’altra grande pittrice del tempo Artemisia Gentileschi anche lei ispiratasi a Beatrice Cenci nella rassomiglianza del volto di Giuditta che la ritrasse, con particolare efficacia in una potente immagine in cui infilza la testa di Oloferne.

image004(Il particolare del volto di Giuditta rassomigliante il volto di Beatrice Cenci nei dipinti, a sinistra, di Caravaggio e Artemisia Gentileschi)

Laura Marino in un libro dal titolo “Le donne di Roma”, 1995, Ed. Newton ne racconta la storia: “Al tempo del processo Cenci era pontefice un Aldobrandini, Clemente VIII, uomo dalla personalità contraddittoria che, se da una parte aveva voluto riportare Roma a una maggiore severità di costumi, non disdegnava la pompa e il lusso. Con lui ebbero luogo due famosi processi, quello appunto ai Cenci e quello a Giordano Bruno, risoltisi entrambi con drastiche condanne a morte. Nepotista a oltranza, Clemente favorì l’elevazione alla porpora di alcuni personaggi della sua famiglia e l’arricchimento di altri. Il sospetto tuttavia di aver ispirato la drastica sentenza nei riguardi degli sfortunati Cenci è mitigato dal fatto che molto spesso intervenne a favore dei giovani di quella famiglia.

image003(Papa Clemente VIII)

Erano i Cenci di origine medievale: il loro nome è testimoniato per la prima volta nella prima metà del Trecento. / Spesso avevano ricoperto cariche politiche e fornito alla chiesa alti prelati: monsignor Cristoforo, nonno di Beatrice, era un chierico con importanti incarichi nell’amministrazione pontificia ed era riuscito ad accumulare una vera fortuna in palazzi, castelli, proprietà terriere e quattrini. Il figlio Francesco crebbe negli agi, godendo di quel genere di spropositata ricchezza che conferisce un potere quasi illimitato a chi la possieda. / Nonostante la buona educazione ricevuta, Francesco era di indole perversa. Fu sposato a quattordici anni a una Santacroce, che gli partorì dodici figli. Di questi ne sopravvissero cinque, tre femmine Antonia, Lavinia e Beatrice e due maschi, Giacomo e Bernardo. Le prime due ragazze si sposarono per loro fortuna e uscirono presto dalla casa paterna. Gli altri tre rimasero nel palazzo romano insieme alla matrigna, Lucrezia Petroni, donna debole e remissiva che Francesco aveva sposato in seconde nozze. / Il decoro del nome della sua casata aveva indotto Francesco, per quanto avarissimo, a mantenere un tenore di vita e una dimora che all’esterno apparissero degni della migliore nobiltà romana. / Fece rinnovare il palazzo a Monte Cenci, onde conferirgli un aspetto sontuoso, lasciando tuttavia inalterati alcuni elementi quattrocenteschi. Anche la chiesetta di S. Tommaso fu ridecorata da buoni artisti quali Antonio Tempesta e Bernardino e Filippo Lauri. / Ma dentro casa era l’inferno. Francesco era un padre-padrone della peggior specie. Massacrava i figli a legnate, li lasciava patir la fame, li umiliava e li costringeva a subire una serie di abusi morali e materiali. Ma anche fuori casa era un violento, uccideva stuprava e fu perfino accusato di sodomia nei riguardi dei figli di un rigattiere di Lungotevere. Per questo delitto fu condannato a una multa di centomila scudi da corrispondere alla Santa Sede. Fu costretto a pagare anche le forti spese di giudizio dopo il processo, da lui stesso intentato, contro il figlio Giacomo che aveva accusato di volerlo uccidere col veleno. Giacomo venne riconosciuto innocente e il padre fu condannato a un breve periodo in carcere. / Frattanto figli e moglie erano ridotti in un tale stato di abbandono e di miseria che il cardinal Peretti si sentì in dovere di avvertire papa Clemente affinché prendesse sotto la sua protezione quei disgraziati. Il pontefice assegnò una modesta dote a Beatrice e una piccola rendita ai due ragazzi. / Una volta liberato, Francesco tornava a disporre della vita e della morte dei suoi familiari. Non sopportava l’idea, da grande avaro qual era, di dover sborsare la dote per la figlia qualora questa avesse deciso di maritarsi o di farsi monaca. Decise così di trasferire le due donne, moglie e figlia, in uno sperduto paese d’Abruzzo, Petrella Salto, in un triste maniero ottenuto in concessione dai Colonna. Questi chiesero in cambio di continuare a tenervi un loro soprintendente, tale Olimpio Calvetti, uomo dai modi spicci e pronto alla rissa, ma di bell’aspetto, alto, bruno e forte, il quale non avrebbe tardato a entrare nei pensieri di Beatrice. / Anche nella prigione di Petrella Beatrice è vittima delle scudisciate paterne; per di più Francesco le rivolge qualche attenzione di troppo. Le cronache del tempo non riportano chiaramente se egli sia riuscito a realizzare i suoi disegni incestuosi, probabilmente per un senso di pietà nei riguardi della ragazza. / Beatrice è bella, ha lunghi capelli biondi e ha vent’anni. Odia quel padre che le ha reso la vita infelice. Vuole amare ed essere amata. Olimpo Calvetti è l’unico uomo che ha la possibilità di vedere e con cui scambiare qualche parola. Viene travolta e ne diventa l’amante. / Francesco, che intanto va e viene da Roma, ne combina una delle sue: insidia il piccolo figlio di primo letto della moglie Lucrezia, la quale trova finalmente la forza di ribellarsi con tale veemenza che il marito, dopo averla massacrata di botte, la rinchiude insieme a Beatrice in una stanza con porta e finestre inchiodate.

image006(Lucrezia Petroni ritratta dal pittore di Gaeta Scipione Pulzone detto il Gaetano, 1591)

Ma la giovane Cenci non si dà per vinta e riesce ad avere la meglio sul vecchio Santi di Pompa, il carceriere che, se pur terrorizzato, consente alle due donne di circolare liberamente per il castello nei giorni in cui Francesco è a Roma. Prima ancora di maturare l’idea del parricidio, Beatrice compie un ennesimo tentativo per liberarsi dalla schiavitù del padre. Invia al fratello Giacomo, che si trova a Roma, una lettera nella quale lo implora di liberarla. Giacomo mostra ingenuamente lo scritto allo zio Marcello Santacroce e questi, pensando di poter muovere a pietà Francesco Cenci, gli fa leggere le strazianti parole della figlia. Inferocito dall’audacia, il Cenci si precipita a Petrella e punisce la temerarietà della figlia fustigandola fino a ridurla a un essere privo di volontà, quindi la tiene rinchiusa e digiuna per tre giorni. È certamente in questa segregazione che si concretizza in lei l’idea del delitto. / Da quel momento gli eventi precipitano. Beatrice parla del suo progetto a Giacomo, che subito è con lei e si procura a Roma un potente sonnifero. E quando Francesco, nel settembre del 1598, si alletta per un forte attacco di podagra, Beatrice gli versa nel vino una massiccia dose di oppio, che non sortisce peraltro il voluto effetto di stordimento totale, bensì un sonno leggero. Tant’è che quando il Calvetti, che fa parte della tresca, entra nella stanza con l’intenzione di finirlo, Francesco si sveglia chiedendo cosa stia accadendo. Non può aggiungere altro. Olimpio e Giacomo lo assalgono a martellate, e ce ne vogliono parecchie per finire quel gigante dalla testa dura oltre ogni aspettativa. Il cadavere viene trascinato su un balcone prospiciente la scarpata e precipitato di sotto per simulare una disgrazia. / Questo il delitto. / La polizia pontificia non credette un sol momento alla causa fortuita. Il cranio dell’uomo era stato sfondato me nessuna caduta avrebbe potuto ridurlo in quello stato. / Lucrezia, Beatrice e i due fratelli Giacomo e Bernardo (del tutto innocente) furono arrestati. Olimpio Calvetti si rese uccel di bosco, ma cadde in un agguato tesogli da monsignor Guerra, difensore dei Cenci, e fu ucciso, affinché sotto tortura non confessasse l’accaduto. / Precauzione inutile, poiché il delitto fu ricostruito in tutti i suoi particolari. Troppo cavillosamente dati i tempi, quando le colpe dei nobili venivano giudicate con larghezza di vedute. Non si tenne il minimo conto delle condizioni in cui il morto aveva ridotto la famiglia, né dei suoi trascorsi e delle sue condanne. Il parricidio fu considerato delitto esecrabile e meritevole della pena di morte per tutti coloro che vi avevano partecipato. Il fatto che Francesco avesse insidiato la figlia non fu ritenuto rispondente a realtà e non servì a mitigare la pena. Un anno dopo e dopo un lungo e appassionante processo seguito a Roma da un vasto interesse popolare, il 10 settembre 1599 fu emessa sentenza di condanna per tutti i Cenci. Giacomo fu torturato sotto gli occhi della sorella, poi ucciso e il suo corpo fatto a pezzi. Beatrice e Lucrezia vennero condannate alla decapitazione, da eseguirsi sulla piazza di Ponte S. Angelo. Bernardo fu l’unico che ebbe salva la vita, ma dovette assistere alle esecuzioni dei suoi e poi inviato alle patrie galere. / Beatrice per tutta la durata del processo mantenne un atteggiamento distaccato e sprezzante, indisponendo i giudici con risposte secche e sdegnose. Il che mandava in visibilio il popolino romano che, durante tutti gli interrogatori, prese in modo manifesto le parti della giovane Cenci. E quando ella salì al patibolo così fragile e fiera, con i lunghi capelli sciolti e un aspetto da adolescente, dimostrava infatti molto meno dei suoi ventidue anni, non vi furono occhi che non si bagnarono di lacrime. / Una così terribile condanna fu seguita dalla confisca totale dei beni dei Cenci a favore della famiglia papale. L’ondata di indignazione per tale provvedimento provocò violente accuse nei riguardi di Clemente VIII. Il sospetto di volersi appropriare di quelle ricchezze, sterminando una intera famiglia, poteva essere legittimo, anche se il diritto penale del tempo poneva il parricidio al di sopra di ogni altro genere di assassinio, in un quadro di giudizio ben diverso da quello di oggi. / Si chiedeva Marforio: “Quali delitti avea la casa Cenci / secondo il Santo Padre Aldobrandini?”. Al che Pasquino: “Avea troppi quattrini”.

image005(Dopo l’esecuzione le proprietà della famiglia Cenci furono confiscate dalla Camera Apostolica e vendute all’asta per 91.000 scudi. La grande tenuta di Terranova (nella foto) venne acquistata da un parente di papa Clemente VIII, che aveva decretato la condanna a morte)

Il processo a Beatrice Cenci ha lascito un segno nella storia della città, sì da suscitare ancora interesse dopo quattro secoli. Non v’è dubbio che questa giovane donna, preda di un padre pazzo che la considerava un oggetto scomodo di sua proprietà, fu l’ispiratrice del delitto. Il suo carattere forte e determinato, che sicuramente aveva ereditato qualche lato paterno, non era stato fiaccato ma piuttosto temprato dalla vita disgraziata che aveva condotto. Tuttavia non fu l’esecutrice materiale dell’uccisione e di ciò non fu tenuto alcun conto. / Questa ingiusta valutazione, unita al fatto che il popolo romano non fu mai portato ad appoggiare la giustizia papale, contribuì a creare la leggenda di Beatrice. Fu chiamata la “vergine romana”, anche se sicuramente vergine non era, poiché sembra che avesse partorito un figlio del Calvetti prima di morire. / Scrittori, poeti e pittori trassero ispirazione dalla leggenda della bellezza e della grazia di Beatrice. Cominciò Ludovico Muratori con l’idealizzarla nella su “Cronistoria”. Guido Reni la rappresentò come “Sibilla Somia”. Fu poi la volta di celebri scrittori quali Stendhal, Dumas padre, Niccolini, Ademollo e il Guerrazzi col suo celebre romanzo illustarto dal Sanesi. Anche Shelley ne fece l’eroina di una delle tragedie. La biografia di Corrado Ricci volle restituire al romanzesco personaggio i suoi contorni reali. In tempi più recenti la figura della Cenci ha affascinato Moravia e la Drudi nel suo “Beatrice C .”

image001(Statua di Beatrice Cenci di Harriet Goodhue Hosmer, 1857)

Mary Titton


10 settembre

PRIMO PIANO

La nuova Commissione europea: Gentiloni all’Economia.

Paolo Gentiloni è stato nominato commissario europeo agli Affari economici e monetari ed è il primo italiano a ricoprire tale carica. Lo ha annunciato la presidente eletta della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha spiegato: “Gentiloni, ex primo ministro italiano, condividerà la sua vasta esperienza negli affari ecomomici. Dovrà collaborare moltissimo con Valdis Dombrovskis”, ex primo ministro lettone e attuale vicepresidente della Commissione europea per l’Euro, nominato vicepresidente esecutivo per l’Economia. Ha anche aggiunto: “Gentiloni sa bene le sfide che dobbiamo affrontare. Volevamo avere un equilibrio di punti di vista diversi.” Paolo Gentiloni Silveri (Roma, 22 novembre 1954), che prende il posto del francese Pierre Moscovici, è un politico italiano, già presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana dal 12 dicembre 2016 al 1º giugno 2018 e dal 17 marzo 2019 presidente del Partito Democratico, indicato il 5 settembre 2019 dal Governo Conte II come rappresentante italiano all’interno della Commissione europea e oggi nominato da Ursula von der Leyen Commissario europeo per gli affari economici e monetari, carica che assumerà a partire dal 1º novembre 2019. La sua nomina è stata accolta in Italia con soddisfazione dai partiti che hanno votato la fiducia al nuovo Governo Conte bis, perché potrà farsi portavoce della posizione e degli interessi italiani all’interno della Commissione, con forti critiche dalle forze sovraniste ed antieuropeiste, quali la Lega e Fratelli d’Italia, che ritengono possa essere controllato dal vicepresidente per l’Economia Dombrovskis. La Von der Leyen, presentando a Bruxelles la sua squadra, composta da quattordici uomini e tredici donne, tra cui Frans Timmermans (Olanda, socialisti) vicepresidente esecutivo con delega al clima, Margrethe Vestager (Danimarca, liberali) vicepresidente e commissario alla concorrenza e al digitale, Margaritis Schinas (Grecia, popolari) vicepresidente alla sicurezza con delega all’immigrazione, ha detto: “ Oggi presento una squadra ben equilibrata e che riunisce competenza ed esperienza, voglio una commissione che lavori con determinazione e che offra delle risposte, una commissione che sia flessibile moderna e agile.” Riguardo ai migranti ha poi chiarito: “Dobbiamo riformare Dublino, ed è una questione che riguarda la solidarietà, che per definizione non può dipendere da una posizione geografica. Dunque Dublino deve essere riformato e ne parleremo con molto impegno. Ciò è uno dei punti fondamentali del nostro programma.”


9 settembre

PRIMO PIANO

È nato il nuovo governo giallorosso.

Il governo Conte bis si presenta per la fiducia oggi 9 settembre alla Camera e domani al Senato. Il 5 settembre scorso il nuovo governo giallorosso, nato dall’accordo tra M5s e Pd, ha giurato al Quirinale, pronunciando la formula di rito davanti al presidente Mattarella, poi, al termine della cerimonia e dopo il brindisi, il nuovo esecutivo si è spostato a Palazzo Chigi, dove Giuseppe Conte è succeduto a se stesso e si è tenuto il primo Consiglio dei ministri, che ha formalizzato la candidatura di Paolo Gentiloni alla Commissione Europea. Questa la squadra di governo con i relativi incarichi: Luigi Di Maio (M5s) è il nuovo ministro degli Esteri, mentre Paola De Micheli (Pd) va al ministero delle Infrastrutture e Trasporti, Teresa Bellanova (Pd) alle Politiche agricole, alimentari e forestali, Roberto Speranza (Leu) alla Salute. Sergio Costa (M5s) è confermato al ministero dell’Ambiente, così come Alfonso Bonafede (M5s) alla Giustizia, Luciana Lamorgese (tecnico) è il nuovo ministro degli Interni, Lorenzo Guerini (Pd) va alla Difesa, Dario Franceschini (Pd) accorpa ai Beni culturali il Turismo, Lorenzo Fioramonti (M5s) va all’Istruzione, Università e Ricerca. Poi: Economia e Finanze è assegnato a Roberto Gualtieri (Pd); Lavoro e Politiche Sociali a Nunzia Catalfo (M5s); Sviluppo Economico a Stefano Patuanelli (M5s); Rapporti con il Parlamento a Federico D’Incà (M5s); Innovazione a Paola Pisano (M5s); Pubblica Amministrazione a Fabiana Dadone (M5s); Affari regionali a Francesco Boccia (Pd); Sud a Giuseppe Provenzano (Pd); Pari Opportunità e Famiglia a Elena Bonetti (Pd); Affari europei a Enzo Amendola (Pd); Istruzione, Sport e Politiche Giovanili a Vincenzo Spadafora (M5s); sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è il 5 stelle Riccardo Fraccaro. Sono dunque 21 i ministri del Conte bis, 13 con portafoglio e 8 senza: dieci Cinque stelle, nove Pd, uno Leu. Sette sono donne, un terzo del totale, e tra queste spicca l’unico tecnico, Luciana Lamorgese, già prefetto di Milano, che occupa la poltrona del Viminale, 12 sono debuttanti e non hanno mai ricoperto incarichi di governo. Il Conte bis, nato dall’alleanza tra i due partiti (M5s e Pd), arrivati rispettivamente primo e secondo nelle elezioni politiche italiane del 2018, con l’apporto di Leu, dovrebbe ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento senza sorprese, anche se non manca l’opposizione del Centro-destra, in particolare della Lega e di Fratelli d’Italia che anche oggi, durante le comunicazioni di Conte alla Camera, hanno protestato vivacemente in Parlamento e in piazza Montecitorio, chiedendo di andare al voto. Ma come ha avuto origine questa nuova maggioranza e questo nuovo quadro politico? Tutto è partito in piena estate, con il Parlamento chiuso per ferie, con l’improvviso strappo di Salvini e la mozione di sfiducia presentata il 9 agosto dalla Lega nei confronti del Governo gialloverde, di cui pure faceva parte. Incomprensibili per i più, anche per alcuni stessi esponenti del suo partito, le ragioni che hanno indotto Salvini a rompere il contratto con i 5 stelle per andare ad elezioni e capitalizzare subito il consenso attribuitogli dai sondaggi, senza tener conto che nella nostra, che è una Repubblica parlamentare, c’era un’altra possibile maggioranza per un accordo e programma di governo, il Conte bis, che almeno nelle intenzioni e nelle dichiarazioni si propone di andare avanti fino a fine legislatura nell’interesse dell’Italia.

DALLA STORIA

Henry Toulouse-Lautrec, artista maledetto.

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Il 9 settembre 1901, a soli 37 anni moriva nel castello di Malromé, in Francia Henri Toulouse-Lautrec, il geniale e infelice pittore postimpressionista. Era nato ad Albi, vicino a Tolosa il 24 novembre 1864 da una famiglia di antichissima nobiltà e crebbe durante lo sfavillante periodo della Belle Epoque “quando Parigi” (come scrive Elena Domenichini in una recensione) “era il centro delle Arti e delle Avanguardie: gli Impressionisti esponevano nelle gallerie, le vie erano brulicanti di carrozze e i primi lampioni illuminavano la città. Forte di due grandi Esposizioni Universali, Parigi era anche la città delle scoperte scientifiche e tecnologiche, della nascita della fotografia e del cinema, delle stravaganze e delle curiosità esotiche. Ma soprattutto, Parigi, e nello specifico Montmartre, era la sede dei divertimenti e della vita notturna delle ballerine del can-can, dei bevitori di assenzio e degli artisti bohémienne”. Fin da piccolo Toulouse-Lautrec derivava la sua infelicità dalle deboli condizioni di salute aggravate, all’età di sette anni, da due cadute da cavallo che gli causarono la frattura dei femori e che gli bloccarono lo sviluppo degli arti inferiori. (Alcuni ritengono che la sua salute cagionevole fosse imputabile alla consanguineità dei genitori, tra loro cugini primi). Già da allora, costretto dalla malattia a lunghi periodi di immobilità, cominciò a disegnare. Nel 1872, quando la famiglia si trasferì a Parigi, conobbe, tramite il padre, il pittore René Princeteau che lo indirizzò verso dipinti a soggetto equestre. Dal 1882 iniziò a frequentare lo studio di Léon Bonnat e l’anno seguente seguì con profitto le lezioni di Fernand Cormon. Contemporaneamente conobbe gli Impressionisti, studiò le loro opere, in particolare quelle di Degas e di Van Gogh del quale divenne molto amico apprezzandone fin da subito l’arte, all’epoca ancora osteggiata dai detrattori benpensanti e dagli accademici del “Salon”. Ritenendosi rifiutato e compatito a causa della sua deformità fisica, preferì frequentare esclusivamente gli ambienti di Montmartre: le sale da ballo, i caffè-concerto, le case di tolleranza eleggendo la compagnia di quell’umanità perduta ma libera da convenzioni e pregiudizi, sentendosi da loro accettato e, in linea con lo stile di vita maledetto degli artisti, idealmente affine. E in mezzo a loro, seduto ai tavolini del “Moulin Rouge”, tra i palchi de “Les Folies Bergére”, a “Le Chat Noir” e così via ne immortalò nei suoi dipinti le figure colte negli aspetti di vita privati, durante le performaces del ballo, degli avventori davanti all’immancabile bicchiere riproducendo le atmosfere, piene di eccitazione degli ambienti. Collaborò inoltre, in qualità di disegnatore umoristico, a numerosi giornali, per i quali sperimentò nuove tecniche di incisione, disegnando una trentina di manifesti che suscitarono un certo scalpore per le notevoli innovazioni stilistiche, parte delle quali derivate dai suoi interessi per le stampe giapponesi. Nella prima metà degli anni Novanta compose la serie di circa quaranta dipinti dedicati alle “maisons closes”, le case di tolleranza parigine provocando scandalo e indignazione tra i borghesi del tempo.

image002(La toilette. (La rousse), 1889. Olio su cartone, Parigi, Museo d’Orsay)

“Anche se non è esplicitamente dichiarato, la posizione della fanciulla e gli elementi che compongono l’arredamento della stanza collegano questo dipinto alla serie delle “maisons closes”, le case chiuse parigine. In quasi tutte queste opere le protagoniste sono osservate e quasi spiate nella loro intimità, in momenti in cui si abbandonano a gesti spontanei e naturali. I critici hanno spesso sottolineato la differenza che vi è tra le raffigurazioni del mondo dello spettacolo, con i suoi lustrini e i colori vivaci, e l’atteggiamento di malinconia nostalgica di queste fanciulle. Il riferimento costante è con quello che il poeta Charles Baudelaire ha chiamato lo “spleen”: un misto di noia e di angoscia, una consapevolezza triste del vuoto esistenziale che la vita frenetica di Montmartre tenta inutilmente di esorcizzare”.

image003(Al Moulin Rouge, 1892. Olio, pastelli e matita su cartone, Praga, Nàrodnì Galerie)

“Il Moulin Rouge viene aperto il 5 ottobre 1889 al n. 50 di Boulevard de Clichy e prende il posto di una balera, la Reine Blanche. Anche se in quel posto non c’erano mai stati dei mulini, il locale riceve quel nome dal mulino di legno che domina l’ingresso. In pochi anni i suoi direttori lo trasformarono nel centro di ritrovo del bel mondo parigino, dai principi di Galles al duca di Talleyrand. Vi si incontrano pittori, scrittori, uomini d’affari e belle donne, tanto che è considerato il simbolo stesso dell’epoca. La grande pista da ballo è circondata da ogni lato da un promenoir, con i tavolini, vari ridotti e un giardino. C’è anche vicino all’entrata, una galleria di quadri, che espone anche opere di Toulouse-Lautrec. Il pezzo forte del Moulin Rouge è la “quadriglia”, un ballo scatenato e ricco di complesse figure coreografiche derivato dal can-can”.

image004(Jane Avril, 1893. Litografia a pennello e a spruzzo, collezione privata)

“Questa litografia è uno dei capolavori di Toulouse-Lautrec. Sono evidenti i riferimenti alle stampe giapponesi, che gli hanno suggerito l’audace taglio prospettico e la soluzione del contrabbasso in primo piano, con il ricciolo trasformato in una cornice flessuosa, antipatrice delle eleganti decorazioni dell’Art nouveau. Nata nel 1868, Jane Avril è nota con il soprannome di “Mélinite”, il potente esplosivo che esprime la sua dirompente energia nella danza. È una donna colta, che apprezza i dipinti di Toulouse-Lautrec; egli la contraccambia con affetto sincero e ammirazione. Le regala anche molti suoi quadri, che lei a sua volta dona ai numerosi amanti. Il suo periodo di maggior successo è il 1890-1895, ma rimane sulla cresta dell’onda fino al primo decennio del nuovo secolo. Si riduce in povertà e nel 1933 viene ricoverata in un istituto per vecchi, dove rimane fino alla morte, nel 1943”.

image005(Mademoiselle Jeanne Fontaine, 1889-1891. Olio su cartone, collezione privata)

“Il dipinto reca in basso a sinistra la scritta a matita: “à mon ami / M Guibert / HT Lautrec / 91”. La data si riferisce al momento in cui il dipinto viene donato e non a quello dell’esecuzione, probabilmente avvenuta due o tre anni prima. Dal 1873 al 1880 l’artista è solito firmare le sue opere per esteso, poi il padre gli proibisce di farlo, considerandolo un disonore per un casato di così alta nobiltà. Allora ricorre a degli pseudonimi, quali Monfa o Treclau (anagramma di Lautrec) o alle iniziali intrecciate HT o HTL anche se dalla fine degli anni ottanta riprende a firmare e a siglare con dediche le sue creazioni, incurante della disapprovazione paterna. Questo ritratto rivela ancora alcune reminiscenze accademiche, filtrate e rilette dalla delicata sensibilità chiaroscurale appresa dallo studio delle opere impressioniste, in particolare da Camille Pissarro e da Berthe Morisot”.

image006(Les Ambassadeurs: Aristide Bruant nel suo cabaret, 1892. Litografia a pennello e a spruzzo, collezione privata)

“Aristide Bruant è un noto cantante, anarchico e irriverente, protagonista delle movimentate notti parigine, con le sue canzoni, talvolta dal contenuto osceno, e con le sue pose anticonformiste. Diventa grande e sincero amico di Toulouse-Lautrec, che gli dedica dei dipinti e delle litografie. Questa è la più famosa, realizzata in occasione delle sue esibizioni a Les Ambassadeurs, uno dei più eleganti e frequentati caffè-concerto degli Champs Elysées. Il proprietario del locale, Pierre Ducarre, non è affatto soddisfatto del manifesto e lo accetta solo su insistenza del cantante stesso, uno dei pochi a capire e apprezzare le novità tecniche e l’audacia dell’impianto grafico, che ne rivoluziona radicalmente l’impostazione tradizionale. In particolare si noti la stesura del colore, ben delineato dai contorni”.

Il commento dei dipinti è a cura di Gabriele Crepaldi, dal libro “Gli Impressionisti”, 1999. Ed. Mondadori   

Mary Titton


6 settembre

DALLA STORIA

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Riprendono oggi le pubblicazioni del DayByDay con l’arte di un grande maestro del cinema, il regista giapponese Akira Kurosowa, così come è consuetudine di questa rubrica dal titolo “Dalla Storia” proporre, con la ricorrenza della data del giorno, gli approfondimenti di avvenimenti del passato e dei protagonisti che hanno segnato, con il loro passaggio e le loro opere il percorso inesorabile, affascinante e nel contempo orrorifico della Storia. Da lunedì 9 settembre tornerà “Primo Piano”, lo spazio dedicato all’attualità per richiamare l’attenzione sul tema più in evidenza del giorno nel dibattito culturale, politico, artistico e della cronaca.

 Akira Kurosawa, l’ultimo Samurai.

Il 6 settembre 1998 ricorre l’anniversario della scomparsa di una delle personalità cinematografiche più significative del XX secolo, probabilmente il più importante e imitato cineasta giapponese i cui film hanno influenzato fortemente generazioni di registi in tutto il mondo. “Nessuno ha mai superato Kurosawa nella padronanza della tecnica cinematografica” come è possibile constatare nelle scene di battaglia del film “Ran”, un vero e proprio successo internazionale da molti considerato il massimo raggiungimento artistico della carriera del regista nipponico, all’epoca quasi settantacinquenne. “Le scene di battaglia del film sono tuttora ineguagliate: un balletto cinematografico, violento e cruento ma di una bellezza straordinaria”. Così come la scena in cui una delle nuore del monarca (la pellicola è ispirata alla tragedia shakespeariana “Re Lear”) scivola furtiva sul pavimento del suo palazzo, con il fruscio delle gonne di seta che sovrasta la colonna sonora è indimenticabile. (David Del Valle). Il film, “probabilmente uno dei più grandi della storia del cinema è definito dal regista “una serie di eventi umani visti dal cielo”: “Ran mostra la saggezza di una vita in sole due ore e quaranta minuti, in cui il tempo è semplicemente sospeso”.

image003(Una scena tratta dal film “Ran”)

Kurosawa apparteneva a una famiglia risalente all’XI secolo originaria dell’isola di Hokkaido, la più settentrionale tra le isole principali del Giappone. Il padre, un ufficiale di carriera diplomatosi all’Accademia Militare si occupò soprattutto dell’insegnamento delle arti marziali e della diffusione dello sport nell’esercito. Ciò malgrado, Akira lo definì come “il vero sentimentale della casa” e la sua figura è stata fonte d’ispirazione per diversi personaggi delle sue opere: “burberi e apparentemente inflessibili ma profondamente umani, legati al passato ma pronti a imprevedibili aperture verso il mondo”. L’altra figura di riferimento nella sua formazione fu senza dubbio il fratello Heigo, intellettuale e appassionato di cinema che fece nascere in lui la passione per la letteratura, in particolar modo per William Shakespeare e per i grandi classici russi. Protagonisti da lui eletti a soggetto per i suoi film e portati sullo schermo attraverso tecniche di ripresa assolutamente innovative: “fu il primo al mondo a fare uso estensivo dei piani di sequenza in cui l’inquadratura è fissa e i personaggi si muovono su una sorta di fondale come se si trattasse di una rappresentazione teatrale”. Oppure come quando ne “I sette samurai” ebbe improvvisamente l’intuizione che non doveva utilizzare un’orchestra ma un singolo strumento dai toni marziali e convocò di notte il musicista Fumio Hayasaka e sei strumentisti provando incessantemente ad ottenere l’effetto che cercava. E che trovò: quella musica rimane indelebilmente scolpita nella memoria di chiunque l’abbia ascoltata, anche a distanza di molti anni”. “La tragica morte di Heigo, suicida nel 1933 in seguito alla depressione per la perdita del lavoro, l’avvento del cinema sonoro aveva di colpo eliminato la necessità di un commentatore, ma già in precedenza preda di impulsi autodistruttivi, sconvolse Kurosawa che comunque seppe uscirne e senza dimenticare mai i tratti negativi di Heigo, tentò di trasformarsi in un suo alter ego positivo”. Ma come diceva Kurosawa nella sua autobiografia “Something like an autobiography”: “la via più semplice per parlare di me, da quando sono diventato regista, sia di seguire la mia filmografia scorrendo la mia vita film per film”. Ecco di seguito alcune recensioni di una parte dei suoi film tratte dal testo “I Grandi Capolavori del Cinema” a cura di Steven Jay Schneider, Ed. Atlante. “I sette samurai”, una coinvolgente ed emozionante epopea umana, è il suo capolavoro più conosciuto. Il remake hollywoodiano “I magnifici sette” del 1960 è il film che ha ottenuto più successo tra i tanti western modellati sul lavoro di Kurosawa, come “L’oltraggio” del 1964, una ripresa di “Rashomon” del 1950 e il leggendario spaghetti western “Per un pugno di dollari” del 1964, per il quale Sergio Leone trasse liberamente ispirazione da “La sfida del samurai” del 1961. Ne “I sette samurai” ci sono molte scene di straordinario potere visivo ed emotivo: una donna morente si trascina fuori da un mulino in fiamme e consegna il suo bambino gridando “Questo bambino sono io”. Mi è successa la stessa cosa”, mentre la ruota del mulino gira alle sue spalle”. (Angela Errigo). Nelle sue opere il regista non filmò solo scene cruente, anche se si può dire che nessun regista ha esplorato così profondamente il potenziale dell’immaginario violento sullo schermo. È stato un grande umanista del cinema e ciò è evidente soprattutto in “Vivere” del 1952. “Il film nonostante sia colmo di tristezza, ha solidi risvolti spirituali: è una grande affermazione della vita, anche se i suoi temi sono la morte e il dolore”. (Ethan de Seife). “Rashomon” del 1950, il primo capolavoro di Kurosawa ha come tema centrale la ricerca della verità come distinzione tra bene e male raccontato attraverso punti di vista contrastanti in forma di flashback. “Un incubo epistemologico che si conclude con un’infusione di bontà morale”. (Garrett Chaffin-Quiray). Mentre ne “Il trono di sangue” del 1957 il glaciale e fedelissimo adattamento del Macbeth di Akira Kurosawa è considerato come una delle più emozionanti versioni cinematografiche di una tragedia di Shakespeare. La trama e lo studio psicologico vengono splendidamente trasportati nel Giappone feudale, dove il valoroso guerriero samurai e la sua diabolica moglie spinti da una cieca ambizione e ispirati dalla profezia di una strega, uccidono il reggente, si impossessano del regno e si condannano a un’inevitabile catena di spargimento di sangue, paranoia, follia e rovina. Il meraviglioso Toshiro Mifune, il protagonista preferito del regista nell’arco di una lunga collaborazione più di sedici anni, consolidò con la sua interpretazione la fama di importante star internazionale giapponese e la scena della sua morte trafitto dalle frecce è una delle grandi icone del cinema mondiale. Elementi del teatro No, arte del combattimento tradizionale giapponese, realismo storico e pensiero contemporaneo sulla natura del bene e del male sono fusi in un mondo di confine avvolto dalla foschia, fatto di sinistri e magici presagi (ambientato sulla cima del Monte Fuji, dove fu costruito un castello con l’aiuto di un battaglione americano di stanza nei paraggi). (Angela Errigo). Nel 1990, all’età di ottant’anni, Akira Kurosawa viene premiato con un riconoscimento speciale: l’Oscar alla carriera. Si spegnerà otto anni dopo a Setagaya, un quartiere di Tokio. 

image004(Immagine tratta dal film “Rashomon”)

Mary Titton


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