1 – 31 agosto
Buone Vacanze!
(René Magritte. “Le séducteur”. 1951)
“Il mare, il grande seduttore che riesce a ipnotizzare ogni marinaio e fare sue, inghiottendole con le sue onde, le navi che lo solcano”
Nel mese di agosto, per la chiusura delle vacanze, la rubrica “DayByDay” interrompe la pubblicazione degli articoli. Riprenderà, a partire da settembre, rinnovando l’appuntamento quotidiano con i lettori. Auguriamo a tutti Buone Vacanze con una vecchia canzone francese “La mer”, di Charles Trénet, sull’onda della nostalgia, nella memoria di un tempo lontano, il tempo allegro e scanzonato del dopoguerra.
31 luglio
PRIMO PIANO
Matera: Cavalleria Rusticana di Mascagni in scena tra i Sassi di Matera.
Il 2 di agosto i Sassi di Matera diventeranno il palcoscenico naturale della “Cavalleria Rusticana” grazie ad “Abitare l’opera”, progetto realizzato dalla Fondazione Matera Basilicata 2019 e dal Teatro San Carlo di Napoli. Il regista Giorgio Barberio Corsetti ha programmato uno spettacolo itinerante in due parti, Prologo e Opera, che lega i due cuori dell’antica zona monumentale: il Sasso Baresano e quello Caveoso. Come in un’arcaica sacra rappresentazione, 400 cittadini materani, coinvolti come volontari, accompagneranno, in un rito processionale che parte alle 18:00 da San Pietro Barisano, due enormi marionette realizzate dall’equipe diretta da Raquel Silva, che raffigurano gli immancabili duellanti, l’Angelo e il Demonio. I figuranti materani procederanno alternando canti popolari antichi a melodie appositamente composte, arrangiamenti di Massimo Sigillò Massara, fermandosi come in stazioni della Via Crucis in luoghi predisposti per definire i “sette peccati capitalistici” (non solo capitali): Superbia, Accidia, Avarizia, Lussuria, Gola, Invidia e Ira. Giunti poi alla piazza di San Pietro Caveoso, il pubblico potrà assistere dalle 21:00 all’esecuzione dell’opera, con i protagonisti sistemati su una lingua protesa dalla roccia che domina il Sasso, su cui le proiezioni di Igor Renzetti e Lorenzo Bruno proietteranno immagini che legano i peccati elencati nel Prologo a quelli del tutto analoghi che dominano la vicenda musicata da Mascagni. “Cavalleria Rusticana” è stata infatti scelta perché è un’opera che racconta i peccati di un sud che si spera superato – proprio come la vergogna dei Sassi trasformata in successo planetario – ma anche ovviamente per la sua breve durata e per la popolarità delle sue melodie. “Cavalleria Rusticana, che il compositore livornese scrisse tra i 25 e i 27 anni, è il dramma lirico in un atto, che racconta una storia d’amore e passione, di gelosia e vendetta con un tragico epilogo: l’assassinio di Turiddu che sconvolge tutti, proprio nel giorno di Pasqua. Il libretto dell’opera è di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci ed è tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga. I personaggi sono Turiddu, interpretato da Roberto Aronica, Santuzza (Veronica Simeoni), Alfio (George Cagnidze), Lola (Leyla Martinucci) e Mamma Lucia (Agostina Smimmero).
DALLA STORIA
Jeanne Moreau. Un ricordo
Breve biografia.
Il 31 luglio 2017, l’attrice francese Jeanne Moreau moriva a Parigi, all’età di ottantanove anni. Era nata a Parigi il 30 gennaio 1928 da un padre francese, gestore di una brasserie e da una madre inglese di professione ballerina. Dopo l’infanzia trascorsa a Vichy, tornò nella capitale dove, all’insaputa dei genitori, iniziò a frequentare corsi di teatro per poi entrare al Conservatorio di Parigi. Nel 1947 debutta al Festival teatrale di Avignone, primo passo verso la Comédie Française e il Théâtre National Populaire di Jean Vilar. Poi dal teatro al cinema dove inizia a farsi notare. Nel 1956 ha già girato una ventina di film, titoli come “Grisbi” al fianco di Jean Gabin interpretando ruoli, perlopiù, da ambigua dark lady. Poi, con Louis Malle, incontra il grande cinema francese con “Ascensore per il patibolo (1957) e “Les amants” (1958). “Non esiste la vita di un’attrice, c’è la vita e basta”, afferma. Gli autori più celebrati la corteggiano: da Michelangelo Antonioni (La notte) e Roger Vadim (Relazioni pericolose), a François Truffaut (Jules e Jim e La sposa in nero), diventando la splendida protagonista della Nouvelle Vague, Elia Kazan (Gli ultimi fuochi), Luis Buñuel (Il diario di una cameriera) per arrivare a Wim Wenders (Fino alla fine del mondo). Con il suo charme seduce sul grande schermo e nella vita: Pierre Cardin, Louis Malle, Marcello Mastroianni, Tony Richardson e i due uomini che l’hanno sposata: Jean-Louis Richard e William Fiedkin. Nel 2001 torna al cinema e presta il suo volto per il film “Cet amour là”, dedicato alla scrittrice e regista, sua cara amica, Margherite Duras. Nel 1992 riceve il “Leone d’Oro alla carriera dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre nel 1995 le viene attribuito il Premio César onorario. Nel 2005 crea la scuola di cinema “Les Ateliers d’Angers”.
Antefatto.
Nel 1958, il festival di Venezia veniva turbato da uno scandalo: quello suscitato dal film “Les amants”, di Louis Malle. Impettiti signori in smoking e pudiche dame in lustrini e paiettes, s’alzavano emettendo fischi alquanto plebei e urlando frasi irripetibili. Stava accadendo qualcosa che non s’era mai visto prima: il film mostrava uno sviluppo amoroso con la stessa disinvoltura con cui Lawrence aveva descritto gli amplessi di Lady Chatterley. Le spese della serata le fece soprattutto la protagonista, Jeanne Moreau: contro di lei inveirono gli spettatori del Lido. E lei restò dignitosamente impassibile, in sala, a fronteggiare un pubblico che, ormai impazzito, le rivolgeva epiteti oltraggiosi e continuava a gridare: “sgualdrina”.
Intervista.
Negli anni settanta, in cui un’ondata erotica imperversava nel cinema, la giornalista Lina Coletti intervistò l’attrice rammentando la vicenda che tanto scandalizzò i benpensanti di allora. Forse gli stessi signori che tredici anni prima trattarono Jeanne Moreau da donna di strada perché aveva osato mostrarsi nuda, abituati, in seguito, a ben altro, rivedendo “Les amants” l’avrebbero sicuramente trovato un film castigato. Di seguito riportiamo quell’intervista pubblicata sul periodico “L’Europeo”, n. 37, del 1971, nella quale l’attrice si racconta:
Ricorda quella serata, signora Moreau?
Certo che la ricordo. E se rimasi così fredda e impassibile di fronte a quel pubblico scatenato che mi urlava offese di ogni genere è perché veramente non li capivo, non riuscivo proprio a vedere il motivo di tanta indignazione. E oggi forse non riuscirebbero a vedere neppure loro: quelli che mi trattarono come una donna di strada.
Oggi, certo, molte cose sono cambiate.
Non è solo per questo che rimasi indifferente a quegli insulti. È che sapevo come venivano considerate le attrici da un certo tipo di persone. Per esperienza personale. Sì, il primo era mio padre ad avere un concetto di quel genere, a proposito delle attrici.
Suo padre?
Sì, quando andai da mio padre a dirgli che volevo fare l’attrice, montò su tutte le furie. Urlava che le attrici sono tutte sgualdrine e che lui una sgualdrina in casa sua non la voleva. Comunque, la spuntai. Sa, ero stata una bambina malata, con lunghe convalescenze … Avevo imparato a memoria Giraudoux, Zola, Racine … non mi fu difficile riprendere quei testi in Accademia. Dio, la felicità del debutto. Ritrovare le proprie aspettative, sentire che non m’ero sbagliata, recitare considerandola la cosa più importante della vita: talmente importante che “è” la vita … Il nostro mestiere acquista la sua vera nobiltà, la sua vera dimensione solo se è fatto senza idee premeditate, sa? Solo se di volta in volta dai tutto ciò che hai dentro: al regista, a te stesso, al pubblico. Fino al punto di bruciarti …
Ma suo padre, signora …
Non ha mai capito. Non ha mai cercato di capire. Anche oggi, sa: vive con me, mi vuole bene, forse mi stima, ma certo non mi capisce. È strano: espressioni diverse, un linguaggio diverso.
Parlavamo di quello scandalo a Venezia, tredici anni fa …
Sì, è vero. “Les amantes”. Ricordo che scrissero: “Una che offre le parti più intime del suo corpo ai baci dell’uomo col quale sta per tradire marito e amante”. E io invece riconoscevo me stessa, in quel film. Non ci vedevo la donna perfida e amorale che ci trovavano gli altri. Ci vedevo la donna che sono: con il mio enorme, spasmodico interesse verso l’umanità. Verso l’amore, più esattamente. Amore per l’uomo, per gli amici, i genitori, la natura. Io … io sono una persona che non solo all’apparenza ha molto bisogno di amore. Nel senso di riceverlo.
Lì parla molto d’amore. Ci crede ancora? A quarantadue anni?
Certo che ci credo ancora. L’amore e sensazionale, è indispensabile …
Parla di amore assoluto?
Sì, amore assoluto.
E l’ha incontrato spesso?
No. Mai. Vede, io credo che l’amore più straordinario sia quello tra padre, madre e figli. Perché è per la vita e per la morte. Perché è intangibile. Perché non comporta problemi di piacere o dispiacere ma mantiene la stessa costante dopo una lite, un errore, un affronto, e quindi evita la paura, il calcolo, l’orgoglio. Be, ho sempre avuto nostalgia per questo tipo di amore …
Ma allora …
Può essere che mi sia passato accanto e non me ne sia accorta, non crede? E comunque lei lo ha definito “assoluto”, una parola che non mi piace. Niente è assoluto. “Grande”, semmai. Il grande amore sì: il grande amore l’ho vissuto. Quello per cui si continua ad amare per tutta la vita. Anche se ci si separa. Anche se si divorzia. In quel senso, io Jean-Louis l’amo ancora. Jean-Louis Richard: il mio ex marito. Ci sposammo nel ’49: io vent’anni, lui ventuno. Fu un grosso amore. Ma aspettavo Jérome, capisce, e la famiglia, gli amici, il medico che mi curava tutti a dirmi: “Devi farlo, Jeanne. Per te, per il bambino …”. Io … io da un pezzo non sognavo più il principe azzurro, la chiesa, l’organo, i fiori d’arancio, il “sì” per l’eternità: le liti tra mio padre e mia madre, capisce, i loro rancori … E tuttavia non ero abbastanza forte né abbastanza preparata per oppormi. Così ci sposammo. Per lasciarci subito dopo. Ma siamo rimasti i più grandi amici del mondo. Vede, l’odio che spesso corre tra gli ex amanti, tra gli ex coniugi, io lo trovo paradossale. Ogni tanto lo capto, sa? Nasce, cresce, eppoi esplode nelle solite frasi: “Ho sprecato dieci anni con quel mascalzone”. “Ma come ho potuto perdermi con un idiota simile …”. Frasi che trovo assurde. Perché dirle, in fondo, equivale a condannare se stessi. Ma son frasi che non mi riguardano: come son rimasta amica di Jean-Louis, lo son rimasta anche degli altri uomini che ho amato, questo glielo giuro.
Storie ormai diventate leggenda, signora. Louis Malle, che per lei tenta il suicidio. E Raoul Lévi, produttore tra i più prestigiosi, che per lei abbandona moglie e figlio. E Tony Richardson, signora: che Vanessa Redgrave accusa di tradimento per colpa sua e obbliga a concedere il divorzio. Eppoi Sacha Distel, signora. E Pierre Cardin … non intendo essere invadente, mi creda. I particolari non m’interessano. È che servono a inquadrare il personaggio. È che son storie che ho letto e mi sembrano significative se non altro di una certa spregiudicatezza.
Se spregiudicatezza significa gusto della verità e orrore dell’ipocrisia e dei malintesi, allora sì: allora son spregiudicata. Le dirò di più: se anticonformismo significa fare ciò che vuoi senza chiederti come ti giudicheranno gli altri, allora sì: allora son anche anticonformista. Ma basta questo a giustificare l’alone che mi hanno calato addosso? “Jeanne Moreau la libera”, “Jeanne Moreau l’emancipata …”. Io non sono libera. Io non sono emancipata. Emancipazione è una parola che amo così poco. Fra uomo e donna, per esempio: che significa? “Io la mia vita e tu la tua?”. No, questo tipo di emancipazione e questo tipo di libertà non li capisco. Voglio dire che uomini e donne son fatti per vivere insieme e che fino a oggi non è andata poi tanto male. Certo esistono dei problemi. Certo vengono imposte ipocrisie ingiuste, tradizioni fasulle, tabù incomprensibili … E tuttavia trovo spiacevole affrontarli col tono delle ultime suffragette: il tono di chi affronta una guerra. Io l’aggressività non la sopporto. E, in definitiva, non ho nessuna voglia di assomigliare a un uomo. Di essergli pari, semmai, vista l’identità di essere umano. Ma basta. Io … io non mi considero neppure autosufficiente, sa? Nessuno lo è fino in fondo perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno o di qualcosa. Di un condizionamento, ecco. Che porta l’insoddisfazione ed è ciò che caratterizza la nostra natura. Mi creda: sentirsi autosufficienti significherebbe essere perfettamente equilibrati, e dunque indifferenti, e ciò non mi interessa. Non lo desidero. Non ne sarei capace.
Ha paura della solitudine, mi sembra.
Anche. A me la solitudine piace. A patto che venga presa come il caffè: non sempre e non a dosi troppo forti. D’altronde, io vivo del presente. Giorno per giorno. Un tempo programmavo, premeditavo … poi ho scoperto che arriva sempre l’imprevisto a spazzar via tutto. Che il futuro non è il domani: è la morte …
Lei mi sta dando una strana impressione: di essere, tutto sommato, una gran sentimentale.
Ma io sono sentimentale. Totalmente. Fino in fondo.
È romantica?
No. Romantico è una parola che non amo: la considero una specie di impudico sfruttamento dell’altra.
Emotiva, allora …
Sì.
E intuitiva, irrazionale …
Certo. Sono una donna e dunque le dico che è vero: sono emotiva, intuitiva, irrazionale … certo l’irrazionalità cerco di combatterla. È controproducente. È stupida. Rende vulnerabili. Fa soffrire … Io … quando m’accorgo di caderci mi isolo, sparisco. Tre anni fa, per esempio. Ho avuto voglia di cambiare. Di dare meno importanza al lavoro. Di allontanarmene. Quasi … be’, sì: quasi di perdere la mia identità. Volevo che non mi si riconoscesse più per strada. Volevo non sentir più dire: “La vedi, quella? È la Moreau”. Poi mi son resa conto che è inutile: siamo ciò che siamo, non ciò che vorremmo essere.
Di lei si dà una definizione: si dice che è politicamente impegnata.
Non mi piace la parola “politico”. È peggiorativa. Preferisco “interesse”. Che coinvolge sensazioni, emozioni … verso la vita in genere, la vita di tutti: quella degli oppressi, dei soli … lo so: quando ho firmato il manifesto della de Beauvoir, ma sì, quello in favore dell’aborto legale, han scritto: “Non poteva mancare l’impegno di Jeanne Moreau”. Han scritto che è stato un atto di coraggio. No: è stato solo un modo di corrispondere al proprio senso di giustizia, al proprio orrore per l’umiliazione. Anche un modo di essere realistici, se vuole. Vede, io ho scelto di far l’attrice perché amo l’irrealtà, e recitare porta a uno stato di astrazione, una specie di paradiso: lo stesso che si prova nell’infanzia. Una diversa maniera di vivere, capisce? Un diverso modo di conoscere se stessi e gli altri. Attraverso i personaggi, naturalmente. Più personaggi interpreti e più scopri universi che prima ignoravi totalmente. E più li ami. Intendiamoci: per amare gli altri è necessario amare innanzitutto se stessi, altrimenti non si è abbastanza forti né abbastanza liberi … Vede, all’inizio io volevo solo cambiar vita: slegarmi dal padre, dalla madre, dalla mia famiglia. Sa: mio padre aveva un ristorante a Montmartre e io son cresciuta con l’odore della cucina addosso. Veniva su a zaffate. Dalle scale. Ne sentivo gli abiti impregnati. Mi dava il voltastomaco. Decisi che avrei fatto la ballerina. Mia madre lo era stata, capisce? Kathleen Bucheley, delle Folies Bergère. Mia madre è inglese. Pensi: papà figlio di contadini che s’innamora di una del Lancashire abituata a sgambettare in palcoscenico. Un matrimonio fallito in partenza, ovviamente. E infatti oggi mio padre vive nella mia casa di campagna e mia madre in Inghilterra, con mia sorella … Io … credo che la repulsione di mio padre per il mestiere che faccio sia anche un retaggio di tutto questo. M’aveva educato così rigidamente, così religiosamente … Le scuole comunali, le scuole secondarie con una borsa di studio, eppoi, cucire, ricamare, preparargli pranzo e cena … Mi porto ancora addosso la timidezza, da quei tempi. Anche oggi, sa? M’invitano, e magari è l’occasione d’incontrare qualcuno che m’interessa, ma subito penso: “oddio, no”, e se poi accetto vorrei non averlo fatto mai, vorrei disdire all’ultimo minuto, il che a volte è impossibile perché non ho il telefono oppure m’avvertono che sarebbe troppo scortese. Il risultato? Ci vado e un’ora più tardi mi ritrovo felice. Completamente felice. E con un colpo di fulmine in più per qualcuno che altrimenti non avrei mai incontrato … Ma le dicevo? Ah, sì: avevo quindici anni quando scoprii questo mestiere. Lo scoprii a teatro. Davano la “Fedra” di Racine. Uno choc. Un colpo di fulmine. Come capire all’improvviso che tutte le emozioni dell’adolescenza che avevo dentro, e che nella vita normale mi sarebbe stato impossibile esprimere, avrei potuto esprimerle in quel modo. Lo dissi a mio padre. Gli dissi: “Ti prego, fammi provare”. E lui fece la scenata che le ho detto. Ma riuscii a spuntarla.
Che cosa la spingeva? L’amore per il teatro? Per il cinema? Voleva guadagnare soldi? Diventare popolare?
Guardi, cinema e teatro danno un “piacere” differente, però egualmente profondo. È come … come se il teatro fosse una corsa rapida e il cinema una corsa affannosa. I soldi? Non ho mai fatto niente, per soldi. Anche se riconosco che sono essenziali. Io … io sono stata povera. Dopo il ’36, quando la Francia traballò sotto la crisi, e il ristorante di papà fallì, eppoi arrivò la guerra e se lo portò via, e siccome mia madre era inglese, i tedeschi portarono via anche lei per poi liberarla ma costringerla tutti i giorni al comando per firmare … Quest’anno sono stata in clinica. All’ospedale americano. E lì un’infermiera ha avuto un’uscita meravigliosa. “Sto qui da venticinque anni”, m’ha detto, “e le assicuro che non poteva scegliersi posto migliore”. “Perché l’ospedale è un buon ospedale? Ho chiesto io. “Perché un’operazione è sempre un viaggio che bisogna fare in prima classe”, m’ha risposto. Sacrosanto … Questo, per quanto riguarda i soldi. La popolarità? Quel che so io è che la costruisci lentamente e non sparisce mai di colpo, e dunque hai sempre la speranza di riacquistarla. Perché perderla sarebbe uno choc, sicuro. Vede, io l’ho cercata, l’ho voluta. No, non perché m’interessasse il divismo, l’invidia altrui o la foto sul giornale: per una sorta di scommessa con me stessa. Di rivalsa, se vuole. Sa, nessuno avrebbe puntato un solo franco sul mio futuro d’attrice di cinema. E questo m’ha spronato, mi ha spinta a voler sempre di più … Oggi … vorrei tornarci, a teatro. Ho sempre detto di no. Non volevo lasciar la Francia, esiliarmi … In futuro … be’, siccome nessuna mia decisione è premeditata, può anche essere che ci pensi. E magari che per sei mesi all’anno mi trasferisca in California, un paese che ho imparato ad amare moltissimo, e dove ho molti amici. Come in Italia, sa? La Mangano, Mastroianni … Il mio sogno, vede, è prender casa a Venezia. Di Venezia mi piace tutto, la città, le stagioni, la gente, il modo di parlare …
Mi sembra molto soddisfatta di sé, come attrice.
Be’, adesso sono felice, in questo mestiere. Completamente felice.
E perché, allora, questo silenzio di quasi tre anni? Perché ha sentito il bisogno di cambiare, di cantare? Lei ha cantato in pubblico. Ha inciso quattro dischi. Compone …
Sì, è vero. E già penso a una tournée in America e in Europa con Georges Moustaki. Un altro modo di esprimersi, capisce? Semplice, diretto, popolare. In poche parole: formidabile. Vede, sono stata attrice per tutta la vita, ed essere attrici significa sottomissione, obbedienza. Ho voglia di autonomia, ecco. Certo farò ancora dei film, e anzi uno lo sto cominciando proprio adesso. Ma farò anche altre cose. La regia, per esempio. Le videocassette, per esempio. Già: industriale delle videocassette. Eppoi un libro. Autobiografico. Me l’ha chiesto un casa editrice di New York, l’ho iniziato due anni fa: intendo finirlo. Insomma, non sopporto i limiti. È come quando fai un viaggio, sa? Arrivi a Nuova Delhi e ti chiedi se non è il caso di andare avanti: altri mille chilometri e sei a Bombay.
(Jeanne Moreau in una scena del film “Jules e Jim”)
Mary Titton
30 luglio
PRIMO PIANO
Il nuovo film su Pinocchio di Matteo Garrone.
Dopo la prima foto di Roberto Benigni nei panni di Geppetto e il teaser trailer, è stata diffusa la prima immagine di Federico Ielapi nel ruolo di Pinocchio, nel nuovo film “Pinocchio” di Matteo Garrone. Federico Ielapi è un bambino di 8 anni romano, che ha già recitato in Quo vado di Gennaro Nunziante con Checco Zalone, in Moschettieri del re di Giovanni Veronesi (è il bimbo che si vede nella parte “moderna” della storia) e nel film Brave ragazze di Michela Andreozzi nel ruolo del figlio di Ambra Angiolini. Oltre a Roberto Benigni nei panni di Geppetto, nel cast Gigi Proietti è Mangiafuoco, Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo interpretano il gatto e la volpe, il grillo parlante è Davide Marotta, la lumaca Maria Pia Timo, la fata giovane Alida Baldari Calabria (la bimba di Dogman), la fata adulta Marine Vacth, Lucignolo è Alessio Di Domenicantonio, il Grillo parlante è Davide Marotta, il Mastro Ciliegia è Paolo Graziosi, la Civetta è Gianfranco Gallo, il Corvo è Massimiliano Gallo, il Pappagallo è Marcello Fonte, il Gorilla è Teco Celio, la Faina è Enzo Vetrano, l’Omino di burro è Nino Scardina. Spiega il regista: “Sono molto felice di aver avuto modo di collaborare con un grande artista come Mark Coulier, già impegnato nella realizzazione dei personaggi di Harry Potter e vincitore di due premi Oscar per Grand Budapest Hotel e The Iron Lady. Sapevamo di non voler ricorrere a tecniche digitali nella creazione dei personaggi di Pinocchio, e per questo motivo ci siamo affidati a Mark, che grazie allo special make-up è riuscito a restituire la magia e insieme il realismo delle creature immaginate da Collodi, sorprendendoci e trasportandoci in un’atmosfera fiabesca. Speriamo che quello stesso stupore arrivi al pubblico, e soprattutto agli spettatori più piccoli”. “Pinocchio”, coproduzione internazionale Italia/Francia, prodotto da Archimede con Rai Cinema e Le Pacte, uscirà nelle sale italiane il giorno di Natale.
DALLA STORIA
Buddy Guy e lo spirito del Blues.
“Il Blues è una manifestazione profana di un sentimento e di un dolore che ha avuto un lungo, inesorabile tracciato umano e civile e ha ritrovato nella parola poetica prima, nel canto e nell’accompagnamento in una seconda fase la sua ampia e angosciosa possibilità di espressione”.
Il 30 luglio 1936, nasceva nello Stato della Louisiana Buddy Guy, capostipite della musica nera insieme a B.B. King. Guy è considerato tra i più importanti esponenti dell’Electric blues americano, “l’ultimo Grande della sua generazione, quella che aveva risalito il Mississippi e la Highway 61, fino a Chicago, elettrificando il country blues del Delta”. A seguito dell’abolizione delle leggi razziali, una Grande Migrazione di milioni di afroamericani si spostò in cerca di lavoro dal profondo Sud verso le grandi città del nord. Chicago, “La città del vento”, divenne così il luogo dei Grandi musicisti neri, dove nacque il Blues elettrico, una versione più vicina alla nuova realtà urbanizzata, dai ritmi veloci e in continua trasformazione. Un “soud” dall’anima elettrica ma non per questo meno autentica e coinvolgente che ha ispirato, negli anni ’60, ‘70 gruppi come i Rolling Stones o mostri sacri come Jimi Handrix, l’erede più fulgido del genere. Eric Clapton ha detto “Buddy Guy è stato per me ciò che probabilmente Elvis è stato per altri. La mia rotta era ormai decisa, e lui fu il mio pilota”. A partire da Elvis Presley fino ad oggi il, Blues ha nelle sue figure di riferimento bluseman della grandezza di Robert Johnson, Mamie Smith, Bessie Smith, Papa Charlie Jackson e poi, via via, John Lee Hooker, Muddy Waters, Bo Diddley, Ray Charles, Wilson Pickett, John Mayall, Stevie Ray Vaughan e tutti gli altri ancora. Nessuno come i neri rende piena di senso la musica Blues, in qualunque modo venga da loro prodotta. I neri non potendo comprare strumenti musicali per la loro povertà endemica, si avvalevano spesso di oggetti improvvisati come l’asse per lavare i panni o utensili da cucina ottenendo, in ogni caso, esecuzioni formidabili e coinvolgenti. Delta Bleues, Chicago Blues, New Orleans Blues e così via sono le declinazioni che progressivamente assumeva il Blues nella sua connotazione più specifica: il cambiamento o preferibilmente l’adattamento. Infatti “prima di tutto il Blues è un sentimento, una conoscenza sensoriale, un’entità non una teoria, il cui sentimento è la prima forma e viceversa”. Da dove viene questa musica che rimescola il sangue? Il nome stesso ce lo dice: Blues significa “avere i diavoli in corpo”, “essere indemoniati”, arrabbiati. La sua storia parte da un tempo lontanissimo. “Le prime manifestazioni del Blues si hanno in alcuni villaggi dell’Africa, nella quotidiana attività di lavoro: sono identificabili in una sorta di canto, altalenante con cadenze dissonanti ma con un ritmo ripetitivo, ossessivo” con risonanze “woodoo”, lo stesso che si udirà nell’Ottocento tra gli schiavi dei campi di cotone. Si potrebbe dire che il Blues, in quanto linguaggio ancestrale è il padre di tutto quello che, a livello musicale, si è evoluto nel tempo: non morirà mai, MAI (come dice Claudio Massarini nel suo bell’articolo all’indomani del concerto di Buddy Guy, di qualche anno fa, a Umbria Jazz). E’ la risposta sublimata all’esperienza drammatica, di un dolore e una disperazione inimmaginabili, subita dai neri al tempo della loro colonizzazione in cui furono resi schiavi prima e poi importati come forza lavoro in America. E quel canto antico è l’unica possibilità che i neri hanno avuto contro la supremazia bianca: l’unica possibilità di superamento a una condizione di chi, fin da piccolo, raccoglieva il cotone nei capi arroventati, con il sole a picco senza alcuna considerazione se non la loro condizione di schiavi, ritenuti esseri inferiori, diversi e degradati alla stregua di un oggetto privo di coscienza. Una dimensione tragica per gli schiavi e un’eredità disgustosa, rozza quella della mancanza di umanità degli schiavisti dominati da una cultura improntata all’azione, dalla volontà di potenza, di dominio e da un arrogante complesso di superiorità. Il Blues racconta l’esistenza di due civiltà che si contrappongono nelle loro diversità: l’una prevalentemente spirituale (i neri come espressione dell’anima femminile del mondo) e l’altra che incarna nei bianchi l’espressione della forza fisica. “La prima volta che ho incontrato il Blues fu quando mi portarono qui su una nave. C’erano uomini su di me e molti altri usavano la frusta… adesso tutti vogliono sapere perché canto il Blues…” ebbe a dire B.B. King indicando che solo chi attraversa l’inferno sa cos’è il Blues. Anche LeRoy Jones, poeta e attivista politico, nella sua autobiografia scrive: “Il nero come schiavo è una cosa, il nero come americano un’altra. Ritengo che il Blues e il nero americano siano nati contemporaneamente”. Anche Buddy Guy da giovane lavorò nei campi di cotone e la sua prima chitarra fu un manico di scopa con due corde ma, come lui stesso racconta, già all’età di due anni sua madre affermava: “questo ragazzo ha il Blues”. Poi, convinto da un amico a lasciare il posto come custode all’università che nel frattempo aveva trovato, si trasferì a Chicago per intraprendere la carriera di musicista. Era il 25 settembre 1957, una data che è impressa in tutte le chitarre di Buddy Guy. Iniziò una lunga carriera incidendo svariati album e collaborando con tutti i principali attori della scena chitarristica mondiale e diventando, lui stesso, uno dei musicisti di chitarra elettrica più grandi in assoluto. Oggi, è proprietario di un bar a Chicago, nella zona, del Loop, il “Buddy Guy’s Legend” con musica dal vivo dove, a volte, è possibile vedere lo stesso Guy che serve al banco o suona. Ad ottantatré anni ripete che l’amore è la risposta, la salvezza, il valore più autentico. Ed è quello che si sente ascoltando la sua musica e la sua voce potente.
Mary Titton
29 luglio
PRIMO PIANO
ExoMars 2020: il sensore italiano è pronto per l’atmosfera marziana.
Il sensore MicroMed, che avrà il compito di analizzare le polveri nell’atmosfera marziana in prossimità della superficie del pianeta, sta per iniziare il suo viaggio verso Mosca, dove sarà integrato nella suite di sensori chiamata Dust Complex. La tappa successiva sarà Cannes, dove sarà installato sulla stazione fissa (Surface Platform) di ExoMars, il cui lancio alla volta del pianeta rosso è previsto tra meno di un anno. Ideato e sviluppato dal gruppo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) coordinato da Francesca Esposito, con il supporto di Asi e Regione Campania, il sensore MicroMED il primo agosto 2019 lascerà l’Osservatorio di Capodimonte dell’Inaf. Hanno contribuito a realizzarlo anche il Polo di Lecco del Politecnico di Milano, i gruppi dell’Inaf di Roma, Bologna e Arcetri, l’Istituto spagnolo di Tecnica Aerospaziale (Inta) di Madrid e l’Istituto di Ricerca Spaziale (Iki) di Mosca, insieme alle aziende Marotta, Gestione Silo e TransTech. I dati di MicroMed permetteranno di capire come si sollevano le polveri su Marte e di scoprire se anche sul pianeta rosso come sulla Terra, questo fenomeno è accompagnato dalla presenza di un campo elettrico atmosferico, con la produzione di scariche elettriche. Tutte queste informazioni potranno contribuire alla messa a punto di modelli climatici di Marte.
28 luglio
PRIMO PIANO
F1, Gp Germania 2019: Vince Verstappen, 2° Vettel.
Sul circuito di Hockenheim, oggi 28 luglio, ha vinto Max Verstappen con la Red Bull, secondo, dopo una eccezionale rimonta dall’ultima posizione in griglia di partenza, Sebastian Vettel con la Ferrari, terzo Daniil Kvyat con la Toro Rosso. Quarta posizione per la Racing Point di Stroll che ha preceduto la McLaren di Sainz e la Toro Rosso di Albon. Lewis Hamilton, poi, non per la penalizzazione delle Alfa Romee, dopo una uscita di pista ed una penalità di cinque secondi, è arrivato nono, il compagno di squadra Valtteri Bottas è fuori per un testacoda nel finale della gara. Giornata sfortunata per l’altro pilota Ferrari, Charles Leclerc, fuori poco prima di metà gara, quando era secondo, dopo essere finito contro i pannelli pubblicitari dell’ultima curva: macchina incastrata e gara finita per lui. La gara sulla pista tedesca fradicia, bagnata, umida e asciutta a seconda dei momenti, è stata elettrizzante, la più avvincente della stagione, con continui colpi di scena, come l’uscita di big come Leclerc e Bottas. Hamilton, poi, pur essendo partito dalla pole e avendo passato in testa la prima curva, per due volte è uscito di pista, nella prima ha rotto il muso anteriore e, nel tentativo di rientrare il più in fretta possibile ai box, ha sbagliato il punto d’ingresso ed è stato punito con 5 secondi di penalità, in più è andato sotto sanzione anche per aver guidato troppo lentamente, senza una giustificabile ragione, dietro la safety car. Con il passare dei minuti e il continuo mutare delle condizioni atmosferiche, ha creduto nella vittoria, poi nel podio, poi nella zona punti e infine nella possibilità di chiudere la gara. E’ finito nono su 11, con le due sole Williams alle spalle. Sebastian Vettel commenta così il suo secondo posto: “Gara dura ma sono davvero felice. Ho perso un po’ di tempo nella prima parte di gara per prendere la mano con le gomme intermedie. Dopo l’ultima safety car ho capito che potevo rimontare perché vedevo che ero veloce e ce l’ho fatta. Congratulazioni a Max è stato davvero bravissimo.”
27 luglio
PRIMO PIANO
Roma: ritrovato il busto di un antico guerriero Dace.
Negli scavi di via Alessandrina a Roma, dopo la testa di Dioniso, è stato rinvenuto il busto di una statua in marmo bianco, risalente all’inizio del II secolo d.C. e raffigurante un guerriero Dace, forse è una delle 60-70 statue di guerrieri, l’esercito dei Daci, che decoravano l’attico del Foro di Traiano. Il torso è alto circa 1,5 metri ed è in buono stato di conservazione. I materiali con cui sono state realizzate queste statue sono il marmo pavonazzetto, il porfido e il marmo bianco. La statua è stata rinvenuta all’interno di un livello di abbandono, successivo ad un crollo da datare al tempo delle demolizioni medievali, presumibilmente nella seconda metà del IX secolo d.C. Un contesto di ritrovamento diverso, quindi, da quello della testa di divinità rinvenuta lo scorso 24 maggio, che era stata invece intenzionalmente riutilizzata in un muro tardo medievale come materiale da costruzione. Già nel 1998 e nel corso del 2000, analoghi ritrovamenti si erano verificati in occasione degli scavi della piazza del Foro di Traiano e le statue di Daci allora scoperte sono oggi esposte ai Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali. Lo scavo è curato dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Parco Archeologico del Colosseo e con il supporto degli archeologi del Parco.
DALLA STORIA
Il teatro-danza di Pina Bausch.
“Pina Bausch è un’artista che ha segnato una nuova via originale all’espressione scenica del corpo parlante, influenzando non soltanto la danza contemporanea, ma anche le arti ad essa contigue, mutandone gli orizzonti. La Bausch è una coreografa che ha innovato il teatro, rendendolo più che mai fisico e musicandone la drammaturgia”. Con questa motivazione la grande ballerina e coreografa tedesca, Philippine Bausch, “Pina” otteneva, nel 2007, il Leone d’Oro alla Carriera. La Bausch è considerata tra le più importanti e note coreografe mondiali e, nell’arco della sua carriera, ha ricevuto decine di riconoscimenti per aver intensificato l’idea classica e moderna del balletto con una nuova forma di teatro totale, definito teatro-danza, nome adottato negli anni ’70 da alcuni coreografi tedeschi, tra cui la stessa Bausch. “La novità del suo lavoro non consiste tanto nell’invenzione di nuove forme e nuovi gesti, da riprodurre uguali a se stessi, quanto all’interpretazione personale della forma che si vuole rappresentare, entrambe sostenute dal concetto basilare del rapporto tra fragilità e forza (come è la danza così come ogni forma di vera arte). I danzatori sono chiamati alla creazione delle pièces attraverso l’improvvisazione generata dalle domande che la coreografa pone loro.
Per questo motivo gli interpreti della compagnia della Bausch vengono spesso denominati con il neologismo di “danzattori”. Infatti essi non ricoprono solamente il ruolo di danzatori, ma anche quello di attori e di autori dell’opera”. Un altro elemento di novità è costituito dall’interazione tra i danzatori e la molteplicità di materiali scenici di derivazione strettamente teatrale, come le sedie del “Café Muller” (capolavoro a livello internazionale) che la Bausch inserì nelle sue composizioni. Il legame osmotico derivante da questa forma di teatro generò tra la coreografa e i suoi allievi un profondissimo legame di affetto e reciproco rispetto. Pina Bausch è stata perciò un’esploratrice del corpo umano, di ogni singolo gesto dal quale ha saputo liberare la forza legata al movimento ma anche formalizzare l’impatto emotivo che da esso ne conseguiva sperimentando innesti con il teatro donde (Tanztheater). Questo luogo è stato principalmente “uno spazio in cui è possibile incontrarsi”, come lei stessa spiegava, “un luogo nel quale ciascun elemento, destituito da ogni valore simbolico, era usato in funzione di se stesso e della ricerca di una bellezza autentica e naturale.”
Pina Bausch era nata il 27 luglio 1940 a Solingen, in Germania dove apprese i rudimenti della danza espressionista diretta da Kurt Jooss. Grazie a una borsa di studio si trasferì alla Juilliard School of Music di New York e iniziò a danzare con il New American Ballet. Diventata coreografa, nel 1973 fondò a Wuppertal il “Tanztheater Wuppertal Pina Bausch (cambiando nome al già esistente corpo di ballo della città). I suoi spettacoli riscossero fin da subito un indiscusso successo; mentre le prime opere erano animate di una dura critica alla società consumistica e ai suoi valori, le sue creazioni, nel tempo, approfondirono sia il contrasto uomo-società, sia la visione intima della coreografia e dei danzatori e dove entrarono, per la prima volta, oltre alla musica, il suono, la voce, le risa dei danzatori a completare la visualizzazione dei sentimenti. Da allora le sue opere sono state, e sono tuttora, presentate nei principali festival e teatri del mondo. Federico Fellini nell’83, la scelse per interpretare una principessa non vedente nel suo film “E la nave va”; Pedro Almodovar utilizzò due sequenze tratte da due sue famose coreografie (Café Muller e Masurca Fogo) per aprire e chiudere il film “Parla con lei”; e infine Wim Wenders, che quando vide per la prima volta un suo spettacolo, nell’85, alla Biennale di Venezia, rimase così colpito da cancellare i suoi impegni per assistere a tutte le altre performances della coreografa, di cui poi diventò grande amico. Nel 2011 Wenders le ha dedicato il film-documentario in 3D, “Pina”. Grazie alla tecnologia 3D, sperimentata per la prima volta su soggetti reali, nel film di Wenders, “lo spazio diviene tridimensionale per accogliere non solo i danzatori ma anche lo spettatore, che ha la sensazione di assistere realmente ad uno spettacolo della compagnia di Wuppertal. I movimenti, captati in tutta la loro plasticità e dinamicità, liberano un’energia divina e la danza diviene movimento universale, sublimata sintesi tra l’io ed il cosmo”. La Bausch, avrebbe dovuto essere la protagonista e avrebbe dovuto firmare la co-regia. Purtroppo morì improvvisamente il 30 giugno 2009. Wenders si trovò costretto a ripensarlo, stravolgendo le sue intenzioni originarie: non un film su Pina, che sarebbe stata ripresa al lavoro e durante le prove, ma un film sul Tanzthester di Wuppertal nel quale i protagonisti sarebbero stati i danzatori.
Mary Titton
26 luglio
PRIMO PIANO
Istat: in Italia aumentano i centenari.
L’Istat ha pubblicato il rapporto “Cent’anni e non sentirli”, da cui emerge una particolare fotografia dell’Italia, dove l’età media è in costante aumento, come pure il numero dei centenari. In dieci anni (2009-2019), infatti, i centenari sono passati da 11mila a oltre 14mila, quelli di 105 anni e oltre sono più che raddoppiati, da 472 a 1.112, con un incremento del 136%. I supercentenari vivi al primo gennaio 2019 sono 21, raddoppiati rispetto al 2009 quando se ne contavano 10. Al primo gennaio 2019 sono 14.456 le persone residenti in Italia che hanno compiuto i 100 anni di età, donne nell’84% dei casi. Tra i centenari, 1.112 hanno raggiunto e superato i 105 anni di età al primo gennaio 2019. L’87% è di sesso femminile. Dei 125 individui che tra il 2009 e il 2019 hanno raggiunto e superato i 110 anni di età, il 93% è costituito da donne, a conferma di una predominanza femminile nelle età estreme della popolazione. La maggior parte dei centenari risiede nel Nord Italia. Tra quelli di oltre 105 anni, 338 risiedono nel Nord-ovest, 225 nel Nord-est, 207 al Centro, 230 al Sud e 112 nelle Isole. La regione con il rapporto più alto tra semi-supercentenari e il totale della popolazione residente alla stessa data è la Liguria (3,3 per 100 mila), seguita dal Friuli-Venezia Giulia (3,0 per 100 mila) e dal Molise (2,6 per 100 mila). La Lombardia, nonostante abbia il maggior numero di semi-supercentenari in valore assoluto (201), presenta un rapporto tra popolazione di 105 anni e oltre e quella totale pari a 2 per 100 mila, in linea con il dato nazionale (1,9 per 100 mila). La distribuzione regionale cambia analizzando il rapporto tra la popolazione semi-supercentenaria e la popolazione residente di 80 anni e più: con circa 36 persone di 105 anni e oltre ogni 100 mila residenti con più di 79 anni il Friuli-Venezia Giulia si posiziona al primo posto. Tra le curiosità da segnalare è che la persona vivente più vecchia d’Italia ha 113 anni, è donna e vive in Emilia Romagna. L’uomo più longevo d’Italia è morto a quasi 112 anni, mentre la donna più longeva d’Italia è morta a 117 anni.
25 luglio
PRIMO PIANO
Boris Johnson è il nuovo premier della Gran Bretagna.
Theresa May ha lasciato Downing Street e ha presentato le dimissioni alla regina Elisabetta, che ha affidato l’incarico di primo ministro a Boris Johnson, il quale ha pronunciato oggi il suo primo discorso da premier Tory di fronte alla Camera dei Comuni, confermando l’obiettivo di completare la Brexit per il 31 ottobre e aggiungendo – fra le proteste dell’opposizione – di voler fare del Regno Unito “il miglior Paese in cui vivere sulla Terra”. Johnson ha poi auspicato che Bruxelles riveda la sua posizione e accetti dei cambiamenti all’accordo, in caso contrario il Regno Unito lascerà la Ue anche senza accordo, in quanto il Paese “è più preparato di quanto si pensi” a questo scenario. Per il nuovo primo ministro anche il sistema d’immigrazione deve cambiare, è sua intenzione chiedere una valutazione del sistema a punti australiano e le modalità per applicarlo in Gran Bretagna. Chi è Boris Johnson? Johnson è nato a New York il 19 giugno 1964 da una benestante famiglia britannica di religione anglicana e di origini inglesi, turche ottomane, russe, ebraiche, francesi e tedesche, con la quale all’inizio ha vissuto in un appartamento nei pressi del Chelsea Hotel, per molto tempo è stato in possesso anche della cittadinanza statunitense ottenuta per nascita. Si è laureato in Lettere classiche presso l’Università di Oxford, con una tesi in Storia antica, durante gli anni in cui ha vissuto a Bruxelles ha studiato alla scuola europea, poi a Eton e a Oxford. È anche giornalista e scrittore ed è stato direttore dello Spectator. È stato sindaco di Londra per due mandati, dal 4 maggio 2008 al 9 maggio 2016 e dal 13 luglio 2016 al 9 luglio 2018, segretario di stato per gli Affari Esteri e del Commonwealth dei governi May I e II. In seguito alle dimissioni di Theresa May dalla guida del Partito Conservatore e Unionista, Johnson si è candidato alla leadership del partito, contrapponendosi al candidato europeista Jeremy Hunt. Il voto degli iscritti si è concluso il 22 luglio 2019 e Johnson è risultato vincitore con il 66% dei voti (92.153 preferenze), contro il 34% (46.656 preferenze) di Hunt. Il 23 luglio Johnson è stato ufficialmente proclamato nuovo leader del Partito Conservatore e Unionista, ha ricevuto l’incarico dalla regina di formare un nuovo governo e oggi ha presentato i nuovi ministri. Johnson indica come “una priorità” del suo governo l’impegno a prepararsi ad una Brexit no deal, che diventa, anche se l’Europa vorrebbe evitarla, sempre più probabile, in quanto il presidente in uscita della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha ribadito la linea già espressa ai tempi della premiership della May: l’accordo sulla Brexit siglato tra Londra e la Ue è il «migliore possibile» e non sarà oggetto di revisioni.
24 luglio
PRIMO PIANO
Mondiali di nuoto di Gwangju: quarto oro per Federica Pellegrini.
Ai mondiali di nuoto in Corea del Sud Federica Pellegrini vince nei 200 stile libero conquistando la quarta medaglia d’oro in carriera, con il tempo di 1.54.22. L’azzurra era già entrata nella storia del nuoto internazionale con la settima medaglia consecutiva vinta a Budapest due anni fa, quando conquistò il terzo oro nei 200, infliggendo la prima sconfitta internazionale della carriera alla statunitense Katie Ledecky e superò nella speciale classifica lo statunitense pluricampione olimpico e mondiale Ryan Lochte nei 200 misti. La divina, come viene definita, tesserata per il Circolo Canottieri Aniene, fa parte della storia del nuoto italiano da 15 anni ed è considerata la più grande nuotatrice dell’Italia, di cui è stata portabandiera alla cerimonia inaugurale olimpica a Rio de Janeiro. In carriera ha preso parte a quattro rassegne olimpiche: la prima nel 2004 quando, solo sedicenne, ad Atene, conquistò la medaglia d’argento nei 200 m stile libero, divenendo la più giovane atleta italiana a salire su un podio olimpico individuale. Quattro anni dopo, ai Giochi di Pechino, vinse in quella stessa gara la medaglia d’oro regalando all’Italia il primo successo olimpico femminile nella storia del nuoto. Ai mondiali di Melbourne 2007 infranse il primo degli 11 record del mondo da lei stabiliti in carriera. Fu campionessa iridata dei 200 e 400 m stile libero sia nel 2009 sia nel 2011, diventando la prima nuotatrice capace di vincere consecutivamente il titolo in entrambe le distanze in due diverse edizioni della manifestazione. Ai campionati del mondo è anche l’atleta più vincente in una stessa gara grazie ai 4 ori, 3 argenti e 1 bronzo conquistati in otto diverse edizioni. Dalla rassegna di Montréal 2005 a quella di Gwangju 2019, infatti, è sempre salita sul podio nei 200 m stile libero. Subito dopo la vittoria, Federica, piangendo di gioia, ha detto: “Sono molto contenta perché è il mio ultimo Mondiale, piango non per dispiacere ma per felicità … A 31 anni sono felice: Budapest è stato fortemente voluto ma mai avrei immaginato l’oro, arrivando qui sono successe cose strane una dietro l’altra e mi sono trovata a giocarmi qualcosa di importante quasi di passaggio. Il tempo mi sorprende ancora di più.” Poco prima della Pellegrini Gregorio Paltrinieri ha vinto gli 800 stile libero in 7′ 39″ 27, stabilendo anche il nuovo primato europeo.
DALLA STORIA
Peters Sellers magnifico e imperturbabile interprete di “Oltre il giardino”; film-testamento del grande attore inglese.
(“La vita è uno stato mentale”)
In occasione dell’anniversario della morte di Peter Sellers, avvenuta a Londra il 24 luglio 1980, ricordiamo l’artista nel ruolo di uno dei personaggi più amati dall’attore inglese da lui interpretati. Il film in questione è “Oltre il giardino”, 1979 del regista Hal Ashby, ed ha come protagonista l’umile giardiniere Chance. Questi, dal comportamento in realtà “da ritardato”, viene frainteso dalle persone che gli stanno intorno che scambiano le sue maniere compassate come un atteggiamento di disponibilità nei loro confronti e, con la complicità di una serie di divertentissimi equivoci, gli viene attribuita una saggezza tale da proporlo per la candidatura alla Casa Bianca. “La gente vede quello che vuole vedere e sente quello che vuole sentire”, sembra voler dire il bellissimo film, così fortemente voluto da Peter Sellers dopo aver letto il romanzo di Jerzy Kosinski (autore anche della sceneggiatura) da cui il film è tratto. Nel 1971 dopo aver letto il libro di Kosinski, Sellers inviò un telegramma all’autore che diceva: “Disponibile nel mio giardino o fuori” con a fianco il numero di telefono. Anche se l’ultimo lavoro di Peter Sellers è stato “Il diabolico complotto del dr. Fu Manchu (1980), “Oltre il giardino” è considerato il canto del cigno del grande attore. Sellers, morirà non molto tempo dopo, stroncato da un infarto a soli 54 anni.
(L’attore nei panni del giardiniere Chance)
“La storia”, si legge nella recensione di Karen Krisanovich (da “I grandi Capolavori del Cinema), “è semplice: dopo la morte del ricco signor Gardiner, il suo giardiniere mezzo ritardato Chance (Sellers) viene scambiato per il datore di lavoro. Ospite del senatore Benjamin Rand (Melvyn Douglas) e di sua moglie (Shirley MacLaine), Chance borbotta alcune osservazioni casuali che vengono interpretate come acute osservazioni sulla condizione umana.
(Shirley McLaine e Peter Sellers in una scena magistrale del film)
Dopo una serie di esilaranti equivoci, quando sembra a un passo dalla presidenza degli Stati Uniti, Chance si allontana con un miracolo degno di Gesù. L’apparente sagacia di un uomo che non è mai andato “oltre il giardino”, e che limita le proprie osservazioni alla cura delle piante mette in ridicolo i veri sapienti, o presunti tali. In mano ad altri registri “Oltre il giardino” avrebbe corso il rischio di trasformarsi in una parabola sciocca o in una fiacca satira sulla credulità umana, ma la sapiente regia di Hal Ashby, con la sua atmosfera tranquilla e invernale, e la favolosa (a tratti surreale) recitazione di Sellers creano un film delicatissimo, privo di intenzioni didascaliche o sarcastiche, merito anche di un copione spesso esilarante, giocato su infiniti equivoci verbali. “Non ho affatto una personalità. Sono un camaleonte. Quando non recito un ruolo, non sono nessuno”, dichiarò una volta Sellers. L’attore interpreta Chance con uno stile impassibile, un altro dei folli personaggi della sua straordinaria galleria”.
(Peter Sellers nella scena finale del film)
Mary Titton
23 luglio
DALLA STORIA
Raymond Chandler, il padre di Marlowe.
“Erano pressappoco le undici di mattino, mezzo ottobre, sole velato, e una minaccia di pioggia torrenziale sospesa nella limpidezza eccessiva là sulle colline. Portavo un completo blu polvere, con camicia blu scuro, cravatta e fazzolettino assortiti, scarpe nere e calzini di lana neri con un disegno a orologini blu scuro. Ero corretto, lindo, ben sbarbato e sobrio, e me ne sbattevo che lo si vedesse. Dalla testa ai piedi ero il figurino del privato elegante. Avevo appuntamento con quattro milioni di dollari”. Questo l’inizio de il “Il grande sonno”, di Chandler, considerato uno dei capolavori del giallo e il romanzo che dà i natali al più famoso tra gli investigatori della scuola dei duri: Philip Marlowe. Ex poliziotto e detective privato, Marlowe è un solitario, dotato di ironia e disprezzo per le meschinità del mondo, leale al suo cliente a costo di rischiare la vita. Un cavaliere senza macchia che si muove in un mondo di corrotti e violenti. Nella storia del giallo egli rappresenta la risposta “realistica” al mystery inglese, dove il protagonista, di solito un genio, risolve i casi più complessi seduto nella poltrona del suo salotto. Il detective Marlowe ottiene risultati più con l’ostinazione e l’esperienza che non grazie ad astratte doti intellettuali. Chandler è il più importante autore di narrativa harboiled: scrivere storie di strada con il linguaggio della strada. “Gli scrittori cosiddetti “duri” adottano frasi brevi, incisive, veloci e con pochi aggettivi trasformando, in questo modo, il giallo in romanzo sociale. Chandler riesce comunque a sposare il linguaggio povero ad uno stile ricco ed evocativo che gli proviene dalla formazione classica”. (Carlo Lucarelli). “Il più lirico dei grandi narratori di crime story”. (Patrick Anderson, critico del Washington Post). Dal 1900 al 1905, Chandler aveva frequentato una scuola della media-alta borghesia, la Dulwich College, in Gran Bretagna, dove poté studiare anche latino, greco e francese.
“Raymond Chandler era nato a Chicago, Illinois, il 23 luglio nel 1888 da padre statunitense e madre irlandese. Il padre, un umile lavoratore ferroviario, era spesso assente per lavoro, beveva molto e sembra che picchiasse la moglie. Nel 1895, all’età di otto anni, Raymond si trasferisce in Inghilterra insieme alla madre, appena divorziata e senza mezzi di sussistenza, presso alcuni parenti a Upper Norwood, un quartiere nella zona sud di Londra. Da quel momento non rivedrà più suo padre, che menzionerà solo raramente e con giustificato disprezzo. Terminati gli studi Chandler si trasferisce a Parigi per sei mesi, dove segue i corsi di un istituto commerciale. Soggiorna successivamente altri sei mesi in Germania. Tra il 1907 e il 1908 torna a Londra e diviene cittadino inglese. Spinto dalla madre e dallo zio partecipa a un concorso per un impiego di carattere contabile, amministrativo che ben presto abbandona per insoddisfazione incorrendo nelle ire dei parenti. Si trasferisce, perciò, a Bloomsbury e sbarca il lunario come reporter presso alcune testate giornalistiche. Nel luglio del ’12, scontento della sua carriera torna negli Stati Uniti. Durante il viaggio in mare conosce gli agiati Warren e Alma Lloyd, che lo invitano nella loro casa di Los Angeles. Dopo un anno di vagabondaggi nel Midwest e nel Nebraska, nel ’13 torna in California e svolge i lavori più disparati come raccogliere albicocche o incordare racchette da tennis. In seguito grazie all’intervento di Warren Lloyd ottiene un posto nell’amministrazione della Los Angeles Creamery. Diviene socio del circolo Lloyd frequentato da scrittori e musicisti. Nel ’16 la madre lo raggiunge a Los Angeles e, nello stesso anno, a casa dei coniugi Lloyd conosce Pearl Eugenie Hurlburt, detta Cissy; moglie del pianista Julien Pascal che, in seguito, diventerà sua moglie. Nel ’23, sempre grazie all’amicizia di Lloyd ottiene un posto come contabile alla Dabney Oil Syndicate. Sono quelli i “ruggenti” anni Venti, quelli del boom petrolifero di Los Angeles. Chandler si dimostra un abile direttore gestendo sino a undici compagnie petrolifere. Dal ’24 al ’30, sembra che egli, accanto alla moglie che ama teneramente e la nuova attività che gestisce con capacità e profitto, abbia trovato una certa stabilità interiore. Non sarà così, sente che questa non è la sua strada, in seguito dirà: “Odiavo gli affari ma nonostante ciò alla fine divenni funzionario e direttore di mezza dozzina di società petrolifere indipendenti …”. (Alessandro Bullo). La profonda crisi esistenziale lo avvicina ad un consumo sfrenato di alcool. Nel ’32 la società in cui lavora lo licenza per le frequenti assenze e, perché Chandler si presenta in ufficio molto spesso ubriaco. Lui dirà che venne licenziato a causa della crisi del ’29. Fatto sta che inizia a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e, nel pieno della Grande Depressione, avvia una collaborazione con la rivista Black Mask; pubblica il suo primo racconto, all’età di quarantacinque anni, “I ricattatori non sparano”. Black Mask è una rivista specializzata in letteratura popolare, soprattutto del genere poliziesco d’azione; la stessa che negli anni precedenti aveva lanciato Dashiel Hammett e James Cain. Il direttore della rivista è Joseph T. Shaw, detto Capitano, un ex capitano dell’esercito che, nel ’26, ne diventa il direttore con l’intenzione di lanciare un nuovo tipo di racconti pieni d’azione e colpi di scena, sparatorie, inseguimenti in una commistione tra investigatori e criminali, dark lady e pupe da sballo tutto nell’uso del discorso diretto, nella versione dello slang americano. Nel ’39, Knopf, uno dei più importanti editori americani, pubblica “Il grande sonno”, con Marlowe.
“Il detective Philip Marlowe contrariamente allo stereotipo del genere, non è il classico uomo tutto d’un pezzo, bensì un individuo complesso, sentimentale, con pochi amici, colto (ha studi universitari ed è appassionato di scacchi e musica classica) dai forti principi morali. Ecco come lo descrive lo stesso Chandler: “Dev’essere, per usare una frase piuttosto trita, un uomo d’onore, per istinto, perché non può farne a meno. Dev’esserlo senza pensarvi e, sicuramente, senza mai parlarne. Dev’essere il miglior uomo di questo mondo, e un uomo abbastanza buono per qualsiasi mondo … È relativamente povero, altrimenti non farebbe l’investigatore. È un uomo comune, altrimenti non potrebbe mescolarsi alla gente comune. Ha un buon fiuto psicologico, altrimenti non conoscerebbe il suo mestiere. Non accetta da alcuno soldi disonesti e non tollera insolenze da alcuno senza doverosa e spassionata vendetta. È un solitario ed è suo orgoglio farsi trattare da orgoglioso … Ha disgusto per l’insincerità e disprezza tutto quello che è meschino. Il romanzo è l’avventura di quest’uomo alla ricerca di una verità nascosta … “Nonostante gli sforzi di Knopf, “Il grande sonno” viene quasi completamente ignorato dai giornali specializzati, a parte qualche buona critica come quella del “Los Angeles Times”, del 19 febbraio ’39 grazie alla quale il romanzo riesce a vendere quasi 18.000 copie che non sono poche per un esordiente, ma l’editore si aspettava sicuramente un successo maggiore. Chandler dovrà attendere la chiamata di Hollywood perché Marlowe diventi nei decenni successivi una vera e propria icona del genere “noir” americano.”
Al cinema, il celebre investigatore sarà interpretato da Dick Powell, Humphrey Bogart, che rese indimenticabile il trench del protagonista, Robert Montgomery e George Montgomery, mentre è ancora in vita il suo creatore; successivamente, dal ’69 al ’78, da James Garner e Elliott Gould e, per due volte, da Robert Mitchum un po’ in là con gli anni. Non sarà mai interpretato da Gary Grant, l’attore a cui si era ispirato Chandler per il suo detective. Quest’ultimo sarà il protagonista di otto successivi romanzi, di cui uno incompiuto. In seguito scriverà notevoli e numerose sceneggiature per Hollywood, tra cui le più importanti sono quelle de “La fiamma del peccato” (di Billy Wilder, 1944), “L’altro uomo” (di Alfred Hitchcock, 1951) e altri romanzi, in tutto circa una ventina. Precipitato definitivamente nel tunnel dell’alcolismo, tentò il suicidio nel ’55, un anno dopo la morte della moglie, Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla, nel 1959.
Mary Titton
22 luglio
DALLA STORIA
Anne Spencer Morrow Lindbergh, la prima donna pilota.
“Perfino ora considero il volo come un rifugio: scivolare con gli uccelli sulle correnti d’aria, il cielo una vasta cattedrale silenziosa che mi circonda” (Anne Morrow Lindbergh).
Avventuriera intrepida Anne Morrow è stata la prima donna ad ottenere, nel 1930, la licenza di pilota di aviazione. Vestita di tuta bianca e con una fascia bianca intorno al capo, al comando di un Albatros Bowlus Modello A, fu lanciata, nei dintorni di San Diego, da un monte di 800 metri; attraversò la strada che si trovò di fronte per due volte e poi atterrò: in tutto sei minuti di volo ma sufficienti per ottenere la licenza che le fu consegnata poche ore dopo. Anne era la moglie del leggendario aviatore Charles Lindbergh con il quale condivideva la passione per il volo.
Era nata il 22 giugno 1906, nel New Jersey, in una famiglia ricca. Il padre, socio di una famosa finanziaria, divenne in seguito ambasciatore statunitense in Messico e senatore repubblicano del New Jersey. La madre era una scrittrice, educatrice e presidente del Saint Smith College. Nel 1927, Anne conobbe Charles Lindbergh, durante una visita dell’aviatore all’Ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico, subito dopo la celeberrima attraversata dell’ Atlantico: per primo, tra il 20 e il 21 maggio, Lindbergh volò senza scalo da New York a Parigi percorrendo 5.750 Km. in 33 ore e 29 minuti a bordo dello “Spirit of St. Louis”, un piccolo monoplano pesante poco più di mille chili. Due anni dopo essersi laureata in letteratura, Anne convola a nozze con il celebre aviatore. Nel 1932 il primo figlio della coppia, Charles A. Lindbergh III, viene rapito e, nonostante il pagamento del riscatto attraverso un’ingente somma, il piccolo, di soli venti mesi, dopo qualche settimana, viene trovato morto. Il rapimento e il successivo processo Hauptmann ebbero amplissima risonanza nell’opinione pubblica statunitense; la linea telefonica e il radiotelegrafo vennero potenziati per soddisfare le esigenze della stampa. Il caso Lindbergh divenne perciò uno dei fatti di cronaca nera più clamorosi del Novecento. Agatha Christie, la scrittrice di gialli per antonomasia e impareggiabile autrice nel trasferire le atmosfere anglosassoni, si ispirò ad esso per descrivere il rapimento di Daisy Armastrong nel suo bestseller “Assassinio sull’Orient Express”. Nel 1934, la Morrow riceve dalla National Geographic Society, unica donna, la Hubbard Gold Medal per aver effettuato 40.000 miglia di esplorazione aerea sui cinque continenti insieme al marito, come copilota e per la passione con cui coltivava lo spirito di conoscenza e avventura.
Si rivelerà un’instancabile annotatrice di bordo e i libri di memorie sulle loro pionieristiche avventure di volo la consacreranno una romanziera di successo: “North to the Orient”, del ’35 riceve il National Booksellers Award come il più interessante libro di non-fiction dell’anno, nel ’38 “Listen! The wind” diventa un bestseller nonostante la crescente impopolarità del marito tra gli antifascisti americani per le sue simpatie filonaziste e il rifiuto di alcuni librai ebrei di tenere il libro in negozio. In questo periodo i Lindbergh, trasferitisi in Europa, saranno al centro di uno scandalo; Anne alimenta pettegolezzi e cronache rosa invaghendosi di Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e aviatore come lei, autore del celeberrimo romanzo “Il Piccolo Principe” che la seduce coi suoi progetti d’avventure. I Lindbergh, comunque, non divorzieranno. Anne nel ’44, ormai madre di quattro figli, pubblica “The steep ascent”; è il primo insuccesso editoriale, in gran parte dovuto all’ostilità verso la politica prebellica della famiglia Lindebergh. Il ritorno in America non fu facile: peserà, inoltre, la pubblicazione di “The wave of the future” che la scrittrice pubblicò durante il periodo prebellico e bellico dichiarandosi, insieme al marito, completamente contro la politica americana interventista convinta che, solo il nazismo potesse bloccare l’espansione sovietica. Anne continuerà a scrivere anche dopo la morte del marito avvenuta alle Hawaii nel 1974; pubblicherà altri nove libri, tra cui autobiografie, romanzi e raccolte di poesie. Negli anni ’90, l’intraprendente aviatrice è stata inserita nella National Women’s Hall of fame ed è stata iscritta all’albo internazionale “Delle Donne dei pionieri dell’Aviazione”. Muore nel 2001, all’età di 94 anni, nella sua casa nel Vermont.
Mary Titton
20 luglio
PRIMO PIANO
50 anni fa il primo sbarco sulla luna.
Il 20 luglio 1969, alle 20:17:40 UTC. avvenne il primo allunaggio, sei ore dopo, il 21 luglio, alle ore 02:56 UTC. Armstrong fu il primo a mettere piede sul suolo lunare, seguito 19 minuti dopo da Aldrin. I due trascorsero circa due ore e un quarto al di fuori della navicella, e raccolsero 21,5 kg di materiale lunare che riportarono sullaTerra. Il terzo membro della missione, Michael Collins, pilota del modulo di comando, rimase in orbita lunare, mentre gli altri due erano sulla superficie; dopo 21,5 ore dall’allunaggio gli astronauti si riunirono e Collins pilotò il modulo di comando Columbia nella traiettoria di ritorno sulla Terra. La missione terminò il 24 luglio, con l’ammaraggio nell’Oceano Pacifico. Lanciata da un razzo Saturn V dal Kennedy Space Center, il 16 luglio alle 13:32 UTC, Apollo 11 fu la quinta missione con equipaggio del programma Apollo della NASA. La navicella spaziale Apollo era costituita da tre parti: un Modulo di Comando (CM) che ospitava i tre astronauti ed è l’unica parte rientrata a Terra, un modulo di servizio (SM), che forniva al modulo di comando di propulsione energia elettrica, ossigeno e acqua, e un Modulo Lunare (LM). La navicella entrò nell’orbita lunare dopo circa tre giorni di viaggio e, una volta raggiuntala, gli astronauti Armstrong e Aldrin si spostarono sul modulo lunare Eagle con cui discesero nel Mare della Tranquillità. Dopo aver messo piede sulla Luna e aver effettuato la prima passeggiata lunare della storia, gli astronauti utilizzarono lo stadio di ascesa di Eagle per lasciare la superficie e ricongiungersi a Collins sul modulo di comando. Sganciarono, quindi, Eagle prima di effettuare le manovre che li avrebbero portati fuori dall’orbita lunare verso una traiettoria in direzione della Terra, dove ammararono nell’Oceano Pacifico il 24 luglio, dopo più di otto giorni nello spazio. La prima passeggiata lunare fu trasmessa in diretta televisiva mondiale. Nel mettere il primo piede sulla superficie della Luna Armstrong commentò l’evento come “un piccolo passo per [un] uomo, un salto da gigante per l’umanità”. La teoria del complotto lunare (in inglese detta anche Moon Hoax) è l’ipotesi complottista secondo cui le missioni del programma Apollo non avrebbero realmente trasportato gli astronauti sulla Luna e le prove degli allunaggi sarebbero state falsificate dalla NASA, con la collaborazione del governo degli Stati Uniti, in competizione con l’URSS per la “conquista dello spazio” nel panorama generale della guerra fredda. Secondo i teorici del complotto, le immagini degli allunaggi sarebbero riprese fatte in studio con l’ausilio di effetti speciali. La teoria del complotto lunare appare nei media per la prima volta nel 1976 con il libro Non siamo mai andati sulla luna (We Never Went to the Moon) dell’americano Bill Kaysing, che affermò che la tecnologia degli anni sessanta non sarebbe stata sufficientemente avanzata da permettere un allunaggio con equipaggio e il filmato della missione sarebbe stato girato alla Norton Air Force Base di San Bernardino dal regista Stanley Kubrick, già famoso per gli effetti speciali nel suo film del 2001: Odissea nello spazio. Queste tesi sono state ritenute prive di ogni evidenza scientifica e gli scienziati concordano sul fatto che non vi è alcun dubbio sulla realtà oggettiva delle missioni lunari e sul fatto che l’uomo abbia camminato sulla Luna. Gli esperti ritengono che la messinscena necessaria per fingere le missioni Apollo sarebbe stata troppo complessa sia per la quantità di reperti prodotti che per il numero di persone coinvolte.
19 luglio
PRIMO PIANO
Il capolavoro di Huysum “Vaso di Fiori” viene restituito all’Italia.
La Germania ha restituito a Firenze, dopo 75 anni, il “Vaso di Fiori” del pittore olandese Jan Van Huysum (Amsterdam 1682-1749), realizzato nel 1731. L’olio su tela, di piccole dimensioni (cm 47 x 35), apparteneva alle collezioni di Palazzo Pitti fin dal 1824, quando fu acquistato dal granduca lorenese Leopoldo II per la Galleria Palatina appena fondata. Per oltre un secolo restò esposto nella sala dei Putti, insieme ad altre nature morte di famosi pittori olandesi del ‘600 e ‘700, tra i quali Rachel Ruysch e Willem van Aelst. Nel 1940, all’inizio della guerra, quando la reggia fu evacuata, il quadro venne portato nella villa medicea di Poggio a Caiano (Prato), nel 1943 fu spostato nella villa Bossi Pucci, sempre a Firenze, fino a quando militari dell’esercito tedesco in ritirata lo prelevarono insieme ad altre opere per trasferirlo a Castel Giovio, in provincia di Bolzano. La cassa in cui si trovava il “Vaso di Fiori” venne aperta: l’opera trafugata finì in Germania, dove se ne persero le tracce. Le prime notizie del “Vaso di fiori” si sono avute intorno al 1990, quando si è scoperto che un soldato tedesco, il caporale Herbert Stock, aveva inviato a casa sua il quadro come omaggio di guerra. Il giornale tedesco Der Spiegel pubblicò una lettera che ne dava testimonianza. Da allora vari intermediari hanno tentato più volte di mettersi in contatto con le autorità italiane per chiedere un riscatto. Una richiesta di tale assurdità che nel 2018, dopo l’ultima oltraggiosa offerta, la Procura di Firenze ha aperto un’indagine, il quadro, infatti, è già di proprietà dello Stato Italiano e pertanto non è alienabile né acquistabile. Il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, aprendo nella sala Bianca la cerimonia della restituzione, a cui hanno partecipato i ministri degli esteri di Italia e Germania, Enzo Moavero Milanesi ed Heicko Maas, e il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, ha detto: “Oggi è un grande giorno per le Gallerie degli Uffizi, per Firenze, per l’Italia e per l’umanità intera. Mi auguro che questa restituzione importantissima sia solo la prima di tante restituzioni che sarebbe importante fare.” Al termine della presentazione è stato firmato il protocollo per la restituzione ed è stata scoperta l’opera. “Il vaso di fiori” di van Huysum sarà esposto, in una mostra speciale, nella sala della Musica di palazzo Pitti.
DALLA STORIA
La spedizione di Napoleone alla scoperta dell’antico Egitto.
(Jean-Léon Gérôme, Bonaparte davanti alla Sfinge, 1867-68 – da Shannon Selin)
Nel luglio del 1799, in Egitto, veniva rinvenuta la Stele di Rosetta. Una scoperta archeologica di enorme importanza perché permise la decifrazione dei geroglifici, la scrittura dell’antico Egitto. Ma prim’ancora di entrare nel merito va ricordato che la storia della stele di Rosetta è legata a Napoleone Bonaparte e alla campagna d’Egitto progettata per colpire il predominio britannico nel mar Mediterraneo e aprirsi la strada verso le Indie. Ecco cosa si legge nello splendido libro di C. W. Ceram, “Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia”, 1949: “Il 17 ottobre 1797 fu firmata la pace di Campoformio. Con essa si chiuse la campagna d’Italia, e Napoleone fece ritorno a Parigi. “I giorni eroici di Napoleone sono passati”, scrisse Stendhal. Ma il romanziere sbagliava. I giorni eroici cominciavano. Ma prima di accendere tutta l’Europa come una cometa, Napoleone si abbandonò, “da visionario, a una chimera nata dal suo cervello malato”. Nella piccola stanza che misurava con passo inquieto, divorato dall’ambizione, paragonandosi ad Alessandro e disperato per quanto non aveva ancora compiuto, egli scrisse: “Parigi pesa su di me come una cappa di piombo! La vostra Europa è una collina di talpe! Solo in Oriente, dove vivono seicento milioni di uomini, possono essere fondati grandi regni e organizzate grandi rivoluzioni! (Del resto, questo concetto dell’Egitto come porta dell’Oriente è di gran lunga più antico di Napoleone. Goethe aveva già preconizzato la costruzione del canale di Suez e ne aveva giustamente valutato l’importanza politica. E ancora prima, nel 1672, Leibniz aveva indirizzato a Luigi XIV un promemoria in cui esponeva l’importanza dell’Egitto per quanto poteva riguardare gli sviluppi posteriori della politica imperiale francese). Il 19 maggio 1798 Napoleone partì da Tolone alla testa di una flotta di 328 navi e con a bordo un esercito di 38000 uomini (press’a poco come Alessandro, quando partì alla conquista delle Indie). La meta era Malta, e quindi l’Egitto! Un piano da Alessandro. Oltre l’Egitto, Napoleone spingeva lo sguardo fino all’India. La spedizione per mare era un tentativo di colpire a morte in uno dei suoi membri l’Inghilterra inattaccabile in Europa. Nelson, comandante della flotta inglese, incrociò invano nel Mediterraneo per un mese; due volte arrivò quasi in vista di Bonaparte, ma due volte lo mancò. Il 2 luglio Napoleone toccò il suolo egiziano.
Dopo una terribile marcia attraverso il deserto i soldati si bagnarono nel Nilo. E il 21 luglio il Cairo emerse dalle prime nebbie, come una visione da Mille e una notte; con le esili torri dei suoi quattrocento minareti e con le cupole della moschea di Djami-el Azhar. Ma accanto a questo splendore di eleganza e di ornate filigrane sulle brume di un cielo mattutino, accanto al ricco, voluttuoso e incantato mondo dell’Islam, si innalzavano dalla gialla arsura del deserto, contro la parete grigio-violetta dei monti di Mokattam, i profili di costruzioni gigantesche, fredde, enormi, distanti: le piramidi di Gizeh, geometria pietrificata, silente eternità, testimonianze di un mondo già morto quando l’Islam non esisteva ancora. I soldati non ebbero neanche il tempo di stupirsi o di ammirare. Davanti a loro giaceva un morto passato; il Cairo rappresentava un futuro ricco di fascino, ma un presente di guerra li attendeva: l’esercito dei Mamelucchi. Diecimila cavalieri brillantemente addestrati, cavalli irrequieti, fiammeggianti yatagan; e davanti a tutti Murad, con ventitre dei suoi bey, su un cavallo candido come un cigno e con un turbante verde scintillante di brillanti. Napoleone additò le piramidi; e allora non fu solo il generale che parla ai suoi soldati, lo psicologo che si rivolge alle masse, ma un occidentale che si misura con la storia del mondo. “Soldati! Di lassù quaranta secoli vi guardano!”. Lo scontro fu formidabile. E la foga degli orientali fu sopraffatta dalla disciplina delle baionette europee. La battaglia si trasformò in una carneficina. Il 25 luglio Bonaparte entrò al Cairo. Metà della strada verso l’India sembrava percorsa. Ma il 7 agosto vide la battaglia navale di Abukir, Nelson aveva finalmente snidato la flotta francese e piombò su di essa come un angelo vendicatore. Napoleone era preso in trappola. L’esito dell’avventura egiziana era deciso. Essa si trascinò. È vero, ancora per un anno; portò le vittorie del Generale Desaix nell’Alto Egitto e infine la vittoria terrestre di Napoleone presso quella medesima Abukir che aveva visto la distruzione della sua flotta. Ma più che vittorie portò miseria, fame, pestilenza, e a molti la cecità prodotta dalla malattia egiziana che divenne la costante accompagnatrice di tutte le unità militari, al punto da essere designata scientificamente come “ophthalmia militaris”. Il 19 agosto 1799 Napoleone abbandonò la sua armata. Il 25 agosto, in piedi sulla tolda della fregata Muiron, egli vide la costa della terra dei Faraoni inabissarsi lentamente nel mare. Allora si volse e fissò lo sguardo sull’Europa. La spedizione di Napoleone, militarmente fallita, ebbe comunque il risultato di schiudere alla vita politica europea l’Egitto moderno e alla ricerca scientifica quello antico. Infatti, a bordo della flotta francese, non c’erano solo duemila cannoni, ma anche centosettantacinque “scienziati civili”…; essi erano forniti di una biblioteca che conteneva quasi tutti i libri reperibili in Francia sulla terra del Nilo, e di duecento casse con apparecchi scientifici e strumenti di misurazione. … Nella primavera dell’anno 1798, nella grande sala di riunioni dell’Institut de France, Napoleone aveva in mano per la prima volta esposto agli scienziati i suoi progetti. Egli teneva in mano i due volumi del “Viaggio in Arabia” di Niebuhr, e battendo seccamente con le nocche dell’indice sul dorso di pelle del libro, quasi a ribadire le sue parole, andava esponendo quali fossero i compiti della scienza in Egitto. Pochi giorni dopo salivano con lui a bordo della flotta astronomi e geometri, studiosi di chimica e di mineralogia, tecnici e orientalisti, pittori e poeti”, fra loro c’era anche Vivant Denon, l’autore della preziosissima “Description de l’Egypte”, l’opera che costituì la base dell’egittologia. Quando Napoleone scelse quest’uomo perché lo accompagnasse in qualità di collaboratore artistico nelle sue spedizioni, fece uno di quei colpi fortunati che solo i posteri possono valutare appieno.
(Frontespizio de “la Description de l’Egypte, di Vivant Denon)
Nel frattempo era stato fondato al Cairo l’Istituto Egizio. Mentre Denon disegnava, gli altri scienziati e artisti misuravano, calcolavano, investigavano e raccoglievano quel che offriva loro la superficie dell’Egitto. E dico la superficie, perché il materiale si offriva apertamente alla vista, ancora intatto, e carico di tutti i suoi misteri, senza che ci fosse bisogno di ricorrere alla vanga. Accanto a riproduzioni, notizie, copie, disegni, materiale vegetale, animale, minerale, la collezione conteneva ventisette sculture, per lo più frammenti di statue e vari sarcofaghi. E c’era poi un oggetto di aspetto singolare: una stele di basalto nero con un’iscrizione in tre lingue e in tre diversi caratteri che divenne celebre col nome di “stele di Rosetta” e doveva costituire nientemeno che la chiave di tutti i segreti dell’Egitto!
(La Stele di Rosetta al British Museum di Londra)
La notizia della sua scoperta era apparsa immediatamente sul “Corrier de l’Egypte” sotto la data rivoluzionaria “Le 29 fructidor, VII année del la République. Rosette, le 22 fructidor, an 7”. Un caso raro e fortunato portò questo giornale pubblicato in Egitto nella casa paterna di colui che venti anni dopo, con un lavoro geniale e senza pari, avrebbe letto l’iscrizione della stele e avrebbe sciolto così l’enigma dei geroglifici: Jean-François Champollion!”. Ma questa è un’altra storia, così ricca di fascino e suggestioni, che merita di essere raccontata, per intero, in un prossimo articolo.
Mary Titton
18 luglio
PRIMO PIANO
“Così parlò Bellavista.”
“Così Parlò Bellavista” è il primo e più famoso romanzo, pubblicato nel 1977, dell’ingegnere, scrittore e regista napoletano Luciano De Crescenzo, che attraverso le “lezioni” del professore Bellavista, incentrate sulla bipartizione degli esseri umani tra coloro che tendono all’amore e coloro che tendono alla libertà, descrive la città di Napoli nella sua quotidianità. L’ingegnere con la passione della filosofia, autore del citato best seller, da cui è stato tratto il film omonimo, è morto oggi a Roma, al policlinico Gemelli, all’età di 90 anni per le conseguenze di una polmonite. Nato il 18 agosto 1928 a Napoli nel quartiere San Ferdinando, nella zona di Santa Lucia, nello stesso palazzo in cui un anno dopo nacque Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, di cui è stato grande amico, Luciano De Crescenzo nella sua autobiografia raccontò che i suoi genitori si sposarono piuttosto tardi, essendosi conosciuti attraverso “presentazione fotografica” (le nozze furono combinate da una famosa sensale dell’epoca, Amalia ‘a Purpessa). Da giovane lavorò nella ditta di guanti gestita dal padre, durante la Seconda guerra mondiale si spostò con la famiglia a Cassino, poiché il padre riteneva che questo luogo sarebbe stato più sicuro, “il ventre della vacca”, ma il paese fu raso al suolo. Dopo essersi laureato in ingegneria idraulica con il massimo dei voti presso l’Università Federico II di Napoli, dove fu allievo di Renato Caccioppoli, che lo convinse a studiare ingegneria elettronica, non riuscendo a trovare lavoro nel campo geologico-geotecnico, fece il venditore di tappeti in un negozio nei pressi di piazza Municipio, a Napoli, e nel 1960 il cronometrista alle Olimpiadi di Roma. Versatile ed eclettico, nel 1976 scoprì la sua vera vocazione, quella di scrittore divulgatore, decise quindi di lasciare il ruolo di dirigente all’IBM e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, alla regia, al cinema e alla televisione: nascono così il citato Così parlò Bellavista (oltre 600.000 copie), tradotto anche in giapponese, e più di cinquanta libri, tradotti in 19 lingue e diffusi in 25 paesi. E poi i film indimenticabili in cui racconta Napoli con filosofia ed ironia: Così parlò Bellavista, Il mistero di Bellavista, 32 dicembre, sulla relatività del tempo. Sul grande schermo esordì come attore ne Il pap’occhio (1980) nel ruolo del Padreterno, a fianco dell’amico Roberto Benigni, diretto da Renzo Arbore. Luciano De Crescenzo affiancò alla sua attività di scrittore quella di divulgatore della filosofia antica, rendendola con il suo linguaggio ironico e brillante accessibile a tutti: nel corso degli anni ottanta e novanta condusse sulle reti Rai una trasmissione televisiva Zeus – Le Gesta degli Dei e degli Eroi sui miti e sulle leggende degli antichi greci, che, pubblicata da Mondadori e ritrasmessa anche da Mediaset, nel 1994 gli valse la cittadinanza onoraria da parte della città di Atene; si interessò anche alla filosofia medievale e, in minor misura, a quella moderna e contemporanea. La sua amatissima Napoli ricorderà per sempre la sua ironica saggezza e la sua filosofia del quotidiano.
17 luglio
PRIMO PIANO
È morto lo scrittore Andrea Camilleri, il papà del Commissario Montalbano.
Si è spento stmattina all’ospedale Santo Spirito di Roma, dove era ricoverato dal 17 giugno in seguito a un arresto cardiaco, Andrea Camilleri. Nato il 6 settembre 1925 a Porto Empedocle, Andrea Camilleri, scrittore ma anche sceneggiatore, regista e drammaturgo, è stato un protagonista della cultura della fine del ‘900 e dei primi decenni del 2000 e, nonostante la forte connotazione siciliana, i suoi romanzi sono stati tradotti in 120 lingue e hanno superato i 30 milioni di copie in tutto il mondo. Viveva a Roma dalla fine degli anni quaranta e dal 1968 trascorreva alcuni mesi all’anno a Bagnolo, frazione di Santa Fiora, suo “luogo del cuore”, nel territorio del Monte Amiata in Toscana. Nel 1978 esordisce nella narrativa con Il corso delle cose, scritto dieci anni prima e pubblicato gratuitamente da un editore, con l’impegno di citare l’editore stesso nei titoli dello sceneggiato TV La mano sugli occhi, tratto dal libro che non venne distribuito e rimase ignoto al pubblico dei lettori. Nel 1980 pubblica con Garzanti Un filo di fumo, primo di una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Grazie a quest’ultima opera Camilleri riceve il suo primo premio letterario a Gela. Dopo dodici anni di pausa, riprende a scrivere e pubblica nel 1992 La stagione della caccia e nel 1993 La bolla di componenda, entrambe presso Sellerio Editore. Nel 1994 esce La forma dell’acqua, il primo romanzo poliziesco della serie che ha come protagonista il commissario Montalbano, di cui Camilleri parlerà sempre come se fosse vero e vivente, quasi un suo alter ego. Il famoso commissario è il protagonista di ben trenta romanzi, ristampati più volte, anche se non tutti trovano il consenso unanime della critica che accusa l’autore di essere a volte ripetitivo. Dal 1995 al 2003 esplode il fenomeno Camilleri: romanzi come Il birraio di Preston (1995) (quasi 70.000 copie vendute), La concessione del telefono e La mossa del cavallo (1999) vanno a ruba, mentre la serie televisiva su Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti, fa ormai di Camilleri un autore di successo. Nella nota finale del suo centesimo libro, L’altro capo del filo, pubblicato nel maggio 2016, lo scrittore dichiara che questo è “un Montalbano scritto nella sopravvenuta cecità”, infatti, a 91 anni, è stato costretto a dettare il romanzo alla sua assistente Valentina Alferj, “l’unica che sia in grado di scrivere in vigatese”. Il filone narrativo del Commissario Montalban o è destinato ad esaurirsi, in quanto nel 2006 Andrea Camilleri ha consegnato all’editore Sellerio l’ultimo libro con il finale della storia, chiedendo che venisse pubblicato dopo la sua morte. Ha dichiarato in proposito: “Ho scritto la fine dieci anni fa… ho trovato la soluzione che mi piaceva e l’ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l’Alzheimer. Ecco, temendo l’Alzheimer ho preferito scrivere subito il finale. La cosa che mi fa più sorridere è quando sento che il manoscritto è custodito nella cassaforte dell’editore … È semplicemente conservato in un cassetto.” Rivelando il segreto di quest’ultimo libro della serie, ha poi assicurato: “Montalbano non muore.” A chi gli chiedeva come mai, a 93 anni, non si fosse ancora deciso ad andare in pensione, come mai nonostante la cecità, continuasse a impastare realtà e fantasia in quella sua lingua eccezionale, il vigatese, che non aveva alcun corrispettivo nella realtà, rispondeva così: “Se potessi, vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto passare tra il pubblico con la coppola in mano.”
DALLA STORIA
Adam Smith e la “Ricchezza delle nazioni”: “La più importante teoria concreta in tutta l’economia” (Georg Stigler, economista statunitense)
(Medaglione da Tassie, circa 1775)
Il 17 luglio 1723 nasceva in Scozia Adam Smith autore del famoso saggio “La ricchezza delle nazioni” spesso definito “la Bibbia del Capitalismo”. “Adam Smith era un filosofo e economista politico. Era nato in Scozia e studiò alle Università di Glasgow e Oxford prima di iniziare a insegnare a Glasgow nel 1751. Nel 1764 divenne il precettore del diciottenne duca di Buccleuch. Nel corso di un Grand Tour con il duca, durato due anni, Smith incontrò molti importanti pensatori europei, soprattutto francesi, tra i quali un gruppo di economisti, detti fisiocratici, preoccupati per le spese sconsiderate dello Stato francese. Smith rimase colpito dalle loro proposte, ma non gli piacque che ignorassero le potenzialità della produzione industriale e del commercio. “La ricchezza delle nazioni” fu la magistrale reazione di Smith a quello che per lui era un ovvio limite. Figura di spicco dell’Illuminismo scozzese, contribuì a fare di Edimburgo uno dei centri intellettuali più dinamici d’Europa. È ritenuto da molti il padre dell’economia moderna”.
(La statua dell’economista scozzese ad Edimburgo)
Ma veniamo al testo. “Nel 1776 la pubblicazione dell’“Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, nota anche semplicemente come “La ricchezza delle nazioni”, fece scalpore poiché, oltre a essere il primo libro di testo moderno di economia, era incentrato su un’idea rivoluzionaria: la misura della ricchezza di una nazione non era la quantità d’oro o di terre che possedeva, bensì il prodotto di un mercato senza vincoli e di scambi commerciali liberi. Secondo Adam Smith, i liberi mercati eliminavano chi era inefficiente, premiando al tempo stesso chi aveva spirito imprenditoriale. Al centro di tale processo c’era l’interesse personale ma, massimizzando i profitti individuali in un libero mercato, si accresceva la prosperità di una nazione nel suo insieme. L’opera di Smith ebbe un’influenza enorme e stimolò la nascita dell’economia di libero mercato. In precedenza, il fine del commercio era considerato ottenere qualcosa a scapito di altri; Smith affermava invece che a guadagnarci potevano essere entrambe le parti di una transazione. Questo concetto costituisce la base dell’economia moderna, e “La ricchezza delle nazioni” è diventata un classico; anzi, le idee che espone formano la “scuola classica” dell’economia. I due volumi uscirono con un tempismo perfetto: la Gran Bretagna era sul punto di intraprendere la rivoluzione industriale, che avrebbe sensibilmente aumentato il commercio e la produzione. Il fatto che il Paese sia stato in grado di raggiungere una simile prosperità, e con la Gran Bretagna tutte le successive società capitalistiche, fu in gran parte il risultato del liberalismo economico che Smith propugnava in modo tanto convincente”.
Fonte: “I libri che hanno cambiato la storia”. Ed. Gribaudo
Mary Titton
16 luglio
PRIMO PIANO
Ursula Von der Leyen è il nuovo presidente della Commissione europea.
Ursula von der Leyen è la prima donna ad essere stata eletta presidente della Commissione europea con 383 voti, 9 in più dei 374 necessari. Contrari 327 eurodeputati, astenuti 22, una scheda bianca. Per la sua elezione sono stati decisivi i 14 voti del Movimento Cinque Stelle. Hanno votato 733 eurodeputati. Secondo le previsioni, considerato che buona parte dei Socialisti, tutti i liberali e tutto il PPe avevano dichiarato il loro appoggio alla candidata tedesca, von der Leyen avrebbe dovuto ottenere circa 400 voti, ma, a causa del voto segreto e dei franchi tiratori, la ministra tedesca ce l’ha fatta solo per nove voti di scarto, grazie ai 14 voti degli esponenti del M5s. La von der Leyen, attuale ministro tedesco della Difesa, succede al lussemburghese Jean-Claude Juncker, il cui mandato scade il 31 ottobre. I deputati europei valuteranno le competenze dei nuovi commissari nelle audizioni che si svolgeranno la prima settimana di ottobre, poi la nuova Commissione europea dovrà ricevere l’investitura del Parlamento europeo, a Strasburgo, nella sessione plenaria tra il 21 e il 24 ottobre. Ha votato contro il gruppo Identità e democrazia, di cui fa parte la Lega, perché non ha condiviso le posizini della tedesca riguardo al federalismo, alla promozione del libero scambio e ai flussi migratori. Nata ad Albrecht (Ixelles, Belgio), l’8 ottobre 1958, figlia di Ernst Albrecht, ex Ministro-Presidente della Bassa Sassonia, Ursula von der Leyen ha trascorso gran parte della sua infanzia in Belgio, dove ha frequentato la scuola europea di Bruxelles dal 1964 al 1971, imparando così la lingua francese, nel 1991 si è laureata in Medicina, nel 1992 ha seguito il marito, che aveva ricevuto un incarico presso l’Università di Stanford, in California, per poi rientrare in Germania quattro anni dopo. Benché iscritta alla CDU fin dal 1990, la sua carriera politica inizia nel 2001, quando ottiene un mandato locale presso la regione di Hannover. Il 2 febbraio 2003 è eletta deputata al Landtag della Bassa Sassonia e il 4 marzo 2003, a seguito della vittoria di Christian Wulff, diventa Ministro degli Affari sociali, delle donne, della famiglia e della salute della Bassa Sassonia. Due anni dopo, nel novembre del 2005, scelta dalla Cancelliera Angela Merkel, a cui è molto vicina, come Ministro della Famiglia, lancia una politica familiare basata sullo sviluppo degli asili nido, per permettere alle donne tedesche di conciliare meglio la vita lavorativa ed il loro ruolo di madri. Nel 2009 prima è confermata come Ministro della famiglia, poi viene nominata Ministro del lavoro e degli affari sociali a seguito delle dimissioni di Franz Josef Jung. Nel dicembre del 2013 diventa Ministro della difesa, diventando così la prima donna in Germania a rivestire questo ruolo. Così Ursula von der Leyen davanti all’Europarlamento: “Per me solamente una cosa è importante, l’Europa va rafforzata e chi la vuole fare fiorire mi avrà dalla sua parte, ma chi vuole indebolire questa Europa troverà in me una dura nemica.” Nelle sue dichiarazioni programmatiche la concessione al Regno Unito di una proroga della Brexit, tutta la flessibilità permessa dalle regole nel patto di stabilità, il salario minimo europeo, “in mare l’obbligo di salvare le vite” dei migranti, ma “anche ridurre la migrazione irregolare, lottare contro gli scafisti” e “contro il crimine organizzato, tutelare il diritto di asilo e migliorare la condizione dei profughi per esempio tramite corridoi umanitari in stretta cooperazione con l’Onu.”
15 luglio
PRIMO PIANO
Il volto del matematico Alan Turing sulla nuova banconota da 50 sterline.
Secondo la decisione annunciata dalla Bank of England, sulla nuova banconota da 50 sterline ci sarà il volto di Alan Turing, considerato il padre della moderna scienza informatica e uno dei più grandi matematici del XX secolo, un atto di omaggio, ma anche di riparazione postuma alla sua figura e alla sua genialità. Turing, che fu il pioniere dell’intelligenza artificiale e decifrò il codice Enigma usato dai nazisti, contribuendo in maniera decisiva alla vittoria degli Alleati nella Battaglia dell’Atlantico, nel 1953 venne, infatti, condannato per comportamenti osceni per la sua relazione con un uomo, e per la sua omosessualità venne escluso da ogni incarico pubblico. Il matematico accettò anche di sottoporsi al trattamento di castrazione chimica, come stabilito nella sentenza. Morì suicida, a soli 41 anni, nel 1954. È stato riabilitato solo nel 2009, nel 2017 il Parlamento britannico ha approvato la “Alan Turing Law”, la legge che consente la riabilitazione postuma di coloro che in passato erano stati condannati a causa delle leggi contro l’omosessualità. Turing nacque a Maida Vale, un quartiere di Londra, il 23 giugno 1912 da Julius e Ethel Turing, entrambi impiegati della famiglia reale in India, e già in tenera età diede segno della genialità che negli anni futuri lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo. Poco appassionato al latino e alla religione, preferiva letture riguardanti la teoria della relatività, i calcoli astronomici, la chimica o il gioco degli scacchi. Nel 1931 fu ammesso al King’s College dell’Università di Cambridge, dove fu allievo di Ludwig Wittgenstein e dove approfondì i suoi studi sulla meccanica quantistica, la logica e la teoria della probabilità (dimostrò autonomamente il teorema centrale del limite, già dimostrato nel 1922 dal matematico Lindeberg). Nel 1934 si laureò con il massimo dei voti e nel 1936 vinse il premio Smith, assegnato ai due migliori studenti ricercatori in Fisica e Matematica presso l’Università di Cambridge. Nello stesso anno si trasferì alla Princeton University, dove studiò per due anni, ottenendo infine un Ph.D. Nel 1940, a 28 anni, era a capo del gruppo di ricercatori impegnati nella decrittazione delle macchine usate dalla marina tedesca, fra le quali Enigma. Fu uno dei più brillanti crittoanalisti che operarono in Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale per decifrare i messaggi scambiati da diplomatici e militari delle Potenze dell’Asse; lavorò, infatti, a Bletchley Park, il principale centro di crittoanalisi del Regno Unito, dove ideò una serie di tecniche per violare i cifrari tedeschi, incluso l’utilizzo di una macchina elettromeccanica, chiamata “Bomba”, in grado di decodificare i codici creati dalla macchina crittografica Enigma. Il suo lavoro ebbe vasta influenza sulla nascita dell’informatica, grazie alla sua formalizzazione dei concetti di algoritmo e calcolo mediante l’omonima macchina, che a sua volta costituì un significativo passo avanti nell’evoluzione verso il moderno computer. Per questo contributo Turing è solitamente considerato il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale, da lui teorizzate già negli anni trenta del ‘900. Il film vincitore del premio Oscar “The Imitation Game”, con Benedict Cumberbatch, ha portato consensi tardivi per il ruolo di Turing nella decifrazione dei codici in tempo di guerra.
DALLA STORIA
L’Aliano di Carlo Levi.
In questo inizio di un’estate assolata e torrida, alla ricerca dei mari e delle spiagge rocciose o di sabbia bianca e fine del sud Italia, può capitare d’inoltrarsi tra i calanchi aridi e deserti del materano e di trovarsi davanti uno dei paesini tutti bianchi per le casette dai muri a calce: è Aliano e non ci si può non fermare, perché qui ha soggiornato, dal 18 settembre 1935 al 26 maggio 1936, Carlo Levi, condannato dal regime fascista al confino in questo territorio isolato e quasi inaccessibile, a quel tempo, a causa della mancanza di vie di comunicazione. Lo scrittore e pittore torinese, che uscirà trasformato da questa esperienza, ispiratrice dell’opera “Cristo si è fermato a Eboli”, il romanzo che Levi scrisse tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944, a Firenze e fu pubblicato da Einaudi nel 1945, fu profondamente turbato al suo arrivo ad Aliano: «Tutto mi era sgradevole» in questo strano paese circondato da «precipizi di argilla bianca […] scavata dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno». Ancora: “… ad Aliano la strada finisce. Il paese, a prima vista, non sembra un paese, ma un piccolo insieme di casette sparse, bianche. Non è in vetta al monte, come tutti gli altri, ma una specie di sella irregolare, in mezzo a profondi burroni pittoreschi; e non ha, a prima vista, l’aspetto severo e terribile di tutti gli altri paesi di qui … le case stavano come librate nell’aria che parevano in bilico all’abisso, pronte a crollare. Come un verne intorno ad un’unica strada in forte discesa sullo stretto ciglione di due burroni, e poi risaliva e ridiscendeva tra due altri burroni, e terminava nel vuoto”. Ancora oggi, a chi vi arriva, Aliano si presenta allo stesso modo di come l’ha descritto Levi 80 anni fa: “… e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata dalle acque in buche, in coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare …”. A 80 anni di distanza i luoghi della memoria sono rimasti intatti e oggi ognuno ha sulla facciata una piccola targa che riporta la descrizione fattane da Levi nella sua opera: ed ecco la chiesa “… uno stanzone imbiancato a calce, sporco e trasandato, … i muri pieni di crepe …”, le case degli americani, che “avevano un primo piano, un balcone e la porta …”, la casa della vedova, che “aveva una camera per i rari viandanti di passaggio; … migliaia di mosche annerivano l’aria e coprivano le pareti …”, la casa dell’arciprete: “… Don Traiella abitava con la madre in uno stanzone, una specie di spelonca … contro il muro giaceva per terra in disordine un gran mucchio di libri; sul mucchio stavano posate delle galline,” la bottega del barbiere, “… quella dove si rasavano i signori.” Percorrendo le vie del paese sembra che nulla sia mutato dai tempi di Levi e le targhe con le parole del romanzo indicano il municipio, la scuola elementare, il pisciatoio, la piazza, la casa del podestà, l’ufficio postale, la macelleria, la fontanella. Poi all’estremità del paese si trova la casa che Levi affittò per viverci e che egli così descrive: “Costruita dal predecessore di Don Traiella, era composta di tre stanze, l’una in fila all’altra … aveva un piccolo orticello, un albero di fico nel mezzo … una terrazza da cui la vista spaziava sui più lontani orizzonti. Lo studio e la terrazza avevano un pavimento a scacchi colorati. Il defunto prete aveva dotato la mia casa di un bene inestimabile: c’era un gabinetto, senz’acqua naturalmente, ma un vero gabinetto, col sedile in porcellana. Era il solo esistente in Gagliano.” Oggi la casa dove lo scrittore ha abitato è visitabile e ospita il Museo della civiltà contadina, che ricostruisce il tempo non molto lontano, in cui si viveva in un’unica stanza insieme con gli animali, mentre la pinacoteca permette di ripercorrere, attraverso una carrellata di foto, la vita dello scrittore, che fu anche pittore e ritrasse con grande realismo il pesaggio aspro ed unico dei calanchi e i volti immobili e gli sguardi intensi della gente del luogo.
(“Lucania 61”. Il dipinto è un omaggio del pittore Carlo Levi alla terra e alle genti della Basilicata. Non a caso questo quadro di forte impatto, misura 18,50 metri in lunghezza e 3,20 metri di altezza, rappresentò la Basilicata alla “Mostra delle Regioni” organizzata a Torino nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia)
Il tempo vissuto ad Aliano, un paese fuori dal mondo e dalla cosiddetta civiltà, segnò profondamente Levi, perché grazie alla sua sensibilità umana ed artistica, come uomo e come medico, si accostò con grande rispetto a una cultura a lui estranea, intrisa di sconcertanti superstizioni e di riti magici, ma anche di solidi valori, come quelli della famiglia, del lavoro, della solidarietà. Nel “Cristo si è fermato a Eboli” si coglie, oltre la denuncia sociale non sempre compresa, all’inizio neppure dagli stessi alianesi, il suo profondo amore per il paese con le case con gli occhi (le piccole finestre su alcune facciate), per la gente lucana, tanto che nell’incipit del romanzo scrive: “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.” E nel silenzioso cimitero di Aliano, nell’immobilità del tempo, lo scrittore pittore torinese riposa. Val la pena di riscoprire la sua opera letteraria e pittorica.
(Il busto di Carlo Levi ad Aliano)
13 luglio
PRIMO PIANO
Compie 75 anni Erno Rubik, l’inventore del famoso Cubo.
Il 13 luglio Erno Rubik, inventore del Cubo, il celebre rompicapo che da lui prende il nome, compie 75 anni. Nato nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, a Budapest, da madre poetessa e padre ingegnere aeronautico, inizialmente segue le orme paterne per poi completare gli studi all’Accademia d’Arte Applicata Moholy-Nagy di Budapest. Diventa architetto e poi insegnante nella stessa facoltà in cui ha studiato. E proprio per “esigenze didattiche” a Erno Rubik, che oltre ad essere appassionato di arte e design era sempre stato cultore dei rompicapi e dei puzzle, viene in mente l’idea di un gioco per comprendere la geometria tridimensionale: nel 1974 inventa il Cubo, che che all’inizio si chiamava “magic cube” e si diffuse in modo limitato in alcuni circoli scientifici. Nel 1980 Rubik diviene editore di una rivista di enigmistica dal nome “… És játék” (“… e giochi”) e il Cubo inizia a diffondersi anche internazionalmente, diventando una vera “mania”. Nel 2009 sono stati venduti nel mondo complessivamente 350 milioni di cubi, un dato che ha reso il cubo di Rubik il puzzle più venduto al mondo. L’idea alla base del gioco è semplice: ognuna delle sei facce del solido è ricoperta da nove adesivi di colori diversi, e un meccanismo interno permette alle facce di ruotare in modo da mescolare il giallo, il rosso, il verde e il blu. Scopo del gioco è quello di far ritornare ogni colore al proprio posto, in modo che ogni faccia ne mostri uno solo. Terminare il cubo non è da tutti: sono miliardi le combinazioni possibili. Lo stesso Rubik ha raccontato di risolvere il gioco in un minuto e che per arrivare a tanto ci sono voluti giorni e giorni di allenamento. Un’eternità rispetto ai tempi (una manciata di secondi), realizzati oggi dagli speedcuber, che si sfidano ogni anno in competizioni internazionali e in varie categorie nel tentativo di terminare nel tempo minore possibile. Dal 2003, la World Cube Association, l’associazione internazionale che amministra il mondo del cubo di Rubik, ha organizzato e regolamentato tornei e competizioni in tutto il mondo, registrando i record. L’inventore del cubo nel 1983 crea il Rubik-Studio, per la progettazione di mobili e giochi e nel 1990 diventa presidente dell’Accademia di Ingegneria d’Ungheria. Nell’ambito della stessa crea la “Fondazione Rubik”, per promuovere giovani ingegneri e designer particolarmente dotati. Nel ventunesimo secolo Rubik si occupa dello sviluppo di videogiochi, di architettura e dirige ancora il Rubik-Studio.
DALLA STORIA
Nadine Gordimer: Nobel contro l’apartheid
“In un Paese definito dalla propria intensità politica … il vero significato della parola solitudine è vivere senza responsabilità sociali” (da “La figlia di Burger”, di N. Gordimer)
All’indomani della morte di Nadine Gordimer, la grande scrittrice sudafricana vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura del 1991, una lunga serie di articoli della stampa nazionale e internazionale la ricordava con toni commossi e pieni di stima. La sua prosa, intensa e intima, ha contribuito a mostrare l’apartheid ai lettori di tutto il mondo. La motivazione della giuria che le assegnò il prestigioso Premio recita: “per essere stata di enorme beneficio all’umanità grazie alla sua scrittura magnifica”. La Gordimer minuta, elegante e decisa ha sempre lottato in prima linea, insieme a Mandela, contro il razzismo nel suo paese e per la difesa dei diritti umani fino a qualche settimana prima di morire, il 13 luglio 2014, all’età di 90 anni. Stephanie Hanes, del Washington Post la ricorda così: “Gordimer, che era bianca, fu una precoce e attiva militante del partito dell’African National Congress, ma non partecipò alla scrittura dei suoi documenti politici. Il suo ruolo da autrice, diceva, era solo “scrivere a mio modo più onestamente che posso e profondamente quanto riesco della vita intorno a me”. I suoi personaggi dai nobili ideali avevano spesso limiti personali; gli uomini d’affari razzisti e indifferenti avevano la stessa complessità e profondità dei combattenti per la libertà. “Il conservatore”, il romanzo che vinse il Booker Prize nel 1994, racconta uno dei personaggi meglio definiti di Gordimer.
Un altro romanzo famoso, “La figlia di Burger”, pubblicato nel 1979, racconta le fatiche personali e politiche di Rosa Burger, figlia di un medico carismatico e attivista anti-apartheid afrikaner che morì in carcere. In un paese definito dalla propria intensità politica, Rosa conclude che “il vero significato della parola solitudine” è “vivere senza responsabilità sociali”. Il romanzo, del 1981, “Luglio” racconta la storia di una famiglia bianca liberal che scappa da un’immaginaria rivoluzione violenta contro l’apartheid e finisce nel villaggio del suo ex servitore, Luglio. Ne, “Un mondo di stranieri”, del 1958 descrive i futili tentativi di un giovane uomo d’affari inglese di conservare dei legami tra i bianchi e i neri in Sudafrica. In “Ora o mai più” del 2012, una coppia interraziale cerca di affrontare la problematica società post-apartheid. Nadine Gordimer ha sempre scritto, senza risparmiarsi, della razza, dell’identità e dei luoghi e, di come i sistemi politici repressivi incidono sulle vite e sulle relazioni delle persone. “Sa rendere visibili le condizioni di vita terribilmente disumane ed estremamente complicate in un sistema di segregazione razziale”, disse il segretario dell’Accademia Svedese Sture Allen nel consegnare a Godimer il premio Nobel per la letteratura nel 1991, “In questo modo, si fondono arte e etica”. Stephen Clingman, professore all’Università del Massachusets ed esperto del lavoro della scrittrice sudafricana, spiega che per la scrittrice “la politica è carattere psicologico. Sapeva che se vuoi capire qualunque personaggio, bianco o nero, devi saper comprendere il modo in cui la politica entra nell’individuo”. Il governo segregazionista, che imponeva la censura, vietò quattro dei suoi romanzi con differenti accuse di sovversione. Nel suo discorso per il Nobel Gordimer disse: “Questa nostra impresa estetica diventa sovversiva quando i vergognosi segreti del nostro tempo sono esplorati in profondità, con l’integrità ribelle dell’artista nei confronti della vita attorno a sé. E allora i temi e i personaggi dell’autore sono inevitabilmente formati dalle pressioni e distorsioni della società, così come la vita del pescatore è determinata dalla potenza del mare”. Nadine Gordimer era stata la fondatrice del Congress of South Africa Writers, a maggioranza nera e aveva tra i suoi più intimi amici intellettuali come Edward Said, Susan Sontag e molti altri ancora. Per quanto leale amica e maestra di coloro che riteneva meritevoli della sua attenzione, era anche nota per la sua impazienza con chi trovava noioso. Era insofferente alle prudenti sensibilità dei “bianchi liberal” e preferiva definirsi una “radicale”, mostrandosi infastidita dalle ansiose attenzioni alle fatiche dei bianchi nel Sudafrica post-apartheid, anche dopo essere stata derubata con la forza del suo anello di nozze e chiusa in un ripostiglio durante una rapina nella sua casa nel 2006. Dopo ciò riconobbe la gravità del problema della criminalità nella sua città, ma espresse anche comprensione per i rapinatori. “Penso che dobbiamo guardare le ragioni del crimine”, disse al “Guardian”: “Ci sono giovani che vivono in miseria e senza prospettive. Hanno bisogno di istruzione, formazione e lavoro”. Gordimer era alta un metro e cinquantacinque ma aveva quella che qualcuno definì’ “la fierezza attentamente curata di chi è fragile”. Malgrado la sua piccola statura, sapeva infliggere uno sguardo pungente e intimidatorio a chi suggeriva che i suoi libri parlassero di persone o eventi reali, ripetendo che le sue storie erano pura finzione, e che secondo lei proprio questo rendeva la sua scrittura più “vera”. Le storie, spiegava, danno sguardi più chiari sulle politiche e le scelte e sul loro duraturo impatto sulle vite delle persone: più delle biografie o dei saggi giornalistici. “Ci faceva vedere cose della politica che la politica non avrebbe saputo descrivere”, dice Clingman. Nadine Gordimer era nata il 20 novembre 1923 fuori Joannesburg, nella città mineraria di Spings, un posto di “praterie bruciate, discariche minerarie e colline di carbone”, nelle sue parole “Non un luogo romantico”, disse durante una presentazione a Cape Town, nel 1977 intitolata “Cosa è per me il Sudafrica”. “Non un panorama che gli europei riconoscerebbero come Africa. Ma è Africa. Per quanto lo trovi duro e brutto e per quanto l’Africa per me sia diventata molte altre cose, quello è il mio primo impatto con la vita; tutto quello che ho visto e conosciuto dopo è cresciuto da lì”. I suoi genitori erano immigrati ebrei, sua madre era inglese, suo padre lituano, non praticanti e, diceva lei, terribilmente borghesi. Da bambina prese lezioni di danza, frequentò la scuola di un convento e fu avvisata di stare attenta alle baracche dove vivevano i minatori neri, quando attraversava la prateria per andare a scuola. A 11 anni le fu scoperto quello che più tardi risultò un problema al cuore non grave. Ma sua madre, che lei descrisse come una donna energica ma annoiata dalla sua vita, la tolse da scuola e dalle sue amate lezioni di danza e assunse un tutore tenendola “a riposo” per anni. “Di questo misterioso male ora posso parlare”, disse in un’intervista del 1976: “Dopo essere cresciuta capì che aveva a che fare con l’atteggiamento di mia madre nei miei confronti, che lei allevò quello che probabilmente era una cosa passeggera e ne fece una lunga malattia, per tenermi a casa, per tenermi con sé. Fu in questo strano isolamento forzato, sempre con gli adulti e passando pomeriggi a leggere con sua madre, che Gordimer cominciò a scrivere. Pubblicò racconti nella sezione per ragazzi di un giornale adulto. Catturata dall’idea di diventare una scrittrice, Gordimer si trasferì a Johannesburg. Frequentò corsi all’Università e per circa un anno imparò di più frequentando la scena artistica del multirazziale quartiere di Sophiantown. Antony Sampson, direttore della rivista per neri “Drum”, diventò uno dei suoi più stretti e fidati amici. C’è una seconda nascita che poteva accadere ai sudafricani, disse una volta Gordimer parlando all’Università di Cape Town: la presa di coscienza che l’apartheid non è un ordine del mondo di natura divina, fisso e immutabile. Spiegò diversi momenti attraverso i quali lei aveva iniziato ad aprire gli occhi sulla terribile natura dell’apartheid: i disumani raid nell’alloggio della sua tata nera, dietro casa dei suoi genitori e di fronte ai quali loro rimanevano impassibili e silenti; la scoperta che i minatori neri che frequentavano negozi gestiti da persone come suo padre non erano autorizzati neanche a toccare la merce prima di averla comperata; la sua amicizia con diversi scrittori neri, che lei considerava più bravi ma che non avevano le sue stesse possibilità di intraprendere la carriera da scrittori. Gordimer pubblicò la sua prima collezione di storie brevi, “Faccia a Faccia”, nel 1949. Poco dopo cominciò a collaborare con la sezione di narrativa del New Yorker. Il suo primo romanzo, “I giorni della menzogna” fu pubblicato nel 1953 e racconta di Helen Shaw, figlia di genitori e borghesi che vivono in una città di miniere d’oro che comincia a realizzare le condizioni di vita dei neri intorno a lei. Col suo paese nei problemi del post-apartheid del nuovo millennio, le fu chiesto se la democrazia avrebbe tolto ispirazione alla letteratura sudafricana. “Al contrario”, rispose: “siamo pieni di problemi”. A chi le criticava un’esistenza privilegiata, accusandola di aver usato come musa le sofferenze del suo paese guardandole dal suo comodo quartiere bianco senza patirne le conseguenze, rispose dicendo che non capivano il suo lavoro: “La tensione tra assistere ed essere completamente coinvolti è ciò che fa uno scrittore”.
(Nadine Gordimer e Inge Feltrinelli al Festival di Mantova nel 2009)
Mary Titton
11 luglio
PRIMO PIANO
Due nuovi antibiotici efficaci contro i batteri multiresistenti.
Due nuovi antibiotici sono stati creati da Brice Felden e dal suo team presso l’Inserm e l’Université de Rennes, in collaborazione con un gruppo dell’Istituto di Chimica di Rennes (Iscr). Lo studio, pubblicato su “Plos Biology”, potrebbe dare nuovo impulso alle ricerche per combattere la resistenza agli antibiotici in tutto il mondo. In particolare, i ricercatori di Inserm e Université de Rennes hanno recentemente identificato una nuova tossina batterica che hanno trasformato in potenti antibiotici, attivi contro vari batteri responsabili di infezioni umane, sia Gram-positivi che negativi, e capaci anche di non “attivare” un meccanismo di resistenza quando vengono usati per trattare l’infezione, almeno nei topi. Spiega Brice Felden: “Tutto è iniziato con una scoperta fondamentale fatta nel 2011. Ci siamo resi conto che una tossina prodotta dallo Staphylococcus aureus, il cui ruolo è quello di facilitare l’infezione, è anche in grado di uccidere altri batteri presenti nel nostro corpo. Quella che avevamo identificato era una molecola con proprietà tossiche e antibiotiche. Abbiamo pensato che se potevamo separare queste due attività, saremmo stati in grado di creare un nuovo antibiotico non tossico per il corpo, una sfida che abbiamo raccolto.” In collaborazione con il team del chimico Michèle Baudy Floc’h, è stata sintetizzata una nuova famiglia di cosiddetti peptidomimetici. Come suggerisce il nome, questi peptidi sono ispirati a peptidi batterici naturali, ma sono stati ridotti e modificati. Il problema delle resistenze agli antibiotici diventa sempre più urgente, anche perchè negli ultimi anni il processo di isolamento di nuove molecole naturali ad azione antibiotica è molto rallentato e si cerca di sopperire all’assenza di nuovi farmaci con l’uso di combinazioni di antibiotici già in uso da tempo. Secondo il nuovo rapporto di un’agenzia congiunta Oms e Onu – UN Ad hoc Interagency Coordinating Group on Antimicrobial Resistance (Iacg) – ogni anno 700mila persone muoiono per infezioni resistenti agli antibiotici e il numero è destinato ad aumentare, nel 2050, fino a 10 milioni l’anno, se non verranno presi provvedimenti. Il problema riguarda diversi tipi di infezione: ai 230mila morti per tubercolosi resistente si aggiungono quelli per infezioni del tratto respiratorio, malattie sessuali e legate alle procedure mediche invasive.
10 luglio
PRIMO PIANO
Addio all’attrice Valentina Cortese.
È morta all’età di 96 anni, nella sua casa di Milano, l’ex-conventino di piazza S. Erasmo, Valentina Cortese, una delle dive più popolari del cinema italiano degli anni quaranta. Nata a Milano da una famiglia originaria di Stresa, dopo il debutto nel film L’orizzonte dipinto (1940), ricoprì il primo ruolo importante, quello di Lisabetta, nel film La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti. Nel 1948, a soli 25 anni, è già ad Hollywood, con un contratto con la 20th Century Fox: lavora con James Stewart e Spencer Tracy in Malesia (1949) e viene diretta da Jules Dassin in I corsari della strada (1949). Il successo internazionale arriva con La montagna di cristallo e col thriller di Robert Wise Ho paura di lui (1951). Tornata in Italia, vince il Nastro d’Argento come migliore attrice non protagonista per Le amiche di Michelangelo Antonioni. Nel 1958 si ritira temporaneamente dalle scene in seguito al matrimonio sfortunato con Richard Basehart, sposato il 24 marzo 1951, da cui ebbe il figlio Jackie, anche lui attore, e divorziò nel 1960. A causa della gravidanza dovettte rinunciare alla proposta giunta direttamente da Charlie Chaplin per il ruolo di protagonista femminile nel film Luci della ribalta del 1952, ruolo poi assegnato a Claire Bloom. L’attrice in Italia interpreta poi il film Barabba (1961), diretto da Richard Fleischer, accanto ad Anthony Quinn, Silvana Mangano, Vittorio Gassman ed Ernest Borgnine e nel 1964 viene diretta da Federico Fellini in Giulietta degli spiriti; nello stesso anno duetta con Ingrid Bergman in La vendetta della signora. Negli Stati Uniti viene richiamata dopo vari anni, insieme a Rossella Falk, per interpretare il ruolo di una sofisticata contessa italiana nel film Quando muore una stella (1968) di Robert Aldrich, accanto ai protagonisti Kim Novak e Peter Finch. Dopo alcune partecipazioni televisive in Italia (I Buddenbrook, dove fu diretta da Edmo Fenoglio), l’incontro con Giorgio Strehler e il teatro mettono in mostra le sue qualità di attrice drammatica. Sempre amata e rispettata anche dal cinema d’oltralpe, nel 1973 lavora con François Truffaut in Effetto notte (premiato con l’Oscar al miglior film straniero), con cui ottiene una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. La vincitrice di quell’anno, Ingrid Bergman, durante la cerimonia di consegna del premio si scusò pubblicamente con la collega e amica Cortese, affermando che secondo il suo parere era proprio l’attrice italiana a meritarlo. Importante fu il sodalizio con Franco Zeffirelli nel film Fratello sole, sorella luna (1971), nello sceneggiato televisivo Gesù di Nazareth (1976), nel ruolo di Erodiade, e in Storia di una capinera (1993). Nonostante l’intensa attività teatrale e i ruoli in produzioni internazionali, in Italia partecipò anche a numerosi e trascurabili film: commedie, polizieschi, horror. Nel suo ultimo film americano, del 1980, Ormai non c’è più scampo, lavora con William Holden, Jacqueline Bisset e Paul Newman. Nel 1987 partecipa al film di Carlo Vanzina Via Montenapoleone, interpretando con la consueta intensità una madre dell’alta borghesia, incapace di accettare l’omosessualità del figlio. Nel 1988 prende parte a Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam, in cui interpreta il doppio ruolo di Daisy/Regina della Luna al fianco di Robin Williams. Negli anni 2000 porta in scena il Magnificat di Alda Merini, con la regia di Fabio Battistini. La sua ultima apparizione televisiva è stata nel 2012 a Che tempo che fa per presentare l’autobiografia Quanti sono i domani passati, a cura di Enrico Rotelli. Così Sergio Escobar, Direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ricorda l’attrice spentasi oggi: “Valentina Cortese era il Piccolo, era il Teatro e tanto di più. Raffinata e impetuosa. Ipnotica per me, che quando la incontrai per la prima volta, nel 1979, avevo poco meno di trent’anni. Era una donna elegante, ironica, un’attrice immensa. Anima e corpo, voce e occhi di una scena senza fine.”
9 luglio
PRIMO PIANO
Libia: l’inferno di migranti.
Il governo del premier Fayez al-Sarraj ha dato parziale seguito a quanto prospettato da un suo ministro e ha liberato 350 migranti che erano rinchiusi nel centro di detenzione di Tajoura, quello che era stato colpito la settimana scorsa da un raid dell’aviazione del generale Khalifa Haftar. La liberazione dei sopravvissuti viene segnalata da un tweet della sezione libica dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che, come assicura, “fornirà assistenza”. Un raid aereo, infatti, attribuito alle forze del generale Khalifa Haftar, la notte del 3 luglio scorso, ha bombardato il centro per migranti di Tajoura, a est di Tripoli, causando almeno 50 morti e oltre 100 feriti e provocando la fortissima reazione del Rappresentante Onu in Libia e dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani che lo hanno condannato come “crimine di guerra”. “Una tragedia annunciata” per Caritas italiana, che definisce “particolarmente grave la situazione dei migranti, che hanno limitate possibilità di movimento costretti a vivere in condizioni già disperate e per di più con il rischio di attacchi” e “rilancia l’invito all’Italia e agli altri paesi europei, in accordo con l’Onu, di dare corpo e forza a un’iniziativa per la pace in Libia, la protezione dei civili, l’assistenza umanitaria e l’evacuazione dei profughi detenuti nei centri di detenzione, a partire dai più vulnerabili”. La Libia vive la drammatica situazione della guerra civile con lo scontro tra il governo sostenuto dall’Onu di Fayez al-Serraj e le forze del generale Haftar, che controlla gran parte dell’est e del sud del Paese e nega di aver bombardato il centro di detenzione, in mezzo 8milioni di libici e 200mila migranti, rinchiusi nelle carceri in condizioni disumane. Secondo quanto scrive al-Jazeera, nel centro di detenzione si trovavano in prevalenza migranti provenienti dal Sudan, dall’Eritrea e dalla Somalia e già ad aprile, quando hanno iniziato la loro campagna per impadronirsi di Tripoli, le forze di Haftar hanno preso di mira il centro. Papa Franesco, nonostante le critiche e gli insulti sui social, più volte ha richiamato i governi e le coscienze sui migranti e i rifugiati, invitandoli alla solidarietà verso di loro che sono da considerare prima di tutto “persone”: “sono ‘gli ultimi’ torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea.”
8 luglio
PRIMO PIANO
Grecia: i risultati delle elezioni anticipate.
Nelle elezioni anticipate indette dal premier uscente Alexis Tsipras dopo la sconfitta delle europee, il centrodestra di Mitsotakis ha vinto staccando nettamente Syriza, il partito di Tsipras. Nelle elezioni svoltesi ieri Nuova Democcrazia (centro-destra) ha ottenuto il 39,8% dei voti che si traducono in 158 seggi su 300 in Parlamento, mentre il partito di sinistra dell’ex premier Tsipras, Syriza, ha ottenuto il 31,5%, con 86 seggi. I socialisti di Kinal, eredi del Pasok, hanno il 7,96% (22 seggi); i comunisti del Kke il 5,33% (15 seggi), la formazione di estrema destra Alba Dorata, che nel 2015 era la terza forza politica del Paese, non supera la soglia di sbarramento del 3% e resta fuori dal Parlamento; superano invece di pochi voti lo sbarramento la “Soluzione greca”, estrema destra filo-russa, al 3,8% (10 seggi) e il partitino dell’ex ministro Varoufakis, MeRa25, con il 3,47% (9 seggi). Mitsotaki sarà dunque il nuovo primo ministro, Tsipras lo ha chiamato per congratularsi e ha riconosciuto la sconfitta. Kyriakos Mitsotakis, il leader 51enne di Nea Demokratia, il partito conservatore vincitore delle elezioni in Grecia, rappresenta la quarta generazione di una dinastia di politici: suo padre, Konstantinos Mitsotakis, fu primo ministro all’inizio degli anni ’90; sua sorella Dora Bakoyannis, è stata la prima donna sindaco di Atene, quando la capitale ospitò le Olimpiadi nel 2004, e poi divenne ministro degli Esteri; suo nipote Kostas Bakoyannis, il figlio di Dora, è il nuovo sindaco della capitale. Con i Papandreu e i Karamanlis i Mitsotakis hanno dominato la politica greca per anni. Studi ad Harvard e Stanford, un passato di consulente della McKinsey, lo stesso Mitsotakis nell’ultimo governo conservatore è stato ministro per la riforma amministrativa, con il compito di licenziare migliaia di dipendenti pubblici per rispondere alle richieste della Troika (Fmi, Bce, Commissione Ue), poi, nel gennaio 2015 il governo fu spazzato via dalla sinistra di Syriza. Convinto liberista, si è presentato agli elettori con un piano di riduzione delle tasse, tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni e con la promessa di rinegoziare gli impegni con la Troika, che attualmente prevedono un avanzo primario (escluso il pagamento di debiti e interessi) del 3,5% del prodotto interno lordo fino al 2022 e del 2,2 in media fino al 2060. Il suo leitmotiv: “Dateci 12 mesi di tempo e convinceremo i nostri creditori, i mercati internazionali, che la Grecia può davvero cambiare”. Tsipras, giovane leader dell’estrema sinistra, che era emerso in una Grecia in pieno caos per la crisi del debito e l’austerità imposta dai creditori della Troika, a gennaio del 2015 aveva portato una ventata di speranza fra i cittadini travolti da fallimenti e piani sociali, ma poi è stato costretto, per evitare l’uscita di Atene dalla zona euro, ad accettare un piano di salvataggio con misure rigide, ricadute soprattutto sul ceto medio, e ha pagato questo suo per così dire “tradimento” dei programmi da lui proposti. Dopo la batosta alle europee, il leader di Syriza, il cui mandato da primo ministro si sarebbe concluso a ottobre, ha giocato una carta rischiosa: ha indetto elezioni anticipate in piena estate, le prime dal 1928, sperando di ribaltare a suo favore l’ondata di malcontento, ma così non è stato. Kyriakos Mitsotakis, leader del partito Nuova Democrazia, che ieri ha vinto le elezioni politiche e ha la maggioranza assoluta in Parlamento, ha giurato come nuovo primo ministro della Grecia. A differenza del predecessore Alexis Tsipras, Mitsokakis ha scelto il giuramento religioso e lo ha fatto davanti all’arcivescovo di Atene e a vari rappresentanti della chiesa ortodossa. Mitsotakis, con accanto la moglie Marewa e i tre figli, ha dunque pronunciato la formula davanti al capo della Chiesa ortodossa greca Ieronimos II, poi ha formalmente ricevuto l’incarico dal capo dello Stato. Il neo premier e l’alto prelato hanno co-firmato il documento di incarico presentato dal presidente.
DALLA STORIA
Percy Bysshe Shelley.
Percy Bysshe Shelley, uno dei più celebri lirici romantici, era nato nel Sussex, il 4 agosto 1792. Apparteneva alla seconda generazione romantica inglese insieme a Lord Byron e John Keats con i quali, oltre ad essere legato da un forte sentimento di amicizia, condivideva gli ideali e la sensazione di contribuire con la propria e la loro letteratura a un periodo di cambiamento politico, sociale e intellettuale di vasta portata. “La letteratura dell’Inghilterra”, scriveva Shelley in una difesa della poesia, “è sorta, come dire, da una nuova nascita … viviamo tra filosofi e poeti tali da superare al di là di ogni paragone ognuno di quelli che si erano imposti a partire dall’ultima lotta nazionale per la libertà civile e religiosa”. E, come John Keats e Lord Byron, morì in giovane età. Shelley, infatti, insofferente alla disciplina a cui la sua famiglia di origine, molto influente e aristocratica, lo voleva sottoporre, preferì una vita sregolata, avventurosa, soprattutto libera da costrizioni convenzionali e, all’età di circa trent’anni, l’8 luglio 1822, annegò nel mare di fronte a Lerici, in Italia. Il mare restituì il suo corpo sulla spiaggia di Viareggio il 18 luglio 1822, dieci giorni dopo il naufragio della sua goletta. Il suo corpo venne cremato, come disponeva la legge dell’epoca, sulla spiaggia del ritrovamento dai poeti suoi amici, tra i quali Byron. Shelley è noto anche per l’ amore e il sodalizio letterario che lo legò a Mary Wollstonecraft Shelley, autrice del romanzo Frankenstein, figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, filosofo anarchico, il quale influì molto sulle idee politiche libertarie di Shelley. È famoso per aver scritto opere da antologia quali Ozymandias, l’Ode al vento occidentale (Ode to the West Wind), A un’allodola (To a Skylark), e La maschera dell’anarchia (The Masque of Anarchy), ma quelli che vengono considerati i suoi capolavori furono i poemi narrativi visionari come il Prometeo liberato (Prometheus Unbound) e l’Adonais (Adonais). Shelley influenzò profondamente la poesia successiva, dai decadenti agli intellettuali degli anni sessanta e gli artisti ribelli della beat generation, come già era accaduto con Coleridge e Blake, i romantici della prima generazione inglese; (Mick Jagger lesse alcuni versi dell’Adonais, riferiti alla morte di Keats, durante il famoso concerto di Hyde Park, davanti a mezzo milione di persone, per ricordare Brian Jones scomparso due giorni prima). Shelley divenne inoltre l’idolo di due-tre generazioni di poeti, tra cui Robert Browning, Alfred Tennyson, Dante Gabriel Rossetti, Algernon Swinburne e William Butler Yeats; fu apprezzato anche da Karl Marx. La poesia, il vegetarianismo in difesa degli animali, di cui era, insieme alla seconda moglie Mary Shelley un fervente sostenitore, lo stile di vita fuori dagli schemi, all’insegna di sentimenti quali le emozioni, e l’interesse per l’immaginazione e l’introspezione lo rendono un simbolo del periodo romantico. Le ceneri di Shelley vennero sepolte nel Cimitero Acattolico o Cimitero degli Inglesi a Roma dove tuttora è visibile la tomba, nei pressi di quella di John Keats. L’epigrafe, in riferimento alla sua morte in mare, riprende tre versi del canto di Ariel ( in ricordo della goletta) dalla Tempesta di Shakespeare: Nothing of him that doth fade / but doth suffer a sea change / into something rich and strange (“Niente di lui si dissolve / ma subisce una metamorfosi marina / per divenire qualcosa di ricco e strano”).
La musica quando
La musica, quando
voci lievi svaniscono, vibra
nella memoria.
I profumi, quando
le dolci viole appassiscono,
vivono dentro i sensi che ridestano.
Quando la rosa è morta, i petali di rosa
sono raccolti sul letto dell’amata;
quando te ne sarai andata,
con il pensiero di te anche l’Amore
si addormenterà.
I pellegrini del mondo
Tu Stella dimmi, che ali di luce
ti sospingono rapida a un volo di fiamma,
dentro quale caverna della notte
si chiuderanno ora le tue piume?
E tu Luna che vai, pallida e grigia
pellegrina del Cielo, per vie senza riparo,
in quali abissi del giorno e della notte
stai ora ricercando il tuo riposo?
Vento ormai stanco, che passi vagabondo
come l’ospite esule del mondo,
possiedi ancora un tuo nido segreto
in vetta a un albero, in mezzo alle onde?
Il tempo passato
Come il fantasma d’un amico amato
è il tempo passato.
Un tono che ora è per sempre volato
via, una speranza che ora è per sempre andata
un amore così dolce da non poter durare
fu il tempo passato.
Ci furon dolci sogni nella notte
del tempo passato.
Di gioia o di tristezza, ogni
giorno un’ombra avanti proiettava
e ci faceva desiderare
che potesse durare
quel tempo passato.
C’è rimpianto, quasi rimorso, per
il tempo passato.
È come il cadavere d’un bimbo molto
amato che il padre veglia, sinché
alla fine la bellezza è un
ricordo, lasciato cadere
dal tempo passato.
Ti amerei
Ti amerei nel vento
Sotto il cielo terso in primavera
Tra la dolcezza delle rose …
Ti amerei nel canto degli uccelli
All’ombra della vegetazione
Sulle pietra calda e nuda
Sotto il solo bruciante,
Nella frescura dell’erba
E con il canto degli insetti …
Ti amerei il giorno e la notte,
Nella calma e nella tempesta
Sotto le stelle che brillano
Sotto la rugiada della notte
E la mattina all’alba
Con il sorriso e con le lacrime,
Ti amerei con tutte le mie forze …
(La lapide del poeta nel cimitero Acattolico a Roma)
Mary Titton
7 luglio
DALLA STORIA
La poesia rivoluzionaria di Majakovskij.
Il 7 luglio di 124 anni fa nasceva Vladimir Majakovskij, cantore della rivoluzione d’ottobre e maggior interprete del nuovo corso intrapreso della cultura russa post-rivoluzionaria. La sua formazione avvenne negli anni che fanno seguito al fallimento della rivoluzione del 1905. Massimo Gorkij ha definito questo periodo, che va sino al 1917, come il periodo “dell’assoluto arbitrio del pensiero irresponsabile, della completa libertà di creazione dei letterati … il più vergognoso e svergognato decennio nella storia degli intellettuali russi”. Mario De Micheli, storico delle Avanguardie artistiche del Novecento ne commenta così il contesto culturale: “La sconfitta della rivoluzione aveva generato panico, scoraggiamento e disgregazione in mezzo a quei gruppi d’intellettuali che si erano avvicinati al movimento operaio nei suoi momenti d’impetuosa ascesa. La brutalità della reazione zarista fece crollare molti sogni umanitari e spinse questi figli prodighi della borghesia a disertare la lotta, a rifugiarsi in se stessi a cercare puntelli in dottrine mistiche o in altre forme d’evasione quando non addirittura a passare dalla parte dell’avversario. Di questo triste periodo, più tardi, Majakovskij dirà:
“Inferociva la reazione e gli intellettuali
da tutto si distaccarono e insudiciarono tutto,
comprarono delle candele e si rinchiusero in casa
e incensavano i cercatori di Dio.
Majakovskij reagiva dunque con accesa violenza alla situazione letteraria creatasi durante il deflusso rivoluzionario seguito alla disfatta del 1905. È questo senso dell’insufficienza del mondo poetico decadente a portarlo verso il 1911 a dare la sua adesione al futurismo che già da due anni aveva fatto sentire la sua voce, benchè il manifesto programmatico, “Schiaffo al gusto del pubblico” dovesse uscire solo nel 1912. L’occasione fu la conoscenza con David Burljuk. “Fuggendo insieme da un concerto che li riempiva di noia, i due amici, in un dialogo concitato che dalla noia dei concerti di Rachmaninov passa alla noia del classico, dell’accademia e di ogni altra concezione vincolata all’indolenza del passato, si convincono definitivamente di dar vita ad un’arte inedita, moderna, espressione adeguata del presente e di ciò che nel presente è gravido d’avvenire: “David ha la collera del maestro che ha sorpassato i contemporanei, io il phatos del socialista che è sicuro dell’inevitabile crollo del vecchiume. Il futurismo russo è nato”. (Dall’Autobiografia che Majakovskij scrisse nel 1922, poi completata nel ’28). Fare un’arte socialista. Il “crollo del vecchiume “ non significa soltanto la distruzione di qualche vecchia regola poetica, ma la fine della vecchia società, l’abbattimento dello zarismo e la liberazione del popolo russo. Per queste ragioni la poesia di Majakovskij, sin dall’inizio “si alzava con ala forte e larga dalle steppe oppresse e dalle fabbriche dove si preparava ad esplodere la rivoluzione”:
Là dove monco s’arresta l’occhio dell’uomo,
alla testa di orde affamate
con la corona di spine delle rivoluzioni,
avanza il millenovecentosedici.
Questi versi fanno parte di un famoso componimento di Majakovskij, “La nuvola in calzoni”, apparso nel 1915. Si tratta di un’opera carica di tensione drammatica, di vitalità, di slanci, di toni patetici e d’invettive; un’opera che nella storia della poesia europea contemporanea occupa un posto di estrema importanza per la prepotenza dell’invenzione formale, la novità, la veemenza dell’ispirazione. In questi versi incandescenti la requisitoria di Majakovskij contro tutto ciò che egli odiava è diventata implacabile, cosmica, densa di sarcasmi, di umori sfrenati e sacrileghi. Nell’autunno del 1915, dopo averla ascoltata dalla viva voce dell’autore, che era andato a trovarlo in Finlandia, Massimo Gorkij esclamò emozionato: “Ecco una vera conversazione con Dio! Già da molto tempo non gli era toccata una simile lavata di testa”. Con questa poesia la personalità di Majakovskij è già completamente definita. Egli non sarebbe diventato un poeta “puro”. Anche l’amore, ne “La Nuvola in calzoni”, si amplifica in un ritmo di immagini strepitose che investono la vita dell’uomo in tutti i suoi rapporti, in tutti i suoi problemi. La poesia di Majakovskij gettava le basi di un linguaggio poetico nuovo, fuori delle formule consacrate dalla tradizione letteraria: un linguaggio plastico, oggettivo e, al tempo stesso concitato, smisurato, iperbolico. Da questo momento lo sviluppo della poesia majakovskiana non conosce né stasi né stanchezza”. Egli mise la sua arte, così ricca di pathos, al servizio della rivoluzione bolscevica, sostenendo la necessità d’una propaganda che attraverso la poesia divenisse espressione immediata della rivoluzione in atto, in quanto capovolgimento dei valori sentimentali ed ideologici del passato. Propose testi letterari concepiti con un forte senso finalistico (la poesia non aveva senso per lui senza una finalità precisa ed un pubblico definito) che, con rivoluzionarie scelte stilistiche, espose nel suo scritto “Come far versi”, del 1926. Insieme ad altri fondò il giornale “Iskusstvo Kommuny”, organizzò discussioni e letture di versi nelle fabbriche e nelle officine, al punto che alcuni quartieri operai formarono gruppi “comunisti-futuristi”. I suoi tentativi, però, trovarono opposizioni e censure da parte prima del regime zarista e poi della dittatura staliniana. Elsa Triolet, nel suo libro su Majakovskij, racconta: “L’hanno perseguitato sino al giorno della sua morte. Le sue opere erano pubblicate con tirature insufficienti, i suoi libri e i suoi ritratti erano tolti dalla biblioteche … Un piccolo funzionario, nel 1934, al Congresso degli scrittori di Mosca, per averlo io rimproverato d’aver tagliato senza giustificazione il nome di Majakovskij in un mio articolo, come se questo nome fosse un disonore, disse: “Esiste un culto di Majakovskij e noi lottiamo contro questo culto”. Nei momenti di angoscia che egli attraversò in questo periodo esistono alcune dichiarazioni nelle quali il poeta rivendicava il suo diritto ad esistere come scrittore della rivoluzione, per la rivoluzione; il diritto a non restare da parte. Il 14 aprile 1930, con un colpo di rivoltella al cuore, Majakovskij si toglieva la vita.
LA BLUSA DEL BELLIMBUSTO
Io mi cucirò neri calzoni
di velluto della mia voce.
Una blusa gialla di due metri di tramonto.
Lungo il Nevskij del mondo e le sue lucide parti,
andrò col passo di un Don Giovanni e di un bellimbusto.
Che la terra gridi, effeminata e tranquilla:
“Tu vai a violentare le verdi primavere!”
Io urlerò al sole, con un ghigno insolente:
“Sul liscio asfalto mi piace grandeggiare!”
Non perché il cielo è blu,
e la terra mi è amante in questo lindore festivo,
io vi dono versi, allegri, come burattini
e pungenti e necessari, come stuzzicadenti!”
Donne che amate la mia carne, e la ragazza
che mi rivolge lo sguardo come a un fratello,
lanciate i vostri sorrisi a me, il poeta, –
io li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto!
1914
L’INFERNACCIO DELLA CITTÀ
Le finestre frantumarono l’infernaccio della città
in minuscoli infernucci succhianti con le luci.
Rossicci diavoli, si impennavano le automobili,
facendo esplodere le trombe proprio sull’ orecchio.
E là, sotto l’ insegna con le aringhe di Kerc,
un vecchietto stravolto cercava tastoni i suoi occhiali
e ruppe in lacrime quando, nel tifone del vespro,
un tram di rincorsa sbatté le pupille.
Nei buchi dei grattacieli, ove ardeva il minerale
e il ferro dei treni ingombrava il passaggio,
un aeroplano lanciò un grido e cadde
là dove al sole ferito colava l’occhio.
E allora ormai – sgualcite le coltri dei lampioni –
la notte si diede al piacere, oscena e ubriaca,
mentre dietro i soli delle vie in qualche luogo zoppicava,
non necessaria a nessuno, la flaccida luna.
1913
(Secondo da sinistra Boris Pasternak, Sergej Ejzenstejn, Olga Tretyakova, Lilya Brik, Vladimir Majakovskij)
Mary Titton
5 luglio
PRIMO PIANO
Visita lampo di Putin a Roma.
Capitale blindata, oggi, con rimozioni, divieti, bus deviati e una green zone con controlli con metal detector per l’arrivo di Putin. È cominciata, infatti, alle 14:20, con circa un’ora di ritardo sull’orario previsto, la visita del presidente della Federazione russa Vladimir Putin in Vaticano e si è conclusa dopo circa un’ora. Putin, arrivato direttamente dall’aeroporto di Fiumicino, nel Cortile del Belvedere è stato accolto dal prefetto della Casa Pontificia, monsignor Georg Ganswein, che gli ha fatto da anfitrione all’interno del palazzo apostolico. Nella sala del Tronetto, prima di entrare nella biblioteca privata, il Santo Padre è andato incontro al presidente Putin, che lo attendeva da solo, e gli ha porto il suo “benvenuto”. Poi il colloquio privato: al centro Siria, Ucraina e Venezuela, la questione ecologica, la condizione della Chiesa cattolica in Russia; da ambo le parti è stata espressa soddisfazione per lo sviluppo delle relazioni bilaterali, ulteriormente rafforzatesi con la firma, in data odierna, di un protocollo di intesa riguardante la collaborazione tra l’Ospedale Bambino Gesù e gli Ospedali pediatrici della Federazione russa. Poi in un clima cordiale lo scambio dei doni: Putin ha regalato al Papa il libro fotografico e il dvd del film Sin (Il peccato) su Michelangelo, girato dal regista russo Andrej Konchalovskij e un’icona dei santi Pietro e Paolo, Francesco ha ricambiato con il medaglione che commemora i cento anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale e un’acquaforte del 1739 con Piazza San Pietro e la Basilica, “perché lei non dimentichi Roma”. Si tratta del terzo incontro tra i due capi di Stato: il primo fu il 25 novembre 2013, il secondo il 10 giugno 2015. Poi l’auto blindata di Putin è stata scortata dai corazzieri fino al Quirinale, mentre sul Torrino veniva issata la bandiera della Federazione russa. Mattarella ha accolto Putin con una stretta di mano nella Loggia alla vetrata, i due presidenti hanno assistito all’esecuzione degli inni nazionali da parte del picchetto d’onore e si sono poi trasferiti nella sala del Bronzino per la presentazione delle due delegazioni e una colazione di lavoro, a cui ha partecipato il Ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Sergio Mattarella e Vladimir Putin hanno confermato gli ottimi rapporti bilaterali tra Roma e Mosca e hanno condiviso la preoccupazione di Italia e Russia per la guerra civile in Libia e per il conseguente ritorno del terrorismo islamico, sconfitto recentemente in Siria. Mattarella ha sottolineato l’importanza della stabilità libica per l’Italia e per l’Europa e Putin si è dimostrato consapevole del rischio di destabilizzazione che la crisi libica comporta, offrendo il suo aiuto per una possibile risoluzione. E’ stato il terzo incontro al Quirinale, in precedenza il presidente russo era stato ricevuto dal capo dello Stato il 10 giugno 2015 durante la sua visita in Italia, mentre Mattarella era stato in visita ufficiale in Russia l’11 aprile 2017. Giornata fittissima quella di Putin, infatti nel pomeriggio a Palazzo Chigi c’è stata nel cortile d’onore la conferenza stampa congiunta con il premier Giuseppe Conte: il capo del Cremlino ha detto di apprezzare la posizione italiana sulle sanzioni alla Russia e ha aggiunto: “Roma ne parli con l’Ue”. In serata una cena a Villa Madama a cui parteciperanno anche i vicepremier Di Maio e Salvini, poi un incontro privato a Fiumicino con Berlusconi, prima di rientrare nella notte a Mosca.
DALLA STORIA
La controversa morte del bandito Salvatore Giuliano.
(Salvatore Giuliano era molto sensibile alla notorietà e posava volentieri per i fotografi)
All’indomani della morte di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950, Tommaso Besozzi, grande cronista e storica firma dell’Europeo, scrisse per il periodico mondadoriano una clamorosa inchiesta dal titolo “Di sicuro c’è solo che è morto” che uscì sul n° 29 dello stesso anno. Fin dall’inizio apparvero diverse incongruenze da parte degli inquirenti sulla morte del bandito e con questa inchiesta e questo titolo l’Europeo ne contestava la versione ufficiale: Besozzi scoprì che Salvatore Giuliano non era stato ucciso dai carabinieri, ma dal suo amico Pisciotta. L’inchiesta che, secondo Ferruccio De Bortoli “è una pietra miliare del giornalismo investigativo italiano”, consente di capire meglio i legami tra mafia (che si era sbarazzata dell’ormai scomodo bandito), la politica e diversi apparati dello Stato. L’articolo, piuttosto lungo nella versione integrale, ma saliente nella sua cronaca circonstanziata, viene, per questo, pubblicato di seguito per intero:
“Chi è stato a tradirlo? Dove è stato ucciso? Come? E quando? La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo confessare di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo del dramma è stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse cercare il pelo nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei dubbi che inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato sul posto di ricostruire la scena non cesserà per questo di essere interessante. / A Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida (dice la relazione ufficiale) hanno riconosciuto da lontano il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini percorreva la via Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario è riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece è stato inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha risposto a sua volta con la pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il brigante ha sperato di trovare scampo entrando in quel cortile. Eppure parecchi civili delle case confinanti affermano d’aver inteso fin dalla mezzanotte un rumore di tegole smosse e un bisbigliare come se vi fosse gente sui tetti. Stettero un poco in ascolto, ma quello strano trambusto dopo un quarto d’ora si chetò. Nessuno diede peso alla cosa e di lì a poco in via Mannone tutti ripresero a dormire, eccetto tre uomini che per le esigenze del loro mestiere dovevano già essere a bottega: il proprietario e i due garzoni del forno Lo Bello, che è sullo stesso lato della strada, a venti metri dall’ingresso del cortile. / Era una notte afosa, e nell’interno del panificio il caldo era insopportabile. I due garzoni che avevano finito di impastare il pane e aspettavano che lievitasse erano usciti sulla via e stavano chiacchierando accovacciati sul marciapiedi, con le schiene nude appoggiate agli stipiti. Ma la prima sigaretta che essi avevano acceso non era ancora finita quando due carabinieri, spuntando dall’ombra, si avvicinarono e intimarono loro di ritirarsi e di sprangare la porta. L’ingiunzione era stata fatta con il tono di chi non ammette repliche. Ci furono invece discussioni e proteste, ma non valsero a nulla. Di fronte al dilemma o chiusi in bottega o in guardina, non era certo il caso di indugiare troppo sulla scelta. I due garzoni obbedirono. / E’ molto probabile tuttavia che il mattino seguente le clienti del fornaio Lo Bello abbiano trovato da ridire sulla confezione del pane. La curiosità di sapere quello che stava per accadere sulla strada non poteva certo permettere ai panettieri di attendere con diligenza al consueto lavoro. Avevano lasciato i battenti un pochino socchiusi e di tanto in tanto andavano ad origliare. Così non sarà esagerato dire che l’aria lacerata dal primo sparo vibrava ancora quando gli occhi dei fornai erano già incollati alla fessura. Sembrò loro che la via fosse deserta. Questa impressione però è di scarsa importanza perché durante la notte l’illuminazione della periferia di Castelvetrano viene ridotta e le poche e fioche lampadine che restano accese riescono a proiettare solo un piccolo cerchio di luce al centro della strada. Non videro dunque entrare nessuno nel cortile. Scorsero invece un uomo che ne usciva, che passò correndo sotto un lampione. Lo videro di spalle per un attimo e tutto quello che seppero dire di lui è che si trattava di un uomo forse giovane, tarchiato, che camminava a piedi nudi. Ma vedremo dopo quale parte attribuisca la fantasia popolare a questo personaggio. / La via Mannone parte dalla piazza del mercato, taglia in linea retta il rione orientale del paese e finisce nella campagna. Nel tratto che va dal mercato al cortile non ci sono trasversali. Da che parte ci arrivò Giuliano fuggendo da via Gagini? Dal mercato dopo aver attraversato la piazza della torre dove sono ininterrottamente di fazione due agenti, dal corso dove a qualunque ora c’è sempre gente scamiciata che passeggia, dal verziere dove c’è un grande negozio di fruttivendolo che resta aperto tutta la notte con le luci accese e dove attorno ai banchi e ai cumuli di ceste che non vengono mai rimossi passeggiano continuamente i guardiani? / Evidentemente no, perché nessuno ha visto né lui né gli inseguitori. Allora è venuto dalla via Gioberti, che è dalla parte opposta, e, giunto al crocicchio di dove poteva scorgere davanti a sé le prime siepi e i primi alberi della campagna, ha piegato invece in via Mannone verso il centro del paese. L’illogicità di questa decisione stupisce molti. Il lettore tuttavia non ci faccia caso perché sono tante le ragioni che possono avere spinto il fuggitivo ad abbandonare la via più facile per quella più rischiosa. E’ stato detto piuttosto che la sparatoria era cominciata in via Gagini ed era continuata da una parte e dall’altra lungo tutto il percorso. Ma per quanto si siano interrogati molti abitanti di quella zona, non si è trovato nessuno che ricordasse di aver udito un solo sparo. Eppure le finestre erano spalancate per il caldo opprimente. La notte in quel rione è silenziosa. Una pistolettata o una scarica di mitra avrebbero dovuto destare anche chi ha il sonno più duro. Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza però è in contrasto con la versione ufficiale. Questa dice che il brigadiere esplose 52 colpi col moschetto mitragliatore, che al cinquantaquattresimo si inceppò. Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile e impugnò la pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso per primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero dovuto susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane (Giuliano che spara sulla strada), altra raffica dopo una pausa di silenzio. (Perenze che fa fuoco all’ingresso del cortile); subito dopo forse qualche colpo di pistola (Giuliano che, prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa), forse il Thompson che risponde ancora (Perenze che ha innestato il caricatore nuovo). Invece gli abitanti di via Mannone (trascureremo i nomi della gente minuta facile ad accettare ed a ripetere come esperienza propria il racconto altrui e citeremo soltanto il pretore di Castelvetrano, avvocato Giovanni De Simone, e il colonnello a riposo Santorre Vizzinisi) sono unanimi nel ripetere che si sentirono prima cinque o sei colpi di pistola sparati sotto l’arco di ingresso o nel cortile, poi due raffiche di mitra distanziate da un breve intervallo. Subito dopo si udì la voce del capitano che gridava a qualcuno di portare un po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare col calcio del moschetto alla porta dell’unica abitazione che si apre sul cortile. Parleremo in seguito dell’interpretazione che la fantasia dei diffidenti siciliani dà a questo particolare. Sarà bene tuttavia citare sin d’ora l’obiezione più comune: che i feriti siano tormentati dalla sete è una di quelle nozioni elementari che anche il più rozzo dei pastori possiede. E’ tra l’altro un vecchio motivo della retorica popolare. Ma questa arsura viene immediatamente, appena uno è colpito, oppure è conseguenza del dissanguamento, della febbre provocata dalle ferite e sopraggiunge dopo un certo periodo di tempo? / E perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato molti, era l’ultima cosa che si togliesse coricandosi, la prima che cercasse al risveglio? C’erano poi altri particolari che alimentavano il dubbio e, apertamente, con maggior evidenza: alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche. / Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia (aveva oltre due palmi di diametro) non c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su. / Da Trapani a Sciacca, a Santa Ninfa, a Partanna non c’è uno che non sorrida quando gli si parla del famoso furgone sul quale gli uomini del colonnello Luca travestiti da cinematografari percorrevano le campagne e sostavano nei paesi fingendo di girare un documentario, perché Salvatore Giuliano, tradito dall’ambizione e dalla smania di pubblicità, lasciasse le sue montagne e cadesse nella trappola. Per quanto avesse incollate su una fiancata due grosse strisce con le scritte: “Gazzetta dello Sport”, “Il Paese”, e su una terza striscia di carta dipinta a mano che attraversava di sbieco il lato opposto si leggesse: “Le avventure di Paperino”, tutti, anche i ragazzini, sapevano che si trattava di una radiotrasmittente mobile della polizia capace di collegare Trapani a Palermo. Cosa che tra l’altro era dimostrata con evidenza dall’antenna molto alta che non si poteva certo né sopprimere né camuffare. Proprio Giuliano avrebbe dovuto lasciarsi ingannare da un trucco così grossolano? / E’ certo che non si manca affatto di rispetto al colonnello Luca né a chi sulla scala gerarchica sta più in alto o più in basso di lui dicendo che la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore Giuliano è camuffata, reticente su certi punti, su altri imprecisa. Poco o molto, tutti i rapporti che la polizia rende noti al pubblico devono essere necessariamente così. Vi sono circostanze che non possono essere rivelate, promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna salvare dalla vendetta. Perfino davanti al giudice e nei casi più gravi la legge concede al funzionario di polizia il diritto di tacere la verità: quando gli si chiede il nome del confidente, di chi lo ha messo sulle tracce, lo ha aiutato a formulare l’accusa, ad arrestare il colpevole. / Il furgone con l’etichetta “ Le avventure di Paperino” non ha nessuna parte nel dramma. Il più grande aiuto allo sterminio della banda di Montelepre e del suo capo è venuto dalla mafia; ed è chiaro che ciò non significa affatto che la polizia abbia sollecitato o anche soltanto incoraggiato quell’aiuto. L’alleanza tra Giuliano e i mafiosi era nata naturalmente al principio della carriera del brigante. Turiddu aveva bisogno dell’appoggio dell’ “onorata società” e a quegli altri era comodo speculare sulla paura che il nome del brigante incuteva. Ma poi i capimafia, che erano stati i primi esattori della banda, esagerarono. Imposero riscatti che erano cinque volte superiori a quelli che il bandito intendeva richiedere e intascarono la differenza. / Cominciarono a molestare, sempre trincerandosi dietro quel terribile nome, alcuni che avevano resi grossi servigi a Giuliano e che ne avevano avuto promesse di protezione. Il contrasto si aggravò al punto che Turiddu, assieme a pochi dei suoi uomini, tra i più fedeli, scese sulla piazza di Partinico e in pieno giorno vi uccisero a pistolettate i più alti capi dell’associazione criminosa e segreta. Le vittime non avevano però un grosso prestigio oltre l’ambito del loro paese, perché oggi non esiste più una mafia unica che abbia giurisdizione su tutta l’isola, ma tante mafie locali autonome e spesso nemiche. / Forse il brigante sperava di giocare su queste rivalità territoriali e in parte ci riuscì: infatti fu condannato a morte dalla sola mafia di Partinico, mentre le altre sembrò che continuassero a essergli amiche; e invece era soltanto una maniera di temporeggiare aspettando il momento opportuno per liberarsi di lui. Per cinque anni i rapporti tra le due forze della delinquenza siciliana seguirono così alterne vicende: Giuliano, per tenersi buoni quei pericolosi vicini, si buttò talvolta in imprese rischiose dalle quali non avrebbe potuto trarre un utile diretto (tra le altre si dice l’eccidio di Portella della Ginestra);
(I funerali delle vittime del massacro di Portella della Ginestra)
la mafia gli guardò le spalle, lo garantì dalle delazioni. Ma è difficile che due galli nello stesso pollaio possano vivere l’uno accanto all’altro senza cavarsi gli occhi. L’equilibrio era mantenuto soltanto dalla straordinaria potenza di Giuliano. Il giorno che questa decadde, la sentenza di Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte le mafie. / Si voleva perdere Giuliano, ma era sempre rischioso mandargli un sicario secondo il classico sistema. Per farlo cadere cominciarono a togliere la protezione ai suoi rompendo la legge dell’omertà. Imposero che quelli della banda, dovunque fossero, dovessero essere segnalati alla polizia. / Così a uno a uno furono arrestati molti dei fuorilegge, i più sicuri scherani della banda di Montelepre. Quasi sempre chi si lasciava scappare una preziosa confidenza non era un affiliato alla mafia, ma era stato costretto dalla mafia a ingoiare la paura e a farsi delatore. / Il 27 giugno scorso, poco prima di mezzogiorno, un carrettiere mafioso che percorreva la provinciale per Trapani con un carico di pomodori, giunto in località Lozucco, a pochi chilometri da Partinico vide sbucare da un cespuglio due uomini che gli mossero incontro e gli intimarono di fermarsi. / Erano Frank Mannino e Nunzio Badalamenti, l’amministratore e il più spietato sicario della banda Giuliano, che ormai poteva disporre di non più di sette od otto gregari. I tre si conoscevano da molto tempo, perché il carrettiere aveva avuto modo in passato di rendere qualche buon servigio ai briganti. Mannino e Badalamenti erano usciti dal nascondiglio avendo appunto ravvisato in lui un amico. / Domandarono: “Va verso Castelvetrano vossia?”. L’uomo rispose di sì. I briganti gli chiesero allora di nasconderli sul carro e di portarli fino alle porte del paese. Così furono vuotate due ceste (quelle che si usano in Sicilia per il trasporto dei pomodori sono molto grandi, a tronco di cono, alte un metro e cinquanta e larghe alla sommità quasi altrettanto). / I banditi vi si accovacciarono dentro e furono coperti con pomodori. Là sotto è chiaro che riuscirono a respirare ma non potevano certo vedere. E di lì a poco, quando sentirono il cavallo fermarsi, accettarono per vere le rassicuranti spiegazioni del carrettiere. Il veicolo invece si trovava in quel momento davanti alla caserma dei carabinieri di Alcamo e non è necessario dire come finisse la storia. Giuliano non seppe che altri due dei suoi uomini erano caduti in trappola. / Ora bisognerà passare sul terreno delle congetture. Mannino e Badalamenti andavano a Castelvetrano. A fare che cosa? Conoscendo l’epilogo di questa storia, è facile arguire che ci andassero convocati dal loro capo e quindi che sapessero dove questi si teneva nascosto. In carcere possono essere stati indotti a cantare. Uno dei due (Mannino?) può essersi lasciato convincere a tradire il suo capo, a consegnarlo vivo o morto. Ecco chi era il compagno di Giuliano la notte del 5 luglio; e che si sia parlato di quella misteriosa scomparsa subito dopo l’avvistamento, è cosa ovvia. Può darsi invece che la verità sia un’altra. Il traditore non si sarebbe affatto allontanato dal suo capo, ma gli sarebbe stato al fianco facendogli da guida. Lo ha portato in trappola nel luogo prestabilito, dove i carabinieri lo attendevano in agguato. Giunti i due sulla soglia del cortile, la situazione si faceva oltremodo difficile e pericolosa: se la guida continuava a stare vicino al capo, c’era modo di finire sotto le pallottole degli agenti; se proprio in quel momento tentava di sganciarsi da lui, c’era caso che, intuendo il tradimento, Giuliano facesse fuoco su di lui. Il modo migliore di cavarsela per un’anima perversa era di sparare a bruciapelo con la pistola sul capo. Ecco così spiegata la sequenza dei colpi, le ferite più grosse, slabbrate, al fianco, l’ombra che esce di corsa dal cortile e si avvia verso la campagna, dove l’attende un’auto della polizia: è comprensibile la sua fretta di tornare in carcere. / Ma la grossa macchia di sangue sulla schiena, la tumefazione di alcune ferite e la freschezza di altre, l’essere Giuliano in maglietta, senza denaro e senza orologio, sono circostanze che non si spiegano affatto con questa storia. / Allora facciamo un passo più in là e ascoltiamo le congetture di qualcuno a cui non piace di mettere il morso alla propria fantasia. Mannino o Badalamenti, o chiunque sia stato il traditore, entrò nella camera dove era nascosto Salvatore Giuliano, ma gli mancò il coraggio di svegliarlo e condurlo fuori. / Preferì sparargli a bruciapelo nel sonno. Poi, si sa: a nessuno poteva far piacere che si venisse a conoscere un così brutto episodio. / Forse anche lui che ospitava il brigante era a parte del primitivo progetto, aveva aderito a facilitare la cattura e non si poteva ripagarlo lasciandogli in casa il cadavere (quel cadavere) fino al momento in cui sarebbero venuti il giudice, i fotografi, i becchini. / Allora lo portarono nel cortile di via Mannone. Spararono. Il capitano andò a bussare alla porta e gridò che gli portassero acqua per un ferito, perché tutti sentissero che Giuliano non era morto ancora. / Queste storie si sentono raccontare a ogni ora del giorno e della notte per le strade della Sicilia. / È difficile accettarle. Però uno che sia stato sul luogo, che si sia chinato a guardare il corpo di Salvatore Giuliano steso bocconi in mezzo al cortile, che abbia chiacchierato un poco con la gente di via Mannone, è costretto, di tanto in tanto, a pensarci”.
Mary Titton
4 luglio
PRIMO PIANO
Stromboli: ancora incendi dopo la violenta eruzione di ieri.
Ieri, 3 giugno, alle 16:46, due violente esplosioni, tra le più forti mai registrate da quando è attivo il sistema di monitoraggio del vulcano, cioè dal 1985, hanno scosso l’isola di Stromboli, causando la morte del 34enne Massimo Imbesi e almeno tre feriti non gravi nella frazione di Ginostra e seminando il panico tra abitanti e turisti che sono fuggiti precipitosamente. Una colonna di gas e lapilli è schizzata dalla sommità dello Stromboli a due chilometri di altezza, per poi ricadere su terreni e canneti, che sono andati a fuoco sia a Ginostra che a Stromboli. Eugenio Privitera, direttore dell’Osservatorio Etneo dell’Ingv, pur affermando che il fenomeno potrebbe essere concluso, sottolinea che non è possibile fare previsioni. Dice infatti lo studioso: “simili attività, definite parossistiche, a indicare la fase esasperata di un evento, erano state registrate nel 2003 e 2007. Sono fenomeni abbastanza rari, perché lo Stromboli è caratterizzato da un’attività continua ma a bassa energia. Il fenomeno esplosivo si può considerare sostanzialmente concluso, ma non è possibile prevedere se ci saranno delle repliche, perché non esistono segnali precursori che annunciano questi eventi. Sono fenomeni imprevedibili, di conseguenza non si possono fare scenari.” La zona maggiormente colpita è la frazione di Ginostra, completamente ricoperta da detriti e da uno strato di alcuni centimetri di pomice nera, oggi sono rimasti attivi ancora dei piccoli focolai, ma la situazione incendi appare sotto controllo. L’eruzione ha provocato anche una vittima, un giovane escursionista di Milazzo, morto probabilmente per i gas caldi che lo hanno avvelenato. Drammatico il racconto di Thiago Takeuti, 25 anni, il ragazzo brasiliano rimasto vivo, che ieri era con Imbesi a Punta Corvi: “Stavamo salendo quando c’è stata la botta. Sembrava un bello spettacolo ma poi ci sono arrivate addosso pietre. Poi abbiamo respirato tutti quei fumi e Massimo ha iniziato a stare male. Ho cercato di aiutarlo ma non c’è stato nulla da fare. Chiamavamo i soccorsi, poi lui si è accasciato.”
3 luglio
PRIMO PIANO
Ue: Due risultati positivi per l’Italia.
L’Italia può finalmente respirare, ha schivato, infatti, il pericolo dell’apertura di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles: oggi, 3 luglio, il Collegio dei commissari europei ha deciso di non raccomandare al Consiglio Ue di aprire una procedura per deficit eccessivo riguardo al debito nei confronti dell’Italia. Lo ha annunciato il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, che durante una conferenza stampa ha detto: “Grazie all’insieme delle misure adottate dal governo, l’Italia rispetterebbe complessivamente le regole del Patto nel 2019 sullo sforzo strutturale. La procedura non è più giustificata.” Ha poi spiegato: “Avevamo posto tre condizioni: dovevamo compensare lo scarto per il 2018, quello del 2019 da 0,3 e ottenere garanzie sul bilancio 2020. Il governo ha approvato un pacchetto che risponde alle nostre tre condizioni.” La commissione Ue aveva ricevuto ieri notte da parte del premier Conte e del ministro dell’economia Tria la lettera sui conti 2020, in cui l’Italia offre l’impegno a un miglioramento strutturale del deficit nel 2020, compatibile con le regole del patto di stabilità. Sempre il commissario Moscovici ha assicurato “un monitoraggio attento, stretto sull’attuazione del bilancio nel 2019, nella seconda parte dell’anno, e una rigorosa, estremamente precisa valutazione del progetto di legge di bilancio 2020”, per il quale c’è l’impegno italiano a conformarsi al patto di stabilità. Un’altra buona notizia è arrivata poi per l’Italia: l’europarlamentare dem David Sassoli, designato nella notte candidato ufficiale dei socialdemocratici e sostenuto anche dal Ppe, è stato eletto presidente del Parlamento europeo alla seconda votazione con 345 voti su 667, cioè la maggioranza assoluta. David Maria Sassoli, nato a Firenze il 30 maggio 1956, è un giornalista e conduttore televisivo italiano, che è stato vicedirettore del TG1 dal 2006 al 2009. Eletto parlamentare europeo per il Partito Democratico nella legislatura 2009-2014, è stato scelto come capo della delegazione PD all’interno dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Riconfermato alle Europee del 2014 e del 2019, è stato eletto vicepresidente del Parlamento europeo il 18 gennaio 2014, carica che ha ricoperto fino ad oggi, quando è stato eletto presidente del Parlamento europeo. Nel suo primo discorso da presidente, Sassoli ha sottolineato la necessità di rivedere gli accordi di Dublino sui flussi migratori: “Signori del Consiglio Europeo, questo Parlamento crede che sia arrivato il momento di discutere la riforma del Regolamento di Dublino che quest’Aula, a stragrande maggioranza, ha proposto nella scorsa legislatura.” Ha poi ribadito l’importanza dell’istituzione comunitaria: “L’Unione europea non è un incidente della Storia, siamo i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia. Il nazionalismo ideologico produce virus.”
30 giugno
DALLA STORIA
Czesław Miłosz
“A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti”. (Motivazione del Premio Nobel per la letteratura assegnato al poeta, scrittore nel 1980)
“Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czesław Miłosz è uno dei grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande”, scriveva Iosif Brodskij, anche lui polacco, come Milosz, e Premio Nobel per la Letteratura nel 1987. Milosz ricevette il prestigioso riconoscimento nel 1980 e molti lettori in tutto il mondo cominciarono a scoprire l’opera complessa e intensa di questo scrittore, che da anni si trovava nella paradossale condizione di essere circondato da persone che non leggevano la sua lingua, mentre i suoi libri erano proibiti a coloro che la leggevano. Nato in Lituania il 30 giugno 1911, esule dalla Polonia sin dal 1951, Milosz “ha ricevuto quella che si potrebbe definire l’educazione standard dei paesi dell’Europa orientale, che ha incluso, fra l’altro, l’esperienza dell’ Olocausto, già da lui profetizzata nelle liriche della seconda metà degli anni Trenta”. E “la sua terra, dopo essere stata devastata fisicamente, gli venne sottratta e distrutta spiritualmente” (Brodskij). Milosz poeta, ma anche saggista e traduttore, nel 1953 pubblicò “la mente prigioniera”, una denuncia della passività degli intellettuali polacchi, ma anche dei francesi marxisti conosciuti a Parigi di fronte al totalitarismo staliniano; nel 1977 “La terra di Ulro”, riflessione sulla poesia e sull’attività dello scrittore; nel 1998 “Il cagnolino lungo la strada”, autobiografia con aforismi e poesie. Milosz era una voce contro i totalitarismi, si dichiarava amico di antifascisti come Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone e i suoi versi vennero trascritti nelle piazze dagli operai di Solidarnosc per onorare i lavoratori uccisi dal regime comunista nel 1981. Contemporaneamente insegnava poesia in California e scriveva i suoi versi ispirandosi a Simone Weil, Selma Lagerlof, William Blake, Emanuel Swedenborg. Tornato in patria dopo la caduta del regime morì a Cracovia il 14 agosto 2004, all’età di 93 anni.
Mary Titton
Il Senso
Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie
E protesta, chiama, grida.
(1934)
28 giugno
PRIMO PIANO
Reggio Emilia: Lo scandalo agghiacciante dei bambini tolti ai genitori e dati in affido per denaro.
L’operazione “Angeli e Demoni” condotta dai carabinieri di Reggio Emilia ha portato alla scoperta di un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie e sottoposti per ore e ore a intensi “lavaggi del cervello”. Le indagini sono iniziate alla fine dell’estate del 2018 a seguito di una anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, che segnalavano reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. Nonostante venisse accertata la totale infondatezza di quanto segnalato, i servizi sociali coinvolti proseguivano nel percorso psicoterapeutico sui bimbi diagnosticando patologie post traumatiche a seguito di violenze da parte dei genitori. Questo serviva per toglere i minori alle famiglie naturali e affidarli alle cure del centro “Hansel e Gretel”, Onlus di Torino che lucrava, con la compiacenza dei dipendenti pubblici e delle famiglie affidatarie, sulle prestazioni terapeutiche. Secondo l’accusa, il tutto avveniva nella complicità totale tra i servizi sociali e la Onlus, che diveniva affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’Ente e dei relativi convegni e corsi di formazione, mentre alcuni dipendenti dell’Ente pubblico ottenevano incarichi di docenza retribuiti nell’ambito di master e corsi di formazione tenuti sempre dalla Onlus. Come è emerso dall’inchiesta, per ottenere questo scopo venivano usati metodi per manipolare la memoria e i racconti delle vittime e falsificare i documenti. False relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe rappresentanti i genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Il tutto per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito presso amici e conoscenti, anche titolari di sexy shop, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Ancora più sconvolgente è il fatto che dopo l’allontanamento dalle famiglie di origine, i minori sarebbero stati vittime di stupro all’interno delle famiglie affidatarie e delle comunità. Non solo: per anni i servizi sociali avrebbero omesso di consegnare ai bambini decine e decine di lettere e regali da parte dei genitori naturali, che sono stati invece rinvenuti e sequestrati dai carabinieri in un magazzino dove gli appartenenti ai Servizi Sociali indagati li avevano accatastati negli anni. Sono finiti agli arresti domiciliari un Sindaco, una responsabile del Servizio Sociale Integrato di una Unione di Comuni, una coordinatrice del medesimo servizio, una assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus. Per altri otto, dirigenti comunali, operatori socio-sanitari ed educatori, sono state disposte misure cautelari di natura interdittiva, costituite dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali. Infine altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento ad un minore sono state eseguite a carico di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Questo il commento del procuratore capo di Reggio Emilia, Marco Mescolini: “Mi sono occupato di fatti molto provanti di ‘Ndrangheta per dieci anni, ma quest’inchiesta è umanamente devastante. Per la velocità con cui tutto è emerso, restituisce un quadro assai allarmante.”
27 giugno
PRIMO PIANO
Strage di Ustica: 39 anni senza verità.
(Aereo precipitato. Museo della Memoria, Ustica)
27 giugno 1980: un aereo DC-9 dell’Itavia, volo IH870, decollato alle 20:08 dall’Aeroporto di Bologna e diretto all’Aeroporto di Palermo, scompare misteriosamente nei cieli tra Ponza e Ustica. Nessun superstite tra le 81 persone a bordo, 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio. L’aereo si squarciò in volo all’improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamato posizione Condor. Quella sera molti radar di controllo del traffico aereo, tra i quali quello di Ciampino e quello di Poggio Ballone in provincia di Grosseto, seguono il percorso del DC9. Il primo registra uno spostamento di rotta e un successivo riallineamento. Contemporaneamente due piloti militari Ivo Nutarelli e Mario Naldini, in volo con un Phantom F4 sulla Toscana, lanciano, per due volte, un segnale di allarme generale: hanno notato qualcosa di insolito nel cielo, eppure al DC-9 non arriva nessuna comunicazione ufficiale. Alle cinque della mattina del giorno seguente l’aereo viene dato ufficialmente per disperso. Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell’alba, un elicottero di soccorso individua, ad alcune decine di miglia a nord di Ustica, alcuni detriti. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell’Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Nei 5 giorni successivi si recupereranno solo i pezzi dell’aereo rimasti a galla e i corpi di 39 persone su 81. Il relitto verrà riportato in superficie solamente diversi anni dopo, in due distinte operazioni di recupero, nel 1987 e nel 1991. Il DC-9 verrà ricostruito, per circa l’80% della superficie esterna, in un hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare, presso Roma. La Procura di Palermo apre subito un’inchiesta e il Ministro dei trasporti, Rino Formica, nomina una Commissione d’Inchiesta parlamentare. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono stati, però, ancora del tutto chiariti. Esistono, poi, una quindicina di morti sospette legate alla strage, tra cui molti “suicidi in ginocchio”. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza, emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani e confermata il 28 gennaio 2013 dalla Corte di Cassazione, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100milioni di euro in favore di 42 familiari delle vittime della Strage per non aver fatto abbastanza per prevenire il disastro e per aver ostacolato l’accertamento dei fatti. Secondo le conclusioni del giudice di Palermo, infatti, il DC-9 Itavia cadde non per un’esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. Inoltre, secondo la sentenza, vi sono responsabilità e complicità di soggetti dell’Aeronautica Militare Italiana che impedirono l’accertamento dei fatti attraverso una innumerevole serie di atti illegali commessi successivamente al disastro. Dopo 39 anni i familiari delle 81 vittime chiedono e attendono ancora di sapere cosa successe quella notte nel cielo di Ustica, quali Paesi erano coinvolti in azioni di guerra, chi sganciò il missile che colpì e distrusse il DC9 dell’Itavia. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una dichiarazione, nell’anniversario della strage, ha parlato di “ tragedia indelebile nella memoria e nella coscienza della nostra comunità nazionale” e ha confermato l’impegno per la ricostruzione univoca della vicenda.
DALLA STORIA
“La corazzata Potemkin” non è una “cagata pazzesca”.
Il 27 giugno 1905, al largo di Odessa, i marinai russi a bordo della corazzata Potemkin si ammutinano per protestare contro le carenti condizioni igieniche e alimentari: il primo ufficiale obbligava l’equipaggio a mangiare carne infestata dai vermi.
L’episodio non sarebbe così conosciuto se non fosse per Ejzenstejn, il geniale regista russo che diresse il film “La corazzata Potemkin” nel 1925 per celebrare la rivoluzione d’ottobre del 1917 e, in Italia, per Paolo Villaggio, il noto attore-comico che nel personaggio di Fantozzi, nel film “Il secondo tragico Fantozzi”, obbligato insieme ai colleghi a “terrificanti visioni dei classici del cinema”, dice che per lui “La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, con successivo scroscio liberatorio di applausi di approvazione da parte di tutti gli impiegati presenti costretti per anni a vedere e rivedere il film. Peraltro Potemkin diventa Kotiomkin e Ejzenstejn diventa Einstein. Il commento fantozziano ha automaticamente condizionato negativamente tutti coloro che non hanno mai visto il film per intero e dissuaso coloro che forse l’avrebbero voluto vedere circa la sua reale importanza, dal punto di vista cinematografico, tanto da essere considerato “una delle pietre miliari della storia del cinema”. Il film muto e in bianco e nero è famoso per il suo uso di un montaggio serrato e fatto per colpire con certi dettagli lo spettatore, in gergo i “cine-pugni”. L’esperto di cinema, redattore capo del settore del quotidiano francese “Le Monde”, ne “I Grandi Capolavori del Cinema”, Ed. Atlante così commenta il film e l’arte magistrale di Ejzenstejn: “La corazzata Potemkin: che film! L’opera seconda di Sergej Ejzenstejn sarebbe diventata non solo un punto di conflitto ideologico tra est ed ovest, tra sinistra e destra, ma un must per ogni amante del cinema sulla faccia della terra. Decenni di censura e di supporto militante, infinite parole per analizzare la sua struttura, il suo simbolismo, le sue fonti, i suoi effetti e migliaia di citazioni visive fanno sì che sia difficile cogliere la storia che sta dietro al film. La ricostruzione storica de “La corazzata Potemkim” potrebbe non essere del tutto corretta, ma la sua leggendaria visione dell’oppressione e della ribellione, dell’azione individuale e collettiva, e la sua ambizione artistica di lavorare contemporaneamente con corpi, luce, oggetti comuni, simboli, volti, movimenti e forme geometriche danno forma a un vocabolario unico. Da vero artista del cinema, Ejzenstejn elabora un mito magnifico e commovente. La sensibilità estetica del regista possedeva anche un valore politico: il “cambiamento del mondo attraverso la coscienza degli uomini”, ovvero la rivoluzione. Senza la precisa consapevolezza di ciò che tali mutamenti sarebbero diventati alla fine, qui soffia ancora il vento di un’avventura epica. In qualsiasi modo si scelga di chiamarla, quest’avventura è l’unico impulso che guida la gente di Odessa verso la libertà, i marinai della Potemkin a combattere contro la fame e l’umiliazione, e lo stesso Ejzenstein a inventare nuove forme cinematografiche. Il film è visto troppo spesso in forma ridotta, o sulla base delle sue scene più famose. Può essere una vera sorpresa scoprire quanto sia potente vederlo nella sua versione integrale invece di trattarlo come un portagioie inestimabile da cui trarre un pezzo a seconda delle occasioni. Un rinnovato e innocente approccio al film restituirà un senso reale a quelle icone che sono diventate familiari a tutti noi: la carrozzina sulla scalinata,
il volto del marinaio morto sotto la tenda sul molo, i vermi nella carne, gli stivali di pelle, le pistole puntate contro corpi e volti, la cecità del potere politico, militare e religioso. Poi, prima che tutto diventi una lettura ideologica, il leone di pietra si trasforma in animale in carne e ossa per ruggire con rabbia e desiderio di vita trasformandosi nella metafora del film. L’alta e ambiziosa idea di cinema di cui si fa portatore lo sottrae alla sua condizione monumentale per farsi ritrovare ancora fresco e vitale da chiunque lo guardi per la prima volta”.
(Il regista Sergej Michajlovic Ejzenstejn)
Mary Titton
26 giugno
DALLA STORIA
… Quando a Napoli la Repubblica, nel giugno del 1799, fu rovesciata e la Monarchia restaurata …
Ci sono uomini disposti a morire per i diritti di tutti. Non sono molti, per questo sono considerati uomini speciali il cui valore umano è senz’altro superiore alla moltitudine. Col termine “uomini”, che include l’umanità intera rivelando anche nel linguaggio la disuguaglianza di genere, difficilmente, nella storia si fa riferimento alle donne, che escluse dalla scena politica e sociale, hanno rivolto principalmente il loro coraggio, la forza, l’intelligenza nel chiuso delle pareti domestiche. C’è una donna passata alla storia per avere rivendicato, attraverso la sua azione e la sua cultura, condizioni di vita migliori per il popolo napoletano e per essersi battuta in difesa della libertà sfidando la crudeltà di un Governo vessatorio e dispotico: Lenor da Fonseca Pimental, nata marchesa e morta da rivoluzionaria sul patibolo di piazza Mercato a Napoli. Lenòr, in italiano Eleonora, di famiglia portoghese, originaria di Lisbona ma nata a Roma nel 1752, è stata molte cose: fanciulla prodigio, poetessa, scienziata, giornalista, protagonista nella vita politica di fine XVIII secolo e una delle figure più rilevanti della breve esperienza della Repubblica Napoletana del 1799. Un romanzo, “Il resto di niente”, di Enzo Striano pubblicato quasi clandestinamente nel 1986 da un piccolo editore napoletano e rimasto per anni un oggetto di culto noto a pochi, oggi considerato tra i migliori del Novecento, narra la breve e fulgida vita della nobile portoghese Lenòr e dell’effimera parabola della Repubblica Napoletana. La sua lettura è “come aprire le porte di un mondo. Subito si è travolti dalla cupa vitalità della capitale del Sud, colta in un momento di trapasso, con le sue abissali contraddizioni: la raffinata corte borbonica e la plebe vulcanica dei vicoli, il fervore delle utopie giacobine e il fanatismo religioso. Da questo sfondo si erge vivida la figura della protagonista, anch’essa divisa fra un’esistenza inutile di ricevimenti e baciamano e la scoperta che ci sono idee per cui vale davvero la pena di vivere e di morire. In nome del suo sogno di libertà, Lenòr rinnega coraggiosamente il destino di dama di corte e combatte accanto agli eroi della rivoluzione. Poi tutto accade in un attimo: il sogno si realizza, viene soffocato e quasi dimenticato. Di tanto entusiasmo, di tanti ideali, non rimane più niente, “il resto di niente”, come si dice a Napoli”. Invece resta l’esempio commovente di una donna coraggiosa che seppe, in un mondo dominato dagli uomini, confrontarsi con loro sul piano culturale e su quello dell’azione, condividendone le idee di uguaglianza, giustizia e libertà partecipando alla formazione del Comitato centrale che favorì l’entrata dei francesi a Napoli.
Divenne direttore del periodico bisettimanale il “Monitore napoletano” nel tentativo di propagandare, verso i meno colti, gli ideali repubblicani. Propose di scrivere gli articoli in dialetto perché, in maggioranza, il popolo napoletano non conosceva la lingua italiana. Pur essendo, ovviamente, giacobina non esitò a scontrarsi con i francesi in occasione di comportamenti men che corretti, conscia della responsabilità che gli intellettuali si erano assunti con l’istituzione della repubblica. Lo stesso popolo napoletano che, fedele alla monarchia “La plebe diffida dei patrioti perché non gl’intende…”, diceva Lenòr, si contrapponeva all’esperienza della Repubblica Napoletana e diffondeva dopo la sua morte una satira che recitava: “A signora’ onna Lionora / che cantava ‘ncopp’ o triato / mo abballa mmiez’ O mercato / Viva ‘o papa santo / ch’ha mannato ‘e cannuncine / pe’ caccià li giacubine / Viva ‘a forca ‘e Mastu Donato! / Sant’ Antonio sia priato”. I suoi tentativi di rendere popolare il nuovo regime ebbero scarso successo; l’unico effetto palese fu quello di acuire il malanimo dei Borbone nei suoi confronti e di attirarle addosso la loro vendetta quando la Repubblica, nel giugno del 1799, fu rovesciata e la Monarchia restaurata. “Lenòr che si infervorava leggendo la poesia del Metastasio ormai settantaquattrenne, con il quale aveva avuto uno scambio epistolare dal 1770 al 1776, di cui restano dodici lettere conservate nella corrispondenza del poeta. Lo stesso Voltaire, anche lui corrispondente con Lenor, le dedicherà alcuni versi databili intorno al 1775: “Beau rossignol de la belle Italie … / Auprès de vous à Naples il va se rendre / S’il peut vous voir, s’il peut vous entendre / Il réprendera tout ce qu’il a perdu”. (Diego Davide). Lenòr intellettualmente precoce e molto vivace era capace di leggere e scrivere in latino e greco, si dedicò allo studio delle lettere e si cimentò nella composizione di versi (sonetti, cantate, epitalami). Era inoltre in grado di parlare diverse lingue moderne e, ancor giovane, fu ammessa all’Accademia dei Filaleti, ove assunse il nome di “Epolnifenora Olcesamante (anagramma del suo vero nome) e all’Accademia dell’Arcadia, con il nome di “Altidora Esperetusa”. Si dedicò in seguito allo studio delle discipline storiche, giuridiche ed economiche. Fin dall’adolescenza partecipò ai salotti di Gaetano Filangeri frequentati dagli intellettuali del tempo. Scrisse un testo di argomento finanziario e tradusse dal latino all’italiano, commentandola, la dissertazione dell’avvocato napoletano Nicola Caravita sui pretesi diritti dello Stato pontificio sul regno di Napoli. Per i suoi meriti letterari venne ricevuta a Corte e le fu concesso un sussidio come bibliotecaria della regina, ruolo che occuperà per molti anni. Nel febbraio 1778 il padre la diede in sposa, con una cospicua dote, al quarantaquattrenne Pasquale Tria de Solis, tenente dell’esercito napoletano. Nell’ottobre dello stesso anno nacque un figlio, Francesco, che morì dopo otto mesi; resterà l’unico figlio da lei avuto anche a causa dei maltrattamenti subiti dal marito che le causeranno due aborti. Per il figlio scrisse cinque sonetti pervasi di disperato amore materno. Dopo sette anni, il 26 giugno 1785, aiutata dal padre ottenne la separazione dal marito. Il ritrovamento degli atti della separazione, attualmente conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, ci consentono di apprendere maggiori dettagli sulla sua drammatica esperienza coniugale: “passai a marito” racconta Eleonora “pensando, che avrei avuto l’affetto, se non l’amore che tanto spesso mi ha sfuggita … In quella casa avvertii subito le torbide maniere inurbane di mio marito. Era un uomo con le mani bucate e malgrado la dote assegnatami rifiutava di pagare financo lo spillatico, pattuito nel contratto matrimoniale”. (Diego Davide). E prosegue raccontandone la violenza. All’arrivo della flotta francese a Napoli, nel 1792 per il riconoscimento della neonata repubblica francese, Lenor è tra gli ospiti dell’ammiraglio Treville insieme ad altri intellettuali. È probabile che l’attenzione poliziesca sulla de Fonseca si sia appuntata proprio a seguito di tale frequentazione ma, di certo, già nel 1794, il suo nome risulta iscritto tra i “rei di Stato” per un tentativo di rivolta giacobina interrotta con la condanna a morte dei colpevoli. Infine Lenor fu arrestata, incarcerata a lungo senza le più elementari condizioni igieniche ed infine condannata a morte. Venne impiccata, a 47 anni, insieme a moltissimi altri patrioti. Il meridionalista Giustino Fortunato ricorda così i giustiziati della Repubblica Napoletana: “Parlo di quella vera ecatombe, che stupì il mondo civile e rese attonita e dolente tutta l’Italia: l’ecatombe de’ giustiziati nella sola città di Napoli dal giugno 1799 al settembre 1800 per decreto della giunta Militare e della Giunta di Stato. Il mondo, e l’Italia specialmente, sa i nomi e l’eroismo di gran parte di quegli uomini, sente ancor oggi tutto l’orrore di quelle stragi, conosce di quanto e di quale sangue d’imbevve allora quella piazza del mercato, in cui al giovinetto Corradino fu mozzo il capo il 29 ottobre del 1268, e il povero Masaniello tradito e crivellato di palle il 16 luglio del 1647; ma purtroppo, ignora ancora tutti i nomi di quei primi martiri della libertà napoletana!”. Sul patibolo le ultime parole che Lenor pronunciò in dignitosa compostezza furono una citazione virgiliana: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”: Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo.
25 giugno
PRIMO PIANO
Mondiali femminili: azzurre ai quarti.
Allo Stade de la Mosson di Montpellier l’Italia ha vinto 2-0 sulla Cina grazie al gol di Valentina Giacinti nel primo tempo e di Aurora Galli, partita dalla panchina, nella ripresa. Così per la seconda volta nella sua storia, la nazionale femminile vola ai quarti: l’ultima fu nel 1991. La partita è stata difficile e molto combattuta, le azzurre sono state perfette in difesa nel concedere pochissimo, nonostante un po’ di affanno in qualche situazione, e fortissime in attacco quando c’è stata la possibilità di affondare il colpo. “Oggi non c’è stato un bel gioco, ma nel calcio non c’è solo quello, ci sono tanti altri aspetti. Le ragazze hanno dato tutto, si sono aiutate nei momenti di difficoltà. Siamo state ciniche.” ha detto il ct Milena Bertolini ai microfoni di Raisport, aggiungendo: “Ci siamo fatte un regalo bellissimo. Raggiungere un quarto è una soddisfazione enorme, siamo contente, stiamo facendo grandi cose … Abbiamo bisogno del calore degli italiani, più si va avanti e più il livello è altissimo, può aiutarci a coprire il gap che abbiamo.” Il primo gol azzurro è arrivato al 15°: Valentina Giacinti sfrutta bene l’errore dell’esterno sinistro cinese sulla fascia destra e serve Bonansea davanti all’area di rigore avversaria. La juventina trova Bartoli sulla sinistra e, sull’allungo della giallorossa, Giacinti segna alle spalle di Peng. Al 25° primo brivido per l’Italia: contatto tra Gama e Wang Shuang nell’area di rigore azzurra, il Var chiama un check, ma l’intervento è considerato regolare. La Cina comincia a premere e l’ltalia soffre. La ripresa si apre con un altro tono. Le azzurre premono e al 49° Aurora Galli raccoglie un passaggio di Guagni da fuori area e piazza la palla all’angolino della porta di una non impeccabile Peng. Le cinesi tentano di sfruttare la propria velocità e al 67° provano un’azione combinata tra l’appena entrata Yang Li e Wang Shuang, ma è ancora la difesa azzurra ad avere la meglio. Al 71° esce Barbara Bonansea esausta ed entra Martina Rosucci. Rischio per l’Italia al 72° con Galli e Rosucci che pasticciano dando alle cinesi l’occasione di penetrare, ma è proprio Rosucci che recupera in velocità e strappa il pallone all’avversaria nell’area piccola. Al 77° ancora nell’area piccola grande intervento di Linari in copertura: controlla Li e costringe la cinese al fallo. Nel finale la Cina tenta il massimo sforzo, ma la stanchezza si fa sentire anche per le asiatiche che premono, ma mancano di lucidità. Arriva finalmente il fischio finale e per le azzurre il sogno continua nei quarti che l’Italia giocherà sabato a Valenciennes contro l’Olanda, che ha battuto in serata il Giappone 2-1 nell’ultimo ottavo in programma.
24 giugno
PRIMO PIANO
Olimpiadi 2026: I Giochi invernali a Milano e Cortina.
Il Comitato olimpico internazionale ha assegnato all’Italia i Giochi Invernali del 2026, la candidatura italiana di Milano-Cortina è stata preferita a quella svedese di Stoccolma-Are. L’Italia con lo slogan We dream together ha ricevuto 47 voti contro i 34 della Svezia e tornerà quindi ad ospitare i Giochi invernali per la terza volta, vent’anni dopo Torino 2006 e 70 anni dopo l’edizione di Cortina 1956. Girati e montati benissimo, i due video italiani hanno battutoto quello, molto didascalico, proposto dagli svedesi. A Losanna, per sostenere la candidatura di Milano-Cortina e realizzare “il sogno di tutta Italia”, c’erano il premier Conte, il ministro Giorgetti, il numero 1 e il segretario Generale del Coni, Malagò e Monati, quello del comitato paralimpico Pancalli con i sindaci di Milano e Cortina, i governatori di Lombardia e Veneto e alcuni campioni olimpici; pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto attraverso un videomessaggio, in cui dice che “l’Italia è pronta ad accogliere, facendoli sentire a casa propria, tutti gli atleti …” Al momento della proclamazione da parte del presidente del Cio Thomas Bach, dai membri della delegazione italiana è partito il coro “Italia, Italia”. I Giochi si svolgeranno tra Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige. La cerimonia di apertura si terrà a San Siro il 6 febbraio, mentre la cerimonia di chiusura è prevista all’Arena di Verona il 22 febbraio. ll presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che in mattinata era intervenuto davanti ai membri del Cio, ha appreso della vittoria italiana appena arrivato all’aeroporto di Ginevra e ha scritto su twitter: “Siamo orgogliosi di questo grande Risultato! ha vinto l’italia: un intero paese che ha lavorato unito e compatto con l’ambizione di realizzare e offrire al mondo un evento sportivo memorabile”. Per quanto riguarda le gare, il dossier vincente a Losanna ha assegnato il pattinaggio – in tutte le sue versioni – e l’hockey a Milano. A Cortina si svolgeranno invece le gare di sci alpino femminile, quelle di bob, slittino e skeleton, e il curling (nello Stadio Olimpico del Ghiaccio costruito per le Olimpiadi del 1956 che sarà ristrutturato). Lo sci alpino maschile sarà ospitato dalla pista Stelvio a Bormio, mentre Livigno sarà la sede delle gare di snowboard e freestyle. Ad Anterselva, in provincia di Bolzano, toccherà il biathlon, mentre in provincia di Trento saranno organizzate le gare di pattinaggio di velocità, sci di fondo e salto con gli sci. I villaggi olimpici da realizzare saranno tre: il principale e permanente a Milano nella zona dello scalo merci in disuso di Porta Romana, il secondo a Cortina d’Ampezzo nella frazione Fiames, mentre il terzo sarà costruito a Livigno e, dopo i Giochi, diventerà una sede della Protezione Civile. I Giochi 2026 puntano anche alla sostenibilità ambientale, con l’impegno di riciclare il 100% dei rifiuti urbani e l’80% degli imballaggi, il divieto di incarti e confezioni monouso per cibi e bevande nonché con la scelta di materiali per il mantenimento del ghiaccio con meno ammoniaca e l’utilizzo di pannelli solari per l’alimentazione degli impianti per la neve artificiale.
DALLA STORIA
Le apparizioni di Medjugorje tra fede e perplessità.
Il 24 giugno 1981 a Medugorje, cittadina dell’attuale Bosnia-Erzegovina, iniziò una serie di apparizioni e presunti fenomeni sovrannaturali tuttora in corso, oggetto d’indagine all’interno della Chiesa e di discussione fuori. Tutto comincia il pomeriggio del 24 giugno 1981: Ivanka Ivanković, allora quindicenne, e Mirjana Dragičević, sedicenne, stanno passeggiando ai piedi della collina del Podbrdo quando, alle quattro del pomeriggio, vedono una figura femminile su una piccola nube. Spaventate, le due ragazze fuggono e ritornano al villaggio. Poco dopo, verso le 18:30 decidono di tornare sulla collina accompagnate da Vicka Ivanković, cugina di Ivanka. Le tre ragazze vedono di nuovo la figura femminile con un bambino in braccio e la identificano subito con la Madonna. Il giorno dopo salgono nuovamente sulla collina accompagnate da Marja Pavlović, cugina di Mirjana, da Jakov Čolo, di 10 anni, e da Ivan Dragičević, di 16 anni. La Madonna sarebbe apparsa di nuovo all’intero gruppo e avrebbe avuto un breve dialogo con Ivanka in merito alla madre, scomparsa pochi mesi prima. Il 26 giugno il gruppo sale di nuovo sulla collina e ha di nuovo un breve dialogo con la Vergine, che invita i veggenti a pregare per la pace. La notizia delle apparizioni inizia a diffondersi, suscitando l’irritazione della polizia jugoslava. Il 27 giugno i ragazzi vengono arrestati e sottoposti a esame psichiatrico. Vengono dichiarati sani di mente e rilasciati. Al tramonto avrebbero avuto un nuovo dialogo con la Madonna. Sul luogo preciso delle apparizioni la gente del paese pone una pietra segnata da una croce bianca. Il 28 giugno si contano almeno diecimila persone che assistono all’apparizione serale della Vergine. Il 29 giugno i veggenti sono nuovamente prelevati dalla polizia jugoslava e condotti per esami all’ospedale psichiatrico di Mostar. La perizia conferma la loro sanità mentale e vengono rilasciati in serata; tornati sulla collina assistono a una nuova apparizione. Il 30 giugno due collaboratrici dei servizi segreti convincono i ragazzi ad allontanarsi da Medjugorje, mentre la collina viene chiusa dalla polizia. In serata, all’ora dell’apparizione, i veggenti sono su un’automobile fra Ljubuski e Citluk e vedono la Vergine venire loro incontro sulla strada. Il 1 luglio i veggenti sono nuovamente portati via dalla polizia, l’apparizione avviene sul furgone della polizia dove sono tenuti prigionieri. Il 2 luglio, per sfuggire alla polizia, i ragazzi si nascondono nella canonica dei francescani e qui hanno una nuova apparizione della Madonna. A metà luglio la notizia delle presunte apparizioni appare su un giornale cattolico di Zagabria, dando così rilevanza internazionale agli eventi. Iniziano a recarsi a Medjugorje anche i primi pellegrini dall’estero. Le autorità jugoslave ordinano nuovamente la chiusura del Podbro, mentre il 12 agosto viene arrestato padre Jozo Zovko, capo della comunità francescana di Medjugorje, ritenuto dalla polizia il reale mandante delle apparizioni. Padre Jozo verrà condannato a otto anni per il reato di “attentato alla sicurezza e all’unità della patria”. Intanto Medjugorje viene visitata da un numero sempre crescente di visitatori, curiosi e pellegrini che affermano di vedere segni e figure luminose nel cielo. Diciassette mesi dopo l’inizio delle visioni, padre Jozo viene rilasciato e le autorità decidono di non ostacolare più il flusso dei pellegrini o le attività dei veggenti. Tali eventi hanno trasformato per sempre questi ragazzi, che sono stati sottoposti a nuerose indagini psicofisiche da parte di comissioni mediche specialistiche e, ormai adulti, vivono in diverse parti del mondo continuando a ricevere i messaggi. Fra il 1984 e il 1985 la Madonna avrebbe rivelato ai veggenti dieci segreti che, come quelli di Fatima, conterebbero rivelazioni su avvenimenti futuri. Il 25 giugno 1985, la veggente Mirjana ha affermato di aver ricevuto dalla Madonna una pergamena contenente i dieci segreti. Tale pergamena, a detta della veggente, sarebbe composta di uno speciale materiale sul quale ognuno legge una cosa diversa, ad eccezione dei tre veggenti che vi leggono i segreti. I dieci segreti, sempre secondo quanto affermato dai veggenti, saranno resi noti al mondo intero tre giorni prima che accadano dal francescano padre Petar Ljubičić, il quale sarà informato dieci giorni prima dalla stessa Mirjana. Uno dei segreti sarà un segno permanente e visibile sulla collina delle apparazioni. A partire dal 1º marzo 1984 i veggenti hanno iniziato a diffondere messaggi per l’umanità da parte della Vergine Maria. In quella data, infatti, la Madonna apparve alla veggente Marja affidando a lei e alla parrocchia di Medjugorje questo compito. Inizialmente i messaggi venivano rivelati ogni giovedì, poi a partire dal 1987 ogni 25 del mese. Un messaggio viene affidato anche alla veggente Miriana alla quale la Madonna appare, invece, il secondo giorno di ogni mese. Secondo i veggenti, nelle presunte apparizioni i fedeli sarebbero invitati alla conversione, alla preghiera e alla pace. Il messaggio principale è la pace con Dio, con gli uomini, ma anche interiore da raggiungere attraverso cinque strumenti (“le cinque pietre” paragonate ai ciottoli scelti da Davide, armato solo di fionda e bastone, per abbattere Golia): la preghiera, il digiuno il mercoledì e il venerdì, la lettura quotidiana della Bibbia, la Confessione, l’Eucaristia, preferibilmente tutti i giorni. A 36 anni dalla prima apparizione, con due milioni di fedeli che arrivano ogni anno e gli oltre quarantasettemila messaggi, alcuni controversi, che la Madonna avrebbe inviato e continua a inviare, il fenomeno continua a suscitare perplessità sui sei «veggenti» e a interrogare per l’intenso clima di preghiera che si respira in quel luogo, oltre che per le seicento vocazioni alla vita consacrata germogliate.
Ora il dossier Medjugorje è nelle mani di papa Francesco, che ha più volte espresso giudizi fortemente critici su Medugorje e il 15 maggio 2017, rendendo note le conclusioni della commissione Ruini, ha affermato di essere più “cattivo” rispetto alle conclusioni stesse: “Preferisco la Madonna madre, nostra madre, e non la Madonna capufficio telegrafico che tutti i giorni invia un messaggio a tale ora … questa non è la mamma di Gesù. E queste presunte apparizioni non hanno tanto valore. E questo lo dico come opinione personale.”
23 giugno
PRIMO PIANO
Roma: Terremoto di magnitudo 3.7.
Alle 22:43 di stasera 23 giugno, una forte scossa di magnitudo Mw 3.6 (ML 3.7), della durata di circa 40 secondi, è stata registrata a tre chilometri a Nord est di Colonna, a 9 km di profondità, nei pressi della capitale, ed è stata avvertita distintamente a Roma ed anche in alcune zone del litorale romano tra Ostia e Fiumicino. Tra i Comuni vicini all’epicentro San Cesareo, Gallicano nel Lazio, Zagarolo e Monte Compatri. L’area fu già interessata da scosse di magnitudo 3.5 nel luglio 2012 e 3.2 nel dicembre 2018: in entrambi i casi non si verificarono sequenze significative. Il momento in cui è avvenuto il terremoto è stato ripreso dalle telecamere dell’autostrada A24 in prossimità della barriera Roma EST e del GRA. Molto spavento a Roma: in alcuni quartieri della periferia est gli abitanti sono scesi in strada. squadre della Protezione civile regionale del Lazio e dei Comuni, in collegamento con la sala operativa regionale, hanno effettuato dei monitoraggi nei centri storici delle città dei Castelli romani, ma per fortuna non sono stati segnalati crolli o danni a persone. La zona dei Colli Albani, in cui è stato registrato il terremoto, è a pericolosità sismica medio-alta. “Famosa per i vulcani, questa zona ha una sua attività sismica frequente e storicamente non sono mai avvenuti terremoti con magnitudo elevatissime”, ha detto all’ANSA il sismologo Carlo Meletti, dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Il sisma più forte storicamente documentato risale al 1806, con una magnitudo stimata in 5.6, con danni abbastanza estesi alle località più vicine, come Rocca di Papa e Zagarolo.
22 giugno
PRIMO PIANO
Guerra in Yemen: stop di Londra alle forniture di armi all’Arabia Saudita.
Il governo britannico ha deciso, due giorni fa, di sospendere le forniture di armi all’Arabia Saudita e agli altri Paesi della coalizione coinvolta nella guerra nello Yemen, ha però precisato di non condividere il parere dei giudici e di voler fare ricorso a un terzo grado di giudizio contro la sentenza della Corte d’appello di Londra. I giudici hanno stabilito che “il processo decisionale messo in atto dal governo è errato, dal punto di vista del diritto”, perché il governo “non ha valutato in modo approfondito, se la coalizione a guida saudita abbia commesso violazioni del diritto internazionale, durante il conflitto in Yemen e non ha neppure provato a farlo”. In ogni caso, purtroppo, la decisione del tribunale non comporta l’immediata sospensione delle licenze già concesse. La sentenza è nata da un ricorso dei pacifisti di Campaign Against Arms Trade, che denunciavano come gli armamenti britannici, come quelli di altri Paesi occidentali esportati in Arabia Saudita, fossero stati in effetti usati da Ryad per bombardamenti sanguinosi e indiscriminati sullo Yemen, anche contro civili, denuncia condivisa alla Camera dall’opposizione laburista. Secondo la Ong Armed Conflict Location & Event Data Project sono almeno 91.600 le persone che hanno perso la vita in Yemen da quando, nel marzo del 2015, è iniziato l’intervento militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro i miliziani sciiti Houthi. La coalizione, secondo la Ong, è responsabile della morte di oltre ottomila civili su un totale di 11.700 vittime. Solo quest’anno sono state uccise 11.900 persone, senza contare chi ha perso la vita per il disastro umanitario causato dal conflitto e, in particolare, per la fame. Lucy Claridge, direttrice del programma “Contenziosi strategici” di Amnesty International, ha così commentato: “Questa sentenza è una rara buona notizia per la popolazione dello Yemen. In quattro anni di guerra devastante, gli indiscriminati attacchi aerei della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita hanno ucciso migliaia di civili e abbattuto case, scuole e ospedali.” Altri stati europei, tra cui Germania, Norvegia, Finlandia e Danimarca, hanno bloccato le vendite all’indomani della morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Instanbul il 2 ottobre dello scorso anno da agenti del governo di Ryad. Anche il Senato Usa, controllato dai repubblicani, ha votato lo stop alla vendita di armi a Ryad. E l’Italia? In Italia contro l’esportazione delle armi verso l’Arabia Saudita si sono battuti i portuali di Genova, che hanno impedito che navi saudite caricassero forniture militari, in particolare le bombe della Rwm, nel porto della città. Diverse Ong continuano a chiedere al governo di adottare iniziative per sospendere immediatamente ogni esportazione di armamenti prodotti in Italia. Eppure in Italia il transito dal nostro Paese di armi destinati a Paesi in guerra è vietato dalla legge 185 del 1990, che “in trent’anni è stata depotenziata e sistematicamente violata”, secondo quanto ha affermato il senatore Gianluca Ferrara (M5s), che ha depositato un disegno di legge, già sottoscritto da 65 parlamentari, che, spiega, “prevede più divieti, più controlli, più poteri al Parlamento e una parziale e progressiva riconversione industriale da uso bellico a civile dell’azienda bellica sarda”. “Siamo contro la vendita di armi ai Sauditi, manca solo la formalizzazione della decisione”, ha detto il presidente del Consiglio, Antonio Conte, ma la formalizzazione finora non è arrivata.
DALLA STORIA
Gustavo Rol, un uomo diverso.
Gustavo Adolfo Rol è stato un uomo che ha suscitato la curiosità di tutti i più grandi potenti del mondo nell’epoca in cui è vissuto. Aveva straordinarie capacità, “possibilità” che egli sosteneva appartenere a tutti gli uomini, ma che i comuni mortali, attualmente, non sono in grado di cogliere. Era certamente un uomo diverso e per moltissimi “uno spirito che vibrava su piani superiori”. Per altri, non molti per la verità, per coloro che non avevano avuto modo di conoscerlo a fondo egli era un abilissimo prestigiatore in grado di produrre illusioni con tecniche di “prestidigitazione” (l’arte del prestigiatore) e in particolare di mentalismo (una forma di illusionismo). Lui si è sempre dichiarato semplicemente un ricercatore e sperimentatore dello spirito e precisava di possedere una “forza” che era scaturita senza che lui avesse fatto niente di particolare se non indagare le proprie profondità interiori; semmai a lui faceva piacere “incoraggiare gli uomini a guardare oltre l’apparenza e a stimolare in loro lo “spirito intelligente”. Rol nacque a Torino il 20 giugno 1903, in una famiglia benestante, il padre, Vittorio, noto avvocato, fu per quasi un ventennio, il direttore della sede di Torino della banca Commerciale Italiana. La madre, Martha Peruglia, era figlia del presidente del tribunale di Saluzzo. Gustavo fu il terzo di quattro fratelli e fino all’età di due anni non disse nemmeno una parola. “Si sbloccò solo davanti ad un’immagine raffigurante Napoleone a Sant’Elena e, al Generale francese, resterà strettamente legato per tutta la vita. Divenne infatti un collezionista di cimeli napoleonici; “Ancora ragazzo sapeva descrivere con minuzia di particolari lo svolgimento delle varie battaglie napoleoniche, dando l’impressione di avervi assistito personalmente”. Passò la sua infanzia tra Torino e San Secondo di Pinerolo, dove la famiglia possedeva una residenza. Da ragazzo ebbe inizialmente un carattere chiuso, ma in seguito si appassionò allo studio e alla musica imparando a suonare il pianoforte e il violino senza aver mai preso lezioni. Nel ‘23 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, dove si laureerà nel ‘33. Sia la scelta del corso universitario in legge, sia la carriera bancaria che intraprese nel 1925 avvengono per adeguamento alle tradizioni familiari. Tra il ‘25 e il ‘30 girò l’Europa in qualità di dipendente della Comit: Marsiglia, Parigi, Londra ed Edimburgo e proprio a Parigi, in un caffè, conobbe la norvegese Elna Resch-Knudsen, la ragazza che poi, dopo tre anni, diventerà sua moglie. Alla fine degli anni ’30, Rol acquistò un alloggio, sempre a Torino, in via Silvio Pellico, dove abiterà per tutta la vita. Nel ’27, a Parigi, scrive: “Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!”. Da questo momento attraversa una crisi esistenziale, fino al punto di ritirarsi in un convento. Aiutato dalla madre ritorna alla vita laica e inizia a compiere le proprie dimostrazioni diventando una delle persone più enigmatiche del ventesimo secolo. Nel corso della sua lunga vita, durata 91 anni, Rol venne in contatto con i più grandi personaggi del suo tempo: Einstein, Fermi, Fellini, De Gaulle, D’Annunzio, Mussolini, Reagan, Pio XII, Cocteau, Dalì, Agnelli, Einaudi, Kennedy e molti altri ancora. Il grande Dino Buzzati, che conobbe bene Rol, era colpito dalla sua vitalità straordinaria e gioiosa, lo descrisse così: “Insisto sulla serenità e l’allegrezza che emanano dalla sua persona. Qualcosa di benefico si irraggia sugli altri. È questa la caratteristica immancabile, almeno secondo la mia esperienza dei rari uomini, arrivati col superamento di se stessi, ad un alto livello spirituale e, di conseguenza, all’autentica bontà. …”. Federico Fellini ne dà questo ritratto: “Ciò che fa Rol è talmente meraviglioso che diventa normale; insomma, c’è un limite allo stupore. Infatti le cose che fa, lui le chiama giochi, nel momento in cui le vedi per tua fortuna non ti stupiscono, ma nel ricordo assumono una dimensione sconvolgente. Com’è Rol? A chi assomiglia? È un po’ arduo descriverlo. Ho visto un signore dai modi cortesi, l’eleganza sobria, potrebbe essere un preside di ginnasio di provincia, di quelli che qualche volta sanno anche scherzare con gli allievi e fingono piacevolmente di interessarsi ad argomenti quasi frivoli. Ha un comportamento garbato, impostato ad una civile discrezione, contraddetta talvolta da allegrezze più abbandonate e, allora parla con una forte venatura dialettale che esagera volutamente, come Macario e racconta volentieri barzellette. Credo che la ragione di questo comportamento sia nella sua costante e prevedibile preoccupazione di sdrammatizzare le attese, i timori, lo sgomento che si possono provare davanti ai suoi traumatizzanti prodigi di mago. Ma, nonostante tutta questa atmosfera di familiarità, di scherzo tra amici, nonostante questo suo sminuire, ignorare, buttarla sul ridere per far dimenticare, lui per primo, tutto ciò che sta accadendo, i suoi occhi, gli occhi di Rol non si possono guardare a lungo. Son occhi fermi e luminosi, gli occhi di una creatura che viene da un altro pianeta, gli occhi di un personaggio di un bel film di fantascienza. Quando si fanno “giochi” come i suoi, la tentazione dell’orgoglio, di una certa misteriosa onnipotenza, deve essere fortissima. Eppure Rol sa respingerla, si ridimensiona quotidianamente in una misura umana accettabile. Forse perché ha fede e crede in Dio. I suoi tentativi spesso disperati di stabilire un rapporto individuale con le forze terribili che lo abitano, di cercare di definire una qualche costruzione concettuale, ideologica, religiosa, che gli consenta di addomesticare in un parziale, tollerabile armistizio la tempestosa notte magnetica che lo invade, scontornando e cancellando le delimitazioni della sua personalità, hanno qualcosa di patetico ed eroico”. A Rol si attribuivano la capacità della “visione a distanza”: la lettura di libri chiusi, la visione di cose che si trovavano in un altro luogo o ciò che accadeva altrove. La possibilità di compiere “viaggi nel tempo”: escursioni nel passato e nel futuro. La “veggenza selettiva”: osservazione dell’aura energetica che circonda il corpo umano, utile all’identificazione di eventuali malattie. “La capacità di visione dell’interno del corpo umano” era in grado di agire dinamicamente sulla materia, poteva spostare a distanza oggetti di qualsiasi genere (telecinesi), o materializzarli e smaterializzarli (apporti/asporti), sapeva prevedere gli eventi futuri (precognizione) e conoscere il passato di una persona (chiaroveggenza), leggeva nel pensiero (telepatia), era in grado di guarire a distanza persone ammalate (tra i sistemi usati anche quello della pranoterapia) o trovarsi in due luoghi differenti nello stesso momento (bilocazione), poteva attraversare superfici solide (ad es. pareti) o farle attraversare da qualsiasi oggetto, così come poteva estendere o ridurre il proprio corpo fisico a piacimento. Un altro fenomeno particolare era “la pittura a distanza”, dove pennelli e spatole si libravano per aria da soli e dipingevano in pochi minuti quadri di pregevole fattura, con l’aiuto dello “spirito intelligente” di un pittore scomparso come ad esempio Picasso, Goya ecc. e altri fenomeni quali la levitazione, l’agilità, la traslazione, la glossolalia e l’azione post-mortem. Tuttavia Rol non aveva a che vedere con questioni mediatiche, le sue “possibilità” erano piuttosto vicine a ciò che avveniva in alcune pratiche egizie e sumero-babilonesi. Rol sosteneva in base alla sua esperienza che: “Con l’arresto di ogni attività fisica, la morte del corpo, l’anima si libera ma non interrompe la propria attività. Lo “spirito intelligente”, invece, rimane in essere e anche operante”. “Così, con un piede da questa parte e l’altro poggiato sull’infinito, mi sembra di essere un ponte gettato fra le due età”. Si interrogava sulla sua condizione: “L’amore è forse questo l’ultimo mezzo che mi è offerto per vivere tra gli uomini come uno di loro?”. “L’unico mio conforto, in tanta solitudine, è quello di poter utilizzare queste mie possibilità a titolo assolutamente gratuito per il bene del mio prossimo”. Intervistato da Roberto Gervasio, nel ’79, Rol disse: “Nei miei esperimenti è la psiche a far da “grondaia” allo spirito”. “Si studino pure a fondo le possibilità racchiuse nell’energia psichica degli uomini, ma per me quanto mi riguarda, ho concluso che allo stato attuale della conoscenza scientifica, i miei esperimenti non hanno alcun rapporto con la psiche. Essi, secondo me, debbono considerarsi una manifestazione dello spirito che è definito “intelligente”, per identificare in esso e quindi nell’Uomo, l’espressione più alta di tutta la Creazione”. Ho sempre protestato di non essere un sensitivo, un veggente, un medium, taumaturgo o altro del genere. È tutto un mondo al quale non appartengo”. “Certamente un rapporto tra spirito e materia esiste: la Scienza non lo conosce, io appena lo intuisco e lo posso dimostrare ma non come vorrei. Una collaborazione con la scienza io la invoco … Einstein credeva in Dio, non ne negava l’esistenza. Un giorno che discutevamo proprio di questo, lui alzò una mano, la frappose fra la lampada e il tavolo e mi disse: “Vedi? Quando la materia si manifesta, proietta un’ombra scura perché è materia. Dio è puro spirito e dunque quando si materializza non può manifestarsi se non attraverso la luce. La luce non è altro se non l’ombra di Dio”. “La scienza potrà analizzare lo Spirito nell’istante stesso in cui perverrà a identificarlo. Son certo che a tanto giungerà l’ansia dell’uomo”.
21 giugno
PRIMO PIANO
Mattarella al Csm: “Da oggi si volta pagina.”
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha presieduto il plenum straordinario del Consiglio Superiore della Magistratura e ha epresso “grande preoccupazione” dopo gli scandali rivelati dall’inchiesta di Perugia su favori e nomine, che hanno fortemente scosso l’ordine giudiziario e gravemente indignato l’opinione pubblica. Ha detto il Capo dello Stato: “Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile.” Ha stigmatizzato quindi il “coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato”, che “si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura. Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario, la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica.” Parole forti quelle di Mattarella che annuncia: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno, dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Ad altre istituzioni compete discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm. Viene annunciata una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario in cui il Parlamento e il Governo saranno impegnati.” Mattarella esprime dunque l’esigenza di “modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione”. Un’esigenza, quello del cambio delle regole interne al Csm, sulla quale sono tutti d’accordo: da Giuseppe Cascini di Area a Piercamillo Davigo di Autonomia e Indipendenza, che parla di “pericoloso carrierismo e caccia a medagliette”. Il cambio del sistema elettorale del Csm è in questo momento oggetto di studio d a parte dei tecnici del Ministero della Giustizia.
20 giugno
PRIMO PIANO
Regeni: rimosso lo striscione dal palazzo della Regione a Trieste.
Il manifesto giallo di Amnesty International con la scritta “Verità per Giulio Regeni”, il giovane ricercatore friulano torturato e ucciso a Il Cairo nel 2016, è stato rimosso ufficialmente dal palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia in piazza Unità d’Italia, per far spazio agli addobbi per il campionato calcistico europeo Under 21. Uefa e Figc prendono le distanze e scrivono in un comunicato: “Con riferimento alla notizia circa la sostituzione dello striscione per Giulio Regeni con alcuni striscioni Uefa Under-21 2019 sul Palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia a Trieste, Uefa e Figc precisano di essere estranee a tale decisione.” Il governatore del Friuli Venezia Giulia, il leghista Massimiliamo Fedriga, ha affermato che lo striscione non verrà più esposto, né a Trieste né in altre sedi della Regione, precisando: “Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno per non portare nell’agone politico la morte di un ragazzo. Evidentemente questa sensibilità non appartiene a tutti e ad ogni occasione non si perde tempo per alimentare polemiche.” Lo striscione era stato esposto nel 2016 personalmente dalla ex presidente della Regione, Debora Serracchiani (Pd), che ha dichiarato: “Proprio in queste ore l’atteggiamento del governo egiziano dovrebbe convincere a essere il più espliciti e uniti nell’affermare le richieste dell’Italia. Segnali in senso opposto sono preoccupanti, anche rispetto alla compattezza del governo verso l’Egitto, considerando il ruolo politico di Fedriga.” La scelta, del presidente Fedriga di rimuovere la scritta “Verità per Giulio Regeni” è apparsa a molti, anche esponenti politici, incomprensibile e degna di riprovazione, perché rappresentava un simbolo dell’impegno delle Istituzioni nella ricerca della verità sulla morte del giovane ricercatore in Egitto, Paese che finora, nonostante le ripetute richieste della magistratura italiana, non ha fornito gli elementi per l’identifcazione degli assassini. Lo striscione serviva a mantenere viva l’attenzione sul brutale omicidio del giovane e a stimolare la ricerca della verità, la sua rimozione appare, a dir poco, inopportuna.
19 giugno
PRIMO PIANO
Maturità 2019, tracce prima prova: Ungaretti e Sciascia per l’analisi del testo, ma anche Stajano, Dalla Chiesa e Bartali.
Questa mattina per oltre 500mila studenti hanno preso il via gli esami di maturità con la prima prova dell’esame di Stato, quella di Italiano che prevede sette tracce, divise in tre tipologie (A,B,C). Per la tipologia A gli studenti dovevano impegnarsi in un’analisi del testo della poesia “Risvegli” di Giuseppe Ungaretti, tratta da “L’Allegria”, dove il titolo si riferisce al risveglio della coscienza dopo lo smarrimento di fronte alle atrocità della guerra e il poeta con linguaggio ermetico e frammentato s’interroga su se stesso, “creatura atterrita”, su “quelle vite perse” di amici lontani e sul mistero di Dio. In alternativa potevano analizzare e interpretare un brano de “ Il giorno della civetta”, in cui Sciascia racconta la storia di alcuni omicidi commessi dalla mafia e della lotta del comandante dei Carabinieri Bellodi per scoprire la verità ed arrestare i colpevoli, mettendo in evidenza i comportamenti della mafia, fondati sull’illegalità e sull’omertà. Per quel che riguarda il testo argomentativo sono state proposte tre tracce: la prima parte da un testo tratto da Tomaso Montanari, “Istruzioni per il futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà”, sul valore del patrimonio culturale; la seconda propone un testo tratto da Steven Sloman – Philip Fernbach “L’illusione della conoscenza”; la terza è su “L’eredità del Novecento”, con un brano tratto dall’introduzione del giornalista e scrittore Corrado Stajano alla raccolta di saggi “La cultura italiana del Novecento”. Tra le tracce di attualità con cui i ragazzi si sono dovuti confrontare anche una dedicata a Gino Bartali, il campione di ciclismo nominato “giusto” tra le nazioni per aver salvato numerosi ebrei. L’altra traccia di attualità è dedicata ad una delle più drammatiche vicende del secolo: l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro ad opera della mafia. Il Ministero ha diffuso i dati sulle sette tracce proposte per la prima prova della Maturità. La traccia più gettonata è stata “L’illusione della conoscenza”, che verte sulla capacità dell’uomo di essere, allo stesso tempo, geniale e stolto, di arrivare alla fissione nucleare, ma anche di usare terrbili ordigni distruttivi come la bomba atomica; è stata svolta dal 30,8% dei ragazzi. A seguire, nella classifica del gradimento, la traccia sul Patrimonio culturale e la democrazia che verrà (20,1%), poi “Tra sport e storia” dedicata a Bartali (13,1%) e l’analisi del brano di Sciascia (11%), ultimi Ungaretti (8,5%) e Dalla Chiesa (8%). Domani la seconda pova che spaventa tanto i ragazzi.
Buon compleanno Francesco!
18 giugno
PRIMO PIANO
Non è mia consuetudine, nel rispetto delle diverse opinioni, intervenire su fatti che possono essere collegati alla stretta cronaca politica e alle conseguenti quanto immancabili polemiche che spesso ne derivano. Però questa vicenda del CSM è tale da non permettere nessuna distrazione, né tantomeno una reticente passiva indifferenza perché tende a minare in profondità il collante stesso su cui si basa l’unità nazionale del nostro Paese, quello per essere chiari dell’autonomia e dell’indipendenza dei poteri costituzionali, così come del rispetto a cui sono tenuti coloro che vengono chiamati alle più alte funzioni nei confronti di ogni cittadino e del popolo italiano nel suo insieme.
Francesco Malvasi
OLTRE L’ORDINARIA VERGOGNA.
Sabato mentre ero in treno ho avuto modo di leggere diversi dialoghi illuminanti dalle intercettazioni relative all’inchiesta in corso su alcuni esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura, deputati ed un ex ministro della Repubblica, questi ultimi entrambi del PD. Se quanto riportato sarà confermato (così come mi sembra più che probabile) ritengo che ci si trovi di fronte ad un caso devastante e senza precedenti. Non è soltanto la logica cinica e scellerata di lobby che mi ha colpito, ma soprattutto un linguaggio da trivio, da mafiosi, che non ha giustificazione alcuna. Di fatto in questi ultimi 25 anni il modo di parlare corrente, così come nel privato, si è fatto sempre più greve e volgare per tante ragioni che volendo potremmo utilmente discutere, ma qui si è toccato il fondo, un punto terribile di non ritorno. Ma davvero parlano così i nostri magistrati, gli esponenti delle istituzioni e della politica? Così con le espressioni dei grassatori e dei delinquenti. Altro che “onori al Presidente della Repubblica”, qui la Repubblica l’hanno infangata senza riguardi. Sono questi signori mi chiedo che dovrebbero giudicarci, che agiscono e parlano come i boss della peggiore criminalità organizzata? Quali garanzie, quale livello giuridico di diritto rimane in piedi dopo che una combriccola di traditori dello stato e del mandato ricevuto attenta in maniera così arrogante e proterva al cuore stesso della Repubblica Italiana? Palamara e i suoi sodali dovrebbero essere cacciati senza alcun indugio dalla Magistratura perché indegni di rappresentarla in nessuna funzione. L’onorevole Cosimo Ferri e Luca Lotti dovrebbero essere a loro volta espulsi subito senza tanti complimenti dal Partito Democratico, iniziando contemporaneamente la procedura per farli decadere dalla carica parlamentare. Credetemi, sarebbe davvero il minimo.
17 giugno
DALLA STORIA
“Full Metal Jacket” di Stanley Kubrik.
Kubrik non era un reazionario, tuttavia nutriva fortissimi dubbi sulla bontà della specie umana e sulla capacità di autogovernarsi senza istituzioni, considerando ogni uomo come un essere aggressivo e violento per natura, non un “buon selvaggio” ma un “cattivo selvaggio”. “L’uomo non è un nobile selvaggio, è piuttosto un ignobile selvaggio. È irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi. Questo, riassumendo. Sono interessato alla brutale e violenta natura dell’uomo perché è una sua vera rappresentazione. E ogni tentativo di creare istituzioni su una visione falsa della natura dell’uomo è probabilmente condannato al fallimento”. (Stanley Kubrik)
Mercoledì, 17 giugno 1987 è la data di uscita del film “Full Metal Jacket”, di Stanley Kubrick. Il regista, prolifico e tra i più eclettici cineasti di sempre, ha diretto film di generi diversi raggiungendo, con ciascuno, il livello più alto, in termini di rappresentatività e efficacia nel parlare del tema trattato. Basta citarne alcuni: “Orizzonti di Gloria” (1957), Spartacus (1960), “Lolita” (1962), “Il dottor Stranamore”(1964), “Arancia meccanica” (1971) “Barry Lyndon” (1975) “Shining” (1980). Quando decide, nel 1987, di fare un film sul Vietnam con “Full Metal Jacket”, l’aspetto disumano e grottesco della guerra è particolarmente eloquente: l’addestramento militare delle reclute ha come unico obiettivo quello di trasformare i ragazzi in efficienti strumenti di morte, appellandoli con soprannomi ignobili e umilianti e obbligandoli ad amare visceralmente il proprio fucile secondo i dettami del “credo del fuciliere”. Il film, ispirato a “Nato per uccidere”, romanzo autobiografico di Gustav Hasford, un ex Marine e corrispondente di guerra che Kubrik ha voluto accanto per la sceneggiatura insieme a Michael Herr è, nel contempo, spietato, comico, raccapricciante e toccante, aspetti raramente mostrati in una pellicola. A differenza di molti film usciti in quegli anni come “Apocalyse Now”, di Francis Ford Coppola, “The Deer Hunter”, di Michael Cimino, “Platoon”, di Oliver Stone uscito nel 1986 oltre al linguaggio da acido e napalm, “Full Metal Kacket” approfondisce e analizza come l’azione dell’indottrinamento autoritario, volto a disumanizzare, e l’esperienza della guerra siano devastanti per la mente umana: odio, alienazione, assenza motivazionale, imbarbarimento, involuzione. La prima parte si svolge a Parris Island, al centro di reclutamento e addestramento dove ha inizio la prima scena, girata in modo sensazionale, dove i ragazzi dai capelli lunghi vengono tosati e trasformati dallo spietato sergente-istruttore Hartman da “smidollati” in automi a spietate macchine per uccidere. La seconda parte mostra i Marines alle prese con la guerra del Vietnam. “Durante una lezione, Hartman si vanta del fatto che le reclute Lee Harvey Oswald e Charles Whitman abbiano imparato a sparare nei marines. La terribile ironia di questa scena, che ricorda il regime di addestramento dei gladiatori di Spartacus (1960) sta nel fatto che la ricompensa a queste parole sarà la trasformazione di un disadattato in uno dei grotteschi uomini-scimmia di Kubrik, il cui sguardo truce ricorda i drogati di Arancia meccanica (1971) e il Jack Torrance (Jack Nicholson) di Shining (1980). La prima azione compiuta dal marine, spregiativamente soprannominato Palla di lardo, appena forgiato è uccidere il suo creatore-aguzzino e poi se stesso. Dopo tutto questo, le scene dal Vietnam sono quasi un sollievo, tranne quando il soldato semplice Jocker (Matthew Modine), giornalista si trova ad affrontare individui ancora più folli come un mitragliere elicotterista che, alla domanda su come si possano uccidere donne e bambini dice: “è facile, vanno più lenti, miri più vicino”, e un colonnello che afferma: “Figliolo, ai miei Marines io non ho mai chiesto che di obbedire a me come alla parola di Dio”. Il culmine è una schermaglia durante una battaglia fra le macerie di Hue City, quando il plotone di Joker incontra un cecchino vietgong donna: nessuno vince lo scontro e i marines partono in gruppo nella notte cantando la Marcia di Topolino”. Infatti, tutto sembra una ridicola pantomima! “Solo Kubrik poteva permettersi di trattare Disney così”. (KN, I grandi Capolavori del cinema. Ed. Atlante.)
(Il soldato “Palla di lardo”. Leonard Lawrence, interpretato da Vincent D’Onofrio in una scena del film)
Mary Titton
16 giugno
PRIMO PIANO
Roma: episodi d’intolleranza sempre più frequenti.
Alle 4:00 del mattino nel quartiere Trastevere quattro ragazzi ventenni sono stati aggrediti da una decina di individui di circa trent’anni al grido “hai la maglietta del Cinema America, sei antifascista levati subito la maglietta, te ne devi andare via.” I quattro giovani avevano passato la serata in Piazza San Cosimato per seguire le proiezioni di Cinema America, due ragazzi, che si erano rifiutati di togliersi la t-shirt bordeaux, ritenuta dagli aggressori una “maglietta antifascista”, sono stati accerchiati e picchiati, uno David Habib è ricoverato al Fatebenefratelli per una tumefazione e un trauma con fattura scomposta alla piramide nasale, un altro è stato anche lui medicato in ospedale nella notte e gli sono stati messi tre punti al sopracciglio destro. Cinema America nasce nel 2012 grazie a un gruppo di amici ventenni che salvano dalla demolizione il Cinema America di Trastevere e fondano l’associazione “Piccolo Cinema America”, oggi “Piccolo America”, dando vita da San Cosimato fino a Ostia a“Il Cinema in Piazza”. Il presidente di “Piccolo America”, Valerio Carocci, dice: “Stasera tutti a piazza San Cosimato con la maglietta rossa del Cinema America per esprimere solidarietà ai ragazzi picchiati la scorsa notte proprio perché indossavano le nostre magliette. Stasera sarà nostro ospite Jeremy Irons per presentare “Io ballo da sola”, in omaggio a Bernardo Bertolucci.” Si legge ancora sulla pagina Facebook dell’associazione: “Non smetteremo mai di indossare le nostre magliette e lanciamo un appello a affinché si indossi tutti insieme una maglia bordeaux. Un abbraccio a David e a tutti gli altri ragazzi aggrediti!” Moltissime le condanne dell’atto d’intolleranza e di violenza gratuita e gi attesstati di solidarietà alle vittime dell’aggressione. Il premier Giuseppe Conte su facebook parla di “episodio gravissimo aggravato dall’intolleranza ideologica.”, la sindaca di Roma Virginia Raggi scrive su Twitter: “Piena solidarietà ai ragazzi del Cinema America aggrediti ieri sera. Un atto vile e barbaro, che bisogna condannare fermamente. Il pensiero e la libertà di espressione nulla hanno a che vedere con la violenza. Roma è una città aperta e inclusiva.”
15 giugno
PRIMO PIANO
È morto Franco Zeffirelli.
(Zeffirelli con l’attore Robert Powell, durante la regia di Gesù di Nazareth)
Franco Zeffirelli, sceneggiatore, attore e regista, è morto, dopo una lunga malattia, all’età di 96 anni nella sua casa di Roma, sull’Appia Antica, assistito dai figli adottivi Pippo e Luciano. Nato il 12 febbraio 1923 a Firenze, fuori dal matrimonio, da Ottorino Corsi, un commerciante di stoffe originario di Vinci, e dalla fiorentina Alaide Garosi Cipriani, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti e la Facoltà di Architettura della sua città, nel 1946 si trasferì a Roma dove esordì come attore di cinema e di teatro, e dove incontrò Luchino Visconti e iniziò una carriera artistica andata avanti per 60 anni circa, segnata dall’amore per Shakespeare e per l’Opera, dalla capacità di passare con grande facilità dal cinema al teatro, alla tv. Artista eccezionale nel campo del teatro, della regia e dei costumi, ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti, tra cui cinque David di Donatello, due Nastri d’argento e 14 candidature dei suoi film agli Oscar, tra cui due personali. Fra le sue produzioni teatrali, in cui l’ambientazione e i costumi sono stati veri protagonisti, con un’attenzione al dettaglio storico di tipo maniacale, sono da menzionare “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Amleto”, “La Signora delle camelie”, “Lorenzaccio” alla Come’die Francaise e il moderno “Assolutamente sì, forse” a Londra. Nel cinema il suo nome è legato a grandi successi internazionali come “La Bisbetica Domata” con Elizabeth Taylor e Richard Burton (1966), “Romeo e Giulietta” (1969) con Leonard Whiting e Olivia Hussey e per il quale ottenne la nomination all’Oscar 1968 quale miglior regista, “Fratello Sole Sorella Luna” (1971), una poetica rievocazione della vita di Francesco d’Assisi, “Il Campione” (1980), “Amore senza fine” (1981,) “Il Giovane Toscanini” (1988), “Jane Eyre” (1994) “Un tè con Mussolini” (1995), e il suo ultimo film, “Callas Forever” (2002). Per la televisione ha realizzato “Gesù di Nazareth” (1976/1977), un kolossal che ha avuto un enorme successo per l’interpretazione attenta e accurata della vita di Gesù ed è stato visto da oltre un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo. Ha girato anche diversi documentari tra cui “Per Firenze” con Richard Burton, all’indomani della tragica alluvione di Firenze del 1966, “Mundial ’90” sulla storia del Calcio Fiorentino (1990), “Toscana” nel 1991 e “Omaggio a Roma” nel 2009. Innumerevoli sono le sue produzioni operistiche nei maggiori teatri del mondo con la partecipazione di artisti come Maria Callas, Placido Domingo, Luciano Pavarotti, Herbert Von Karajan, Leonard Bernstein, Carlos Kleiber. Le opere liriche con la sua regia sono state rappresentate in tutto il mondo, dall’Oman agli Stati Uniti, soltanto il Metropolitan di New York ha messo in scena 800 suoi spettacoli. Basti citare solo alcuni grandi successi come “Carmen”, “Cavalleria rusticana”, “Don Giovanni”, “Otello”, “Aida”, “Madama Butterfly”, “Turandot”, andati n scena più volte, “La bohème” fino al 2014 è andata in scena 410 volte. Il suo ultimo lavoro è la regia di una nuova “Traviata”, che aprirà la stagione lirica dell’Arena di Verona il prossimo 21 giugno. “Ciao maestro” si legge sul sito della fondazione che porta il suo nome.
L’arte di Hugo Pratt.
Hugo Pratt è considerato il romanziere a fumetti più grande di tutti i tempi. Grazie a lui il mondo della cultura ha cominciato a cambiare l’atteggiamento di distanza nei confronti del fumetto poichè molti si sono resi conto che anche la striscia può essere considerata una forma d’arte. Le sue storie sono “letteratura d’avventura disegnata”. Umberto Eco ha affermato: “quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese (uno dei personaggi più noti del fumetto italiano e internazionale). Hugo Pratt nasceva a Rimini il 15 giugno del 1927 ma ha vissuto tutta la sua infanzia a Venezia in un ambiente familiare cosmopolita. Il nonno paterno era di origini inglesi, mentre quello materno era un ebreo marrano, la nonna era di origine turca. La madre, Evelina Genero era un’appassionata di scienze esoteriche, mentre il padre, Rolando, era un militare di carriera che, nel 1936 venne trasferito nella colonia italiana dell’Abissinia. Arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli quattordici anni, Pratt entra in contatto con il mondo militare e conosce non solo l’esercito italiano, ma anche quello inglese, abissino, senegalese, francese; il fascino di tutte quelli divise, di quegli stemmi, dei colori, rimarrà sempre presente in tutta la sua vita e la sua opera. Sono questi gli anni in cui si appassiona al romanzo d’avventura. Legge avidamente i libri di James Oliver Curwood, Zane Gray, Kenneth Roberts. Ad affascinarlo sono anche i primi fumetti di avventura americani come quello di “Terry e i pirati” di Milton Caniff che lo porteranno a decidere di diventare un disegnatore di fumetti. Alla morte del padre, nel 1943, rientra in Italia, e frequenta il collegio militare di Città di Castello. Nel 1945 partecipa insieme con un gruppo di amici, alla realizzazione di una rivista di fumetti, “l’Asso di picche”. In questo momento inizia ufficialmente la sua carriera di disegnatore. Sarà grazie a questa rivista che il “gruppo di Venezia” verrà contattato da un’importante casa argentina: Hugo Pratt parte così per Buenos Aires nel ’49 rimanendovi per circa tredici anni. In Argentina incontra diversi disegnatori come Salinas e i fratelli Del Castillo, frequenta i locali dove si balla il tango, diventa amico del jazzista Dizzy Gillespie, impara lo spagnolo e scopre gli scrittori latino-americani, come Octavio Paz, Leopoldo Lugones, Jorge Luis Borges e Roberto Arlt. In Argentina Pratt disegna un numero impressionante di strisce. Lavora per importanti case editrici e in seguito, quando si afferma il suo grafismo marcato, ispirato dai netti contrasti fra i bianchi e neri di Milton Caniff, inizia a scrivere da solo le sue storie. Comincia con “Anna nella Jungla” che esce in Argentina su “Supertotem”. Nel 1959 vive a Londra, dove produce, affiancato da sceneggiatori inglesi, alcuni racconti di guerra (apparsi nei numeri di War Picture Library), mentre continua a frequentare la Royal Academy of Watercolor. Nel 1962 realizza, firmando anche la sceneggiatura, “Capitan Cormorant” e “Wheeling”. Dal ’62 al ’67 esegue per “Il Corriere dei Piccoli” i disegni per “Le avventure di Simbad” e “Le avventure di Ulisse” e, su sceneggiatura di Mino Milani disegna “Billy James”, “le avventure di Fanfulla” e due adattamenti di Stevenson, “L’isola del tesoro” e “Il ragazzo rapito”. Nello stesso periodo collabora con Alberto Ongaro creando la serie “L’ombra”. Nel ’67, Pratt, per presentare al pubblico italiano la propria produzione argentina, i classici americani e le sue novità, insieme a Florenzo Ivaldi, lancia un mensile, “Sgt. Kirk”, dove esordisce il personaggio Corto Maltese.
Attraverso le avventure del suo marinaio, Pratt si afferma come uno dei più importanti autori di fumetti al mondo. Il suo immaginario così colto e popolare al contempo, la perenne ricerca di uno stile grafico essenziale ed espressivo la consumata abilità narrativa lo rendono un punto di riferimento per chi voglia studiare le possibilità espressive della “Letteratura disegnata” (orgogliosa definizione data dallo stesso Pratt che, comunque preferiva farsi chiamare “fumettaro”). Oltre alla serie di Corto Maltese, Pratt è stato autore di un’altra serie d’avventura, “Gli scorpioni del deserto”, ambientata in Africa durante la seconda guerra mondiale e terminata da altri disegnatori dopo la sua morte. Ha collaborato alla collana “Un uomo, un’avventura, edita da Bonelli (allora Editoriale Cepim), con quattro storie: “L’uomo del Sertao”, “L’uomo della Somalia”, “L’uomo dei Caraibi” e “L’uomo del grande Nord” (quest’ultimo ripubblicato in seguito con il nome “Jesuit Joe”). “Tutto ricominciò con un’estate indiana” e “El Gaucho” sono invece brevi storie scritte per l’amico e allievo Milo Manara. Hugo Pratt scrisse anche alcuni romanzi d’avventura, perlopiù ispirati alle (o ispiratori delle) sue storie a fumetti. “Una ballata del mare salato” e “Corte Sconta detta Arcana” vedono, come protagonista nel loro corrispettivo a fumetti, ancora Corto Maltese (così come “Aspettando Corto”). Vittorio Giardino, oggi fumettista, racconta la prima volta che incappò ne “Una ballata del mare salato”: … “Tutto cominciò nel 1972. Allora non sapevo nemmeno chi fosse Hugo Pratt, il mio interesse per i fumetti si era ridestato da poco (dopo anni di letargo) con la rivista “Linus”. Dato che ho sempre amato il mare, quando vidi quel titolo bizzarro decisi di acquistare il libro e, ahimè, cominciai a leggerlo. Non smisi finché arrivai alla fine e poi ricominciai. Fu una rivelazione folgorante, non avevo mai letto niente di simile. Per la prima volta leggevo un fumetto che era un vero, grande romanzo a scrittura multipla, parole e disegni, forse anche suoni e odori. Dentro c’era il profumo dei mari del Sud, l’ironia e l’emozione dell’avventura ottocentesca, il disincanto della modernità e, in certi momenti, perché no?, anche la commozione. C’era il fascino di personaggi indimenticabili, complessi e contradditori, come Pandora, Slutter, Tarao, Rasputin e naturalmente lui, il marinaio con l’orecchino, il figlio di Nina di Gibraltar, Corto Maltese. E dentro c’erano echi e riferimenti alla letteratura, alla storia, al cinema, con citazioni ammiccanti e allusioni fuorvianti. Non avrei mai creduto che si potesse fare tutto ciò con il fumetto. … Sette anni dopo … abbandonavo il mio lavoro per mettermi a inventare, scrivere e disegnare fumetti nel tentativo di ricreare un miracolo simile a quello che avevo letto. Sono passati trentaquattro anni dal giorno in cui sfogliai quelle pagine per la prima volta, ma la loro magia non ha perso nulla del proprio potere. …”.
Mary Titton
14 giugno
PRIMO PIANO
Golfo di Oman: sale la tensione tra Usa e Iran.
Due petroliere hanno subito ieri in tarda mattinata un attacco mentre si trovavano nel golfo di Oman, fra le coste dell’Iran e del Sultanato. Le prime notizie parlano di «esplosioni a bordo», spiegando che probabilmente la causa è «un siluro». Una delle due navi, la Kokuka Courageous diretta da Singapore all’Arabia Saudita, ha subito uno squarcio nella fiancata, per fortuna al di sopra della linea di galleggiamento. L’incidente, che segue quello del 12 maggio scorso quando quattro petroliere vennero danneggiate davanti alle coste degli Emirati arabi uniti, si è verificato mentre la guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei era a colloquio con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, che sta tentando una mediazione fra l’Iran e gli Stati Uniti. Se l’attacco verrà confermato, potrebbe trattarsi di un segnale da parte di forze oltranziste che vogliono bloccare il tentativo sul nascere. In un video in bianco e nero, diffuso dall’esercito, che sarebbe stato registrato da un velivolo degli Stati Uniti, si vede l’equipaggio di una barca della Guardia rivoluzionaria islamica iraniana impegnato a rimuovere una mina magnetica inesplosa dalla petroliera giapponese Kokuka Courageous. L’armatore proprietario della petroliera riferisce di aver notato “oggetti volanti” prima dell’esplosione, escludendo in questo modo che a causare i danni siano state mine, come suggerito dagli Stati Uniti. Durante la conferenza stampa, l’armatore ha anche escluso che la nave fosse stata colpita da un siluro, dicendo che i danni, secondo l’equipaggio, sarebbero provocati da “proiettili”. La nave non è comunque a rischio di affondamento, come ha spiegato il presidente Yutaka Katada della Kokuka Sangyo Co. La petroliera giapponese è stata rimorchiata da un’altra unità navale ed è diretta negli Emirati Arabi Uniti. Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo promette che la risposta sarà “economica”, ma fonti dell’amministrazione Usa precisano che “tutte le opzioni sono sul tavolo, inclusa quella militare”. L’Iran, da parte sua, reagisce tramite la sua missione all’Onu respingendo “categoricamente” le accuse degli Stati Uniti e insistendo sul fatto che l’Iran è intervenuto per “aiutare” le navi e “salvare” i loro equipaggi il più velocemente possibile.
DALLA STORIA
“Il Quarto Stato”, di Giuseppe Pellizza da Volpedo
(Giuseppe Pellizza da Volpedo. “Autoritratto”. Olio su tela tirata su legno. 1899)
“È un tentativo che faccio per sollevarmi un pochino dalla volgarità dei soggetti che non sono informati ad una forte idea. Tento la pittura sociale”. Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Il 14 giugno 1907, non ancora quarantenne, moriva suicida, impiccandosi nel suo studio, Giuseppe Pellizza da Volpedo. L’autore del quadro capolavoro della pittura sulla soglia del XX secolo, “Il Quarto Stato”, nasceva nel 1868 a Volpedo, in provincia di Alessandria. Dapprima divisionista, poi esponente della corrente sociale, Pellizza è soprattutto ricordato per aver eseguito la celeberrima tela. Dopo aver assistito ad una manifestazione di protesta di un gruppo di operai, nel 1891, il pittore rimase molto impressionato dalla scena, tanto che annotò nel suo diario: “La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore delle condizioni presenti”. Il quadro raffigura un gruppo di braccianti che marcia in segno di protesta in una piazza. L’avanzare del corteo non è violento bensì lento e sicuro, a suggerire un’inevitabile sensazione di vittoria: era proprio nelle intenzioni del Pellizza dare vita ad “una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s’avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov’ella trova equilibrio”. Nel dipinto, Pellizza intende celebrare l’imporsi della classe operaia, il quarto stato per l’appunto, a fianco al ceto borghese; il dipinto diventa una allegoria del mondo del lavoro subordinato e delle sue battaglie politico-sindacali a cavallo tra i due secoli scorsi. L’opera è il frutto di oltre dieci anni di lavoro: iniziato quando Pellizza era ancora studente all’Accademia di Brera, verrà portato a compimento dopo una serie infinita di bozzetti, disegni, cartoni, prove, modifiche, sovrapposizioni, ricognizioni fotografiche, viaggi e ripensamenti. Stefano Zuffi, noto storico dell’arte, descrive così il lungo e sofferto percorso dell’artista nel realizzare il suo celebre quadro: “Pellizza aveva cominciato già intorno al 1890 a preparare un quadro dal titolo “Ambasciatori della fame”: un gruppo di contadini in sciopero che si avvicina minacciosamente al palazzo dei proprietari terrieri.
È possibile che le prime idee per il soggetto e per la composizione siano venute al giovane Pellizza grazie alla frequentazione di Plinio Nomellini, che dipingeva i disincantati camalli sulle banchine del porto di Genova. Nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento l’opera cambia il titolo, vede variare il numero e il tipo dei protagonisti, le dimensioni si ingrandiscono, i bozzetti e i disegni preparatori si accumulano, la tecnica divisionista si perfeziona. Pellizza rinuncia a incarichi redditizi per dedicarsi alla concezione e alla lenta esecuzione del suo grande lavoro, perennemente incompiuto … Pellizza frena l’impeto dei primi schizzi, e lo sciopero animoso si trasforma in una marcia solenne e severa, non di contadini ma piuttosto di operai: nasce “Fiumana” (1895-97), ampia tela oggi nella pinacoteca di Brera, in cui, secondo le parole del pittore stesso, i personaggi “intelligenti, forti, robusti, uniti, s’avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo”.
Eppure, Pellizza non era ancora soddisfatto. Spinto dal drammatico intervento dell’artiglieria del generale Bava Beccaris contro gli scioperanti a Milano nel 1898, il pittore ricomincia da capo, su una tela ancora più grande. Il quadro cambia ancora titolo, diventa “Quarto Stato”, allude alla Rivoluzione Francese di fine Settecento, quando il “Terzo Stato” (il ceto borghese) aveva rovesciato i privilegi dell’aristocrazia e dell’alto clero: ora bisogna prendere coscienza di una nuova realtà, la classe dei lavoratori delle industrie (Quarto Stato). Pellizza vuole dipingere un’opera degna della grande tradizione italiana. Per questo va a Firenze e misura attentamente le dimensioni dei personaggi della “Primavera” di Botticelli e del “Pagamento del tributo” di Masaccio; evita bandiere, simboli, pugni levati, propone piuttosto una riflessione di carattere sociale e umanitario. La presenza di una donna con un bambino fra i personaggi della prima fila ricorda che il problema di un equilibrato inserimento sociale non riguarda solo i lavoratori delle fabbriche, ma l’insieme delle loro famiglie. Esposto ancora fresco di pittura alla Quadriennale di Torino del 1902, con molte speranze da parte del pittore, il dipinto non riceve alcun premio e nessuno lo acquista. Stessa sorte per una successiva mostra a Roma. E all’Esposizione Universale di Milano del 1906 viene rifiutato perché troppo poco ottimistico. Per Pellizza è una delusione profonda; il dramma della morte della moglie Teresa, che aveva posato per la figura della donna nel “Quarto Stato”, lo spinge al suicidio.
(“Il Quarto Stato”. Dimensioni 545×293. Museo del Novecento, Milano. 1901)
Il grande quadro resta malinconicamente in mano agli eredi fin dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1920 un consigliere socialista del Comune di Milano, Fausto Costa, propone la vendita del dipinto. Acquistato grazie a una pubblica sottoscrizione, “Il Quarto Stato” viene esposto nel Castello Sforzesco. Durante il fascismo, tuttavia, la tela finisce arrotolata in un deposito. Recuperata dopo la Seconda guerra mondiale, non viene però collocata in un museo, ma a Palazzo Marino, nella sala delle riunioni della giunta comunale. Un restauro del 1976, reso necessario dalla quantità di nicotina depositata sulla tela, fa riscoprire l’importanza del dipinto e la necessità di renderlo stabilmente accessibile al pubblico. Dopo diverse presenze in mostre internazionali e un primo allestimento alla galleria d’Arte Moderna, il “Quarto Stato”, di Pellizza è stato infine scelto per aprire il percorso del Museo del Novecento inaugurato nel 2010, tre anni dopo il centenario della morte del grande e sfortunato pittore”.
Mary Titton
13 giugno
PRIMO PIANO
Nuove frontiere della tecnologia: il virtuale diventa reale.
L’algoritmo “Photo Wake Up”, che i ricercatori dell’Università di Washington presenteranno fra pochi giorni a Long Beach, in California, alla Conferenza di visione artificiale e riconoscimento delle forme (Cvpr 2019), permette di animare fotografie e dipinti, che, come nella saga di Harry Potter, si muovono e escono in 3D dalla loro cornice. Per animare foto e dipinti, l’algoritmo identifica la persona ritratta nell’immagine e crea una maschera con gli stessi contorni del suo corpo: successivamente vi abbina un modello 3D e lo colora, ricostruendo in maniera creativa, ma coerente anche la parte posteriore non visibile nell’opera di partenza. Una volta unita l’immagine frontale con quella del retro, il modello 3D può finalmente muoversi, camminare, correre e saltare, mentre l’algoritmo ricrea e colora lo spazio alle sue spalle in modo da non lasciare uno spazio bianco. Grazie ai visori di realtà aumentata, il soggetto dell’opera può letteralmente saltare fuori dalla sua stessa cornice e iniziare a camminare o correre al nostro fianco. Numerose le possibili applicazioni di questa tecnologia: secondo i ricercatori potrebbe essere usata nei videogiochi per creare avatar personalizzati oppure nei musei per permettere ai visitatori di interagire con le opere in mostra.
12 giugno
PRIMO PIANO
Venezia: evento-maratona per Anna Frank.
Oggi Anna Frank, se non fosse morta a soli quindici anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, avrebbe compiuto 90 anni. Per ricordarla è stato realizzato in Campo del Ghetto Nuovo a Venezia un evento-maratona con la lettura integrale e pubblica del suo Diario: per oltre dieci ore 90 lettori si alternano nella lettura delle pagine a cui la ragazzina confidò tutte le sue speranze, le sue paure e i suoi tormenti. Il Diario le fu regalato da suo padre per il suo tredicesimo compleanno e nella prima pagina, datata 12 giugno 1942, Anna scrive poche e semplici parole: “Spero che ti potrò confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che sarai per me un gran sostegno.” Due giorni dopo Anna inizia il racconto, ancora spensierato, della sua vita: Anna parla di sè, della propria famiglia e dei propri amici, del suo innamoramento per Peter, nonché della sua precoce vocazione a diventare scrittrice. Il diario manifesta la rapidissima maturazione morale e umana dell’autrice a causa delle vicissitudini sue e della sua famiglia, perché ebrea, e contiene anche considerazioni di carattere storico e sociale sulla guerra, sulle vicende del popolo ebraico e sulla persecuzione antisemita, sul ruolo della donna nella società. Anna nel Diario confida tutto “a Kitty”, l’amica immaginaria, il cui nome è ispirato al personaggio di una serie di libri dell’autrice olandese Cissy van Marxveldt, raccontando della sua vita di ragazzina divenuta troppo presto adulta a causa della guerra e della clandestinità, a cui fu costretta per più di due anni insieme alla famiglia per sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio nazisti. Nel luglio del 1942 la situazione stava, infatti, precipitando e i Frank, già fuggiti nel 1936 dalla Germania in Olanda, decisero di nascondersi, aiutati dagli amici Gies e sua moglie Miep, in una dependance segreta degli uffici della Opekta, la nuova società fondata da Otto Frank. L’ultima “lettera” a Kitty è datata 1 agosto 1944: “E cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo.” scrive. Morirà pochi mesi dopo: il 4 agosto insieme a tutta la sua famiglia viene arrestata e caricata su un treno per Auschwitz, per poi essere trasferita a Bergen-Belsen con la sorella Margot. Il suo Diario, titolo originale Het Achterhuis (Il retrocasa), ritrovato all’interno dell’alloggio segreto e pubblicato ad Amsterdam nel 1947 a cura del padre Otto, sopravissuto, è divenuto, nella sua semplicità e freschezza, il documento della brutalità dell’Olocausto e della guerra, il simbolo della Shoah e di una giovane vita spezzata dall’orrore nazista.
DALLA STORIA
La Bhagavadgita. (Canto dell’Adorabile)
(“Per molti anni, non sono uscito di casa senza aver prima verificato se c’era, nelle mie tasche interne, come una chiave o una medicina d’urgenza, una mia minima edizione dell’adorabile Gita”. (Guido Ceronetti)
“La Verità risiede soprattutto dentro di noi, nei principi intellettuali e nella vita spirituale dell’anima”, scriveva Edouard Schuré, filosofo, saggista e storico francese ma soprattutto noto per aver legato il suo nome allo studio della scienza delle religioni e dei grandi iniziati: “Di loro, Rama non lascia scorgere che l’ingresso del tempio. Krishna ed Ermete ne danno la chiave. Mosé, Orfeo e Pitagora ne mostrano l’interno. Gesù Cristo ne costituisce il tabernacolo”, scriveva ne “I grandi Iniziati”, pubblicato nel 1889, il suo libro più famoso, in cui ripercorre la storia dei fondatori dei “misteri” collegandone gli insegnamenti in modo tale da far emergere un unico grande disegno, una religione “universale”. E proseguiva “… i sapienti e i profeti delle età più diverse sono venuti a conclusioni identiche nella sostanza, seppur dissimili nella forma, sulle verità fondamentali e finali, seguendo tutti lo stesso sistema dell’iniziazione e della meditazione”. Una dottrina di verità fondamentali raccolta, per ogni civiltà, in un testo di riferimento e, per quanto riguarda la Bhagavadgita, si può dire che essa sta all’India come il Vangelo alla nostra civiltà. “La Bhagavadgita è il centro ideale di un immenso poema epico, il Mahabharata, per il quale origini e datazioni sono quanto mai incerte. J.A.B. van Buitenen, che lavorò a lungo alla più autorevole edizione occidentale del Mahabharata, propose la seguente formula: “Una datazione che vada dal 400 a.C. al 400 d.C. è ovviamente assurda se riferita a una singola opera letteraria. Ha un senso se consideriamo il testo non tanto un’opera sola, ma una biblioteca di opere. Allora possiamo dire che il 400 a.C. fu la data di fondazione di quella biblioteca e che il 400 d.C. fu la data approssimativa dopo la quale non furono più fatte aggiunte sostanziali al testo”. Nella tradizione indù si narra che Vyasa, il leggendario sapiente indiano, abbia composto il poema epico in due anni e mezzo, dettandolo in una caverna al suo scriba Ganesha, il dio delle fattezze di elefante ma come abbiamo visto il poema, uno dei più lunghi mai scritti, è frutto di una tradizione orale. Composto originariamente in lingua sanscrita, nelle edizioni pervenute a noi il Mahabharata consta di più di 95.000 sloka (versi) nella versione detta ”meridionale”; in oltre 82.000 versi nella versione detta “settentrionale”, questa detta anche vulgata; in circa 75.000 versi nella versione ricostruita in epoca moderna, detta “critica”; più un’appendice (khila), l’Harivamsa, che ne fanno l’opera più imponente non solo della letteratura indiana, ma dell’intera letteratura mondiale. La trama è molto ampia e complessa ed è all’origine di racconti mitologici molteplici e diversi che non sempre si intrecciano tra loro, perciò, anche semplificando è molto difficile riassumerla: si può individuare il tema centrale dell’epica nella rivalità tra due schieramenti. Il Mahabharata o “Il Libro dell’inizio”, come viene anche definito, recita “Tutto ciò che è qui, lo si può trovare anche altrove; ma ciò che non è qui, non esiste in alcun luogo”.
La Battaglia finale.
(Questo frammento, vergato nella scrittura “devanagari”, caratterizzata dalla linea orizzontale sulla sommità delle lettere, proviene da una versione del Mahabharata risalente al 1670 ca. ed originario di Mysore o Tanjore, nell’India meridionale. Il testo è scritto su carta con inchiostro rosso e nero, le illustrazioni sono dipinte con acquerelli opachi e foglia d’oro. La narrazione riporta la lotta tra i Pandava e i Kaurava. La scena centrale illustra la violenta battaglia tra Ghatotkacha, dai lineamenti grossolani (in alto a destra, identificato da un riquadro con scritta sul margine superiore), e Karna, il miglior guerriero dei Kaurava, che riesce a uccidere Ghatotkiacha grazie a un’arma magica donatagli dal dio Indra)
Alcuni studiosi datano l’inserimento della Bhagavadgita nel Mahabharata, probabilmente, al II secolo a.C. Altri autori giungono fino al I sec. d.C. e il suo nome significa “Canto del Divino o “Canto dell’Adorabile” e contiene 700 versi (sloka, quartine di ottonari) divisi in 18 canti (adhyaya, “letture”), nella versione della vulgata, collocata nel VI parvan del Mahabharata. “La Gita la si rilegge cento volte, eppure nemmeno allora si può dire d’averla esaurita: ed il motivo di questo è che la Gita non è un trattato di filosofia, e nemmeno un manuale teorico, ma un dialogo. Non già un dialogo tra un tale ed un altro tale, né un dialogo ch’ebbe luogo molti millenni or sono, conservandoci nelle narrazioni avite, ma un dialogo d’ogni giorno, anzi d’ogni ora, d’ogni minuto, fra ciascun uomo e Dio. Come c’è poesia in ognuna delle nostre azioni, il leggere, il piangere, il ridere, ecc …, così c’è in esse anche la filosofia, perché la filosofia non è se non la più alta forma di poesia; e noi siamo impegnati in un dialogo con Dio, nel senso della Gita, in ogni attimo delle nostre vite. Ecco perché la Gita è così atemporale nelle sue suggestioni: essa trova in voi un’eco in ogni fase della vostra esistenza, in ogni stato della vostra mente. E come voi siete infiniti dentro, così lo è la Gita. Siamo sempre confrontati da essa e c’è un verso per ognun o di noi là, in quel libro della vita”. (Mario Piantelli da “Bhagavadgita” a cura di Anne-Marie Esnoul. Adelphi, 1972)
(Manoscritto della Bhagavadgita – Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)
Mary Titton
11 giugno
PRIMO PIANO
Hong Kong: proteste per la legge pro estradizioni in Cina.
Sale la tensione a Hong Kong, dove la polizia sta usando idranti e spray al peperoncino per disperdere i manifestanti che protestano da tre giorni contro la legge sulle estradizioni in Cina. Dall’alba migliaia di persone, tra cui molti giovanissimi, con mascherine e occhiali protettivi, hanno occupato le strade che circondano il governo e il consiglio legislativo, dove oggi doveva riprendere la discussione della contestatissima legge che consentirebbe l’estradizione dei sospetti verso la Cina, vista come una minaccia all’autonomia della città; nel pomeriggio la polizia in tenuta antisommossa ha iniziato a sparare lacrimogeni, avanzando compatta con le maschere antigas per rompere l’assedio e le barricate improvvisate, usando spray urticante, manganelli e proiettili di gomma contro i manifestanti, alcuni dei quali armati con pietre e bastoni. Alcune persone sono state arrestate, altre portate via in ambulanza. La legge è considerata contraria allo schema seguito finora di “un Paese, due sistemi” alla base dei rapporti con Pechino e una erosione dell’autonomia di Hong Kong, infatti regola le procedure di estradizione tra Hong Kong e i governi con cui oggi non ha accordi in materia, tra questi c’è anche la Cina continentale, dove i tribunali dipendono dal Partito comunista: se entrasse in vigore, Pechino potrebbe ottenere la regolare estradizione dei sospetti (o dei nemici) da processare. La leader filo-cinese della città, Carrie Lam, ha detto che la norma serve a colmare un vuoto normativo, impedendo che Hong Kong diventi un rifugio per i criminali, ma per i democratici il testo è stato dettato da Pechino, che lo ha esplicitamente appoggiato: per molti è un nuovo tentativo da parte della Cina di Xi Jinping di cancellare libertà e stato di diritto garantiti all’ex colonia britannica. Contro la legge si sono espressi avvocati, organizzazioni imprenditoriali, anche internazionali, e diversi governi stranieri, tra cui quelli di Stati Uniti e Regno Unito. Gli organizzatori della protesta oceanica a Hong Kong hanno indetto nuove manifestazioni per il 12 giugno, quando la proposta di legge, che hanno definito “terribile e draconiana”, sarà esaminata dal Parlamento. Il rinvio della seduta del Parlamento, anch’esso dominato da forze pro Pechino, è una vittoria dei manifestanti. Nel 2003, di fronte a proteste simili, una legge molto restrittiva sulla sicurezza fu ritirata. Rispetto al fallimento del movimento pro democrazia degli ombrelli del 2014 per ottenere il suffragio universale, questa volta il campo progressista sembra molto più coeso. Nelle ultime ore il governo cinese ha continuato a esprimersi pubblicamente in favore della legge, accusando i manifestanti, attraverso i quotidiani di regime, di essere manipolati da forze straniere. Così questa legge, dopo essersi trasformata in una lotta per l’identità di Hong Kong, si sta caricando di un valore ulteriore, diventando un simbolo dell’effettiva autorità esercitata dal Partito comunista sulla città, se dovesse essere ritirata, sarebbe una grave sconfitta non solo per Carrie Lam, ma anche per Xi Jinping e per la sua politica nazionalista, una sconfitta che il leader cinese, in questo momento di tensioni, difficilmente si può permettere.
10 giugno
PRIMO PIANO
Elezioni Comunali 2019: gli esiti dei ballottaggi.
I risultati più clamorosi di questi ballottaggi sono stati quello di Ferrara, passata al centrodestra a guida leghista dopo 74 anni di sindaci di sinistra e quello di Livorno, che il centrosinistra ha strappato al Movimento 5 Stelle, che vince invece a Campobasso. Nel dettaglio il centrodestra strappa al centrosinistra i comuni di Pescara, Pavia, Ferrara, Forlì, Vercelli e Biella, conferma i sindaci di Perugia, Urbino, Vibo Valentia, Ascoli Piceno, Foggia e Potenza. Il centrosinistra strappa al centrodestra il sindaco di Rovigo e al Movimento 5 Stelle quello di Livorno. Conferma i comuni di Firenze, Bari, Modena, Bergamo, Pesaro, Lecce, Cremona, Cesena, Prato, Reggio Emilia, Verbania. Il Movimento 5 Stelle strappa al centrosinistra i sindaci di Campobasso e Caltanissetta, ma perde i comuni di Livorno e Avellino. Interessante il caso di Potenza, dove, dopo uno spoglio che è stato quasi fino alla fine un testa a testa, è stato eletto per soli 200 voti in più Mario Guarente del centrodestra, battendo il candidato sostenuto da 2 liste civiche Valerio Tramutoli. Affluenza al 52,11%, in forte calo: alle 23:00 (dati dei 134 comuni delle regioni a statuto ordinario, si è votato anche in due comuni del Trentino) aveva votato il 52,11% degli aventi diritto, in forte calo rispetto al primo turno del 26 maggio (68,18%). Lo rende noto il sito del ministero dell’Interno.
DALLA STORIA
Ray Charles: “The Genius”.
Il 10 giugno 2004 muore, a Beverly Hills, in California Ray Charles soprannominato “The Genius”, leggenda della musica. Cantante di grandissimo spessore venne spesso citato, soprattutto dal critico Victor Bollo, per l’uso della sua voce “come se fosse un sassofono” e superbo pianista, Charles è stato un vero e proprio pioniere della rivoluzione “black” anni “Cinquanta” attraverso il Rythm&blues, il gospel, il blues, il jazz e perfino il country. Aveva studiato composizione alla St. Augustine School, un istituto specializzato per l’educazione dei ragazzi non vedenti. Fu qui che conobbe appieno la musica ed imparò a comporre, a suonare strumenti musicali e a sviluppare il suo dono musicale; gli venne insegnata, però, solamente musica classica, quando lui avrebbe invece voluto suonare ciò che sentiva spesso alla radio: lo swing, il jazz di Nat King Cole, il blues di Charles Brown. Ray Charles era nato povero, ad Albany in Georgia, nel sud segregazionista degli Stati Uniti d’America. I genitori, poverissimi, in realtà non furono mai sposati e, anzi, il padre aveva formato altre tre famiglie, lasciando presto la compagna e i due figli. La morte del fratellino annegato in una tinozza davanti agli occhi di Ray, lo segnò profondamente per tutta la vita anche perché, essendo anche lui un bambino, non gli fu possibile intervenire per salvarlo. All’età di cinque anni iniziò ad avere problemi con la vista fino a diventare cieco poco tempo dopo. Lui stesso non capì mai chiaramente il motivo del suo handicap; alcune tesi affermano che fosse stato dovuto a un glaucoma, secondo altre, il motivo fu un’infezione mai curata causata dal contatto con acqua saponata. Ray aveva imparato il braille e nonostante la cecità e le difficoltà di una vita durissima seppe imporsi con determinazione, grazie al talento, a una forte determinazione e al suo bisogno di esprimersi attraverso la musica: “Sono nato con la musica dentro di me. È la sola cosa che conosco”, aveva scritto nella sua autobiografia. La madre di Ray lo incoraggiò sempre a non mollare mai, a battersi fino all’ultimo: “Non essere lo storpio di nessuno” gli ripeteva “tu sei cieco, non stupido”. Ray iniziò a lavorare come musicista in Florida e nel ’47 si trasferì a Seattle. Il suo primo singolo a entrare nella classifica R&B, nel ’51 fu “Baby, Let Me Hold Your Hand”. La sorte di Ray cambiò con un contratto per l’Atlantic Records. Qui pubblicò una serie di pezzi straordinari: “I got a woman”, “This little girl of mine”, “Hallelujah I love her so” e “What’d I say”, una canzone che mescola lo spirito rock and roll con una linea modernissima di piano elettrico. A questo proposito resta memorabile l’esibizione di Ray Charles allo Herndon Stadium di Atlanta, Georgia, il 28 maggio 1959 quando Charles propose per la prima volta, ufficialmente, non la jam improvvisata dei concerti precedenti, ma un brano diverso dagli altri. Una canzone che nasceva sostanzialmente da un’improvvisazione che Charles e la sua band, nel dicembre del ’58, avevano fatto a conclusione di un concerto. Al primo ascolto poteva sembrare un brano come tutti gli altri, Charles aveva già inciso altri grandi successi; ma quel pezzo avrebbe segnato una svolta non tanto nella carriera di Ray, quanto nella storia della popular music. Ecco come ce la racconta Ernesto Assante ne “I giorni del rock”, Edizioni White Star: “La leggenda vuole che Charles avesse ancora una decina di minuti a disposizione e che, per riempirli, avesse chiesto alla band e al gruppo delle coriste, le famose “Raelettes” di seguirlo in quello che avrebbe fatto iniziando con dei riff e arrivando poi al classico Call & Response del gospel, sia con le coriste sia con la band. L’effetto fu dirompente e Charles iniziò a proporre l’improvvisazione alla fine dei concerti per molte sere consecutive. “What’d I Say” era una bomba lanciata contro le abitudini del mercato musicale americano, rigorosamente diviso secondo un criterio razziale, la musica afroamericana per i neri, il pop per i bianchi, perché proponeva una nuova categoria, quella della soul music, dalle radici inconfondibilmente nere ma fatta per essere ascoltata da un pubblico molto più ampio e indifferenziato, una musica che incontrava il gusto, i sentimenti, la vita della gente in maniera diretta e inequivocabile, abbattendo il muro della race music una volta per tutte. “What’d I Say”, cantata in coro allo stadio di Atlanta, segnava l’inizio di una nuova era, quella della soul music, che insieme al rock avrebbe cambiato di lì a poco la musica popolare in tutto il mondo: il brano, nei giorni successivi, scalò le classifiche, e non solo quelle dedicate alla musica afroamericana, ma anche quelle del pop. Ed era la prima volta che questo accadeva in maniera così chiara e dirompente. Il mondo stava cambiando”.
La canzone è stata nominata come la decima migliore di tutti i tempi nella lista delle 500 migliori canzoni secondo la rivista “Rolling Stone”. Successivamente, alla fine degli anni cinquanta, Ray Charles passò alla ABC Records. Nella prima metà degli anni sessanta, firmò “Unchain My Heart” e “Hit the Road Jack”, due pietre miliari che unite alla ultra celebre “Georgia on my mind” gli hanno permesso di vivere di rendita. Dopo una sperimentazione in territorio country (I Cant’Stop loving You) scrisse canzoni di grande impatto emotivo come “You Are My Sunshine”, “Take These Chains from My Heart” e “Crying Time”. Nel ’65, però, Ray Charles fu costretto a fermarsi per problemi di tossicodipendenza (vizio probabilmente contratto all’epoca in cui, da giovane musicista nero, frequentava il “chitlin’ circuit”, il circuito dei locali di blues e jazz). I problemi legati alla droga lo tennero lontano dai palchi e dalla musica. Il ritorno, un anno dopo, fu doloroso e sofferto. Abbandonò i territori del soul e del rock a favore di un pop di maniera, forse eccesssivamente arrangiato. Nel 1980 partecipò al film “The Blues Brothers” (pellicola cult con John Belushi e Dan Ackroyd) che ne rilanciò la figura. È da segnalare lo splendido film a lui dedicato, del 2004, “Ray”, del regista Taylor Hackford, con Jamie Foxx nel ruolo del protagonista che, grazie all’interpretazione del grande artista non vedente, vinse un Golden Globe, un BAFTA e un Oscar come miglior attore protagonista.
Mary Titton
9 giugno
DALLA STORIA
Mondiali femminili di Francia 2019: Italia-Australia 2-1.
Le azzurre del calcio debuttano ai Mondiali di Francia con una doppietta di Barbara Bonansea. Allo Stade du Hainaut di Valenciennes, di fronte a circa 15 mila spettatori, l’Italia va subito all’attacco sulla fascia destra, dove l’Australia appare più debole in copertura. All’8° Bonansea si presnta da sola davanti alla porta avversaria e fa un gol, che viene annullato dall’arbitra ungherese Borjas per un dubbio sulla posizione di partenza dell’attaccante. Al 22° le azzurre poi vanno sotto su rigore in ribattuta di Kerr, dopo che la stessa era stata atterrata in area di rigore da Gama. Le italiane appaiono disorientate e subiscono la pressione delle australiane, che al 27° vanno vicino al raddoppio su calcio di punizione di Van Egnond che prende la traversa. Nel secondo tempo è tutta un’altra storia per merito dei cambi della Bertolini a partire da quello della Bartoli per la Galli. Il pareggio arriva dopo l’11° per un errore difensivo dell’Australia che Bonansea sfrutta per mettere in rete. All’81’ l’urlo per il possibile 2-1: la milanista Sabatino tira in rete dopo aver colpito il palo, ma il suo scatto di partenza avviene anche stavolta in offside. Pressione delle Matildas nel finale, ma l’Italia tiene con ordine e intelligenza e al 95°, a pochi secondi dalla fine del recupero, come in un thrilling, arriva il colpo di testa vincente della Bonansea. È il trionfo, ancor più incredibile perché arrivato in rimonta e proprio all’ultimo minuto. Le azzurre festeggiano al centro del campo con una danza per metà di gioia e per metà propiziatoria e la ct, Milena Bertolini, avvolta nel tricolore della sua Reggio Emilia, dice “ci porterà fortuna”. Il prossimo impegno delle italiane è venerdì a Reims contro la Giamaica, alle ore 18:00.
8 giugno
DALLA STORIA
Luigi Comencini.
L’8 giugno 1916, nasceva, a Salò, Luigi Comencini uno dei padri della commedia italiana insieme a Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola. Comencini trascorse l’infanzia a Parigi dove si innamorò del cinema. Rientrato in Italia studiò architettura al Politecnico di Milano; ancora laureando, insieme all’amico Alberto Lattuada fece parte della rivista “Corrente”, fondata nel ’38 da Ernesto Treccani. Lavorò quindi come architetto e critico cinematografico per l’ “Avanti” e il settimanale “Il Tempo”. Insieme al fratello, Alberto Lattuada e Marco Ferrari fondò la “Cineteca italiana” di Milano, il primo archivio italiano. Nel ’46 esordì con un cortometraggio, “Bambini in città”. Nei suoi lavori, l’infanzia, sarà un tema ricorrente: “Non è che i bambini mi piacciano in modo speciale”, spiegò molti anni dopo, “È che sono una specie a parte, generalmente indifesa e oppressa dagli adulti”. Attraverso i loro occhi il mondo si vede meglio e nelle loro rabbie, gioie, anche egoismi, trovo spesso molta più schiettezza che negli adulti”. I temi ricorrenti della sua filmografia saranno appunto le categorie più indifese come le donne, gli emarginati e i bambini. Nella sua lunga carriera, Comencini ha diretto i maggiori attori italiani, tra cui Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida in “Pane, amore e fantasia, del ’53 seguito l’anno successivo da “Pane, amore e gelosia”, lanciando così la commedia italiana. In seguito, abbandonata la saga e dopo alcuni film di compromesso (a parte “La finestra sul Luna Park”, del ’57, uscito in sordina e oggi ritenuto uno dei suoi film migliori), dirige Alberto Sordi in “Tutti a casa”, del ’60, in quello che generalmente è considerato il suo capolavoro, una tragicommedia sull’Italia del dopo 8 settembre. Sul tema della resistenza realizza anche “La ragazza di Bube”, con Claudia Cardinale e George Chakiris, del ’63, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Cassola, cui seguono il drammatico “Incompreso”, del ’66, “Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano”, del ’70. Dirige ancora ne “Lo scopone scientifico” attori del calibro di Bette Davis, Alberto Sordi, Silvana Mangano e Joseph Cotten nel ’72,
“La donna della domenica”, con Jacqueline Bisset, nel ’77, “Il gatto”, con Mariangela Melato e Ugo Tognazzi. Dirige Nino Manfredi e la Lollobrigida, nel ruolo di Fata turchina, in uno sceneggiato televisivo di grande successo, “Le avventure di Pinocchio”, del ’72. Nel ’76 la Rai lo ingaggia per girare un documentario sull’amore negli anni Settanta in Italia, “L’amore in Italia”, un’inchiesta in cinque puntate. Per la televisione, inoltre, dirige “Cuore”, dell’84 e “La Storia” nell’86; tra i suoi ultimi lavori cinematografici vanno ricordati, tra gli altri, “Voltati Eugenio”, dell’80 e due anni dopo “Marcellino pane e vino”. La sua attività di regista e sceneggiatore è tra le più ricche del cinema italiano: “Lavoratore instancabile, burbero all’apparenza, curioso è stato il patriarca illuminato in una famiglia tutta di donne, favorendone con l’esempio l’inserimento nel mondo del cinema. Negli ultimi anni della sua carriera ha tenuto a battesimo gli esordi nella regia delle figlie Francesca e Cristina”. Francesca Comencini ha avuto modo di dichiarare: “Quello che mi ha fatto sempre ammirare il lavoro di mio padre è stata la sua chiarezza e attenzione per il pubblico, il suo impegno alla divulgazione e all’educazione. E per questo credo che abbia avuto il grande merito, insieme ad altri, di aver formato non solo degli spettatori ma anche dei cittadini”. E, a proposito della continuità artistica con il padre commenta: “È come se io e mia sorella Cristina ci fossimo divise la sua eredità di temi e linguaggi. Lui amava molto i personaggi fragili, i personaggi schiacciati dalla società, quelli più deboli come i bambini, del resto. E li seguiva e li accompagnava con grande commozione e partecipazione perché era sempre dalla parte degli antieroi”. A sottolineare queste considerazioni è indicativa la scelta di Comencini di trasporre cinematograficamente uno dei personaggi più belli della letteratura italiana, quello tratto dal romanzo di Cassola “La ragazza di Bube” (per il quale lo scrittore venne insignito del premio Strega nel ’60), in cui la componente storico-politica si limita a fungere da sfondo ad una vicenda di carattere prevalentemente individuale e psicologico, dove si riconoscono chiaramente delle tematiche meno proprie del Neorealismo. Durante tutto lo svolgimento del film, come nel romanzo, la prospettiva dominante è quella di una giovane donna, Mara, còlta nei suoi dubbi e nel suo sviluppo interiore (una sorta di superamento, da parte del regista, della corrente del Neorealismo). (Per le sue analisi di carattere intimista, Comencini venne impropriamente definito appartenente al Neorealismo rosa. Definizione impropria che sminuisce la complessità delle vicende e la profondità dei sentimenti che il regista racconta). Similmente al romanzo, accanto alle vicende dei protagonisti, Comencini ci ricorda un dopoguerra in cui le aspettative di chi ha combattuto verranno deluse in mezzo ai rancori della lotta fratricida tra fascisti e partigiani. Su tutto si staglia la figura di Mara, interpretata da una superlativa Claudia Cardinale. La giovane donna, ingenua ma appassionata è la ragazza di Arturo detto “Bube”, un partigiano condannato a quattordici anni di carcere per avere ucciso un brigadiere per vendicare un suo compagno di lotta. La giovane donna, malgrado le difficoltà e la lontananza, decide di aspettarlo per un senso di onestà e di rispetto verso la sua sofferenza di recluso. “È cattiva la gente che non ha provato il dolore. … Perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno.” Dopo aver pubblicato il libro autobiografico “Infanzia, vocazione, esperienze di un regista”, nel ’99, Luigi Comencini muore, a Roma, all’età di 90 anni a causa dell’aggravarsi della malattia di Parkinson, da cui era stato colpito una quindicina di anni prima.
https://youtu.be/CzQ4dal0A3k
Mary Titton
6 giugno
PRIMO PIANO
D-Day: celebrazioni per il 75esimo sbarco in Normandia.
Oggi, nel 75esimo anniversario del D-Day, i veterani Harry Read e Jock Hutton, entrambi novantenni, hanno compiuto di nuovo lo stesso lancio del 6 giugno 1944, ma questa volta insieme alla spettacolare esibizione dei Red Devils, la squadra di paracadutisti acrobatici dell’esercito britannico, tra bandiere, fumogeni e una folla acclamante. Entrambi erano appena ventenni quando all’alba di 75 anni fa salirono su un aereo a Duxford Airfield, sorvolarono la Manica e si paracadutarono sui bui e silenziosi campi della Normandia, per preparare lo sbarco delle truppe terrestri. Harry Read, oggi 95enne, era un segnalatore e faceva parte della sesta divisione aviotrasportata britannica, la cui missione era quella di entrare nella Francia settentrionale occupata dai tedeschi, proteggere i ponti chiave e distruggere la batteria di Merville prima dello sbarco anfibio, John “Jock” Hutton, 94enne del Kent, aveva 19 anni e faceva parte del 13° reggimento paracadutisti del Lancashire quando atterrò sul famoso ponte Pegasus. Tra le cerimonie ci sono state quella al Cimitero alla memoria americano in Normandia, a cui hanno partecipato il presidente francese Emmanuel Macron e quello americano Donald Trump, accompagnati dalle loro mogli. Al cimitero militare di Bayeux, sempre in Francia, erano invece presenti la prima ministra britannica Theresa May con il principe Carlo e Camilla, duchessa di Cornovaglia. Lo sbarco in Normandia (nome in codice operazione Neptune, parte della più ampia operazione Overlord) fu una delle più grandi invasioni anfibie della storia, messa in atto dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale per aprire un secondo fronte in Europa, dirigersi verso la Germania nazista e allo stesso tempo alleggerire il fronte orientale, sul quale da tre anni l’Armata Rossa stava sostenendo un aspro scontro con i tedeschi. L’invasione iniziò nelle prime ore di martedì 6 giugno 1944 (data conosciuta come D-Day in inglese e Jour-J in francese), quando toccarono terra nella penisola del Cotentin e nella zona di Caen le truppe alleate aviotrasportate, che aprirono la strada alle forze terrestri. All’alba del 6 giugno, precedute da un imponente bombardamento aeronavale, le fanterie sbarcarono su cinque spiagge. Esse si trovavano all’interno di una fascia lunga circa ottanta chilometri sulle coste della Normandia: nel settore statunitense dell’invasione, tre divisioni di fanteria presero terra alle ore 6:30 sulle spiagge denominate Utah e Omaha, mentre nel settore anglo-canadese, un’ora più tardi, altre tre divisioni sbarcarono in altrettante spiagge denominate Sword, Juno e Gold. Le truppe che toccarono queste spiagge subirono la reazione nemica, che in diversi settori (soprattutto a Omaha e Juno) fu molto pesante e causò gravi perdite. Dopo essersi attestati sulle spiagge e aver violato le difese del cosiddetto Vallo Atlantico durante lo stesso D-Day, gli uomini sarebbero dovuti avanzare per dirigersi il più velocemente possibile verso obiettivi situati più in profondità (le cittadine di Carentan, Saint-Lô e Bayeux) per minacciare le vie di rinforzo nemiche. Successivamente avrebbe preso il via la campagna terrestre di Overlord, conosciuta come battaglia di Normandia, in cui le armate alleate avrebbero avuto lo scopo di rafforzare ed espandere la testa di ponte nella Francia occupata, conquistare i principali porti nord-occidentali della Francia e spingersi verso l’interno fino a liberare Parigi. Da qui le forze alleate avrebbero quindi continuato la loro avanzata per spingere i tedeschi oltre la Senna, minacciando direttamente il territorio tedesco in concomitanza con l’avanzata sovietica ad est, e concorrere all’invasione della Germania e alla distruzione del Terzo Reich.
5 giugno
PRIMO PIANO
Giornata mondiale dell’ambiente 2019.
La giornata mondiale dell’ambiente (World Environment Day o WED) è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite tenutasi a Stoccolma dal 5 al 16 giugno 1972, occasione in cui si definirono i 26 principi sui diritti dell’ambiente e sulle responsabilità dell’uomo per la sua salvaguardia. E’ stata celebrata per la prima volta nel 1974 con lo slogan Only One Earth (un sola Terra) e da allora la coscienza ambientale ha subìto il forte impulso che abbiamo visto negli ultimi mesi, ma le piazze e le strade piene devono essere accompagnate dalle azioni concrete di ogni singolo individuo per arrivare a effetti visibili e duraturi. Quest’anno la Giornata dell’ambiente viene celebrata in Cina, il secondo Paese più inquinato del mondo, dopo l’India, dove sarà lanciato un nuovo appello a governi, industria, collettività e individui a passare ad energie rinnovabili e tecnologie green per migliorare la qualità dell’aria nel mondo. Il tema di questa edizione è, infatti, il gravissimo inquinamento atmosferico (nel 2018 era stato la plastica), che uccide circa sette milioni di persone ogni anno e rappresenta la causa principale di morti premature nel mondo. È un’emergenza sanitaria e ambientale perché gli inquinanti atmosferici, oltre a porre a rischio la nostra salute, contribuiscono in maniera determinante ai cambiamenti climatici e all’acidificazione degli oceani. Secondo le Nazioni Unite, nel mondo nove persone su dieci respirano aria inquinata. Lo slogan “Beat Air Pollution” (sconfiggere l’inquinamento atmosferico) sta facendo il giro del mondo e dei social con milioni di iniziative in tutti i Paesi. L’inquinamento atmosferico proviene da cinque fonti principali, tutte di origine umana, che rilasciano una serie di sostanze dannose tra cui il monossido di carbonio, il biossido di azoto, l’ossido di azoto, il particolato, gli idrocarburi e il piombo: tali fonti inquinanti sono i trasporti, le attività agricole (che vi contribuiscono per il 24%), il consumo energetico degli edifici, l’industria e la produzione di energia elettrica. Gli scienziati di 27 accademie degli Stati Ue più Norvegia e Svizzera, fondandosi su numerosi studi indipendenti, confermano i rischi di un aumento di malattie e di morti premature a causa degli effetti del riscaldamento globale e dell’inquinamento dell’aria. Per questo il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, insiste “affinché gli Stati condannati dalla Corte di Strasburgo per violazioni legate alle questioni ambientali agiscano velocemente per rimediare ai danni fatti e per assicurare che non si ripetano situazioni simili in futuro”. Gli obiettivi dell’Unione Europea sono elencati nel quadro per il clima e l’energia 2030, che prevede una riduzione di almeno il 40% delle emissioni di gas serra entro 11 anni. Gli sforzi concreti degli Stati nel contrastare il riscaldamento globale vengono valutati dal Climate Change Performance Index, una classifica annuale che monitora le politiche ambientali di 57 Paesi in base agli Accordi di Parigi, presentata al summit globale sul cambiamento climatico in Polonia. Quest’anno non sono stati assegnati i primi tre posti in graduatoria: non c’è quindi uno Stato al mondo, secondo questo report, che adotti pienamente le strategie per combattere in modo efficace il riscaldamento globale. L’Italia è al 23esimo posto, mentre gli Stati Uniti precipitano al 59esimo per le politiche di deregulation ambientale volute da Trump. Di qui anche le manifestazioni promosse dall’attivista svedese Greta Thunberg, la ragazzina che nel 2018 ha creato il movimento studentesco internazionale Fridays for Future per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico.
DALLA STORIA
Ray Bradbury
Il 5 giugno 2012 moriva Ray Bradbury figura chiave della letteratura fantastica del dopoguerra il cui merito maggiore è stato di portare la fantascienza (o ciò che chiamiamo convenzionalmente fantascienza) a dignità di genere letterario. Non a caso un critico acuto come James Blish definì Bradbury “lo scrittore di fantascienza eternamente preferito da coloro che non hanno mai letto fantascienza ma vorrebbero averla letta”. La narrativa di Bradbury è nel cuore di tutti gli appassionati del genere e di chi si interroga sulle questioni metafisiche e morali legate al comportamento dell’uomo, anche nel suo rapporto con la tecnologia che se sottovalutata, ci avvertiva Bradbury fin dagli anni Quaranta, potrebbe minacciare irreversibilmente la centralità della figura umana. “Bradbury era uno scrittore che, scrivendo di galassie e di robot, di pianeti lontani e di missili interplanetari è rimasto uomo fino in fondo”. Nei suoi racconti prevalgono i sentimenti e l’aspetto poetico dell’esistenza; “i racconti tendono ad avere un contenuto simbolico che fa pensare alle storie meravigliose di Hawthorne, sia pur con meno problemi. … La sua grande capacità di scrittore è stata quella di rendersi conto che le invenzioni della fantascienza popolare possedevano una carica fantastica tale da potersi trasformare in simbolo, in parametro su cui misurare le angosce e le aspettative del profondo”. “Sono uno che sa raccontare delle storie, tutto qui. Sono uno scrittore di miti e i miti non muoiono mai”, diceva a chi sosteneva che egli fosse il più grande scrittore di fantascienza insieme ad Asimov. Ma nemmeno si riteneva uno scrittore di fantascienza: “Ho scritto solo un libro di fantascienza, “Fahrenheit 451”. Il resto, i miei romanzi, i miei racconti, sono fantasy. La fantasy racconta cose che non possono accadere. La fantascienza racconta cose che possono, invece, accadere. Sosteneva che “La fantascienza è una delle forme di letteratura più importanti perché racconta la storia delle idee, la storia della nostra civilizzazione. La fantascienza è centrale per ogni cosa che abbiamo fatto e quelli che prendono in giro gli scrittori di fantascienza non sanno di cosa parlano”. …“Fahrenheit 451” è l’unico libro che ho scritto in cui parlo di cose che sono accadute o che possono accadere davvero. Per questo è un libro ancora attuale, non solo per i temi della censura, delle dittature che ancora nel mondo pensano di poter controllare il pensiero umano, decidono cosa i cittadini possono leggere e cosa no”. Bradbury scrisse il libro nello stesso periodo in cui McCarthy dirigeva una commissione per la repressione delle attività antiamericane, la cosiddetta “caccia alle streghe”, per il clima di sospetto e paura che il senatore seminava, con i suoi metodi poco democratici, nel condurre le indagini. “È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto”, (Eleanor Roosevelt). (Charlie Chaplin fu una delle persone accusate di attività antiamericane e l’FBI fu coinvolta nel fare in modo che venisse cancellato il suo visto di rientro, quando nel 1952 lasciò gli Stati Uniti per un soggiorno in Europa e la sua carriera cinematografica negli USA finì nonostante egli non fosse stato dichiarato colpevole per alcun reato). Bradbury, per evitare di essere a sua volta sospettato (lavorava molto anche come sceneggiatore a Hollywood), accettò la richiesta di pubblicare il romanzo da una nuova rivista, che aveva pochissimo denaro ma che amava molto lo stile dello scrittore. E così “Fahrenheit 451” uscì sul secondo, terzo e quarto numero di Playboy dove certamente non vi erano ostacoli alla libertà di espressione. Nel bellissimo libro di Bradbury, trasposto nel 1966 nell’omonimo film di successo diretto da Francois Truffaut, potente è l’immagine degli uomini-libro che imparano a memoria un determinato testo e lo tramandano perché nella società distopica che l’autore descrive, uno stato di utopia negativa dove regna il terrore, è proibito leggere e possedere libri è considerato un reato. Si tratta di uno stato talmente autoritario che sente il bisogno di mettere i libri al rogo. Montag, il protagonista, è un pompiere che ha l’incarico non già di spegnere gli incendi ma di attizzarli a spese dei libri e della carta stampata.
https://www.youtube.com/watch?v=RCHhec0n5P4
Il titolo “Fahrenheit 451”, apparentemente enigmatico vuole solo indicare la temperatura alla quale brucia la carta, secondo la scala in uso nei paesi anglosassoni. Aldous Huxley, il celebre autore del “Mondo nuovo”, commentò che si trattava di una delle opere più visionarie che avesse mai letto, ma purtroppo, rispondenti a realtà verificatesi e tragicamente sempre in agguato. “Cronache marziane” il libro più famoso di Bradbury insieme a Fahrenheit colloca l’autore nell’empireo dei narratori. “Questo libro”, come si legge nella quarta di copertina di un Oscar Mondadori del 1980: “raccoglie una serie di “cronache” fantastiche che favoleggiano della conquista e della successiva colonizzazione di Marte da parte di un’umanità prevalentemente americana, tra il 1999 e il 2026: anno in cui lo scoppio di una guerra atomica richiama i terrestri sul proprio pianeta. L’antichissimo Marte resta allora nuovamente abbandonato e deserto, con le ampie e impetuose correnti dei suoi misteriosi canali millenari, coi suoi immensi mari privi di vita, sulle cui sabbie passano i grandi velieri degli ultimi marziani creature simili a fantasmi, ombre e larve di una civiltà che i terrestri non hanno saputo né vedere né intendere”. Il messaggio di Bradbury ci mette in guardia dalla possibilità che, in qualsiasi tempo, la libertà può essere repressa in modo violento e che l’opinione pubblica, senza un pensiero critico, può essere facilmente manipolata dalla propaganda: non è necessario ricorrere al rogo dei libri per distruggere una cultura, basta convincere la gente a smettere di leggerli.
Mary Titton
4 giugno
PRIMO PIANO
Cina: 30 anni fa il massacro di Piazza Tienanmen.
Oggi 4 giugno, al Victoria Park di Hong Kong migliaia di persone hanno partecipato alla fiaccolata in ricordo delle vittime del brutale massacro degli studenti, che nel 1989 in piazza Tienanmen a Pechino manifestavano contro la corruzione e chiedevano partecipazione, libertà di espressione e diritti, ma non con l’intento di rovesciare il regime, cosa di cui venivano accusati dal governo che li definì “controrivoluzionari al soldo delle potenze estere”. Hong Kong è l’unica regione sotto la giurisdizione di Pechino in cui è consentita una commemorazione pubblica della repressione del 1989, perchè ha un certo grado di autonomia rispetto alla Cina continentale, retaggio del dominio britannico che si è concluso nel 1997, nel resto del Paese il tema è un vero e proprio tabù: molti documenti, filmati e immagini riguardanti la protesta e la represione violenta delle manifestazioni sono stati occultati dal Partito Comunista Cinese, la censura, nell’imminenza della ricorrenza, ha lavorato a pieno ritmo, ripulendo Internet con gli algoritmi e provvedendo a fermi e arresti preventivi, mentre, nel giorno commemorativo della strage, piazza Tienanmen è stata interdetta ai mass media e il massacro, derubricato dal regime come “incidente di piazza Tienanmen o incidente del 4 giugno”, non trova posto nella storiografia ufficiale, nei libri di testo e nei notiziari. Il ministro della Difesa cinese, generale Wei Fenghe, a due giorni dal 30/mo anniversario della brutale repressione, intervenendo allo Shangri, ha addirittura dichiarato: “Si trattò di una turbolenza politica e il governo centrale prese le misure decisive e i militari presero le misure per fermarla e calmare il tumulto. Questa è la strada giusta. È la ragione della stabilità del Paese che è stata mantenuta.” In Occidente, invece, la protesta di piazza Tienanmen viene considerata un evento fondamentale del XX secolo per i diritti umani e la libertà di espressione: il 1989 fu, infatti, l’anno della caduta del Muro e molti regimi comunisti furono rovesciati in Europa. In Cina, nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, i carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese uccisero a Piazza Tienanmen centinaia di persone, mettendo fine alle manifestazioni degli studenti che reclamavano la democrazia. La protesta era iniziata un mese e mezzo prima, il 15 aprile: studenti provenienti da più di 40 università marciarono su piazza Tienanmen il 27 Aprile, dove furono raggiunti da operai, intellettuali e funzionari pubblici. A maggio più di un milione di persone riempì la piazza, luogo in cui nel 1949 Mao Zedong aveva dichiarato la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Il 20 Maggio il governo impose la legge marziale a Pechino. Truppe corazzate furono inviate per disperdere i manifestanti. Le forze governative di fronte all’immensa folla presente si ritirarono, poi Deng Xiaoping, all’epoca capo della Commissione militare, uno dei maggiori leader del paese, diede ordine di fare fuoco. Il risultato fu un massacro, il cui bilancio ufficiale riporta 319 vittime, ma secondo la Croce Rossa, le organizzazioni internazionali, i media stranieri e i testimoni, i morti furono molti, molti di più. La foto simbolo della protesta è quella di un coraggioso e anonimo ragazzo, chiamato Il Rivoltoso Sconosciuto, che da solo e completamente disarmato si oppose al passaggio di un plotone di carri armati Tipo 59 e salì su uno di essi per parlare con i militari. Il suo gesto eroico viene ancor oggi considerato un emblema della libertà e dell’opposizione alla dittatura.
DALLA STORIA
Emily Davison
(La morte di Emily Davison rende la richiesta di suffragio femminile una questione che riguarda tutto il mondo)
Il 4 giugno 1913 Emily Davison mise piede nella pista del Derby, la principale corsa di cavalli d’Inghilterra e fu scaraventata a terra da un cavallo di proprietà di re Giorgio V. Fino a non molto tempo fa, non era chiaro se il gesto audace dell’attivista inglese fosse una protesta finita male o un tentativo di martirio. Le sue compagne di lotta hanno sempre sostenuto che volesse soltanto attaccare la bandiera viola, bianco, verde del movimento delle suffragette (Wspu) alle briglie del cavallo per dare maggior evidenza alla causa per il diritto al voto per le donne per la quale stava coraggiosamente lottando. (Questa dichiarazione è stata recentemente confermata da un’accurata e sofisticata analisi digitale sul materiale delle immagini dei cinegiornali dell’epoca e avvalorata da una dettagliata ricerca condotta su materiale d’archivio, anche inedito, della storica Maureen Howes). Un evento davvero drammatico perché la Davison, che riportò una frattura cranica ed altre lesioni, morì dopo una lunga agonia di quattro giorni. Tuttavia, un simile desiderio di creare scompiglio era tipico dell’Unione sociale e politica delle donne (Wspu), di cui la Davison era entrata a far parte nel 1906. In Occidente le donne avevano cominciato a ritenere che loro stesse, e per estensione le donne di altri Paesi, non dovessero più essere considerate cittadine di seconda classe. L’estensione del diritto di voto a un numero sempre maggiore di uomini in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti le aveva indotte a chiedersi perché le donne non dovessero avere lo stesso diritto. Inoltre sempre più donne erano istruite e svolgevano incarichi professionali e ciò accresceva le aspettative per il loro diritto al voto. Emmeline Pankhurst, la più famosa delle suffragette, fondò la Wspu allo scopo di usare tattiche militanti per promuovere la causa. Il suo slogan dichiarava: “Fatti, non parole” e la tattica delle suffragette, come ormai erano chiamate le donne che chiedevano il voto, divenne sempre più violenta. Prima si incatenarono a edifici pubblici e interruppero riunioni, poi passarono a sfondare vetrine di negozi, causarono incendi dolosi e piazzarono bombe. Le componenti più attive della Wspu furono ripetutamente arrestate e incarcerate: la Pankhurst ebbe sette condanne alla reclusione, la Davinson nove. Dal 1909 la Wspu organizzò scioperi della fame in carcere; per tutta risposta le attiviste furono alimentate a forza, un’operazione dolorosa e degradante.
(Una suffragetta alimentata forzatamente nella prigione di Holloway, Londra, durante lo sciopero della fame per il diritto al voto per le donne)
“L’esperienza di quelle che negli Stati Uniti venivano chiamate suffragiste presentava evidenti paralleli con quella britannica. L’Unione femminile per la temperanza cristiana lanciò campagne pacifiche per i diritti delle donne, sostenendo che queste non avrebbero potuto influenzare le decisioni politiche, in questo caso, il proibizionismo, senza avere il diritto di voto. Tuttavia il Partito nazionale femminile (Nwp), fondato nel 1916, imitò la tattica militante della britannica Wspu. Non fu una sorpresa, dato che la fondatrice, Alice Paul, era stata membro della Wspu dal 1907 al 1910 ed era stata incarcerata tre volte. Anche le cosiddette “sentinelle silenziose” del Nwp che protestarono all’esterno della Casa Bianca dal gennaio del 1917, furono arrestate e alimentate a forza. Allo scoppio della prima guerra mondiale la Wspu interruppe la campagna, mobilitandosi invece a sostegno dello sforzo bellico. Il contributo offerto dalle donne durante la guerra dimostrò chiaramente quanto il loro ruolo potesse essere più ampio rispetto a quello, tradizionalmente previsto, di mogli e madri. Nel 1918 ottennero il diritto di voto tutte le donne britanniche di almeno 30 anni di età. Nel 1928 in Gran Bretagna il suffragio fu esteso alle donne di almeno 21 anni. Frattanto, negli Stati Uniti il Nwp continuò a protestare fino al 1919, quando il parlamento approvò il diciannovesimo emendamento costituzionale, ratificato l’anno successivo, che concedeva alle donne gli stessi diritti di voto degli uomini”. (Il libro della Storia” Ed. Gribaudo).
(Il lungo cammino delle donne per il suffragio femminile)
Mary Titton
2 giugno
PRIMO PIANO
2 giugno 2019: l’Italia celebra la festa della Repubblica.
Sono passati 70 anni da quando, in quel lontano 2 giugno 1946, al termine della Seconda guerra mondiale, qualche anno dopo la caduta del fascismo, il regime dittatoriale che era stato sostenuto dalla famiglia reale italiana per più di 20 anni, si tenne il referendum istituzionale con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per decidere quale forma di stato – monarchia o repubblica – dare al Paese. Il risultato del referendum, prima votazione a suffragio universale indetta in Italia, con 12 717 923 voti per la repubblica e 10 719 284 per la monarchia, sancì la nascita della Repubblica Italiana. La prima celebrazione della Festa della Repubblica Italiana avvenne il 2 giugno 1947, mentre nel 1948 si ebbe la prima parata in via dei Fori Imperiali a Roma; nel 1949 il 2 giugno fu definitivamente dichiarato festa nazionale e nell’occasione il cerimoniale comprese la passata in rassegna delle forze armate da parte dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi. Anche quest’anno la celebrazione si è aperta all’Altare della Patria alle 9:15, quando il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha deposto una corona di alloro ai piedi della tomba del Milite Ignoto, poi, alle 10:00, in via dei Fori Imperiali, è iniziata la Parata militare con l’esibizione delle Frecce Tricolori. Il tema di quest’anno è stato l’inclusione: il Ministero della Difesa ha dedicato la ricorrenza al “diritto di ogni singola persona di avere accesso ed esercitare, nella società di cui è parte, le stesse opportunità”. A tal proposito non sono mancate le polemiche nei confronti del ministro della Difesa Elisabetta Trenta, che ha respinto le critiche di chi ha contestato la scelta dell’inclusione come tema della parata e ha spiegato che “il concetto di inclusione significa considerare come parte integrante della Difesa tutti i militari, anche quelli che si sono ammalati in servizio. Nessuno deve rimanere indietro, avremo con noi anche i rappresentanti delle vittime del dovere ed i caduti per la Patria. Inclusione vuol dire che parteciperanno per la prima volta anche i civili della Difesa e la riserva selezionata.” A sostegno della ministra il presidente della Camera, Roberto Fico, ha detto: “Non ci devono essere polemiche sterili e strumentali, oggi è la festa di tutti. Nel cielo sventola la bandiera della Repubblica, che significa libertà, democrazia e rispetto di tutte le persone che si trovano sul nostro territorio.” Già ieri il Presidente della Repubblica, in occasione del concerto in onore del corpo diplomatico accreditato a Roma per la cerimonia della Festa della Repubblica, aveva detto: “Il 2 giugno è la Festa degli italiani, simbolo del ritrovamento della libertà e della democrazia da parte del nostro popolo”, osservando che la Repubblica Italiana “con assunzione di responsabilità nel contesto globale ha contribuito per la sua parte alla definizione di modelli multilaterali e di equilibri diretti a garantire universalmente pace sviluppo promozione dei diritti umani.”
DALLA STORIA
La nascita della REPUBBLICA ITALIANA.
La nascita della Repubblica Italiana avvenne in seguito ai risultati del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946, indetto per determinare la forma di governo da dare all’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Per la prima volta in una consultazione politica nazionale votavano anche le donne: risultarono votanti circa 13 milioni di donne e circa 12 milioni di uomini, pari complessivamente all’89,08% degli allora 28 005 449 aventi diritto al voto. I risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946: 12 717 923 cittadini favorevoli alla repubblica e 10 719 284 cittadini favorevoli alla monarchia. Il giorno successivo tutta la stampa dette ampio risalto alla notizia. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, prendendo atto del risultato, assunse le funzioni di capo provvisorio dello Stato. L’ex re Umberto II lasciò volontariamente l’Italia il 13 giugno 1946, diretto a Cascais, nel sud del Portogallo, senza nemmeno attendere i risultati definitivi e la pronuncia sui ricorsi, che furono respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946; lo stesso giorno la Corte integrò i dati delle sezioni mancanti, rendendo i risultati definitivi. I presunti brogli elettorali e altre supposte azioni “di disturbo” della consultazione popolare, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica, non sono stati mai confermati dagli storici non di parte. Subito dopo il referendum non mancarono scontri provocati dai sostenitori della monarchia, durante i quali si verificarono alcune vittime, come a Napoli, in Via Medina. Il divario fra le preferenze espresse per la repubblica e quelle per la monarchia fu una sorpresa, in quanto lo si prevedeva anche superiore a quello di circa due milioni, poi risultato dallo scrutinio ufficiale. Nel nord si distinse il voto del Piemonte, territorio storicamente legato a Casa Savoia, dove la repubblica vinse con il 56,9%. La regione dove si ebbe la maggior percentuale di voti nulli fu la Valle d’Aosta, territorio storicamente legato ai Savoia. Sono state proposte diverse interpretazioni sociologiche e statistiche del voto, che sarebbe stato influenzato dalla condizione economica del momento, dell’ingresso dell’elettorato femminile e da molti altri fattori. Dai dati del voto l’Italia risultò divisa in un sud monarchico e un nord repubblicano. Le cause di questa netta divisione possono essere ricercate nella differente storia delle due parti dell’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: per le regioni del sud la guerra finì appunto nel 1943 con l’occupazione alleata; il nord, invece, dovette vivere quasi due anni di occupazione nazista e di lotta partigiana contro i tedeschi e i fascisti della RSI e fu teatro della guerra civile che ebbe echi protrattisi anche molto dopo la cessazione formale delle ostilità. Le forze più impegnate nella guerra partigiana facevano capo a partiti apertamente repubblicani (Partito comunista, Partito socialista, Movimento di Giustizia e Libertà). Una delle cause che contribuì alla sconfitta della monarchia fu probabilmente una valutazione negativa della figura di Vittorio Emanuele III, giudicato corresponsabile degli orrori del fascismo; anche la sua decisione di abbandonare Roma e l’esercito italiano che venne lasciato privo di ordini, per rifugiarsi nel sud subito dopo la proclamazione dell’armistizio di Cassibile, fu vista come una vera e propria fuga e non migliorò certo la fiducia degli italiani verso la monarchia. Le vicende della seconda guerra mondiale non aumentarono le simpatie verso la monarchia, anche a causa degli atteggiamenti discordanti di alcuni membri della casa regnante: la moglie di Umberto, la principessa Maria José, cercò nel 1943, attraverso contatti con le forze alleate, di negoziare una pace separata muovendosi al di fuori della diplomazia ufficiale. Queste manovre, anche se apprezzate da una parte del fronte antifascista, furono viste in campo monarchico come un tradimento e all’estero come sintomi di profondi contrasti in seno a Casa Savoia, della quale evidenziavano l’irresolutezza. Il 2 giugno 1946, insieme con la scelta della forma dello Stato, i cittadini italiani elessero anche i componenti dell’Assemblea Costituente, che doveva redigere la nuova carta costituzionale. Nella sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l’Assemblea Costituente elesse capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. Con l’entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, il 1º gennaio 1948 De Nicola assunse per primo le funzioni di presidente della Repubblica. Fu un passaggio di grande importanza per la storia dell’Italia contemporanea dopo il ventennio fascista, il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale e un periodo della storia nazionale assai ricco di eventi. Nello stesso anno, nel mese di maggio, fu poi eletto presidente della Repubblica Luigi Einaudi, primo a completare regolarmente il previsto mandato di sette anni.
31 maggio
PRIMO PIANO
A Fabriano la Madonna Benois di Leonardo.
In occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo, la Madonna Benois, proveniente dall’Ermitage di San Pietroburgo, è arrivata a Fabriano dove sarà esposta fino al 30 giugno. La Madonna Benois è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (48×31 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1478-1482 circa e conservato dal 1914 nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. L’opera deve il suo nome alla famiglia che ne fu a lungo proprietaria, i Benois, che a sua volta l’avevano acquistata nel 1824 ad Astrakan, da un mercante d’arte di nome Sapoznikov. Maria sta seduta sullo sfondo di una stanza scura, rischiarata sul fondo da una bifora aperta sul cielo e tiene sulle ginocchia il figlio che, con lo sguardo tipico dei bambini piccoli e tentando di coordinare i movimenti, cerca di afferrare il fiorellino che la mamma tiene in mano. Secondo alcuni, i quattro petali del fiore sarebbero un’allegoria della futura crocifissione. Maria è particolarmente giovane, viene definita la Madonna bambina, e, contrariamente alla tradizione iconografica, sorride guardando con tenerezza il figlio in un rapporto di serena familiarità. Mai si era vista una Madonna così felice di giocare con il suo piccolo, immersa in un momento di gioioso abbandono. Il dipinto mostra uno stile diverso rispetto ai pittori fiorentini di spicco della sua epoca, come Botticelli, Ghirlandaio e Perugino e indica un accurato studio dal vero, particolarmente evidente nella fisionomia realistica del Bambino, nel tenero incarnato e nella gestualità infantile. Al nitido disegno dei fiorentini, prezioso ma innaturale, Leonardo contrappone un delicatissimo “sfumato”, con cui coglie la mutevolezza dei lineamenti e dei contorni e il gioco delle ombre e della luce, che filtra sotto lo sportello di destra delle due imposte, in perfetta prospettiva, spalancate e anticipa la meraviglia della luce che, nella Vergine delle rocce, entra attraverso gli archi naturali del monte e sfiora le pareti rocciose. Sullo stimolo dei fiamminghi e di Filippo Lippi, Leonardo volle rappresentare la Madonna in un interno, dove una tenda nasconde l’ambiente, ma non vi dipinse mai la veduta dalla finestra, lasciando il dipinto incompleto.
DALLA STORIA
Alida Valli.
“Il viso di Alida è quello di una persona ricca di vita interiore, tormentata, insoddisfatta, combattuta tra problemi intellettuali, bisognosa di risolvere le cose in sé prima che fuori di sé, di essere in pace con la coscienza e con il senso del peccato prima che con le cose e con il peccato”. Con questi commenti, Carlo Levi, sottolineava la personalità complessa della Valli che, con la sua eleganza, la bellezza aristocratica e intensa, dall’espressione severa, è stata l’attrice simbolo del cinema italiano del periodo fascista. Baronessa nei modi e lavoratrice instancabile ebbe all’attivo, nel corso della sua carriera, più di cento film. Alida Valli non fu solo un’icona per il pubblico cinematografico lo fu anche per il teatro, verso il quale, forse, era più votata che al cinema stesso. La sua carriera sul palcoscenico la portò a recitare in tutta Italia, in Francia e negli Stati Uniti con opere di Ibsen, Pirandello, Sartre, Williams, Miller e molti altri ancora accanto a colleghi tra i più grandi in assoluto. In televisione la Valli ha registrato indimenticabili interpretazioni in ruoli da protagonista e non negli sceneggiati televisivi, quelli degli anni ’60, ’70, i più amati proprio per l’alta qualità interpretativa di attori bravissimi e carismatici. In Messico partecipò a una serie televisiva di 55 puntate. Alida Valli è stata una delle grandi donne del Novecento, così è ricordata nelle mostre a lei dedicate e ogni volta che si parla di cinema, di spettacolo, di temperamento, di presenza scenica. Nel 1965 confessa a Oriana Fallaci che sì, ha attraversato grandi successi e intensi dolori, ma il dubbio che l’assilla è quello di non essere mai stata amata. Non sapremo mai se questo suo sentimento corrispondeva alla verità. Di lei come attrice si è visto tutto ma, l’espressione un pò malinconica del suo bellissimo viso, faceva intuire una tristezza di fondo sembrava, a volte, “chiusa nei misteri della sua vita privata”. Quando nel ’54 scoppia lo scandalo Montesi (una giovane donna viene trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica), tra gli indiziati c’è il musicista Piero Piccioni (in seguito verrà scagionato definitivamente), sentimentalmente legato alla Valli e figlio dell’allora Ministro degli Esteri, Attilio Piccioni, la stampa e l’opinione pubblica assilleranno, senza tregua, la Valli che sparirà dalle scene per tre anni. All’anagrafe, Alida Valli ha un nome altisonante: Alida Maria Altenburger von Markenstein und Frauenberg. Era nata a Pola il 31 maggio 1921 (terra divenuta italiana dopo la prima guerra mondiale) da madre istriana Silvia Obrekar, pianista, e da padre trentino, professore di filosofia e critico musicale per il giornale locale, barone, appartenente a una nobile famiglia di origini tirolesi ma di sentimenti patriottici italiani. Nel 2004, la Croazia decise di premiarla come grande artista croata, ma lei rifiutò il premio affermando: “Sono nata italiana e voglio morire italiana”. Quando Alida ha dieci anni, la famiglia si trasferisce per lavoro, sul lago di Como. Ma, all’età di 15 anni, decide di andare a Roma dove si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia per debuttare, nel 1935, nel film di Mario Camerini “Il cappello a tre punte” e non si fermerà più: dal ’35 al ’40 gira quindici film. Nel ’41 Mario Soldati le affida la parte di Luisa, intenso ruolo drammatico nel film “Piccolo mondo antico”, dal romanzo di Fogazzaro; la sua interpretazione riceve il premio come migliore attrice dell’anno al festival di Venezia. Ma per lei è un anno doloroso: proprio allora il fidanzato, Carlo Cugnasca, aviatore, muore a Tobruk, in Libia, abbattuto dagli inglesi. Nel ’42 i suoi film “Noi vivi” e “Addio Kira” subiscono, su pressione di Mussolini, la censura fascista. A differenza di molti propri colleghi, nell’autunno del ’43 la Valli, per non recitare in film di propaganda fascista, rifiuta di trasferirsi negli studi cinematografici del fascismo saloino (il “Cinevillaggio” di Venezia) e rimane a Roma dove si nasconde con l’aiuto delle amiche Leonor Fini e Luciana d’Avack. Nel ’43, l’attrice porta a grande successo la canzone “Ma l’amore no” tratta dal film “Stasera niente di nuovo”, di Mario Mattoli, che divenne la canzone italiana di maggior successo e più trasmessa dall’EIAR nel corso dei due ultimi e più bui anni di guerra. Nel ’44 sposa l’artista e compositore Oscar De Mejo, cugino di Leonor Fini, da cui avrà due figli e dal quale divorzierà dopo otto anni. Nel ’47, ancora diretta da Soldati, riceve il nastro d’Argento come miglior attrice protagonista per “Eugenia Grandet”, di Balzac. Nello stesso anno si trasferisce a Hollywood, su invito del produttore Selznick, che vorrebbe farne la “Ingrid Bergman italiana”. Appartengono a questo periodo, tra gli altri, “Il caso Paradine”, di Alfred Hitchcock, in cui recitò accanto a Gregory Peck.
(Alida Valli e Gregory Peck in una scena del film “Il caso Parradine)
“Il miracolo delle campane”, di Irving Pichel, in cui recitò in coppia con Frank Sinatra, e “Il terzo uomo” (1949) di Carol Reed, interpretato assieme a Orson Welles.
(L’attrice nel film il “Terzo uomo”)
Nel ’51 rientra in Italia, insofferente ai “diktat” dell’industria cinematografica statunitense, e nel ’54 fornisce una delle sue migliori interpretazioni nel capolavoro di Luchino Visconti “Senso” e la sua fama si consolida sotto la direzione di registi quali Gillo Pontecorvo in “La grande Strada azzurra”, del ’57, Franco Brusati in “Il disordine”, del ’62, Pier Paolo Pasolini in “L’edipo re”, del ’67. Negli anni settanta si dimostra un’attrice molto versatile, lavorando con Valerio Zurlini in “La prima notte di quiete”, del ’72, con Mario Bava in “Lisa e il diavolo”, del ’72, con Bernardo Bertolucci in “La strategia del ragno”, del ’70 e nel kolossal “Novecento”, del ’76. E ancora con altri registi: Raffaello Materazzo, Marco Tullio Giordana, Dario Argento e così via. A teatro, nel ’73, recita in “Il gabbiano”, di Anton Cechov, regia di Fantasio Piccoli. La sua ultima apparizione sul palcoscenico è in “La città morta” di Gabriele d’Annunzio, con la regia di Aldo Trionfo. Nel ’92 è in Tv nello sceneggiato televisivo “Una vita in gioco”, di Giuseppe Bertolucci, nel ’92 e in “Delitti privati”, nel film Tv del ’93. Fra gli ultimi film “Il lungo silenzio”, di Margarethe von Trotta, del ’93 e sei anni dopo “Il dolce rumore della vita”, di Giuseppe Bertolucci (fratello di Bernardo). “Un mito, una dea”, come la ricorda Bernardo Bertolucci, all’indomani della sua morte. La “più amata dagli italiani”, “la fidanzata d’Italia” muore a Roma il 22 aprile 2006, poverissima, sostenuta soltanto dalla pensione della legge Bacchelli. Numerosi i messaggi di cordoglio. Fra questi, quello del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che parla di “una grave perdita per la cultura italiana” e ricorda “la sua tenacia e il suo entusiasmo, il suo stile elegante e le grandi capacità”, riconoscendole il ruolo di “una delle più grandi e indiscusse attrici del nostro tempo”.
Mary Titton
30 maggio
PRIMO PIANO
Le cause dell’estinzione dell’Uomo di Neanderthal.
Uno dei grandi misteri della paleoantropologia è stato svelato grazie a una ricerca pubblicata dalla rivista Reviews of Geophysics ed è frutto della collaborazione tra geologi dell’Istituto di Scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna (Cnr-Ismar) e dell’Università della Florida a Gainesville. Combinando le datazioni (41.030-39.260 anni fa) sulla scomparsa dei Neanderthal dai principali siti paleolitici con dati genetici, i paleomagnetisti Luigi Vigliotti e Jim Channell hanno identificato nell’Evento di Laschamp, una delle principali escursioni del campo magnetico terrestre avvenuta 41 mila anni fa, il fattore che probabilmente ne causò l’estinzione. Il campo magnetico, infatti, funziona come schermo di protezione contro i raggi UV provenienti dal cosmo e, a causa del suo indebolimento, circa 40mila anni fa ci fu un aumento dei raggi UV che furono fatali ai Neanderthal, fu lo stress ossidativo, prodotto dalla mancanza dello schermo fornito dal campo magnetico terrestre rispetto ai raggi UV, a determinarne la scomparsa. Questi uomini, infatti, possedevano una variante del gene chiamato AhR che era molto sensibile a queste radiazioni, i Sapiens invece ne possedevano una variante diversa, che li ha protetti dai danni dei raggi UV e ne ha determinato la sopravvivenza. Il Laschamp non fu fatale solo ai neanderthaliani, nello stesso intervallo di tempo in Australia si estinsero 14 generi di mammiferi, soprattutto di grossa taglia. La ricerca appena pubblicata analizza anche le relazioni tra intensità del campo magnetico ed evoluzione umana negli ultimi 200 mila anni, l’intervallo di tempo che ha visto lo sviluppo dell’Homo sapiens. Dice il ricercatore del Cnr-Ismar: “La datazione a circa 190 mila anni fa dei resti fossili del più antico Sapiens conosciuto (Omo Kibish, trovato in Etiopia) e del Mithocondrial Eve, il nostro più recente antenato comune su base matriarcale, coincide con un altro momento di assenza del campo magnetico terrestre noto come Iceland Basin Excursion. L’evoluzione umana ha poi avuto vari sviluppi concentrati tra 100 e 125 mila anni fa, nell’ultimo interglaciale, che hanno fatto considerare il clima uno dei fattori che hanno guidato l’evoluzione. Anche in questo caso però registriamo un altro minimo del campo magnetico terrestre: l’evento di Blake (125-100 mila anni fa). Con il procedere delle conoscenze sulla ricostruzione del campo magnetico, del suo ruolo nel modulare i raggi UV e di quello dell’AhR rispetto agli effetti di queste radiazioni, e quando saranno disponibili più accurate datazioni di nuovi reperti fossili e miglioramenti nella filogenesi umana, si chiarirà meglio il ruolo che l’intensità del campo magnetico gioca nell’evoluzione di tutti i mammiferi e forse non solo.”
29 maggio
DALLA STORIA
Peter Higgs: lo scopritore della “particella di Dio”.
(Grafico di un potenziale a simmetria che gode di rottura spontanea della simmetria)
Nasceva il 29 maggio 1929, a Newscastel upon Tyne, Peter Higgs, il fisico britannico “scopritore” dell’omonimo bosone, le cui intuizioni e teorie hanno rivoluzionato la moderna fisica delle particelle e gli sono valse il Nobel per la fisica 2013. Higgs suggerì l’esistenza della particella in questione all’inizio degli anni sessanta; ebbe l’intuizione della sua teoria precisamente nel 1964, mentre passeggiava per le colline scozzesi del Caingorm; tornato in laboratorio, dichiarò di aver maturato “one big idea”, “una grande idea”. Nel libro “La nascita imperfetta delle cose” (Rizzoli), del fisico Guido Tonelli l’autore racconta la grande avventura della scoperta di questa particella. (Tonelli è uno dei protagonisti del successo scientifico e portavoce dell’esperimento Csm al Cern di Ginevra insieme alla fisica Fabiola Gianotti, oggi direttrice generale del Cern e responsabile dell’esperimento gemello Atlas, “l’importanza del risultato imponeva due misurazioni indipendenti”). Una storia che parte dalle intuizioni del giovane Enrico Fermi, per poi arrivare agli studi di Robert Brount, François Englert e Peter Higgs: i tre scienziati, nel 1964, individuarono il meccanismo che dà la massa a tutte le particelle, il cosiddetto campo scalare, il “campo di Higgs”. Quest’ultimo è una sorta di fluido onnipresente con il quale le particelle interagiscono e, così facendo, acquisiscono la loro massa caratteristica. Così i fotoni, cioè le particelle che costituiscono la luce, passano indenni attraverso il campo di Higgs e non hanno massa. Gli elettroni, invece, interagiscono di più (ma poco) e per questo hanno una certa massa. Mentre i quark, che interagiscono ancora di più, hanno una massa maggiore.
Non solo. Conformemente alle leggi della meccanica quantistica, il campo di Higgs ha una natura “granulare”. E la sua componente minima è il bosone di Higgs, una particella che gli scienziati hanno cercato per decenni, senza mai trovarla. (L’americano Philip Warren Anderson, che vinse il Nobel nel 1977 per “il contributo alle teorie dello scattering nell’antiferromagnetismo e nella superconduttività ad alta temperatura e della rottura spontanea di simmetria” ha determinato, con le sue scoperte, la possibilità, per gli altri studiosi, di individuare le particelle subatomiche. Il meccanismo di rottura spontanea di simmetria è alla base delle importanti rivoluzioni concettuali nella fisica). Ci provò prima l’esperimento Desy, in Germania. Poi il Lep al Cern di Ginevra e Tevatron al Fermilab di Chicago. Ma la dimostrazione empirica della sua esistenza teorizzata quarant’anni prima dagli scienziati sopra menzionati (ma solo il lavoro di Peter Higgs citava la possibile esistenza di un nuovo bosone), come è noto, si è avuta nel 2011 grazie all’acceleratore Lhc del Cern di Ginevra, che fu costruito proprio per questo esperimento. Il successo sperimentale del bosone di Higgs ha portato al premio Nobel François Englert e Peter Higgs (Robert Brount era morto da poco), che avevano previsto con esattezza quanto poi è stato osservato più di quarant’anni prima. Con il bosone di Higgs si è aggiunto un altro tassello nel “Modello Standard”. Quest’ultimo costituisce un vademecum per capire come sia fatta la materia, quali siano i “mattoni” fondamentali che la compongono e come questi costituenti interagiscono tra loro. Nel Modello Standard i fisici racchiudono la conoscenza che hanno elaborato studiando le particelle e le quattro forze fondamentali. Esso tuttavia non riesce a spiegare tutto ciò che osserviamo e sono proprio gli interrogativi ancora aperti a guidare la ricerca nella fisica delle particelle. I fisici affermano, sostenuti dalle recenti sperimentazioni, che i bosoni sono una classe di particelle. Tutte le particelle responsabili delle forze sono dei bosoni: i gluoni, responsabili della forza nucleare forte, i bosoni W e Z, responsabili della forza nucleare debole, il fotone, legato alla radiazione elettromagnetica, il gravitone (se esiste, dovrebbe essere responsabile della trasmissione della forza di gravità nei sistemi di gravità quantistica), l’Higgs, responsabile per la massa (perciò chiamato anche particella di Dio, denominazione che dispiace al professor Peter Higgs perché teme che possa offendere le persone di fede religiosa), i fermioni, una famiglia di particelle che comprende quark, neutrini ed elettroni e le scalari, particelle di massa nulla: sarebbero pura energia cinetica. Proprio queste due ultime “particelle” i fermioni e le scalari, nella loro interazione, darebbero vita al bosone di Higgs, secondo una recente ipotesi da parte di quattro fisici italiani che, pur lavorando in luoghi diversi, sono giunti alla stessa conclusione. Per la caccia alle scalari è necessario un acceleratore più potente dell’Lhc, ma se dovessero essere scoperte, affermano gli scienziati, si potrebbe dare una soluzione a problemi cosmologici che oggi appaiono fuori dalla nostra portata, per esempio quelli sulla materia oscura o sulla scomparsa dell’antimateria dal nostro Universo.
27 maggio
PRIMO PIANO
I risultati delle elezioni europee in Italia.
Il voto europeo ha un’enorme ripercussione in Italia con risultati radicalmente diversi rispetto alle elezioni politiche dello scorso anno. A spoglio ultimato, la Lega risulta il primo partito con il 34,33%, segue con il 22,69% il Pd, che supera il M5s, al 17,07%, Forza Italia ha l’8,79%, Fratelli d’Italia il 6,46% e +Europa-Italia in Comune con il 3,09% è sotto lo sbarramento del 4%. Restano fuori dall’Europarlamento anche Europa Verde, al 2,29%, e La Sinistra con l’1,74%. Lo scorso anno il M5s era il primo partito con il 32,68%, il Pd aveva il 18,76%, la Lega il 17,35%, FI il 14%, Fdi il 4,35%, Leu il 3,39% e +Europa il 2,56%. In base alle percentuali un vero ribaltone con la Lega al primo posto e Salvini che assicura che non rivendicherà ministeri o poltrone, ma detta l’agenda di governo ed impone un’accelerazione di alcuni punti del contratto in capo alla Lega, come la flat tax e l’autonomia. Il M5s si trova in una posizione difficilissima: rimanere al governo con la Lega, continuando a farsi erodere i voti da quest’ultima e cedendo su alcuni punti per il movimento imprescindibili, come il no alla tav e il discorso delle autonomie, o rompere affrontando l’incognita del voto elettorale. In discussione nella base del movimento la stessa linea di Di Maio, all’inizio troppo acquiescente alle posizioni di Salvini, da cui ha preso le distanze solo nell’ultimo mese, e la mancanza di chiarezza ed efficacia nell’ indicare la posizione dei 5 Stelle e rivendicare i provvedimenti da loro attuati, non solo il reddito di cittadinanza che li ha fatti vincere al sud e nelle isole, ma non al nord e al centro. Il risultato dei dem dimostra che il partito è in ripresa, dopo che si è aperta l’era di Zingaretti, che come segretario sta cercando di metttere insieme le diverse componenti del partito e di ripartire. Si dovrebbe comunque considerare che si è votato per l’assetto dell’Europa e dare ai risultati il peso dovuto, ma relativo, (il caso Renzi: Europee 2014 40,81% dei voti, politiche 2018 crollo al 19%, dovrebbe insegnare), piuttosto che usarli come un sondaggio in campo nazionale. L’affluenza in Italia alle elezioni europee 2019 è stata del 56,10%, in calo rispetto al 58,69% della precedente consultazione di riferimento, la più alta è stata in Umbria (67,7%) ed Emilia-Romagna (67,3%), la più bassa in Sardegna (36,25%) e in Sicilia (37,51%).
DALLA STORIA
Antonio Ligabue: “il folle genio della pittura naïf”.
Il 27 maggio 1965, dopo una vita travagliata, quando ormai ha raggiunto il successo e nel 1961 ha visto allestita la sua prima mostra personale alla Galleria La Barcaccia a Roma, muore, all’età di 65 anni, Antonio Ligabue, detto “Al tedesch” (“Il tedesco”) o “Al Matt” (“Il matto”) e viene sepolto nel cimitero di Gualtieri: sulla sua lapide viene posta la maschera funebre in bronzo realizzata da Mozzali. Nel 1965, all’indomani della sua morte, gli viene dedicata una retrospettiva nell’ambito della IX Quadriennale di Roma. Su iniziativa di Augusto Agosta Tota e con il patrocinio della regione Lombardia, della provincia e del comune di Milano, dal 28 novembre 1980 all’11 gennaio 1981 fu allestita una grande mostra antologica al Palazzo dell’Arengario: nella sala delle Cariatidi furono esposte oltre 150 sue opere tra dipinti, sculture, disegni e puntesecche, poi raccolte in un dettagliato catalogo con testi di vari critici e intellettuali, come Cesare Zavattini, Alberto Bevilacqua, Mario De Micheli e Raffaele De Grada. La suddetta mostra antologica, nello stesso anno e in quello successivo, verrà poi replicata a Bordighera, Lugano, Parigi, Strasburgo e altre località. Nel 2002 Sergio Negri, tra i maggiori esperti delle opere di Ligabue, pubblicò il Catalogo generale dei dipinti. Tra il 20 giugno e il 4 novembre 2008, al Palazzo Reale di Milano, si tenne una mostra monografica sul pittore organizzata dal Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma, presieduto da Augusto Agosta Tota. Nel 2015, a Gualtieri, a 50 anni dalla sua morte, nasce la Fondazione Museo Antonio Ligabue che realizza un’antologica con 180 opere dell’artista tra dipinti, disegni, incisioni e sculture. Tanti i riconoscimenti dopo la morte, ma la vita di questo geniale artista fu segnata da grandi difficoltà e sofferenze. Antonio Ligabue nacque a Zurigo il 12 dicembre 1899 da Elisabetta Costa, originaria di Cencenighe Agordino, e da padre ignoto: venne registrato anagraficamente come Antonio Costa. Il 18 gennaio 1901 Bonfiglio Laccabue, emigrato in Svizzera dal comune di Gualtieri, sposò Elisabetta e il 10 marzo successivo riconobbe il bambino che assunse così il cognome del patrigno. Antonio, però, divenuto adulto, preferì, nel 1942, essere chiamato Ligabue (presumibilmente per l’odio che nutriva verso Bonfiglio, da lui considerato come l’uxoricida della madre Elisabetta, morta tragicamente nel 1913 insieme a tre fratelli in seguito a un’intossicazione alimentare. Nel settembre del 1900 venne affidato agli svizzeri Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann che lo denunciarono varie volte per i suoi strani comportamenti. A causa delle disagiate condizioni economiche e culturali la famiglia adottiva è costretta a continui spostamenti: Ligabue rimarrà con i Göbel fino al 1919. Il carattere difficile e le problematicità di apprendimento lo portarono a cambiare scuola: prima a San Gallo, poi a Tablat e infine a Marbach, da dove venne allontanato nel maggio del 1915 per cattiva condotta. Si trasferì quindi con la famiglia a Staad. Tra il gennaio e l’aprile del 1917, dopo una violenta crisi nervosa, fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico a Pfäfers. Nel 1919, su denuncia di Elise Hanselmann, la mamma affidataria, venne espulso dalla Svizzera. Da Chiasso fu condotto a Gualtieri, luogo d’origine di Bonfiglio Laccabue, ma, non sapendo una parola di italiano, fuggì tentando di rientrare in Svizzera. Riportato al paese, visse grazie all’aiuto dell’ospizio di mendicità Carri. Nel 1920 ricevette l’offerta di un lavoro presso gli argini del Po: proprio in quel periodo iniziò a dipingere. Nel 1928 incontrò Renato Marino Mazzacurati che ne comprese l’arte genuina e gli insegnò l’uso dei colori ad olio, guidandolo verso la piena valorizzazione del suo talento. In quegli anni si dedicò completamente alla pittura, continuando a vagare senza meta lungo il fiume Po, nel 1937 fu ricoverato in manicomio a Reggio Emilia per atti di autolesionismo. Nel 1941 lo scultore Andrea Mozzali lo fece dimettere dall’ospedale psichiatrico e lo ospitò a casa sua a Guastalla. Durante la guerra fece da interprete alle truppe tedesche. Nel 1945, per aver percosso con una bottiglia un militare tedesco, dovette rientrare in manicomio rimanendovi per tre anni. Nel 1948 la sua attività artistica si fece più intensa tanto che giornalisti, critici e mercanti d’arte si interessarono a lui. Nel 1957 Severo Boschi, firma de Il Resto del Carlino e il fotoreporter Aldo Ferrari gli fecero visita a Gualtieri: ne scaturì un servizio sul quotidiano con immagini tuttora celebri.
Nel 1961 un incidente in motocicletta (gli ultimi anni di vita gli permisero di uscire dalle ristrettezze economiche e di dedicarsi alle sue passioni, tra cui appunto quella per le moto) rallenta la sua attività, penalizzata ulteriormente da una paresi che lo coglie l’anno successivo: una emiparesi dovuta a vasculopatia cerebrale che lo colpisce sia nella mente che nel fisico. Prima di morire, il 27 maggio 1965, chiede di essere battezzato e cresimato. Le sue opere figurative si presentano come squillanti, addirittura violente e nostalgiche, condite con dettagli precisi e spesso ambientate in scenari di vita campestre, con immaginazione e memoria che si mescolano a seconda del paesaggio rappresentato. Dal primitivismo incerto della prima fase, più ingenua, fatta di una manipolazione ‘garbata’ di colori, che copre gli anni dal 1928 al ’39, si passa così all’esplosione espressionista dal colore violento e dalla pennellata convulsa del periodo successivo, caratterizzato da una tavolozza calda e vivida che esprime il dramma della propria esistenza attraverso la raffigurazione dell’aggressività animalesca.
La parte più affascinante del suo lavoro pittorico sono, infatti, i quadri dedicati agli animali dei quali Ligabue diceva: “Io so come sono fatti anche dentro”: cavalli e umili buoi al lavoro, lotte da pollaio fra galli, tigri dalle fauci spalancate, leoni mostruosi, serpenti, aquile, che ghermiscono la preda o lottano per la sopravvivenza, rappresentano una vera e propria giungla che l’artista immagina con allucinata fantasia fra i boschi del Po. Ligabue dipinge a ritmo forsennato, ma ha qualche problema con gli autoritratti, non gli vengono mai somiglianti, decide così di modificarsi il volto, a mattonate, per renderlo simile al dipinto.
26 maggio
PRIMO PIANO
I risultati delle elezioni in Europa.
Dalle 23:00 di domenica sera, ora della chiusura degli ultimi seggi, sono stati diffusi i risultati delle elezioni nei Paesi della Ue per il rinnovo del Parlamento europeo. Il primo dato che spicca è quello dell’affluenza, che in media è del 56,1% e non solo rappresenta il risultato migliore degli ultimi anni, ma anche la prima inversione di tendenza rispetto a un progressivo, inesorabile incremento dell’astensionismo registrato dal 1979, primo anno dell’elezione a suffragio diretto del Parlamento Ue. Il picco più alto è in Belgio (88,5%), sopra la media i Paesi del Nord, fra i primi la Germania, ma anche la Spagna e la Grecia, nella parte bassa della classifica l’Europa dell’Est e i Paesi baltici. Per quanto riguarda il dato politico, Popolari e Socialisti non hanno più la maggioranza a due, ma il blocco “europeista” con i Liberali dell’Alde supera la soglia del 50% e con i Verdi potrebbe arrivare a quasi 500 deputati. In crescita i partiti “sovranisti” in Italia, Francia e Regno Unito, che restano però minoranza a Strasburgo. Il Partito popolare europeo, pur restando primo partito dell’emiciclo con 179 seggi, ne perde 38, in netto calo rispetto ai 216 ottenuti nel 2014. Anche i socialisti passano da 185 eurodeputati a 146. Crescono soprattutto i liberali dell’Alde, che, grazie anche ai voti di Macron, salgono da 69 a 109 seggi e i Verdi (da 52 a 69 seggi). Risultati misti nei tre gruppi euroscettici: male i conservatori Ecr (da 77 a 59 seggi, tirati giù dai Tory), meglio i sovranisti dell’Enf (da 36 a 58) e i populisti dell’Efdd (da 42 a 54). Il M5s è ancora tra le fila dell’Efdd con Farage, ma ha dichiarato di voler formare un nuovo gruppo politico. Ultima in classifica e in discesa la sinistra radicale Gue, che passa da 52 a 39 seggi. Da questo quadro, in sintesi, si evince che i sovranisti non hanno sfondato, le forze europeiste, come hanno dichiarato, escludono alleanze con loro, si potrebbe profilare un’alleanza tra Popolari e Socialisti aperta ai Liberali e ai Verdi. Chiaramente i risultati delle elezioni europee, oltre che sulla composizione del Palamento di Strasburgo, hanno una ripercussione nei singoli Stati della Ue e costituiscono quasi un sondaggio per le forze politiche degli stessi, anche se i cittadini dovrebbero aver espresso il loro voto guardando agli assetti europei piuttosto che a quelli nazionali.
24 maggio
PRIMO PIANO
A Roma la mostra “Tex – 70 anni di un mito”.
Al Mattatoio di Roma si è aperta la mostra “Tex – 70 anni di un mito”, che celebra i 70 anni di Tex Willer, il fumettio più amato dagli italiani: saranno esposti disegni, fotografie e inediti originali per ripercorrere la storia del fumetto creato da Gian Luigi Bonelli e realizzato graficamente da Aurelio Galleppini. Curata da Gianni Bono, storico e studioso del fumetto italiano, in collaborazione con la redazione di Sergio Bonelli Editore, Comicon e ARF! Festival di storie, segni e disegni, la mostra raccoglie, oltre a tavole originali e inedite, un’infinita serie di curiosità sul personaggio, i suoi disegnatori e il suo papà, Gian Luigi Bonelli, di cui sono esposti gli appunti sui dialetti degli indiani e la macchina da scrivere, quella da cui è nato Tex nel 1948. La serie nacque, infatti, nel 1948 senza molte aspettative per il suo successo, ma è divenuta col tempo un fenomeno editoriale, in quanto è stata pubblicata regolarmente per oltre settant’anni ed è stata oggetto negli anni di indagini sociologiche e testi di saggistica, nel 1985 ne è stata realizzata anche una trasposizione cinematografica. Tex Willer è un ranger del Texas non inquadrato formalmente, anche se svolge spesso missioni su richiesta del Comando. Tex, con il nome di Aquila della Notte, è anche il capo supremo di tutte le tribù Navajos e assume su di sé anche l’incarico governativo di agente indiano della nazione pellerossa. Viene descritto come un uomo dell’apparente età di 40-45 anni, forte e muscoloso, con un’elevata resistenza ed un fisico eccezionale; si presenta quasi sempre con gli stessi capi d’abbigliamento: un cappello tipo Stetson, una camicia di colore giallo (nelle copertine e negli albi a colori), un fazzoletto nero annodato al collo, dei pantaloni stile jeans, un paio di stivali con annessi speroni ed, alla vita, il cinturone. Solo quando si trova presso la riserva o nelle avventure che hanno per protagonisti i nativi americani indossa abiti differenti: casacca indiana (che riporta su lato anteriore l’immagine di un’aquila nera), pantaloni a frange, mocassini indiani e in testa una fascia Wampum decorata con simboli indiani, che lo identifica come Sakem dei Navajo, in alcune occasioni indossa una camicia rossa (si nota soprattutto nelle copertine dei primi numeri). Nelle storie ambientate sui monti o in zone particolarmente fredde, porta un pesante giaccone o un impermeabile. Classico esempio di eroe positivo, pur di far trionfare la giustizia, è disposto anche a violare la legge, nelle sue avventure è di solito accompagnato dai suoi tre pards: Kit Carson, probabilmente ispirato all’omonimo personaggio del Far West, ma non alla sua biografia, anch’egli ranger; Kit Willer, figlio di Tex e di Lilyth, una squaw navajo; Tiger Jack, guerriero navajo e fratello di sangue dell’eroe. Insieme percorrono deserti e praterie a protezione degli onesti cittadini, qualunque sia il colore della loro pelle, contro gli assalti dei fuorilegge, che li considerano puro veleno, dei veri satanassi e dei tizzoni d’inferno. Indimenticabili le sfide di Willer con Mefisto, il suo antagonista storico. Tra le storie più amate quelle sui sentieri polverosi del vecchio West e quelle ambientate nei deserti selvaggi del Messico.
23 maggio
PRIMO PIANO
Nel nome di Giovanni Falcone è arrivata a Palermo la Nave della legalità.
Nel 27esimo anniversario della strage di Capaci è arrivata stamattina a palermo la Nave della Legalità, salpata ieri alle18:00 dalla banchina 8 del Porto di Civitavecchia con a bordo circa 1.500 studenti, provenienti da tutta Italia, che si sono uniti nel porto palermitano a quelli siciliani e al grido “Noi la mafia non la vogliamo” hanno scandito i nomi “Giovanni e Paolo”. Ad attenderli Maria Falcone, Presidente dell’associazione Giovanni Falcone e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Ieri sera si è svolto sulla nave un dibattito sul tema della legalità al quale hanno preso parte i ragazzi, che hanno compiuto il viaggio anche insieme al ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e hanno avuto modo di ascoltare le testimonianze di Pietro Grasso e di Nando Dalla Chiesa. Il tema dell’edizione di quest’anno di #PalermoChiamaItalia è dedicato alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, firmata a Palermo nel 2000. La Convenzione, chiamata anche “Convenzione di Palermo”, è entrata in vigore il 29 settembre 2003 ed è stata ratificata da 189 Stati. Alla Convenzione è intitolato anche il concorso nazionale per questo anno scolastico dal titolo: “Follow the money. Da Giovanni Falcone alla Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale”. I migliori elaborati degli studenti saranno premiati durante la cerimonia nell’ Aula Bunker aklla presenza delle più alte cariche dello stato. Agli studenti si uniranno le voci di oltre 70 mila ragazzi che in tutta Italia parteciperanno alle iniziative contro le mafie nell’ambito di #PalermoChiamaItalia, la manifestazione promossa dal 2002 dal ministero dell’Istruzione e dalla Fondazione Falcone che si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Una iniziativa che rientra in un percorso promosso annualmente dal Miur per incoraggiare nelle scuole attività didattiche mirate alla cultura del rispetto e della legalità e per una cittadinanza attiva e responsabile. Le celebrazioni istituzionali si tengono nell’Aula Bunker dell’Ucciardone, luogo simbolo del maxiprocesso a Cosa nostra, e saranno trasmesse in diretta televisiva su Rai Uno dalle ore 10. Nel pomeriggio, poi, partiranno i due tradizionali cortei di #PalermoChiamaItalia, che vedranno protagonisti innanzitutto gli studenti e i docenti, ma che saranno aperti a tutta la città e si ricongiungeranno sotto l’Albero Falcone, in via Notarbartolo, per il Silenzio, alle 17:58, l’ora della strage di Capaci. Di alto valore e di monito per tutti le parole rivolte agli studenti da Maria Falcone, che citando il fratello Giovanni ha detto: “Gli uomini passano, le idee continuano …”
DALLA STORIA
23 maggio 1992: La strage di Capaci. …“Quelle ‘menti raffinatissime’ mai trovate”.
“Le ricorrenze sono momenti importanti perché contribuiscono a tenere in vita la memoria. … Ma, al di là del momento celebrativo, sono anche occasioni utili a stimolare bilanci e riflessioni. Sono trascorsi ben venticinque anni dalle tremende stragi del 1992. La prima considerazione da fare è la più amara: non conosciamo ancora tutta la verità sull’identità dei colpevoli, specie quelli estranei all’organizzazione criminale Cosa Nostra. Non perdo occasione per ribadirlo perché tengo sempre ben presente l’opinione espressa da Falcone subito dopo il fallito attentato dell’Addura del giugno 1989. Queste le sue testuali parole: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. (Frasi tratte dall’articolo del giudice Giuseppe Ayala: “Quelle menti raffinatissime mai trovate”, del 15 maggio 2017)
Tra i misteri d’Italia, ancora oggi, dopo quasi tre decenni, ci si chiede chi orchestrò lo smantellato del pool antimafia, il vincente metodo investigativo che portò “Cosa Nostra” alla sbarra. Il pool pensato per la prima volta dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 da Cosa Nostra, per fermarlo colpendo l’ideatore, dopo la sua morte venne assegnato al giudice Antonino Caponnetto, il quale decise di mantenere e ampliare l’organizzazione dell’Ufficio voluto dal predecessore. Caponnetto si informò presso la procura di Torino riguardo a come si fosse organizzata durante gli anni del terrorismo e decise infine di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso nel palermitano, e di conseguenza la possibilità di combatterlo più efficacemente. Caponnetto scelse, tra i giudici istruttori che meglio conosceva e dei quali riteneva di potersi fidare: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala, avrebbero avviato una nuova metodologia per le indagini; avrebbero condiviso i risultati delle inchieste in modo da superare l’isolamento che li rendeva più vulnerabili, avrebbero collegato i singoli reati in un quadro più generale mettendo in relazione i singoli fatti tra loro in modo da intuire le ramificazioni tra le varie famiglie mafiose. Questo modo di procedere del pool costituì una grande novità rispetto alla lotta alla mafia degli anni ’60 e ’70 che aveva elencato per lo più insuccessi. Cosa Nostra era una struttura organizzata territorialmente con famiglie organizzate fra di loro; solo annodando opportunamente i fili era possibile arrivare ai mafiosi. Grazie alla grande capacità investigativa del giudice Falcone che, fin dall’inizio pensava che bisogna seguire il percorso dei soldi, arrivano i primi mandati di cattura fino a contarne circa 500. Falcone è un magistrato che tiene rapporti con i colleghi statunitensi perché lavora subito sul traffico di droga, conosce l’anima siciliana e ottiene la fiducia dei primi pentiti a partire da Buscetta che sarà fondamentale nel ricostruire come funziona la struttura organizzata mafiosa. Il metodo innovativo delle indagini, portato avanti sistematicamente, in condizioni di vita molto pesanti per i componenti del pool, costretti quasi alla segregazione e costantemente sorvegliati dalla scorta che li accompagna sempre con armi in pugno, stretti intorno al loro corpo approda a risultati sorprendenti: viene istituito il noto Maxiprocesso, un evento senza precedenti.
Vengono pronunciate dure condanne, decine e decine di ergastoli tra affiliati e pericolosi boss latitanti. Ma il pool antimafia organizzato da Antonino Caponnetto non ebbe lunga vita. Un anziano magistrato, Antonino Meli, che inizialmente intendeva candidarsi come presidente del tribunale di Palermo, venne convinto da alcuni colleghi a ritirare tale candidatura e correre invece per la poltrona di presidente dell’ufficio istruzione. Meli era un magistrato di lunga esperienza, che non si era mai occupato di mafia, se non in una sola occasione, singola occasione. Aveva però un’anzianità di servizio assai superiore a quella di Falcone, ed il criterio dell’anzianità era quello di solito seguito dal Csm per l’assegnazione dei posti. La maggioranza dei consiglieri votò per Meli: la sua maggiore anzianità di servizio era stata preferita all’esperienza nella lotta alla mafia. Questo portò, in breve tempo, alla fine dell’esperienza del pool, poiché buona parte dei suoi componenti preferì dimettersi e dedicarsi ad altri incarichi. Nonostante lo straordinario impegno e talento di Falcone nell’affrontare il fenomeno mafioso nessuno come lui venne così isolato e avversato. Ilda Bocassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il metodo investigativo di Falcone (come scrive Roberto Saviano su Repubblica, il 23 maggio 2017) a dieci anni da Capaci sintetizzò così ciò che Falcone dovette subire: “Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità”. Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm e, continua Bocassini, sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.” Nell’articolo Saviano specifica che la causa dell’ostilità verso Falcone è l’invidia e che questa affermazione non è una sua idea ma “è scritto nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. “Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto?”. I suoi detrattori lo isolavano perché Falcone non lo si può considerare un uomo comune: non tutti hanno lo stesso rigore morale, la stessa fermezza di fronte a un impegno che poteva comportare, quasi sicuramente la morte, l’imperativo, malgrado tutto, di ottemperare al suo dovere con “spirito di servizio”, attraverso l’esercizio del diritto; un fuoriclasse, per molti, scomodo. “Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il più feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via”, conclude tristemente Saviano.
Di seguito riportiamo l’intervista di Gianni Minà al giudice Antonino Caponnetto: “Chi ci tradì?”, l’ultimo dubbio di Caponnetto”.
Nel luglio del 1992, dopo l’omicidio di Paolo Borsellino che aveva seguito di due mesi quello di Giovanni Falcone, all’uscita della camera ardente Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall’emozione “Non c’è più speranza …” Quella che segue è una sintesi di una toccante intervista realizzata nel maggio del 1996 da Gianni Minà, della serie televisiva Storie da lui stesso realizzata e trasmessa da Rai Due. L’intervista è pubblicata da Sperling & Kupfer e Rai-Eri.
GIANNI MINÀ: Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese?
ANTONINO CAPONNETTO: Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole di sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.
GIANNI MINÀ: Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent’anni a Pistoia e poi a Firenze.
GIANNI MINÀ: E perché invio la domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttorio, dopo l’assassinio di Chinnici?
ANTONINO CAPONNETTO: Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c’è un cordone ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall’oppressione della mafia, per restituire dignità e libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché non pensavo di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il tempo mi ha perdonato (…)
GIANNI MINÀ: Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano, per loro ero comunque uno “straniero” che veniva a togliere lavoro ai siciliani, e ai palermitani (…)
GIANNI MINÀ: Sicuramente c’erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C’è la certezza che qualcuno ha tradito. Ma appena la giustizia si avvicina a questo sottobosco politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, tuttora, a “coperture” anche se si sta cercando di far luce su tutto questo.
GIANNI MINÀ: Lei ha mai conosciuto Contrada?
ANTONINO CAPONNETTO: Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983.
GIANNI MINÀ: Come seppe dell’attentato a Falcone?
ANTONINO CAPONNETTO: Dalla televisione, e mi sentii morire.
GIANNI MINÀ: Parlò con Borsellino quel giorno?
ANTONINO CAPONNETTO: Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento.
GIANNI MINÀ: Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli?
ANTONINO CAPONNETTO: Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo.
GIANNI MINÀ: Lei mi ha detto “Borsellino sapeva di morire”; in che senso sapeva di morire?
ANTONINO CAPONNETTO: Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell’attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento.
GIANNI MINÀ: Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo per farlo saltare in aria?
ANTONINO CAPONNETTO: Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili.
GIANNI MINÀ: Ma non c’era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno che lo potesse aiutare in qualche modo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sì, Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto nei suoi confronti disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze (…)
GIANNI MINÀ: Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta?
ANTONINO CAPONNETTO: Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un’associazione così ben organizzata come la mafia, se non coordinandosi. C’era bisogno di riunire le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di mafia. Avevo già coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di un’esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la stessa esperienza l’aveva vissuta a Roma.
GIANNI MINÀ: Come scelse i suoi collaboratori?
ANTONINO CAPONNETTO: Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già lì e aveva istruito il processo Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell’omicidio del commissario Basile …
GIANNI MINÀ: Parliamo dell’operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la mafia. Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre centoventi omicidi. La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò per la prima volta il nome di Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Liggio, dei Greco, dell’omicidio Scaglione, rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”. Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise – aprendo la porta dall’interno – di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l’unico modo per entrare in una struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai progrediti (…)
GIANNI MINÀ: Chi decise di smantellare il pool antimafia?
ANTONINO CAPONNETTO: Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come affrontare la lotta alla mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per lasciare il posto a Giovanni che era l’unico per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose andarono diversamente.
GIANNI MINÀ: Chi bocciò Falcone?
ANTONINO CAPONNETTO: Il Csm
GIANNI MINÀ: Nelle persone di?
ANTONINO CAPONNETTO: Mi porto sempre dietro l’appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi dei presunti favorevoli, dall’altra quella dei quali dava per scontata l’opposizione. Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all’ultimo momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella colonna a lui contraria.
GIANNI MINÀ: Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a Palermo.
ANTONINO CAPONNETTO: Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri, in tanti documenti. Borsellino li definì “giuda”, quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del 1993, dopo l’eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere a Caponnetto, il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest’uomo rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.”
GIANNI MINÀ: Non so se – come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco?
ANTONINO CAPONNETTO: Ognuno ha fatto la sua parte. Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell’Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica, e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la procura della Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue (…)
GIANNI MINÀ: In un’intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato”.
ANTONINO CAPONNETTO: Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il parlamento non avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari. È, quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti decisivi per la lotta alla mafia.
GIANNI MINÀ: Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria?
ANTONINO CAPONNETTO: Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che non lo saprò mai.
Mary Titton
21 maggio
PRIMO PIANO
Addio a Niki Lauda, leggendario campione della Formula 1.
L’ex pilota austriaco Niki Lauda, tre volte campione del mondo, è morto la notte scorsa, all’età di 70 anni in una clinica in Svizzera per problemi renali. Lo ha comunicato la famiglia tramite una mail inviata agli organi di stampa. Nato da una ricca famiglia di banchieri viennesi, Lauda si interessò all’automobilismo fin da giovane, ma i suoi genitori non lo supportarono, in quanto ritenevano che ciò li avrebbe screditati agli occhi dell’alta società. Nel 1968 decise di abbandonare gli studi universitari e, dopo aver preso in prestito del denaro da alcune banche austriache, comprò la sua prima vettura per prendere parte a competizioni automobilistiche. Dopo aver partecipato al campionato di Formula Vee e successivamente alla Formula 3 e 2, approdò nel 1971 alla Formula 1, dove vinse tre titoli mondiali: nel 1975 e nel 1977 con Ferrari e nel 1984 con McLaren. Nella sua carriera Lauda ha disputato 171 Gran Premi: ne ha vinti 25 e ha segnato 24 pole position e 24 giri veloci. Nel 1976 ebbe l’incidente che lo lasciò sfigurato e con ustioni di terzo grado su gran parte del corpo. Era il primo agosto: al secondo giro del Gp di Germania il pilota della Ferrari sbandò in una curva sul circuito Nürburgring, nel punto più lontano dal box, perdendo il controllo dell’auto, che colpì il guard-rail esterno e rimbalzò in mezzo alla pista prendendo immediatamente fuoco. Nell’impatto Lauda perse il casco: gravemente ustionato e ferito, rimase per tre minuti nell’abitacolo in fiamme, prima di essere tirato fuori, fu poi trasferito in elicottero all’ospedale militare di Coblenza, poi al Trauma Clinic di Ludwigshafen e infine al Städliche Krankenanstalten di Mannheim, dove per giorni rimase tra la vita e la morte. Dopo l’improvviso ritiro dalle corse nel 1979 e il ritorno nel 1982 con McLaren, nel 1985, al Gran Premio d’Austria, annunciò il suo ritiro definitivo dalle competizioni a fine stagione, la sua ultima vittoria in Formula 1 la ottenne nel Gran Premio d’Olanda. Dopo il ritiro dalle corse, oltre a occuparsi della propria compagnia aerea, Lauda ha svolto la professione di commentatore televisivo per emittenti di lingua tedesca ed è stato consulente di diversi team di Formula 1, tra cui Ferrari e Jaguar. Giudicato uno dei migliori piloti della storia, era soprannominato «il computer» per la capacità di scovare anche i più piccoli difetti nell’auto che guidava e per la precisione con cui metteva a punto la vettura prima di ogni gara. Freddo e determinato, essenziale anche nello stile di guida, Niki Lauda è stato uno dei più grandi campioni di Formula 1.
DALLA STORIA
Lucio Annéo Seneca.
(“La morte di Seneca” di Peter Paul Rubens, 1615)
“Una delle cause delle nostre miserie è che noi viviamo seguendo l’esempio altrui, e invece di regolarci secondo ragione, ci lasciamo trascinare dalla consuetudine. Se fossero pochi a fare una cosa, noi non avremmo voglia di imitarli; ma una volta che s’è generalizzata una moda, la seguiamo, nella convinzione che una cosa diventi onorevole se è fatta da molte persone. Così per noi l’errore prende il posto dell’azione retta quando è diventato l’errore di tutti”. (Seneca, Lettere a Lucilio, 62/65 d.C.)
Lucio Annéo Seneca nacque a Cordoba, capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane, il 21 maggio di un anno di non certa determinazione: le possibili date individuate dagli studiosi sono tre: l’1, il 3 o il 4 a.C. (quest’ultima la più probabile). Il padre del filosofo, Seneca il Vecchio, era di rango equestre e autore di alcuni libri di “Controversiae” e di “Suasoriae”. Si era trasferito a Roma negli anni del principato di Augusto: appassionato all’insegnamento dei retori, divenne assiduo frequentatore delle sale di declamazione, sposò in giovane età una donna di nome Elvia da cui ebbe tre figli, Novato e Mela, padre del futuro poeta Lucano, e il secondogenito Lucio Anneo Seneca. A Roma Seneca, come voleva il padre, ebbe un’accurata istruzione retorica e letteraria, anche se si interessò più che altro alla filosofia. Fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero fu la frequentazione della scuola cinica dei Sesti: il maestro Quinto Sestio è per Seneca il modello di un asceta che cerca il continuo miglioramento attraverso la nuova pratica dell’esame di coscienza. Tra i suoi maestri di filosofia vi sono Sozione di Alessandria, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo. Seneca segue intensamente gli insegnamenti dei maestri, che lo influenzano profondamente sia con la parola che con l’esempio di una vita vissuta in coerenza con gli ideali professati: da Attalo impara i principi dello stoicismo e l’abitudine alle pratiche ascetiche; da Sozione apprende i principi delle dottrine di Pitagora ed è avviato per qualche tempo alla pratica vegetariana. Per curare le crisi di asma e la bronchite ormai cronica, intorno al 26 d.C Seneca si reca in Egitto, ospite del procuratore Gaio Galerio, marito della sorella della madre Elvia. Tornato a Roma, inizia l’attività forense e la carriera politica diventando questore, entrando a far parte del Senato e godendo di una notevole fama come oratore, al punto di far ingelosire l’imperatore Caligola, che nel 39 d.C. arriva a volere toglierlo di mezzo, soprattutto per la sua concezione politica rispettosa delle libertà civili. Seneca si salva grazie ai buoni uffici di un’amante del “princeps”, la quale affermava che comunque sarebbe morto presto a causa della sua salute malferma. Due anni dopo, nel 41 d.C., Claudio, successore di Caligola, condanna Seneca all’esilio in Corsica con l’accusa di adulterio con la giovane Giulia Livilla, sorella di Caligola. In Corsica scrive la Consolatio ad Polybium e quella ad Helviam matrem e rimane fino all’anno 49, quando Agrippina riesce ad ottenere il suo ritorno dall’esilio, scegliendolo come tutore del figlio Nerone. Seneca accompagnerà l’ascesa al trono del giovane Nerone (54-68), guidandolo durante il cosiddetto “periodo del buon governo”, il primo quinquennio del principato. Poi, quando il principato subisce un’involuzione, inclinando verso la violenza e le atrocità, il suo rapporto con Nerone si deteriora e, vedendo che le sue esortazioni alla moderazione non hanno più alcuna influenza sul principe, decide di ritirarsi a vita privata, dedicandosi solo ai suoi studi. Nerone intanto matura una crescente insofferenza verso Seneca e verso la madre Agrippina. Dopo aver ucciso la madre nel 59 e Afranio Burro nel 62, non aspetta che un pretesto per eliminare anche Seneca. Quest’ultimo, ritenuto coinvolto in una congiura ordita per uccidere Nerone (la congiura dei Pisoni, risalente al mese di aprile dell’anno 65), di cui Seneca non fu partecipe, ma di cui era probabilmente a conoscenza, venne costretto a togliersi la vita. Seneca affronta la morte con fermezza e stoica serenità, come Tacito racconta negli “Annales”: 62. Senza scomporsi Seneca chiede le tavole del testamento; di fronte al rifiuto del centurione, rivolto agli amici, dichiara che, poiché gli si impediva di dimostrare a essi la propria gratitudine come meritavano, lasciava loro l’unico bene che possedeva, che era anche il più bello, l’immagine della propria vita, della quale, se avessero conservato ricordo, avrebbero raggiunto la gloria di una condotta onesta e di un’amicizia incontaminata. Frena intanto le loro lacrime, ora con le parole ora, con maggiore energia, in tono autorevole, richiamandoli alla fermezza e chiedendo dove mai fossero gli insegnamenti della filosofia, dove la consapevolezza della ragione, affinata in tanti anni, contro i mali incombenti. Tutti ben conoscevano infatti la crudeltà di Nerone. Al quale non restava altro, dopo l’uccisione della madre e del fratello, che di ordinare anche l’assassinio del suo educatore e maestro, “Annales”: 63. Dopo riflessioni di tal genere, che sembravano rivolte a tutti indistintamente, stringe fra le braccia la moglie e, inteneritosi alquanto, malgrado la forza d’animo di cui dava prova in quel momento, la prega e la scongiura di contenere il suo dolore e di non renderlo eterno, ma di trovare, nella meditazione di una vita tutta vissuta nella virtù, un decoroso aiuto a reggere il rimpianto del marito perduto. Paolina invece afferma che la morte è destinata anche a sé e chiede la mano del carnefice. Seneca allora, per non opporsi alla gloria della moglie, e anche per amore, non volendo lasciare esposta alle offese di Nerone la donna che unicamente amava: «Ti avevo indicato» le disse «come alleviare il dolore della vita, ma tu preferisci l’onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare. Possa la fermezza di una morte così intrepida essere pari in te e in me, ma sia più luminosa la tua fine.» Dopo di che il ferro recide, con un colpo solo, le vene delle loro braccia. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dal poco cibo lasciava fuoruscire lentamente il sangue, taglia anche le vene delle gambe e dei polpacci; e, stremato dalla intensa sofferenza, per non fiaccare col proprio dolore l’animo della moglie, e per non essere indotto a cedere, di fronte ai tormenti di lei, la induce a passare in un’altra stanza. 64 … Seneca, intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell’arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all’azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d’acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.
20 maggio
DALLA STORIA
Honoré de Balzac.
(Balzac in un dipinto tratto da un dagherrotipo del 1842)
“Per quanto possa sembrare strano dirlo in pieno secolo decimonono, Balzac fu un veggente. La sua abilità di osservatore, la perspicacia di fisiologo, il suo genio di scrittore non sono sufficienti a spiegare l’infinita varietà dei due o tremila tipi che recitano una parte più o meno importante nella “Commedia umana”. Egli non li copiava, li viveva idealmente, vestiva i loro abiti, contraeva le loro abitudini, si circondava del loro mondo, si immedesimava in loro per tutto il tempo necessario”. (Théophile Gautier)
Honoré de Balzac è l’autore della monumentale opera che lui stesso chiamò “Commedia umana”, in cui egli raggruppò, intorno al 1845, la sua vastissima produzione romanzesca che comprende quasi cento romanzi, novelle, saggi realistici, fantastici o filosofici, oltre a racconti e a 25 studi analitici. Un grandioso affresco della società a lui contemporanea in cui dipinse con particolare profondità figure divenute, per questo, universali, degli archetipi rappresentativi delle grandezze e miserie umane. “La più grande costruzione di tutta la storia dell’umanità” la “Commedia umana” di Balzac, in dichiarata antitesi con l’impresa dantesca, è una nuova Commedia, incentrata sulla natura umana. “In Balzac tutti, anche le portinaie, sono geniali. Tutti gli esseri sono armi caricate di volontà fino all’orlo. Così è lo stesso Balzac e, poiché tutti gli esseri del mondo esterno si offrivano al suo sguardo con un rilievo potente e una smorfia seducente, ha stravolto le sue figure, ha incupito le loro ombre e illuminato le loro zone luminose. Il suo gusto straordinario del particolare, che dipende dall’ambizione smodata di vedere tutto e di far vedere tutto, di indovinare ogni cosa e di far indovinare ogni cosa, lo obbligava per un altro verso a segnare con più forza le linee principali, per salvare la prospettiva d’insieme. Mi fa talvolta pensare a quegli incisori che non sono mai contenti del loro tratto e che trasformano in solchi profondi le linee fondamentali delle loro incisioni. (Charles Baudelaire). La veridicità di quest’opera colossale ha portato Friedrich Engels a dichiarare di aver imparato più dal “reazionario” Balzac che da tutti gli economisti. Balzac nasceva a Tours il 20 maggio. Suo padre, Bernard-François Balssa, aveva deciso di adottare il cognome dei Balzac d’Entragues, una famiglia nobiliare proveniente dalla sua zona di origine, il Tarn. Di famiglia contadina, educato da un curato, era riuscito a fare carriera nella burocrazia parigina, diventando segretario del Consiglio di Luigi XVI. Il suo desiderio di ascesa sociale gli fece adottare, nel 1802, il de nobiliare. La madre di Honorè, Charlotte-Laure Sallambier, di trent’anni più giovane del marito, proveniva da una ricca famiglia di commercianti parigini con cui i Balssa intrattenevano affari. Primo di quattro figli, appena nato Honoré venne affidato a una balia in un paese nei pressi di Tours, per poi essere trasferito nel 1804 nella pensione Le Guay, a Tours. Tra il 1807, anno in cui nacque Henri, frutto di una relazione adulterina della madre, e il 1813, Honoré venne educato nel severo collegio di Vendôme. I lunghi periodi di solitudine gli lasceranno un ricordo molto triste “Non ho mai avuto una madre”, scriverà. Unica sua consolazione nell’istituto: la ricca biblioteca. A causa di un profondo disagio che gli educatori del collegio definiranno “una specie di coma”, Honoré sarà costretto a tornare in famiglia. Nel mese di luglio supera gli esami e a novembre la famiglia Balzac si trasferisce a Parigi, dove il padre è stato nominato “direttore dei viveri”. Nel 1814 viene iscritto al Lycée Charlemagne e l’anno successivo viene avviato alla carriera di avvocato. Compie il tirocinio presso due studi legali parigini e nello stesso tempo frequenta i corsi alla facoltà di Legge, che conclude nel 1819. Ma, il futuro maestro del romanzo realista francese, ha altri progetti. Benché gli studi di diritto non lo appassionino ne ricaverà vaste competenze nel campo giuridico, della procedura e del linguaggio giudiziario e questo contatto con il mondo della legge, esplorato simultaneamente sotto il profilo della dottrina nei suoi risvolti, o nelle sue ricadute, nella vita quotidiana, avrà una grande importanza per la sua formazione. Attraverso gli incartamenti dei processi, delle successioni controverse, di tutti gli affari più o meno limpidi che finiscono dinanzi a un notaio o a un avvocato, il giovane diciottenne avrà modo di fare un’esperienza precoce degli aspetti più sordidi dell’umana convivenza “queste fogne che non si possono ripulire”, dirà più tardi parlando degli uffici giudiziari e ne trarrà una visione pessimistica sulla natura umana e sulla società, da cui sarà segnato per sempre. Matura nel frattempo la vocazione alla letteratura. Grazie al sussidio del padre che, abbandonato il servizio attivo, si è ritirato a Villeparisis, vicino a Parigi può andare a vivere da solo, in una mansarda, per prepararsi a diventare scrittore. Saranno anni di letture febbrili (Balzac è in larga misura un autodidatta), di progetti abortiti. Tenterà in primo luogo la strada della poesia e del teatro, ma saranno particolarmente anni di utile apprendistato. Cessato il sussidio paterno, a partire dal 1821, Balzac deve infatti guadagnarsi da vivere con la sua penna; risalgono a questi anni numerosi romanzi che lo mostrano già impegnato sulla strada che finirà di percorrere per tutta la sua vita, di una utilizzazione eccessivamente strumentale della letteratura, intesa come mezzo per assicurarsi un rapido successo e la ricchezza. “Balzac non scriveva, intendiamoci, per amore dello scrivere e basta ma, come dicono tutte le biografie, per soddisfare quelle necessità economiche a cui lo portavano il gusto per la vita dispendiosa, per i begli oggetti, per le belle donne e quel volersi tenere sempre all’altezza di un ambiente di aristocratici che egli amava frequentare senza appartenervi malgrado il de nobiliare. La borghesia, classe allora emergente, era per Balzac la classe odiata/amata a cui apparteneva e a cui l’istinto e l’immaginazione lo conducevano per il progresso e per il futuro di cui era portatrice e che Balzac intuiva essere caratteristiche dell’uomo nuovo. Ma le sue simpatie erano per il vecchio ordine sociale, per l’aristocrazia e per la Chiesa. A disagio come borghese, in quanto artista, non aveva quelle qualità richieste da quella classe, qualità o difetti, come l’amore per i traffici loschi, per il risparmio condotto allo stremo del sacrificio, per l’aggressività dei complotti a livello governativo. A disagio anche tra gli aristocratici, ne osservava le caratteristiche con bonomia e con interesse compiaciuto per il buon gusto che ne traspariva, la direttura morale, l’orgoglio aggressivo per le questioni d’onore, l’attaccamento alla tradizione e alla famiglia dei propri pari …”. (Paolo Guzzi). La carriera letteraria di Balzac comincia veramente solo nel 1829 quando lo scrittore ha trent’anni. Fin dal 1830 Balzac è uno scrittore alla moda è ricevuto nei salotti aristocratici, viaggia attraverso l’Europa, ha modo di frequentare la vita meneghina, per oltre un anno si reca regolarmente alla Scala, diventa un ospite ricorrente del Salotto Maffei.
(Il Salotto di Clara Maffei, ritrovo di artisti ed intellettuali)
“Le abitudini di lavoro di Balzac sono leggendarie. Scriveva dall’1 alle 8 ogni notte e talvolta anche di più. Riusciva a scrivere molto rapidamente; alcuni dei suoi romanzi, scritti con una piuma, erano scritti in un ritmo paragonabile a trenta parole al minuto di una moderna macchina da scrivere. Il suo metodo preferito era mangiare un pasto leggero alle cinque o sei del pomeriggio, poi dormire fino a mezzanotte. Poi si alzava e scriveva per molte ore, alimentato da numerose tazze di caffè nero”.(Wikipedia). Uno stile di vita febbrile che lo condurrà, nell’arco dei prossimi vent’anni, a produrre un’opera immensa ma anche ad esaurire tutte le sue energie fisiche. “Eugenia Grandet”, “Papà Goriot”, “Il colonnello Chabert”, “L’ albergo rosso”, “Massimilla Doni”, “Il curato di Tours”, “Un medico di campagna”, “La duchessa de Langeais”, “Un tenebroso affare”, “La cugina Bette” sono solo alcuni romanzi della sua colossale opera. Balzac morì di peritonite, una domenica di agosto del 1850, cinque mesi dopo il suo tanto sospirato matrimonio con la contessa Eweline de Hanska: “si trattava di un matrimonio di convenienza per preservare la fortuna della sua famiglia. In Balzac la contessa Ewelina trovò uno spirito affine ai suoi desideri emotivi e sociali, con l’ulteriore vantaggio di sentire un legame con la capitale glamour della Francia. La loro corrispondenza rivela un intrigante equilibrio di passione, correttezza e pazienza”. Il giorno in cui morì Balzac Victor Hugo gli fece visita. Al suo funerale parteciparono quasi tutti gli scrittori di Parigi. Fu sepolto nel cimitero di Père Lachaise a Parigi.
Mary Titton
19 maggio
PRIMO PIANO
Il caso della professoressa di Palermo sospesa.
I fatti: un’insegnante d’Italiano, Rosa Maria Dell’Aria, docente nell’istituto industriale Vittorio Emanuele a Palermo, è stata sospesa dall’Ufficio scolastico provinciale per due settimane, a partire da sabato, perché non avrebbe vigilato sul lavoro dei suoi studenti 14enni che nella giornata della memoria avevano presentato un video nel quale si accostava la promulgazione delle leggi razziali del 1938 al decreto sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Tutto sarebbe nato dopo che un attivista di Destra ha inviato un tweet al ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: “Salvini-Conte-Di Maio? Come il reich di Hitler, peggio dei nazisti. Succede all’Iti Vittorio Emanuele III di Palermo, dove una prof. per la Giornata della memoria ha obbligato dei quattordicenni a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti. Al Miur hanno qualcosa da dire?” Il giorno dopo la sottosegretaria leghista ai Beni culturali Lucia Borgonzoni è intervenuta su Facebook scrivendo: “Se è accaduto realmente andrebbe cacciato con ignominia un prof. del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere.” Di qui la sospensione dell’insegnante con stipendio dimezzato, al termine di una ispezione ministeriale e di un intervento della Digos. La professoressa, docente di Italiano da circa 40 anni e insegnante da 30 all’istituto industriale Vittorio Emanuele, ha dichiarato all’Ansa: “Quanto accaduto lo considero la più grande amarezza e la più grande ferita della mia vita professionale e naturalmente non parlo del danno economico legato ai giorni di sospensione ma al danno morale e professionale dopo una intera vita dedicata alla scuola e ai ragazzi … Quel lavoro non aveva assolutamente alcuna finalità politica né tendeva a indottrinare.” Chiaramente la vicenda non poteva non suscitare scalpore sui giornali e reazioni a tutti i livelli per le tematiche di importanza fondamentale quali la libertà d’insegnamento, la promozione nella scuola della ricerca, dell’analisi, che da parte di ragazzi in formazione può anche essere non del tutto corretta, del confronto, dello sviluppo del senso critico. In centinaia sono arrivati davanti alla prefettura di Palermo per chiedere l’immediata revoca del provvedimento disciplinare emesso contro Rosa Maria dell’Aria: studenti, docenti, ricercatori, sindacati e cittadini hanno preso parte al presidio indetto sabato dagli studenti palermitani per chiedere la sospensione del provvedimento disciplinare e per contribuire a “Garantire la libertà di espressione”, come si chiede in un’interrogazione parlamentare del Pd al ministro dell’ Istruzione Marco Bussetti. Le voci di dissenso per quanto accaduto non si sono levate solo da parti dell’opposizione, lo stesso M5S, che pure è al governo con la Lega, si è pronunciato duramente: “Il ministero della Lega censura. È un atto grave.” Anche il presidente della Camera Roberto Fico, in una lettera aperta a Rosa Maria Dell’Aria, pubblicata sul suo profilo Facebook, scrive: “Gentile professoressa Dell’Aria le scrivo per ringraziarla. Voglio dirle grazie per come è riuscita a fare il suo lavoro, permettendo ai suoi studenti di avere la libertà di elaborare, ragionare e riflettere. Di avere libertà di esprimersi. È questo quello che la scuola deve fare, fornire gli strumenti perché i ragazzi sappiano approfondire e costruire le proprie opinioni.”
17 maggio
DALLA STORIA
Erik Satie
(Erik Satie al pianoforte in un disegno di Santiago Russiniol, 1891)
In occasione dell’anniversario di nascita, ricordiamo oggi uno dei protagonisti più originali e geniali del periodo della Belle Epoque, l’elettrizzante stagione dei primi anni del Novecento, in Francia quando le avanguardie animavano la scena culturale gettando le basi di una nuova concezione artistico letteraria. Stiamo parlando di Erik Satie, compositore e pianista tra i più innovatori, nato il 17 maggio 1866, in Normandia e vissuto dal 1887 a Parigi nel quartiere bohemién di Montmartre. Refrattario allo studio accademico (da giovane frequentò il conservatorio ma dopo due anni i professori lo bocciarono perché non ne compresero il talento. Deluso si arruolò in un reggimento di fanteria ma, resosi conto che l’esercito non faceva per lui, si fece riformare procurandosi una congestione polmonare) Satie, a Parigi trovò la giusta risonanza per esprimere la sua arte. Strinse amicizia con le personalità artistiche emergenti, conobbe diversi poeti tra cui Stéphane Mallarmé, Paul Verlaine e Patrice Contamine de Latour (con il quale collaborerà in seguito per il balletto Uspud). Divenne uno dei più intimi amici del poliedrico Jean Cocteau con cui, insieme a Picasso, comporrà, scriverà e realizzerà il balletto d’ispirazione cubista “Parade” in cui, tramite la sua scrittura musicale del tutto originale, userà suoni molto innovativi come sirene, macchine da scrivere e altri effetti sonori non tradizionalmente musicali. A “le Chat noir” (il celebre locale ai piedi della collina di Montmartre, adibito a spettacoli di teatro d’ombre e cabaret e uno dei principali luoghi d’incontro di artisti, simbolo della Bohème alla fine del XIX secolo) conobbe Debussy che apprezzandone l’opera ne instrumentò due pagine pianistiche: le seconde Gnossiennes (1890).
Insieme a Cocteau, Satie diventa uno degli animatori del Gruppo dei Sei (un circolo musicale nato da un’idea di Satie di formare un gruppo di Nouveaux Jeunes (Nuovi Giovani) che potessero rinnovare la musica, seguendo parallelamente le avanguardie pittoriche e stilistiche dell’epoca, quali quelle dadaiste, futuriste e cubiste). Le composizioni di questo periodo sono definite da Satie stesso “Musique de tapisserie” (musica da tappezzeria) e rappresentano una satira molto forte contro l’accademismo e la musica dotta. Un giorno Satie seduto ad un caffè commentò ad un amico: “Sai, bisognerebbe creare della musica d’arredamento, cioè una musica che facesse parte dei rumori dell’ambiente in cui viene diffusa, che ne tenesse conto.
Dovrebbe essere melodiosa, in modo da coprire il suono metallico dei coltelli e delle forchette senza però cancellarlo completamente, senza imporsi troppo. Riempirebbe il solito scambio di banalità. Inoltre, neutralizzerebbe i rumori della strada che penetrano indiscretamente dall’esterno”. Satie crea così la musica d’ambiente, una musica priva di implicazioni psicologiche, in grado di esprimere solo se stessa in contrasto con la retorica romantica, la drammatica musica wagneriana e la dominante musica impressionista di Claude Debussy. E il risultato è magico. Satie morì a 59 anni di cirrosi epatica il 1 luglio 1925.
(Parade, 1917)
Mary Titton
16 maggio
PRIMO PIANO
Castello Sforzesco: Scoperti nuovi disegni di Leonardo a carboncino.
In occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, la Sala delle Asse, l’ambiente più importante del Castello Sforzesco di Milano, dopo 6 anni di studi e restauri, sarà eccezionalmente riaperta al pubblico dal 16 maggio al 12 gennaio 2020, mostrando le tracce dei disegni preparatori dell’artista fiorentino apparse sulle pareti. Il cantiere di studio e restauro, aperto nel 2013 per iniziativa del Castello e sospeso per sei mesi solo in occasione di Expo Milano 2015, ha portato alla luce nuovi segni dei disegni a carboncino di Leonardo: tronchi, rami, paesaggi all’orizzonte, che definiscono un progetto colossale che occupa ogni centimetro della vasta Sala (15×15 metri per oltre 10 di altezza). Leonardo, infatti, ha sviluppato qui il suo concetto di imitazione della natura, tanto da immaginare un sottobosco e, al di là degli alberi, case e colline all’orizzonte: dalla stanza del duca Sforza al territorio da lui governato. La Sala ha seguito, negli ultimi cinque secoli, la stessa tormentata sorte del Castello, ricostruito su ordine degli Sforza a metà del Quattrocento come ampliamento del visconteo Castello di Porta Giovia. Per trasformarlo da roccaforte militare in luogo di feste e ricevimenti, gli Sforza chiamarono i migliori architetti e artisti del Rinascimento: Donato Bramante, il Filarete, Bartolomeo Gadio, il Bramantino e, appunto, Leonardo da Vinci. Passato ai Francesi (nel 1500), agli Spagnoli (nel 1535), agli Austriaci (nel 1714) e poi ancora ai Francesi di Napoleone (nel 1796) per tornare agli Austriaci (nel 1815) e finalmente al Regno d’Italia (nel 1861), il Castello e la Sala delle Asse furono utilizzati come caserma e come stalla, cosicchè la decorazione progettata da Leonardo venne coperta da strati e strati di calce. La certezza documentale, però, che Leonardo, su incarico di Ludovico il Moro, avesse lavorato in quella Sala nel 1498, poco dopo aver terminato il Cenacolo, fece sì che durante la ricostruzione del Castello, terminata nei primi anni del Novecento, si scoprisse una straordinaria radice, detta Il Monocromo perché disegnata a carboncino, alla base di un grande, illusionistico pergolato di diciotto alberi di gelso, legati con corde annodate, che si intrecciano sulla volta della Sala, sorreggendo uno stemma e le targhe sforzesche. L’attribuzione a Leonardo del Monocromo avvenne solo negli anni Cinquanta, durante un restauro “integrativo” della decorazione della volta, perché inizialmente era stato ritenuto un intervento secentesco, slegato dal progetto pittorico originario, che occupava tutto il soffitto della Sala. Attraverso la scenografica installazione multimediale, “Sotto l’ombra del Moro”, i visitatori saranno guidati nella lettura dello spazio integrale della Sala, spostando l’attenzione dalla volta alle pareti laterali, e potranno comprendere l’aspetto della Sala delle Asse nel Rinascimento e le sue complesse vicende storiche.
DALLA STORIA
Charles Perrault, l’inventore della fiaba moderna.
(Ritratto di Charles Perrault di Charles le Brun. Particolare)
Nel XVII secolo, in Francia, alla corte del “Re Sole”, Luigi XIV, nacque la moda letteraria della storia di fate. Charles Perrault, autore delle favole che noi tutti conosciamo e che, da piccoli, ascoltavamo con rapimento: “Cappuccetto rosso”, “La bella addormentata nel bosco”, “Cenerentola”, “Pollicino”, “Barbablu”, “Il gatto con gli stivali” ecc., nacque a Parigi il 12 gennaio 1628 da una famiglia dell’alta borghesia francese. Il padre, Pierre Perrault era avvocato al parlamento di Parigi mentre il fratello Claude era medico e architetto: a lui si deve la facciata del Louvre. Il piccolo Charles frequentò ottime scuole e, studiò legge, prima di intraprendere una carriera al sevizio del governo, seguendo così le orme del padre e del fratello maggiore. Svolse al contempo un’interessante vita pubblica, prendendo parte alla creazione dell’Accademia delle Scienze, nonché al restauro dell’Accademia di Pittura. Quando venne fondata l’Accademia delle Iscrizioni e Belles-Lettres, nel 1663, Perrault ne venne nominato segretario a vita, sotto Jean Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV. Prese parte alla “diatriba des Anciens et des Modernes” in cui si affrontavano i sostenitori della letteratura antica e i sostenitori della letteratura dell’epoca di Luigi XIV; per sostenere la causa dei “Moderni” scrisse “Il secolo di Luigi il grande” nel 1687 e, in polemica con il classicismo del suo avversario Boileau, le cui tesi erano in favore degli antichi, scrisse il “Confronto fra antichi e moderni” pubblicato a più riprese dal 1688 al 1692. Quest’ultima opera diede inizio a una famosa querelle che avrebbe attraversato tutta la cultura europea, dalla fine del XVII secolo all’inizio del XVIII. All’età di cinquantadue anni, nel 1680, Perrault pubblicò il volume “Racconti e storie del passato con una morale”, col sottotitolo “I racconti di Mamma oca”.
Il volume fu pubblicato a nome del suo terzo figlio, allora diciannovenne, per ingraziarsi il favore della corte nei confronti del figlio, sotto processo, per avere ucciso in duello un suo coetaneo. Il successo letterario dello scrittore francese, inaspettato, fu travolgente e resta immutabile nel tempo. Delle undici fiabe della raccolta, oltre a quelle già citate sono da aggiungere “Le fate” ed “Enrichetto del Ciuffo”. Perrault, preferì scrivere tre fiabe in versi e otto in prosa. Quelle in versi erano: “Griselda”, “I desideri sciocchi”, e “Pelle d’asino” tradotte in seguito anche in prosa perché, soprattutto per i ragazzi, erano di difficile comprensione. Sebbene molte storie di Perrault siano trascrizioni di storie riprese dalla cultura popolare, dalla tradizione orale e dall’Opera di Giambattista Basile “Lo cunto de li cunti”, egli non si riproponeva solo di “riportare” queste storie, bensì arricchiva il canovaccio tradizionale con proprie intuizioni creative aggiungendo, alla fine, una o più morali. L’opera di Basile che, conteneva 50 fiabe in lingua napoletana, edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli, nota anche con il titolo di Pentamerone (cinque giornate), raccontate da 10 novellatrici in 5 giorni, collocava le fiabe in una cornice che segue il modello del Decamerone di Boccaccio. Malgrado la materia fiabesca, la raccolta è destinata a un pubblico di adulti poiché tratta temi complessi. (Le novelle di Basile sono ambientate in Basilicata e in Campania, luoghi dove l’autore trascorse buona parte della sua vita presso i nobili locali come la città di Acerenza, il Castello di Lagopesole, dove fu ambientata la fiaba di “Raperonzolo”). “Le fiabe di mamma oca” di Perrault contrariamente a quelle di Basile si rivolgono, prevalentemente, all’infanzia. L’ interesse per la figura infantile nasce solo nel corso del Seicento, al costituirsi della famiglia borghese. In questo clima di modernità, presso le classi più elevate, si afferma una letteratura pedagogica che svolge un ruolo centrale nella moralità del racconto. L’intenzione educativa delle fiabe viene ribadita nelle “moralites” poste alla fine di ogni racconto. “Diversamente, in alcune fiabe subentra una nota di distacco ironico da parte dell’autore nei confronti delle vicende raccontate e dei messaggi morali tali da esse veicolati, quasi come se l’insegnamento morale non fosse che un pretesto per giustificare il semplice divertissement di corte”. Infatti, durante l’ultimo trentennio del regno di Luigi XIV, i contes de fèes ( racconti di fiabe) si configuravano all’interno del movimento letterario definito préciosité (un fenomeno anche di costume che coltivava l’amore, la raffinatezza e il culto della forma), per l’intrattenimento dei cortigiani e delle classi più elevate. Indicativi sono i riferimenti nelle descrizioni delle fiabe come ad esempio i grandi specchi e l’arredamento di corte di Versailles o le scarpette di cristallo in “Cenerentola” e così via. Charles Perrault morì il 16 maggio del 1703. Nel 1875, molte sue fiabe vennero tradotte dal francese all’italiano da Carlo Collodi e pubblicate nell’antologia di fiabe “I racconti delle fate” con le illustrazioni di Gustave Doré.
Mary Titton
14 maggio
DALLA STORIA
14 maggio 1964: esce il film “Il Dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba”.
(Peter Sellers in una scena del film)
“Signori, non potete fare a botte in centrale operativa!”. Il “Dottor Stranamore”, film capolavoro diretto da Stanley Kubrik, è una geniale commedia che irride il potere, come si evince dalla divertente frase introduttiva, il cui umorismo macabro e farsesco racconta come la tecnologia possa pericolosamente sfuggire di mano. “Un fanatico generale americano lancia un attacco nucleare contro l’URSS e il presidente degli Stati Uniti si incolla al telefono per bloccare tutto e calmare i russi, in compagnia dei suoi consiglieri e di uno scienziato pazzo. La trama si ispira a Red Alert (Two Hours to Doom), un romanzo di fantapolitica scritto da Peter George, pilota dell’aviazione militare britannica. Kubrik amava quel libro, ma pensò che il tema della minaccia nucleare spaventasse troppo il pubblico per essere affrontato con toni realistici o drammatici. Il regista optò quindi per un approccio comico: la prospettiva dell’olocausto totale viene trattata con tecniche da cartoni animati, divertenti, provocatorie e stravaganti. Kubrik e lo sceneggiatore Terry Southern creano un cast di personaggi grotteschi, le cui assurde idiosincrasie fanno risaltare il realismo delle ambientazioni e della magnifica fotografia in bianco e nero di Gilbert Taylor. Anche la “stanza dei bottoni” è convincente, come le operazioni del comando strategico e le procedure per gli equipaggi dei bombardieri. Se si pensa che tutto ciò esiste veramente, con computer sempre più potenti, c’è da rabbrividire. Il film si svolge in tre ambienti con gravi difficoltà di intercomunicazione. Nella base aeronautica di Burpelson, il fanatico generale Jack D. Ripper (Sterling Hayden), ossessionato dai “fluidi vitali” e dai “complotti comunisti”, aggira i protocolli di sicurezza e ordina a un bombardiere di lanciare l’atomica sui rossi, facendo prigioniero l’ufficiale britannico Lionel Mandrake (un attonito Peter Sellers). Sull’aereo, nome in codice “Colonia di lebbrosi”, il risoluto maggiore T.J. “King” Kong (Slim Pickens) e l’equipaggio (con James Earl Jones) hanno la radio fuori uso e ignorano i frenetici tentativi di bloccare la loro missione. Nella sala da guerra del pentagono, magnificamente disegnata, il presidente Merkin Muffley (Sellers), il grintoso generale Buck Turgidson (George C. Scott), l’ambascitore sovietico Sadeski (Peter Bull) e il folle dottor Stanamore (ancora Sellers), in un omaggio di Kubrick al Rothwang di “Metropolis”, 1926), sono impegnati nei loro tentativi di impedire la fine del mondo.
La tripla parte di Sellers è entrata nella storia, ma tutto il cast è eccellente e sopra le righe. Due sono le immagini che non possono non rimanere incise nella memoria: Kong a cavallo della bomba che precipita esultante e il dottor Stranamore, col suo braccio meccanico impazzito che fa il saluto nazista e stringe il suo stesso collo in una morsa. I dialoghi del film sono spesso esilaranti: il presidente Muffley, al telefono rosso con Mosca, dirà che uno dei suoi comandanti “è diventato un po’ strano, insomma, ha fatto una sciocchezza”. (Angela Errigo, critico cinematografico).
Mary Titton
13 maggio
PRIMO PIANO
Addio a Doris Day, nota come la “fidanzata d’America”.
È morta a 97 anni, compiuti lo scorso 3 aprile, nella sua casa di Carmel in California, per una polmonite, l’attrice e cantante statunitense Doris Day, nome d’arte di Anne Kappelhoff, nota per il suo stile da ragazza della porta accanto che le valse il soprannome di “fidanzata d’America”. Figlia di un musicista e di un’appassionata d’arte, entrambi profughi dalla Germania nel primo dopoguerra, ebbe un’infanzia segnata prima dalla morte del fratello maggiore, poi dalla separazione dei genitori per le ripetute infedeltà del padre, infine da un drammatico incidente d’auto che le precluse il sogno di diventare ballerina classica. Doris raggiunge il grande successo dapprima come cantante, pubblicando tra il 1947 e il 1967 più di 650 canzoni e conquistando per quattordici anni le classifiche di vendita di Billboard. Allo scoppio della seconda guerra mondiale è già una star popolare: dopo una lunga serie di concerti con Les Brown, negli ultimi mesi della guerra interpreta “Sentimental Journey”, una specie di inno per tutti i soldati americani che sognano di tornare a casa. Un casuale incontro con Michael Curtiz, regista tra l’altro del famoso film “Casablanca”, le cambia la vita, nello stesso anno, il 1948, fa un contratto di sette anni con la Warner Bros e ottiene un triplice successo in tre rami dello spettacolo: è in vetta al box office con “Amore sotto coperta”, in cima alla hit parade musicale con “It’s Magic” e reginetta della radio in coppia con Bob Hope. Bionda vivace ed esuberante, abile nella recitazione, nel canto e nella danza, la Day è stata tra le attrici di maggiore successo degli anni cinquanta e sessanta, sia nel genere drammatico sia in quello della commedia. Sono 39 i film della sua carriera da “Tè per due” (dal musical “No no Nanette”) a “Non sparare, baciami” (il suo preferito), diretti alternativamente da Curtiz e David Butler, a “L’uomo che sapeva troppo” di Alfred Hitchcock, del 1956, in cui cantò il celebre tema musicale “Whatever will be” (Que será será), uno dei suoi maggiori successi, che ripropose parzialmente in due suoi film del 1960 e 1966. Doris Day, che si era ritirata dalle scene negli anni Ottanta, fu protagonista in Tv per cinque anni dei 128 episodi della serie “The Doris Day Show” e si dedicò con costante impegno alla lotta per la protezione degli animali attraverso la sua fondazione, la Doris Day Animal League. Nel 2008 vinse il Grammy Award alla carriera.
DALLA STORIA
“La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi.” (Bruce Chatwin).
Nel 1977 usciva “In Patagonia”, di Bruce Chatwin. Il libro, considerato dalla critica un capolavoro diventa un vero “cult” e consacra il suo autore tra i grandi scrittori di viaggi di sempre. Chatwin viene descritto come una specie di “eterno ragazzo, gli occhi che si immaginano molto blu, i capelli biondi divisi in mezzo, un’eleganza britannica come la faccia, una leggerezza adolescenziale, una bellezza trasparente”. Era nato nel Warwickshire, nella campagna inglese il 13 maggio 1940. Figlio di un ufficiale di marina, trascorse gli anni della fanciullezza compiendo spostamenti continui, insieme alla madre, sviluppando quel suo proverbiale gusto per le letture e gli atlanti. Dopo gli studi intraprese una brillante carriera presso la casa d’aste londinese Sotheby’s, diventandone in breve tempo il maggiore esperto impressionista. All’età di ventisei anni abbandonò il suo lavoro, anche a causa di una malattia agli occhi, e cominciò ad interessarsi di archeologia. Si iscrisse quindi all’Università di Edimburgo, che frequentò per diversi anni, mantenendosi con la compravendita di dipinti. Infine privilegiò la ricerca sul campo, soprattutto in Afghanistan e in Africa dove sviluppò un appassionato interesse per le tribù nomadi. In seguito divenne corrispondente del Sunday Time Magazine come consulente di arte e architettura viaggiando in tutto il mondo rivelando una particolare facilità di scrittura. Per Chatwin il viaggio diventa la vita stessa, “un impulso inseparabile dal sistema nervoso centrale che, se è tarpato da condizioni di vita sedentarie, trova sfogo nella violenza, nell’avidità, nella ricerca di prestigio”; in esso si esprime “l’uomo libero che sceglie di spostarsi, anziché dissolversi nella moltitudine” e ironicamente commenta: “raccontare storie era l’unica occupazione concepibile per una persona superflua come me”. Per lui viaggiare era una sorta di rito di iniziazione, un processo di formazione, un percorso nel “labirinto interiore”. Il viaggio di “lunga durata” come metafora della vita diventa, perciò, lo stimolo naturale alla ricerca del nuovo, provoca l’istintiva attrazione/repulsione per ciò che ci è estraneo, mette in evidenza la misura della distanza che ci separa dalle realtà sconosciute, sollecita la sfida al confronto e la nostra abilità di relazionarci con il diverso da noi e la capacità di adattamento a situazioni imprevedibili, lontano da categorie sociali prestabilite, in qualche modo, coercitive. Chatwin viaggia avventurosamente e con assoluta indifferenza per le comodità, come fanno in genere gli inglesi: “eternamente razza padrona, ma eternamente capace di diventare parte della cultura locale”. Ciò che inchioda alla poltrona è la grande abilità narrativa di questo fantasioso e intraprendente autore, ricco anche d’immaginazione (a volte non perfettamente fedele nella descrizione dei fatti, ma i suoi non sono solo dei reportages). La sua prosa semplice ma, fortemente evocativa, ha la particolarità di catapultarti, direttamente dalla poltrona, sulla scena delle sue avventure. Con lui sei è in mezzo ai nomadi, si sperimenta la straordinaria ricchezza della loro cultura, si possono vivere, di prima mano, incontri straordinari e restarne totalmente coinvolti. Tale ricchezza di linguaggio accende inevitabilmente l’emozione, sbriglia la fantasia, apre la mente al “pensare” e alla riflessione, caratteristiche da salvaguardare in tempi meccanici e impoveriti di cultura come quelli attuali. Di Chatwin ricordiamo: Il viceré di Ouidah, Sulla collina nera, Le vie dei Canti, Utz, Che ci faccio qui?, L’occhio assoluto, Anatomia dell’irrequietezza e Sentieri tortuosi. Lo scrittore morì a Nizza nel 1989, all’età di 48 anni. Nicholas Shakespeare, autore di una monumentale biografia di Chatwin, ed. Baldini e Castoldi così ne commenta la morte: “È morto giovane, ma non così come credono in molti. In fondo ha vissuto più di coloro che avevano esercitato un influsso su di lui: Robert Louis Stevenson, T.E. Lawrence, Anton Checov, Robert Byron, Arthur Rimbaud. Se fosse vissuto più a lungo è allettante immaginarlo come una specie di Andrè Malraux …”.
Mary Titton
12 maggio
PRIMO PIANO
L’elemosiniere del Papa riattiva l’elettricità in uno stabile occupato.
Il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, domenica sera, 12 maggio, ha riallacciato la corrente elettrica a una palazzina di via Santa Croce di Gerusalemme a Roma, occupata da 450 persone, tra cui anziani, malati gravi e 98 bambini, che da diversi giorni erano senza corrente elettrica e acqua calda, perché tali servizi erano stati sospesi dalla società che fornisce l’energia per un problema di morosità. “Sono intervenuto personalmente – ha detto l’Elemosiniere apostolico all’agenzia di stampa Ansa – per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi”. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera, il porporato ha riferito di conoscere da tempo le grandi difficoltà delle persone che vivono in quel palazzo. “Dal Vaticano – ha detto – mandavamo l’ambulanza, i medici, i viveri. Stiamo parlando di vite umane.”e ha aggiunto: “La cosa è che siamo nel cuore di Roma. Quasi cinquecento persone abbandonate a sé stesse. Sono famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere.” Prima di riattaccare la corrente l’elemosiniere aveva chiamato la Prefettura e il Comune, avvisando di quello che stava per fare, e, dopo essersi calato nella cabina elettrica per ripristinare la luce, ha lasciato sui contatori il suo biglietto da visita perché fosse chiaro chi avesse compiuto il gesto. Il cardinale ha ribadito infine che si assume tutta la responsabilità dell’azione: “Dovesse arrivare, pagherò anche la multa”. Quello del cardinale Konrad Krajewski è stato definito un gesto di disobbedienza civile e subito i partiti si sono schierati pro o contro, a seconda della loro convenienza, ma, come ha spiegato l’elemosiniere del Papa dicendo “non voglio che diventi una cosa politica”, il suo è stato un gesto umanitario a favore di famiglie, anche italiane, che non hanno un posto dove andare, “gente che fatica a sopravvivere”. Il cardinale ha compiuto questa azione nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste persone, consapevole delle possibili conseguenze a cui può andare incontro. Dichiara Lucia Ercoli, direttrice di “Medicina Solidale”, l’associazione di medici volontari che si prende cura delle persone più deboli e più fragili di Roma: “Certamente l’Elemosiniere del Papa non ha bisogno della nostra difesa, ma ma dobbiamo sottolineare che da sempre è al fianco di chi si occupa degli invisibili nella nostra città. Centinaia di bambini, donne e anziani che vivono dimenticati dalle istituzioni e se gli va bene, in stabili di cemento, altrimenti sotto baracche di cartoni e di lamiera. Medicine, cibo, vestiario e denaro – aggiunge Ercoli – che ogni giorno ci arrivano dall’Elemosineria per i più fragili che incontriamo nei quartieri di Roma, nei nostri ambulatori di strada e nelle occupazioni. Questo certo non significa sostenere l’illegalità, ma aiutare chi soffre ed è più debole”. Di chi la responsabilità di situazioni di indigenza così gravi? Intanto la cosa che conta per chi conserva un briciolo di umanità è che quelle famiglie, “vulnerabilissime”, con bambini e malati gravi, private di diritti fondamentali quali, il primo, quello ad una casa, hanno luce e acqua calda. Finalmente!
10 maggio
DALLA STORIA
John Wayne Gacy, il “clown assassino”.
Gli assassini seriali, i cosiddetti serial killer, costituiscono il settore più macabro e più “affascinante” della moderna criminologia. Soltanto in tempi recenti le forze dell’ordine, gli psicologi e gli scienziati hanno aperto un varco nell’alone di mistero di cui è circondato questo fenomeno spaventoso e inquietante per svelare segreti, moventi e minacce. Questi predatori umani, che sono tra noi fin dagli albori della storia, hanno visto aumentare il loro numero in misura esponenziale negli ultimi quarant’anni. La comprensione del problema e l’attuazione di possibili soluzioni è importante sia negli Stati Uniti (che dal 1980 a oggi, con meno del 5 per cento della popolazione mondiale, hanno generato circa l’84 per cento di tutti i serial Killer conosciuti che in altre nazioni) che dall’Australia al Sudafrica e in Russia dove una nuova ondata di omicidi in serie minaccia di raggiungere proporzioni critiche nel terzo millennio. Nel passato, la mancanza di informazioni sulle caratteristiche dei serial killer e l’insufficiente collegamento tra i vari rami delle forze dell’ordine permisero ad alcuni assassini di passare per anni inosservati. Tra i più efferati c’è lo statunitense John Wayne Gacy, giustiziato il 10 maggio 1994, per mezzo di un’iniezione letale endovenosa, nella Stateville Prison di Joliet, Illinois. Il Killer Clown, come fu soprannominato, per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso trentatré vittime, fra adolescenti e maschi adulti si faceva chiamare Pogo il Clown perché intratteneva i bambini ad alcune feste con un costume e trucco da clown. John Wayne Gacy nacque nel 1942 a Chicago. Nel “Dizionario dei serial killer”, di Michael Newton, della Newton & Compton editori è descritta la sua storia umana e criminale che qui riportiamo: “Il padre a casa era un tiranno alcolizzato, non faceva nessuno sforzo per nascondere il suo disappunto per il fatto che il figlio portava il suo stesso nome, infliggeva brutali punizioni corporali al bambino alla minima malefatta afferrandolo a volte e scagliandolo attraverso la stanza. In momenti più tranquilli si accontentava di insultare John Jr., dandogli della “femminuccia”, della persona stupida e ottusa, completamente inutile. Col tempo, tra i suoi insulti ingiustificati, quel “femminuccia” si sarebbe rivelato una profezia realizzata. Gacy crebbe dubitando della sua mascolinità, evitando gli sport e altre attività “virili” per rifugiarsi in una precoce ipocondria. Colpito alla testa da un’altalena all’età di 11 anni, per i successivi cinque anni soffrì di periodici svenimenti, fino a quando la loro causa, un embolo cerebrale, fu rimossa con delle cure mediche. Privato così di un’affezione, egli ne contrasse, o inventò, un’altra, scegliendo i sintomi di un disturbo cardiaco che sembrava andare e venire, a seconda del suo umore. Dopo la laurea in economia e commercio, Gacy diventò rappresentante di scarpe, ma aveva altre aspirazioni. Sposò una collega i cui genitori erano proprietari di un ristorante a Waterloo, nell’Iowa, e subito si ritrovò senza sforzo nel ruolo di direttore del ristorante. Sul lavoro era un fenomeno, smentendo tutto quello che suo padre aveva detto delle sue facoltà intellettive e della sua capacità d’iniziativa, elevandosi a uno status in cui suscitava l’ammirazione e il rispetto degli imprenditori. La moglie e gli amici furono completamente colti di sorpresa quando nel maggio 1968 John fu arrestato con l’accusa di aver costretto, per molti mesi, un giovane dipendente ad atti di tipo omosessuale. Quelle accuse erano ancora in sospeso, quando Gacy stipulò un accordo dichiarandosi colpevole di sodomia, per cui le altre accuse furono revocate. Condannato a dieci anni di carcere, si dimostrò un prigioniero modello e fu rilasciato dopo diciotto mesi. Con il permesso dello Stato Gacy tornò a Chicago, dove si stabilì come imprenditore edile di successo. Dopo aver divorziato mentre era ancora in prigione, si risposò presto, sistemandosi in un quartiere borghese di Des Plaines, una zona periferica, dove diventò molto popolare tra i vicini, ospitando spesso elaborate feste a tema. Inoltre, era un attivista del Partito Democratico, una volta aveva posato in alcune foto con la moglie del presidente Jimmy Carter, e come “Clown Pogo” si esibiva completamente mascherato alle feste dei bambini ed agli eventi di beneficenza. In pochi, tra le sue nuove conoscenze, sapevano del suo arresto nell’Iowa, e quelli che ne avevano sentito parlare furono rassicurati: John aveva solo fatto degli affari qualche volta, “trattando del materiale pornografico”. Il 12 febbraio 1971 Gacy fu accusato di disturbo della quiete pubblica a Chicago, in seguito alla denuncia di un ragazzo che aveva cercato di violentare. L’accusatore, noto per essere gay, non comparve in tribunale all’udienza di Gacy, e le accuse furono revocate. I poliziotti dell’Iowa incaricati di sorvegliare Gacy, in libertà condizionale, non furono informati dell’arresto o delle accuse, ed egli fu formalmente esonerato da ogni vincolo il 18 ottobre 1971. Secondo una stima dello stesso Gacy, egli commise il suo primo omicidio meno di tre mesi dopo, il 3 gennaio 1972. La vittima, prelevata al terminal dei pullman, non fu mai identificata, ma la sua morte avvenne secondo modalità che si confermano in seguito tipiche di Gacy. A caccia di prede, Gacy a volte ricorreva a giovani amici e dipendenti, ma più spesso faceva affidamento sul suo girovagare per le strade di Chicago in cerca di prostitute e fuggitivi. Come gli “Strangolatori della collina” di los Angeles, a volte esibiva un distintivo e un’arma, “arrestando” così la vittima designata. Altri venivano invitati a casa sua per un drink o un giro al biliardo e John mostrava loro certi “trucchetti” con le “manette magiche”, poi tirava fuori alcuni sex toys e la garrota. Per finire, John faceva il “gioco della corda”, strangolando così la sua vittima, che veniva sepolta in un vespaio sotto casa. Negli anni successivi, dato che aveva esaurito lo spazio disponibile, cominciò a sbarazzarsi dei cadaveri gettandoli in un fiume vicino. Seppellire i cadaveri nel vespaio aveva i suoi inconvenienti, in particolare un persistente cattivo odore, che Gacy addebitava a “problemi con la fogna”. La seconda moglie di Gacy era naturalmente in casa, e la sua presenza limitava i momenti di ricreazione alle occasioni in cui lei era fuori o in viaggio, ma quando il loro matrimonio fallì nel 1976, Gacy poté accelerare il suo programma di annientamento. Tra il 6 aprile e il 13 giugno 1976 nella casa di Gacy furono massacrati almeno cinque ragazzi, e la fine non sembrava essere vicina. Il 25 ottobre di quell’anno egli uccise due vittime in una volta sola, gettando i loro corpi in una fossa comune. Con il passare del tempo la fascia d’età entro la quale sceglieva i suoi bersagli si ampliò, comprendendo ragazzi da nove a vent’anni e una varietà di classi sociali: dagli adolescenti borghesi, agli avanzi di galera e ai prostituti. Non tutte le vittime di Gary morirono. Nel dicembre 1977, Robert Donnelly fu rapito con la minaccia di una pistola, torturato e sodomizzato nella casa degli orrori di Gacy, e poi liberato. Tre mesi dopo, il ventisettenne Jeffrey Rignall stava bevendo un drink da Gacy, quando fu stordito con il cloroformio e legato alla “ruota”, uno strumento di tortura simile a quello usato da Dean Corll (serial killer) a Huston. Gacy per molte ore continuò a violentare e frustare Rignall, usando il cloroformio con tale frequenza che il fegato di Rignall riportò danni permanenti. Dopo aver ripreso conoscenza vicino a un lago nel Lincoln Park, Rignall chiamò subito la polizia, ma era metà luglio quando gli investigatori trovarono il tempo di dedicarsi alla questione, accusando Gacy di un reato minore. Il caso si stava ancora trascinando cinque mesi dopo, quando Gacy fu catturato con l’accusa di omicidio plurimo. La fine, quando arrivò, si dovette unicamente alla disattenzione di Gacy. Il quindicenne Robert Piest scomparve dal luogo di lavoro, una farmacia di Chicago, il 12 ottobre 1978. L’impresa edile di Gacy aveva recentemente ristrutturato il negozio, ed egli aveva offerto a Piest un lavoro nella sua ditta; la vittima aveva dunque informato i colleghi della sua intenzione di incontrare “un appaltatore” la sera della sua scomparsa. La polizia andò a casa di Gacy per fargli delle domande e riconobbe immediatamente l’odore che proveniva dal vespaio. Prima che avessero finito di scavare, il terreno di Gacy avrebbe restituito ventotto corpi, altri cinque sarebbero stati recuperati dal fiume vicino. Nove delle trentatré vittime non sono mai state identificate. In prigione, Gacy cercò d’incolpare della sua attività omicida Jack, un suo alter ego (e per coincidenza lo stesso pseudonimo da lui utilizzato nelle vesti di poliziotto). Gli psichiatri capirono lo stratagemma e nel marzo 1980 Gacy fu riconosciuto colpevole di trentatré omicidi di primo grado. In relazione agli omicidi avvenuti prima del 21 giugno 1977, erano state emesse ventuno condanne all’ergastolo, quando l’Illinois ripristinò la Pena capitale. Per i casi delle vittime uccise tra il luglio 1977 e il dicembre 1978 furono inflitte dodici condanne a morte. Per i quattordici anni successivi, Gacy fu sempre un carcerato al centro di polemiche. Dopo aver abbandonato la linea difensiva della doppia personalità, egli sostenne che i corpi riemersi a casa sua erano stati messi lì durante la sua assenza da cospiratori sconosciuti. Egli descrisse se stesso come “la trentaquattresima vittima” di un insidioso complotto omicida, con i veri killer ancora in libertà. Gacy sollevò anche un coro di proteste con i dipinti, per lo più teschi ghignanti e clown dal viso triste, che produceva e vendeva dal braccio della morte. Mentre all’inizio del 1994 le sue possibilità di ricorrere in appello si esaurivano e il tempo scorreva inesorabile, i quadri del killer furono accolti come articoli per collezionisti, alcuni venduti a prezzi molto alti. Ottime furono anche le vendite fatte registrare dai due volumi pubblicati sulla corrispondenza dal carcere con amici. Gli appelli dell’ultima ora non riuscirono a fermare la sua esecuzione. Lo Stato dell’Illinois, nel frattempo, indignato dalla celebrità ottenuta dall’omicida, annunciò l’intenzione di citare in giudizio i suoi eredi, per ottenere il rimborso dei costi sostenuti durante i quattordici anni che Gacy trascorse nel braccio della morte”.
(La casa di Gacy nel cui vespaio la polizia rinvenne i numerosi cadaveri del serial killer)
Mary Titton
8 maggio
PRIMO PIANO
Riportato alla luce il Cupido di Vermeer.
Uno dei 35 dipinti ufficialmente attribuiti a Vermeer, “Donna che legge una lettera davanti alla finestra”, realizzato intorno al 1657, a Dresda dal 1742, nascondeva da secoli un Cupido nudo, poi coperto da uno strato di pittura. Nel 1979, una radiografia ai raggi X dell’opera aveva rivelato un vero e proprio “dipinto nel dipinto” sulla parete della stanza posta sullo sfondo del quadro. Fino a questa data gli studiosi avevano ritenuto che fosse stato lo stesso Vermeer a coprire successivamente il Cupido, oggi però nuovi test di laboratorio hanno stabilito in modo definitivo che questa copertura non fu realizzata da Vermeer, ma dalla mano di qualcun altro anni dopo la morte del pittore olandese. Uta Neidhardt, restauratrice senior della galleria d’arte di Dresda, precisa che “c’è persino uno strato di sporco sopra la vernice originale del Cupido, che dimostra come il dipinto sia rimasto nel suo stato originale per decenni”. La copertura, poi, è leggermente più scura del colore usato da Vermeer per lo sfondo della sua opera, perché l’artista che è intervenuto successivamente ha dovuto coprire la mano di vernice finale scurente presente sull’originale. Sulla base di queste nuove conoscenze, la Gemaelde Galerie Alte Meister ha deciso, nel corso di un lavoro di restauro iniziato nel 2017, di rimuovere il pigmento sovrapposto. Dopo che test di laboratorio dell’Accademia di Belle Arti di Dresda e nuovi esami ai raggi X condotti in collaborazione con il Rijksmuseum di Amsterdam hanno confermato che la pittura coprente era assai più recente del dipinto sottostante, all’inizio del 2018 è stata presa la decisione di rimuoverla. Il lavoro di Christoph Schoelzel, restauratore di dipinti di Dresda, è stato minuzioso e ha richiesto l’uso di un microscopio e di un bisturi per raschiare la pittura coprente senza rimuovere i pigmenti originali di Vermeer. Ed ecco finalmente che il Cupido, rimasto nascosto per due secoli e mezzo, comincia a venire alla luce. Secondo le previsioni ci vorrà ancora almeno un altro anno per completare lo svelamento. Lo stesso dipinto di Cupido compare anche in “Donna in piedi alla spinetta” che si trova alla National Gallery di Londra. Gli studiosi ritengono che possa trattarsi di un quadro in possesso di Vermeer stesso: un inventario del 1676 delle proprietà della sua vedova include appunto “un Cupido”.
DALLA STORIA
Paul Gauguin
(Paul Gauguin autoritratto dell’artista, 1893)
Prima dell’impressionismo la pittura era disciplinata dalle regole della prospettiva, che metteva in primo piano il disegno e la necessità di razionalizzare lo spazio. Questi principi, rispettati per secoli, sono messi in discussione dagli impressionisti ed è questa “insubordinazione” e non la presenza di nudi, a scatenare le ire dei giudici del Salon, le incomprensioni della critica e la derisione del pubblico. Le pareti del Salon erano infatti piene di tele dai soggetti mitologici, biblici o storici, ben più sensuali e provocanti delle loro. I fattori che determinano la carica eversiva di queste opere sono la nuova disposizione dello spazio e l’uso rivoluzionario dei colori, che più di qualsiasi altro aspetto tecnico concretizzano il netto distacco dalla tradizione accademica. Attraverso la pittura all’aperto, en plein air, gli impressionisti concentrano il loro interesse sui mutevoli effetti della luce e dei colori in natura; i contemporanei studi di ottica confermano queste ipotesi e forniscono le basi teoriche per le loro ricerche. All’armonia della composizione, creata attraverso il disegno, sostituiscono il senso del ritmo, dato dai contrasti o dagli accostamenti sempre più liberi dei colori. Uno degli esponenti più grandi di questa corrente pittorica che ha consegnando all’arte capolavori di stupefacente bellezza e inestimabile valore è Paul Gauguin (anche se con Gauguin, per i nuovi elementi che egli introduce nella sua arte è più esatto parlare di post-impressionismo). Ecco a grandi linee la sua biografia tratta da “Gli Impressionisti”, a cura di Gabriele Crepaldi. Ed. Mondadori. 1999: “Eugène Henri Paul Gauguin nacque a Parigi il 7 giugno 1848. Trascorse l’infanzia in Perù, dai parenti della madre. Tornato in Francia si imbarcò come marinaio e in seguito venne assunto presso l’agenzia di cambio Bertin. Un suo collega, Emile Schuffenecker, gli trasmise l’amore per l’arte: visitò i musei, acquistò dei quadri e cominciò a dipingere. Nel 1873 sposò la danese Mette Gad, dalla quale ebbe cinque figli. Nel gennaio del 1883 perse il posto di lavoro e decise di dedicarsi alla pittura: conobbe Pizzarro, grazie al quale partecipò alle ultime cinque edizioni delle mostre degli impressionisti. I suoi quadri, però, non trovarono acquirenti e la moglie ritornò con i figli dalla sua famiglia, a Copenhagen. Nel 1886 Gauguin si recò in Bretagna, a Pont-Aven; l’anno dopo, in compagnia dell’amico Charles Laval, tentò la fortuna in Martinica, ma l’esperienza fu fallimentare. Nel 1888 tornò a Pont-Aven e trascorre alcuni mesi ad Arles, ospite di Van Gogh. Nel febbraio del 1889 si trasferì per la terza volta a Pont-Aven e nella vicina cittadina di Le Pouldu, dove rimase fino al 1890. Il 4 aprile 1891 partì per Tahiti e vi rimase fino all’aprile del 1893. A Parigi il gallerista Paul Durand-Ruel organizzò la sua prima mostra personale, dal 4 novembre al 1° dicembre 1893, che però ebbe scarso successo. Deluso, si recò nuovamente in Bretagna, dove cercò invano di riallacciare i contatti con gli altri pittori della scuola di Pont-Aven. Il 28 giugno 1895 lasciò per sempre Parigi e visse prima a Tahiti, poi nelle isole Marchesi, dove morì”.
(Il dipinto “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”)
I suoi ultimi otto anni di vita, trascorsi a Tahiti e nelle isole Marchesi, sono segnati dai ricoveri in ospedale, almeno in sei occasioni, ma sono caratterizzati anche da un’intensa creatività che lo porta a realizzare alcuni dei suoi capolavori. Lì, nel 1897-1898 dipinge “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Questo grande quadro, un olio su tela, oggi conservato al Museum of Fine Arts di Boston, è considerato il suo testamento artistico e spirituale, una sintesi perfetta della sua visione del mondo. La prima idea della composizione compare in un disegno che accompagna una lettera a de Monfreid nel febbraio 1898. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente, per oltre un mese. A luglio spedisce il quadro a Parigi: sin dalla sua prima apparizione nella galleria di Ambroise Vollard, alla fine del 1898, i critici lo studiano, facendone l’oggetto di numerose interpretazioni. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi, i grandi cicli di affreschi nei palazzi rinascimentali, ma anche il Bosco sacro di Puvi de Chavannes. Alcuni personaggi sono già presenti nelle tele precedenti, ma assumono qui un significato differente, ottenendo una carica simbolica maggiore. Singolare appare la presenza dell’idolo blu e dello “strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità delle parole”. L’opera è una metafora delle età dell’uomo, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche un confronto tra l’azione e la contemplazione, tra l’istinto e la ragione. E, inoltre, una meditazione sul senso profondo della vita, su cui l’artista si trova a riflettere dopo la morte della figlia prediletta Aline, nel febbraio del 1897, a soli vent’anni. La notizia, infatti, lo getta in una profonda crisi depressiva, tanto che nel febbraio 1898, proprio mentre sta dipingendo questo quadro, tenta il suicidio, ingerendo dell’arsenico.
(Parau Api.1892. Il quadro, il cui titolo in lingua tahitiana significa “Quando ti sposi?, è stato acquistato per circa duecentosessantacinque milioni di euro da una fondazione svizzera)
(I girasoli. Olio su tela, 1901, San Pietroburgo, Ermitage)
All’inizio del 1901 il mercante Ambroise Vollard stipula da Parigi un contratto con Gauguin, in cui gli promette di pagarlo 300 franchi al mese in cambio di venticinque quadri all’anno. Per soddisfare le sue richieste di nature morte floreali, vendibili più facilmente dei quadri di figura, il pittore si fa mandare dall’amico Daniel de Monfreid dei semi dalla Francia e li pianta nel giardino della sua capanna a Tahiti, trasformandolo in un angolo irreale di macchia mediterranea. Questo quadro è uno dei quattro in cui riprende il tema dei girasoli, i fiori così cari a Van Gogh, con l’aggiunta inquietante di un fiore-occhio, che dà un’impronta mistica e surreale all’intera composizione. La presenza del ritratto maori sulla destra rende la scena ancora più misteriosa, più vicina alla trascrizione di un sogno che a una rappresentazione della realtà. La particolare visione dell’arte nutrita da Gauguin fu immensa: i pittori nabis e i simbolisti si richiamarono esplicitamente a lui, mentre la libertà decorativa delle sue composizioni aprì la via all’Art Nouveau, così come il suo trattamento della superficie lo rese un precursore del fauvismo e la semplificazione delle forme fu tenuta presente da tutta la pittura del Novecento.
(Ritratto di Vincente van Gogh mentre dipinge i girasoli. Olio su tela. 1888. Rijksmuseum Vincente van Gogh, Amsterdam)
Ad Arles Gauguin e van Gogh passano tutte le giornate serene a dipingere in campagna, per ritrovarsi la sera a confrontare i propri lavori e a discutere accanitamente, cercando di far prevalere il proprio punto di vita. Le piogge di fine novembre ostacolano il loro lavoro e la convivenza si fa difficile, a causa delle forti differenze di carattere. In questo ritratto impietoso sono evidenti i segni fisici dello squilibrio mentale di Van Gogh, premonitori della sua tragica fine. Come ricorda lo stesso Gauguin nel suo libro Avant et Après, “mi venne l’idea di fargli il ritratto mentre era intento a dipingere la natura morta che tanto amava, dei girasoli. E finito il ritratto mi disse: “sono proprio io, ma diventato matto”. Pochi giorni dopo, una nuova lite convince Gauguin ad abbandonare l’amico e a tornare a Parigi.
Mary Titton
7 maggio
PRIMO PIANO
Addio a Jean Vanier, fondatore de L’Arche.
Si è spento, a 90 anni, prima dell’alba, Jean Vanier, fondatore de L’Arche (1964), una comunità di accoglienza per persone con disabilità, soprattutto mentali, con circa 150 centri in tutto il mondo. Malato di cancro, era assistito in una struttura dell’Arca a Parigi, vicino alla Senna, dove riceveva cure palliative per il male che lo rendeva sempre più fragile, quella fragilità umana che aveva scelto di condividere nella sua vita e a cui neanche Gesù si era sottratto. Nato nel 1928 a Ginevra, figlio di Georges P. Vanier, governatore generale del Canada, all’inizio degli anni Sessanta, dopo l’abbandono precoce della carriera d’ufficiale nella Royal Navy e gli anni d’insegnamento all’Università di Toronto seguiti a studi teologici e filosofici, in cui aveva approfondito in particolare, con un dottorato, la questione della felicità, Vanier, a lungo vicino alla scelta del sacerdozio, nel 1964 sentì il bisogno di «raggiungere Gesù laddove si trova, nascosto nel più debole e nel più povero» e si stabilì in una casetta di campagna della Piccardia, la regione a nord di Parigi nota per le svettanti cattedrali gotiche. A Trosly-Breuil, non lontano dalla radura boschiva dove fu firmato l’armistizio franco-tedesco dopo i massacri della Grande Guerra, decise di condividere tutto con Raphael e Philippe, due giovani con disabilità mentale. Attratti dal carisma di Vanier, altri giovani giunti da Canada e Inghilterra, Francia e Germania, colsero tutta la forza, al contempo silenziosa e travolgente, di quella scelta di vita. Da allora, accogliendo persone mentalmente fragili senza badare a criteri d’origine o culto, l’Arca divenne un modello di comunità, in cui le persone con disabilità grave «potessero sperimentare insieme la gioia e le difficoltà della vita comunitaria». Poi, nel 1968, alcuni genitori ed educatori, tra cui Jean Vanier e Marie-Hélène Mathieu, organizzarono un pellegrinaggio a Lourdes per persone ferite nell’intelligenza, i loro genitori e amici. Il giorno di Pasqua del 1971, si ritrovarono dodicimila persone di quindici diverse nazionalità, tra cui quattromila con un handicap mentale. Così nel 1971, insieme alla francese Marie-Hélène Mathieu, fondò Fede e Luce, associazione che promuove incontri mensili all’insegna dell’amicizia, della festa e della preghiera, con persone con deficienza intellettuale. Una realtà divenuta anch’essa mondiale, con circa 1500 comunità in 82 Paesi, Italia compresa. Nel 2000, Vanier creò inoltre Intercordia, per proporre agli studenti universitari di vivere una «pratica di pace» durante un anno di formazione. Tra le sue pubblicazioni: La ferita nel cuore dell’uomo, La comunità. Luogo del perdono e della festa, Un’Arca per i poveri. Storia e spiritualità dell’Arca, La paura di amare. Quattro meditazioni sul valore della fragilità, Vincere la depressione. Nel suo apostolato laico durato ben oltre mezzo secolo, soprattutto al fianco dei suoi «amici» con disabilità mentali, Jean Vanier, il fondatore canadese dell’Arca, ha abbracciato un intero popolo di persone arse dalla sete d’amore e spesso relegate ai margini della società. Papa Francesco aveva incontrato Jean Vanier il 21 marzo 2014, definendolo “uomo del sorriso e dell’incontro” e, nell’ambito dei “Venerdì della misericordia”, il 13 maggio 2016 aveva visitato la Comunità il “Chicco” di Ciampino, legata alla grande famiglia dell’Arche.
DALLA STORIA
Johannes Brahms
“Non c’è vera creazione senza duro lavoro”. (J. Brahms)
“L’immagine che tutti hanno di Johannes Brahms, confortata dai ritratti più noti, è conforme alle sensazioni che vengono dalla sua musica: di un austero bonario tranquillo cordiale zio borbottone, irsuto e fiero della sua pancia. Curiosamente è vero il contrario: Brahms era certamente austero ma non bonario, non era tranquillo ed era cordiale solo con gli amici, e per poco tempo. Anche l’aspetto fisico trasmesso dai ritratti è la netta smentita di quello che era in gioventù: un bellissimo nordico dai capelli biondi, occhi celesti, magro anche se abbastanza piccolo. Trasandato, già da giovane, sempre con gli stessi abiti, perfino rattoppati, in ogni caso pochissimo interessato all’aspetto esteriore, anche nei luoghi pubblici e nelle occasioni ufficiali. Era taciturno, collerico, perfino violento nei frequenti litigi (“Se qui c’è qualcuno che non ho insultato mi scuso con lui”). Un animale solitario, ombroso e scontroso. Schumann lo conobbe ventenne e forse gli piacque proprio perché era così, il suo perfetto opposto. Era il 1853. Brahms era nato ad Amburgo il 7 maggio 1833. E con Schumann conobbe lo stesso giorno la moglie Clara, la pianista insigne, catturata dall’intelligenza del ragazzo, dall’acutezza delle sue osservazioni e dal fascino della sua musica e subito con lui avviò quell’amicizia che sarebbe durata tutta la vita. Amicizia essenzialmente intellettuale, anche se ebbe, soprattutto dopo la morte di Schumann, sbocchi più terreni.
Ma è difficile che cosa Clara avesse potuto vedere di interessante in un ragazzo che aveva avuto scarse opportunità per formarsi bene. Figlio di un modesto suonatore di strumenti che solo a oltre cinquant’anni ebbe un posto fisso di contrabbassista e che per il resto campò di espedienti musicali nel giro delle taverne amburghesi, non aveva potuto andare oltre la scuola normale e si era dovuto accontentare di studi musicali modesti. Anche perché aveva avuto poco tempo da dedicare agli studi. Doveva passare di bettola in bettola, sulle orme del padre e col suo compiacimento, suonando il pianoforte in accompagnamento ai canti collettivi intrattenendo il pubblico che si interessava alle prostitute locali. Alla scarsezza di educazione scolastica supplì con l’autoeducazione, leggendo moltissimo, osservando acutamente le opere d’arte (era innamorato dell’Italia rinascimentale) e sarebbe diventato così colto da poter intrattenere rapporti con i grandi intellettuali viennesi. Ma questo riguarda la sua maturità, la vita adulta spesa alla ricerca del bello. Per restare agli anni giovanili ebbe la fortuna di incontrare due maestri seri, Otto Cossel, docente di piano ed Eduard Marxsen, insegnante di composizione, ammiratore entusiasta di Bach. I due lavorarono così bene che a 18 anni il giovane non solo era un pianista egregio ma anche un compositore interessante. È quello che videro i due Schumann nel giovanotto riservato portato nella loro casa di Dusseldorf da Joseph Joachim, il grande violoncellista che con lui aveva costituito un duo. Come è noto Schumann aveva scritto sul giovane Brahms un articolo importantissimo sulla “Neue Zeitschrft Fur Musik”, l’importante rivista di Lipsia di cui Schumann era direttore. L’articolo, “Vie nuove”, era così lusinghiero da segnalare il giovane musicista ai tedeschi come un genio. Fu la carta vincente per Johannes, che si trovò di colpo sbalzato dall’anonimato alla notorietà. Ma fu anche un problema perché acuì la curiosità di tutti nei confronti dei suoi lavori e fornì facili occasioni di invidia. Per lo stesso Johannes l’articolo di Schumann fu l’origine di un continuo interrogarsi sulle effettive qualità della sua musica, un continuo temere che l’esito non corrispondesse alle qualità proclamate da Schumann. Qualche dubbio Brahms lo aveva sul serio: non per sé, perché tal genere di dubbi non li ebbe mai, ma del possesso dei mezzi necessari per realizzare i lavori ai quali pensava. Schumann aveva intravisto nei lavori pianistici che il ventenne Brahms era un sinfonista, ma proprio quella scrittura orchestrale Brahms paventava. Il senso di autocritica, che gli era innato ma che Schumann sviluppò, lo spingerà per tutta la vita a riscrivere, rivedere, correggere lavori già scritti quando non a stracciarli (fu una strage di lavori, anche di alcuni già lodati da esperti lettori). Solo con la musica pianistica non ebbe ripensamenti così radicali: ma il pianoforte era il suo strumento, lo conosceva benissimo e sapeva come usarlo. Ma non c’erano soltanto i dubbi sui ferri del mestiere sinfonico a ostacolare la produzione, ce n’erano anche altri più difficili e fondamentali, a cominciare dall’espressione dei sentimenti, che doveva essere repressa o almeno controllata nei dettagli per non varcare i limiti della convenienza (per Brahms, si intende: per altri non ci furono limiti all’esternazione sentimentale nel tumultuoso volgere del decadentismo romantico). E questo valeva non solo per la musica ma anche per la vita privata. Probabilmente Brahms si innamorò molte volte ma si dichiarò raramente e sempre in termini che avevano bisogno di molte e sottili interpretazioni. Probabilmente il sospetto verso il matrimonio e diciamo pure il generale rapporto con le donne, che divenne nel tempo vera misoginia, aveva radici nelle esperienze adolescenziali dei bordelli che frequentava per lavoro, dove le donne avevano il solo obiettivo di compiacere i clienti e non potevano essere altro che oggetti di piacere (questo piacere Brahms lo conobbe e praticò bene). Un altro freno nella vita compositiva gli veniva da un culto per la forma classica che era diventato perfettamente inattuale. Nella musica tedesca nel medio Ottocento la tradizione dei grandi classici, da Bach a Haydn, Mozart, Beethoven era messa in crisi dalle spinte antiformalistiche dei primi romantici. E Brahms conosceva abbastanza poco la musica di Schumann per rendersi conto del rovello formale che attanagliava chi non accettava quelle spinte ma sapeva anche di non potersi più concedere senza patti al formalismo del passato. E l’altro gruppo, più apparentemente evolutivo, che faceva capo a Liszt e a Wagner, dopo un momento di ammirato stupore e di reale attrazione gli sembrò ancor più lontano dalla sua strada. La “musica dell’avvenire” non lo attraeva e mai e poi mai si sarebbe abbandonato all’urgenza della pura espressione poetica: di fatto non fu mai tentato dalla musica a programma quale veniva proposta da Berlioz e da Liszt. Continuava ad essere attratto dalla forma classica e risaliva ancor più indietro, rileggeva senza sosta le pagine polifoniche di Bach, Handel, Palestrina, Lasso. Il rovello formale non è naturalmente solo di Brahms ma anche di Mahler e Bruckner, i due grandi sinfonisti coevi. Ma mentre quest’ultimi distrussero l’antica forma, Brahms la assunse (“Beethoven è il mio maestro”) e la fece sua, pur adeguandola alla sua natura crepuscolare e avvolgendola di caldo lirismo. E se anche si pensasse, come è stato pensato, che il culto delle forme classiche fosse una maschera dietro la quale celare l’intimità dei sentimenti, sta di fatto che tale culto è stato elevato da Brahms a imperativo categorico. Che doveva rassicurarlo contro la dissolvenza dei valori e degli ideali raggiunta dai cultori della musica dell’avvenire. La forma come etica, ossia un percorso che assimila l’arte alla vita. “Non c’è vera creazione senza duro lavoro”. Ciò che chiamate invenzione è per così dire suggestione dall’alto, ispirazione … un dono, un regalo che dovrei addirittura disprezzare se non facessi cosa mia a forza di lavoro incessante”. La sua musica dai temi lunghi, fluidi, lirici, accattivanti e spesso struggenti giungono all’ascoltatore con una semplicità che però non è mai disgiunta dalla percezione del lavoro. Ed è un suo grande merito aver saputo rivitalizzare la lezione che gli veniva dai classici nel suo linguaggio. Gli ultimi anni furono confortati dall’amicizia di Dvorak e di Grieg ma anche funestati dalla malattia di Clara Schumann. Clara morì nel maggio del 1896 e Brahms, per cancro al fegato, il 3 aprile dell’anno dopo. È sepolto accanto a Beethoven e a Schubert nel cimitero di Vienna”.
(Monumento dedicato al grande compositore a Vienna)
Testo tratto da: “La Grande Storia della Musica”, di Michelangelo Zurletti. Editore: Gruppo Editoriale L’Espresso.
Mary Titton
6 maggio
DALLA STORIA
Il sacco di Roma.
(Il sacco di Roma dipinto da Pieter Brueghel il Vecchio)
Il 6 maggio 1527 avvenne il sacco di Roma da parte delle truppe dei lanzichenecchi, i soldati mercenari tedeschi arruolati nell’esercito dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo. Il tragico evento, caratterizzato dalla brutalità e dalla violenza incontrollata di questi mercenari, segnò un momento importante delle lunghe guerre per il predominio in Europa tra il Sacro Romano Impero e il Regno di Francia, alleato con lo Stato della Chiesa guidato dal Papa Clemente VII. Per contrastare l’egemonia di Carlo V, il re di Francia Francesco I diede vita a un’alleanza antispagnola, la Lega di Cognac (1526), cui aderì anche il papa Clemente VII, figlio naturale di Giuliano dei Medici, ucciso nella Congiura dei Pazzi un mese prima della sua nascita e in seguito protetto da Lorenzo il Magnifico, fratello di Giuliano. Clemente VII era, infatti, preoccupato che un impero troppo potente nella penisola avrebbe soffocato i territori della Chiesa. Carlo V considerò il voltafaccia del papa, che era stato eletto con il suo sostegno, un tradimento e la terribile punizione non tardò ad arrivare. La devastazione e l’occupazione della città di Roma sembrarono confermare simbolicamente il declino dell’Italia, in balia degli eserciti stranieri, e l’umiliazione della Chiesa cattolica impegnata a contrastare anche il movimento della Riforma luterana sviluppatosi in Germania. I lanzichenecchi, noti per la loro ferocia verso i nemici di turno, portarono il caos nella città per diversi mesi, un evento mai accaduto dai tempi di Nerone. Nel 1527 in Italia erano presenti 12.000 lanzichenecchi che avrebbero dovuto annientare la Lega di Cognac, ma furono lasciati senza paga e senza cibo e così prima devastarono le campagne, poi marciarono su Roma. Bisogna tenere presente che in quegli anni i Tedeschi, di fede luterana, consideravano Roma la “città di Satana” e il covo di tutti i vizi; saccheggiarla ai loro occhi non appariva un sacrilegio, ma un atto della giustizia divina. Arrivati alle mura, i lanzichenecchi sbaragliarono i 3000 mercenari svizzeri che le difendevano e misero a ferro e fuoco l’intera città: i cittadini romani furono massacrati; principi, cardinali, mercanti furono torturati dai lanzichenecchi perché rivelassero dove avevano nascosto le proprie ricchezze; i preti furono messi alla gogna; le monache furono violentate così come le donne nelle loro case; le chiese vennero devastate e molte opere d’arte distrutte: «Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine […]. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignerli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiungendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi» (Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, Libro XVIII, cap. VIII, righi 74-82). Carlo V, che era un cattolico fervente, non fece nulla per far cessare il saccheggio.
(Lanzichenecchi in una incisione del 1530)
I lanzichenecchi restarono a Roma nove mesi, durante i quali il papa si salvò asserragliandosi nella fortezza di Castel Sant’Angelo con la sua corte di prelati, cardinali, burocrati, diplomatici, servi, artisti, scortato dalla Guardia Svizzera. Alla fine i lanzichenecchi si ritirarono solo perché la Chiesa, dopo dieci mesi di occupazione, pagò un altissimo riscatto in oro e preziosi e perché restare era diventato impossibile: la città era rimasta senza viveri, le strade erano piene di cadaveri insepolti, l’acqua mancava perché tutte le fontane erano state distrutte e le epidemie falciavano sia le vittime sia i loro carnefici. A partire dal sacco, inizierà una svolta per l’intero mondo cattolico. Le logiche di potere delle famiglie e i discutibili costumi che avevano dominato il papato avevano dato luogo alla critica luterana e alla nascita del Luteranesimo. Il sacco della cattolica Roma da parte di un astioso e sprezzante esercito protestante, appena dieci anni dopo la pubblicazione delle tesi di Lutero (1517), è uno degli eventi che obbligarono la Chiesa a reagire. Paolo III Farnese, successore di Clemente VII Medici, nel 1545 indisse il Concilio di Trento, che voluto da Carlo V d’Asburgo e avvenuto all’interno della Guerra della Lega di Cognac (1526-30), si inquadra come evento clamoroso all’interno di uno dei conflitti del XVI secolo che porteranno alla spartizione dell’Europa tra Asburgo e Francia, culminando poi, nel 1559, con la Pace di Cateau-Cambrésis. Tale pace definì gli equilibri europei per tutto il secolo successivo, ufficializzando la debolezza politica italiana e del papato, mentre riconosceva protagoniste della scena europea la Spagna e la Francia e sanciva l’inizio del predominio spagnolo in Italia. L’arte, che prima del sacco, aveva raggiunto elevati livelli di splendore e raffinatezza, dopo il concilio di Trento, fu caratterizzata da forme più didascaliche, proprie della Controriforma. Allo stesso Michelangelo Buonarroti, che nel 1508-1512 aveva dipinto la Volta della Cappella Sistina con raffigurazioni bibliche, Clemente VII nel 1534 commissionò l’ammonitorio Giudizio Universale, eseguito nel 1536-1541 sotto Paolo III. Il Sacco di Roma del 1527 ebbe, quindi, il valore di uno shock, fu vissuto come uno stupro e assunse una valenza epocale, tanto che Bertrand Russel e altri studiosi indicano il 6 maggio 1527 come la data simbolica in cui porre la fine del Rinascimento.
Mary Titton
4 maggio
PRIMO PIANO
Una nuova ipotesi sulla paralisi alla mano destra di Leonardo.
L’infermità alla mano destra di Leonardo da Vinci negli ultimi anni della sua vita fu dovuta a una paralisi del nervo ulnare e non a un ictus, come finora era stato ipotizzato. Tale tesi è sotenuta in un nuovo studio, condotto da due medici italiani e pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine, proprio nei giorni delle celebrazioni del 500esimo anniversario della morte del genio fiorentino. La possibilità che Leonardo fosse stato colpito da una forma di paralisi era stata collegata finora a un documento, in cui Antonio de’ Beatis, segretario del cardinale Luigi D’Aragona, che nel 1517 fece visita a Leonardo, all’epoca ospite del re di Francia ad Amboise, parla della paralisi alla mano. Così una decina di anni fa, alcuni studiosi suggerirono che la causa dell’infermità della mano destra di Leonardo fosse dovuta ad un ictus, ipotesi confermata dal fatto che l’artista morì 2 anni dopo, nel 1519, per un “parossismo”, un episodio di una malattia di natura cardiaca o cerebrale non ben definita. Ora però due medici, Davide Lazzeri, specialista in chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica presso la Clinica Villa Salaria di Roma, e Carlo Rossi, specialista in neurologia all’Ospedale di Pontedera, confrontando tale testo con un ritratto del da Vinci a ematite o sanguigna, attribuito all’artista lombardo del XVI secolo Giovan Ambrogio Figino, conservato, non esposto, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, sono giunti a una diversa “diagnosi”. Il disegno offre una rappresentazione rara del braccio destro di Leonardo, avvolto nelle pieghe di un abito come in una specie di “fasciatura”: dal panneggio spunta la mano destra, sospesa in una posizione rigida e contratta. Perciò, se un evento cardiovascolare acuto può essere stato la causa della morte di Leonardo, il danno alla mano avrebbe un’origine diversa. Dice Lazzeri: “Piuttosto che il ritratto di una tipica mano deformata dalla spasticità muscolare successiva a un ictus ischemico, guardando il ritratto la diagnosi alternativa di paralisi del nervo ulnare, con un atteggiamento tipico della mano (iperestensione delle articolazioni metacarpofalangee e flessione delle articolazioni prossimali e distali delle interfalangee del quarto e del quinto dito, causando debolezza generale e goffaggine), sembra essere più verosimile. Probabilmente una sincope o uno svenimento potrebbero aver causato un trauma all’arto superiore destro di Leonardo, culminando nella paralisi del nervo ulnare. Nervo che dalla spalla giunge fino alla mano e che gestisce i muscoli intrinseci, determinanti in alcuni movimenti della mano.” L’ipotesi traumatica sarebbe sostenuta dal fatto che l’infermità alla mano destra non era associata a deterioramento cognitivo o ad altri disturbi motori e, secondo gli studiosi, potrebbe spiegare perché negli ultimi 5 anni della sua carriera come pittore Leonardo, incapace di tenere tavolozza e pennelli per dipingere con la mano destra, ha lasciato numerosi dipinti inconclusi, fra cui la Gioconda, mentre con la sinistra ha continuato a disegnare fino alla fine, come raccontano le testimonianze.
DALLA STORIA
Il Grande Torino.
“Quei meravigliosi ragazzi non sono più con noi. E l’acerbo rimpianto non ha fine”. Gianni Brera.
Il 4 maggio 1949 il Torino è la più forte squadra d’Europa, la bandiera del calcio italiano. Bacicalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola erano i campioni più amati dall’Italia sportiva. Il Grande Torino, soprannominato così perché dal 1942 al 1949 vince 5 scudetti consecutivi e la coppa Italia: una delle formazioni più forti del mondo. I giocatori sono la colonna portante anche della Nazionale italiana. Una gloria nazionale di un Paese che non ha glorie, in un’Italia ancora contadina, pre-industriale, tesa a ritrovare la forza di rialzare la testa dopo i drammi della guerra. Così si esprimeva sull’argomento Giorgio Bocca: “Il Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di vivere, di sentirsi di nuovo cittadini di una città viva e concorde, che però ci prendeva alla gola quando passavamo davanti alle macerie di piazza San Carlo”. Poi un urto nella nebbia e il Grande Torino non c’è più. Ancora oggi, dopo settant’anni è ancora viva nella memoria collettiva come un’immane perdita; la sciagura di Superga cambiò il calcio (oggi il calcio è un’altra cosa) e gettò nel lutto un intero Paese. Ecco la cronaca di quel tragico incidente tratta dal sito “Storie di Calcio”, dello scrittore sportivo Marco Filacchione: “Sono le diciassette di una brutta giornata d’inizio maggio. Torino, così come buona parte dell’Italia del Nord, è avvolta in una straordinaria cappa di maltempo. Il muratore Amilcare Rocco, che abita a un tiro di schioppo dalla cima di Superga, sente un rombo divenire via via sempre più forte fino a farsi assordante. Il fragore che gli passa in un lampo sopra la testa si trasforma subito dopo in un tonfo sinistro. L’uomo esce di casa, solcando la cortina di nebbia. Sulla strada incrocia alcuni contadini della zona, tutti usciti per lo stesso motivo. Correndo sgomenti verso la basilica che domina il colle, gli uomini scorgono sempre più nitido il profilo scomposto di una carlinga, sormontata da una colonna di fumo nero. Il cappellano, don Tancredi Ricca, è già lì che si aggira tra miseri resti di corpi umani, sparsi tra lamiere arroventate e focolai di incendio. Capisce ben presto che per quelle povere anime non si può che pregare. Il giardino che sorge ai piedi della basilica è delimitato da un poderoso bastione: proprio contro di esso si era schiantato l’aereo, un Fiat G 212, provocando un foro circolare di quattro metri di diametro e proiettandosi poi sulla spianata. Nel frattempo, poco distante, al campo dell’Aeritalia, ci si comincia a preoccupare: perché ancora non si sente il rumore del G 212? E perché dalla radio del velivolo nessuno risponde più? L’ultimo contatto è avvenuto qualche minuto prima: «Visibilità zero – aveva scandito in Morse il radiotelegrafista del campo – se volete atterrare dovete volare alla cieca». In quel momento l’aereo era già in vista di Torino. In vista si fa per dire, perché in realtà viaggiava sballottato fra nubi nerissime e raffiche di vento. Ma dopo qualche attimo di silenzio, la risposta proveniente dall’aria aveva sciolto ogni dubbio sulle intenzioni del comandante: «Quota duemila, tagliamo su Superga». Il volo sopra il colle era un fatto abituale per chi si preparava all’atterraggio. Erano le 16,58: di lì a poco si sarebbe compreso il tragico errore, causato forse da un guasto delle apparecchiature di bordo: credendosi a duemila metri di altezza, il pilota viaggiava invece a poco più di duecento. Non stava sorvolando la collina di Superga, stava per colpirla in pieno.
Contrariamente agli addetti dell’Aeritalia, i clienti del ristorante di Superga hanno invece già percepito i contorni del dramma. Anche loro hanno sentito il rombo e il tonfo, e dopo pochissimo un uomo proveniente in automobile dal luogo della sciagura li ha messi al corrente dell’accaduto. Una decina di minuti dopo le diciassette la notizia corre via telefono dal ristorante a Torino, da dove partono tredici ambulanze, vigili del fuoco e polizia. Sul colle, attorno alle salme, si continua a rovistare. Alcuni dei corpi sono quasi completamente svestiti per l’urto. Alcuni non hanno più volto. Valigie e pacchi regalo sono sparsi d’intorno. A un tratto qualcuno scorge due maglie di colore granata con lo scudetto tricolore e la verità passa davanti alle menti in un baleno: «È il Torino! È l’aereo del Torino che tornava da Lisbona!». La stessa verità che viene urlata di lì a poco in tutta Italia. E da tutta Italia risponde un mare di telefonate a giornali, vigili del fuoco, Aeronautica: «Ma è proprio vero? Sono loro? Sono morti proprio tutti?». I quotidiani della sera, usciti poco dopo in edizione straordinaria, vengono letteralmente strappati di mano agli strilloni.
Già: al cospetto della Basilica di Superga, quella sera del 4 maggio 1949, si era immolata una squadra leggendaria, capace di dominare il calcio italiano come mai più sarebbe accaduto. Una squadra e una società assurti a modello assoluto e intoccabile. E proprio il grande prestigio internazionale sarebbe stato indiretto motivo della rovina. La scintilla era scoccata nel febbraio precedente, quando l’Italia marcata Torino vinse facile, 4 a 1, con il Portogallo. Era quella la prima esperienza del dopo-Pozzo: il ciclo del vecchio alpino, straordinario artefice dei massimi successi, era giunto al tramonto. La Nazionale era stata affidata a una commissione tecnica federale presieduta da Ferruccio Novo, vale a dire il presidente del Torino. Proprio in quell’occasione, il capitano del Portogallo, Ferreira, in cerca di un grande partner per la sua partita d’addio, convinse Valentino Mazzola a portare il Torino a Lisbona, per giocare contro il suo Benfica nel maggio successivo. Novo si era subito mostrato in disaccordo con la promessa fatta dal suo capitano. La trasferta lusitana si incrociava infatti con il finale di campionato e, anche se il Toro era in testa per l’ennesimo anno, gli avversari incalzavano e le distrazioni potevano risultare pericolose. «Va bene – aveva detto Mazzola – facciamo così: se a San Siro contro l’Inter non perderemo, andremo in Portogallo». Novo aveva accettato: del restonon perdere a Milano avrebbe significato scudetto pressoché sicuro, con i nerazzurri tenuti a cinque punti con sole quattro partite da giocare. Non erano più di primo pelo le colonne storiche di quella macchina micidiale. Mazzola, Loik, Menti e Grezar avevano toccato la sponda dei trent’anni, Gabetto era già sui trentatré. Gli altri erano più giovani ma sulle loro spalle pesavano quattro campionati consecutivi a far da lepri irraggiungibili. Sicché la minaccia di quell’Inter, che dopo la guerra aveva smesso di chiamarsi “autarchicamente” Ambrosiana per riappropriarsi del suo vecchio nome, era parsa quanto mai fondata. San Siro traboccava per la partita più importante del campionato. Finalmente c’era la possibilità di mettere paura a quegli undici marziani, che l’anno prima avevano vinto il campionato con sedici punti di vantaggio sulla seconda. L’Inter calava il suo tris d’attacco, formato da Nyers, Amadei e Lorenzi (in tre andarono a segno quell’anno 65 volte). Una trazione anteriore formidabile. Il Toro doveva lasciare in tribuna un febbricitante Mazzola e non era certo una prospettiva gradevole fare a meno del superuomo, dell’atleta capace di dispensare saggezza, potenza e meraviglie tecniche in ogni parte del campo. Ma alla fine, la missione fu compiuta: 0 a 0, con qualche patema. La strada era ormai in discesa fino alla fine. «Nell’ora del pericolo – scrisse quel giorno il direttore di Tuttosport, Renato Casalbore – la squadra granata ha svelato una potente freschezza atletica e anche questi sono segni della classe di una squadra; voglio dire: saper essere tempestivamente al momento giusto, sempre aderenti alla situazione. Ed era una situazione difficile per il Torino. Domani i campioni partono per Lisbona». Partono, annotò Casalbore. In realtà avrebbe dovuto scrivere “partiamo”, perché sull’aereo dei granata, il 2 maggio, stava per imbarcarsi anche lui. Intorno a quell’aereo, a dire il vero, si svolse una singolare danza di appuntamenti mancati o centrati in extremis: il giovane granata Giuliano, per esempio, che già da un po’ bazzicava la comitiva dei “grandi”, fu bloccato da problemi di passaporto e lasciò il posto proprio a Casalbore. A terra rimase anche Gandolfi, il portiere di riserva che presentatosi all’aeroporto scoprì con dispetto che al suo posto era stato convocato Dino Ballarin, fratello minore di Aldo. Così come restarono in Italia Nicolò Carosio e Ferruccio Novo: la “voce” del calcio italiano era inizialmente della partita, ma la prima Comunione del figlio lo convinse a rinunciare in favore di Renato Tosatti, della Gazzetta del Popolo. Novo, invece, era a letto malato. E infine, non partì uno dei rincalzi, Sauro Toma: qualche giorno prima, vittima di una distorsione, si era fatto visitare insieme con Maroso. Per Lisbona il medico bloccò Toma e diede via libera a Maroso. Peraltro, il fine terzino sinistro, che ad appena 24 anni aveva già le stimmate del fuoriclasse, sarebbe partito solo per ingrossare la schiera dei rincalzi. Neanche Mazzola era ancora del tutto guarito dalla sua influenza, ma come poteva rinunciare a quella trasferta che proprio lui aveva organizzato? Invano un altro grande giornalista e disegnatore di Tuttosport, Carlin Bergoglio, aveva cercato di persuaderlo: «Non andare, sei ancora malato». «I campioni e lo sport vanno onorati degnamente», sosteneva capitan Valentino. La partita non aveva tradito le attese del pubblico. Del resto, se il Torino era un punto di riferimento internazionale, anche il prestigio del Benfica era molto alto. I granata avevano perduto di misura, anche perché la fatica di San Siro non poteva essere svanita in tre giorni, ma lo spettacolo offerto sul campo era stato divertente e di buon livello. Il giorno dopo, sulla Stampa Sera, Luigi Cavallero, che con Casalbore e Tosatti componeva il terzetto di giornalisti al seguito del Toro, aveva scritto: «Stamane i granata si sono alzati presto per prepararsi al ritorno. Tra poche ore l’aereo, che ha trasportato a Lisbona dirigenti, giocatori e giornalisti, spiccherà il volo per atterrare all’Aeronautica di Torino, tempo permettendo, verso le 17. Che le nubi ed i venti ci siano propizi e non facciano troppo ballare …».
La mattina del 4 erano infatti giunte dall’Italia notizie poco rassicuranti. Pioveva a catini, il Po era gonfio come mai negli ultimi 50 anni e tracimava rovinosamente sulla piana. In migliaia abbandonavano le loro case. Il Fiat G 212, velivolo ad elica fabbricato solo due anni prima, era decollato in direzione Milano Malpensa, dove i giocatori avrebbero trovato il celebre “Conte Rosso”, il pullman che sempre li accompagnava in trasferta. A Barcellona, dove aveva fatto scalo per il rifornimento, il comandante Meroni era stato avvertito delle critiche condizioni meteorologiche di Torino. Eppure, chissà perché, aveva deciso di ignorare il previsto arrivo a Milano per atterrare proprio nel capoluogo piemontese. Su questa decisione fioriranno poi sospetti romanzeschi. Nell’aeroporto catalano i granata avevano incrociato i giocatori del Milan, diretti a Madrid per affrontare il Real: «Loro erano stravolti – ricorderà il milanista Carapellese – avevano già avuto un brutto trasferimento da Lisbona a Barcellona. Parlammo di cose comuni, della loro partita con il Benfica, della nostra con il Real Madrid, della rabbia che certamente gli spagnoli avrebbero avuto per vendicare il 3-1 che l’Italia aveva inflitto proprio a Madrid alla Spagna qualche tempo prima. Parlammo pochi minuti poi ciascuno si diresse verso il proprio aereo». A Montecitorio, la notizia della sciagura arriva mentre è in atto una discussione animata. Immediatamente i lavori vengono sospesi in segno di lutto. Il presidente del Consiglio De Gasperi è in Sardegna. Al posto suo, per Torino parte il sottosegretario Andreotti. Intanto, la strada per Superga è ormai preda di un gigantesco ingorgo: centinaia di automobili, migliaia di ciclisti, gente che a piedi sfida la pioggia. Tutti vogliono constatare di persona, ma tutti, compresi i familiari delle vittime, vengono bloccati ai cancelli della Basilica. I vigili del fuoco hanno ormai spento gli ultimi, flebili focolai. È arrivato anche Vittorio Pozzo. Antica anima granata, conosce e ama quella squadra che anche lui ha contribuito a formare e che ha trasferito in azzurro quasi in blocco nell’ultima parte della sua epopea azzurra. Dal Torino il vecchio maestro si è distaccato a causa di un dissidio personale con Novo, proprio l’uomo che lo ha sostituito alla guida della Nazionale. Ma i ragazzi no, non c’entrano, per lui sono come figli. Pozzo avanza con passo eretto fra i rottami, incrociando gente che corre, che grida, che piange. «Su un lato del terrazzo – ricorderà dieci anni dopo – spazzando i rottami, qualcuno aveva già disposto quattro o cinque cadaveri. Erano i corpi, non martoriati, di Loik, di Ballarin, di Castigliano … Li riconobbi, e li nominai, sentendo uno dei presenti che aveva dato un’indicazione errata. Li conoscevo, oltre che dal viso, dagli abiti, dalle cravatte, da tutto. Fu allora che mi accorsi di un maresciallo dei carabinieri, che mi seguiva e prendeva nota di quanto dicevo. “Nessuno meglio di lei …”, sussurrò, mettendosi sull’attenti. Fu allora, mentre rovistavo fra i resti di un po’ di tutto che giacevano al suolo, che un uomo più alto di me ed avvolto in un impermeabile, mi mise una mano sulla spalla e mi disse in inglese: ‘Your boys”, i suoi ragazzi. Era John Hansen della Juventus, accorso fin lassù. Non so se piangessi, in quel momento. Dopo sì». Pioggia, nebbia e vento, compagni maledetti di quella giornata, non danno tregua: i morti vengono via via raggruppati sul piccolo piazzale dietro la canonica e coperti da un grande telone impermeabile. Quattro di essi sono stati scagliati molto lontano dal luogo dell’impatto. Ai piedi di Renato Tosatti viene trovata una foto del Torino edizione ’46-47. È appena bruciacchiata ai margini, solo il viso di Castigliano è stato mangiato. Dopo tre ore l’opera di ricomposizione è compiuta: si decide di trasferire il riconoscimento ufficiale al cimitero di Torino, dove il tragico corteo arriva alle 21. È ancora Pozzo, assieme ad altre due persone e a due medici, a farsi carico del triste compito. L’ex commissario azzurro ha un paio di cedimenti, ma procede nell’identificazione. In molti casi si deve riconoscere la salma da un anello, da un documento, da qualche oggetto personale. Martelli e Maroso, riconosciuti solo per eliminazione, mettono a dura prova l’animo e la scorza di Pozzo. Quella sera, in una casa di Torino, il piccolo Sandro nota uno strano via vai di gente. In quella casa vive con una donna che non è sua madre, mentre sua madre è a Cassano d’Adda con il fratellino Ferruccio. A Sandrino nessuno dice quella sera che suo padre, il grande, generoso, infedele Mazzola, non tornerà mai più. Il figlio di Ossola, invece, non può avere di questi problemi, visto che è stato appena concepito. E pensare che suo padre, appresa la lieta novella, era così eccitato che per farlo partire per Lisbona avevano dovuto faticare. A poche ore dall’incidente, l’Italia è già in lutto: il Grande Torino era da tempo al di sopra del tifo di parte e delle beghe di campanile. Era l’orgoglio di tutti; un simbolo della rinascita italiana dopo le piaghe di guerra; un inno alla gioventù, alla forza, alla lealtà. In un attimo era finito tutto, per un guasto, un errore o chissà che altro. L’aereo sembrava ora un’invenzione perversa: Carapellese e Lorenzi, compagni in azzurro dei granata, non vorranno più salirci, per tutta la vita. Boniperti ricorderà le parole che un giorno gli disse Loik, durante una trasferta della Nazionale: «Questa – e si riferiva all’aereo – sarà la nostra bara». Il trauma sarà così forte che un anno più tardi l’Italia partirà per i mondiali brasiliani in nave anziché in aereo. Risultato: durante il viaggio tutti i palloni d’allenamento finiranno in mare e tutti gli atleti arriveranno sballottati e fuori forma.
(L’ultima partita del Toro a Lisbona, scambio di gagliardetti tra Mazzola e Ferreira)
Già, i mondiali: sarebbe stata forse quella la consacrazione del Grande Torino, chiamato a difendere in azzurro il titolo conquistato da Meazza e compagni nell’ormai lontana ultima edizione del 1938. Giocatori che in tempi normali avrebbero partecipato a due o tre edizioni del torneo più prestigioso, non fecero in tempo a viverne una. Prima la guerra, poi la morte. Proprio in Brasile, nel 1947, i granata in tournée avevano lasciato negli occhi della “torcida” riflessi entusiasmanti. Tanto che anni dopo il giovane talento Altafini venne soprannominato “Mazzola”. Anche in occasione della trasferta brasiliana, peraltro, l’aereo che portava il Torino a Rio volteggiò pericolosamente per tre ore su un cielo in burrasca alla ricerca dell’atterraggio. Il giorno del funerale, Torino è una città distrutta: al passaggio delle salme in molti si inginocchiano singhiozzando, come se in quelle bare ognuno avesse lasciato un pezzo della propria giovinezza. Carlin, su Tuttosport, riferisce il toccante discorso del presidente federale Barassi: «Egli aveva parlato agli atleti racchiusi tutt’intorno (sorridevano i loro ritratti sulle bare) come se sentissero, e ci era parso veramente che sentissero. Aveva assegnato ad essi, ufficialmente, il quinto scudetto consecutivo, li aveva premiati simbolicamente per nome, uno per uno, chiamando anche i giornalisti, i dirigenti, gli uomini dell’equipaggio, infine aveva ancora chiamato Mazzola: “La vedi questa bella Coppa? (e disegnava con le braccia aperte una gran coppa nell’aria). La vedi com’è bella? È per te, è per voi. È molto grande, è più grande di questa stanza, è grande come il mondo: e dentro ci sono i nostri cuori». Una vicino all’altra, le bare di Bacigalupo, Martelli e Rigamonti, quelli del “trio Nizza”, com’erano chiamati dalla via in cui abitavano. «Noi tre dobbiamo morire insieme – diceva Rigamonti – perché siamo troppo amici; e tu Martelli, che sei piccolo, ti porteremo in tasca dal Signore Iddio». «Siamo vecchi torinesi – annota ancora Carlin – ma non ricordiamo di aver mai visto nulla di simile, una unanimità così commossa, una vibrazione così profonda». Salutato il Grande Torino, il calcio italiano non ritroverà più per anni un modello di squadra così compatta e vincente. Anzi, di lì in poi salirà alla ribalta un ben diverso stereotipo di calciatore italico: il bambino viziato, superpagato, isterico, individualista, refrattario al sacrificio. La gente conserverà la passione per il calcio, ma perderà in buona misura la stima del calciatore. La Nazionale, infarcita di oriundi poco interessati alla causa, passerà da una delusione all’altra. Ci vorrà l’Inter di Moratti ed Herrera per riportare il nostro calcio alla gloria. E nella notte di Vienna, 27 maggio 1964, i nerazzurri vinceranno la loro prima Coppa dei Campioni ai danni del leggendario Real Madrid con due reti di Sandro Mazzola.
Al termine della gara, un ormai invecchiato Puskas, che da ragazzino, in un’Italia-Ungheria del 1947, aveva incrociato la sua rotta con gli uomini del Grande Torino, si sfilerà la maglia a la donerà a Sandrino: «Ho conosciuto tuo padre – gli dirà – e oggi ho capito che tu sei degno di lui». La sciagura di Superga, nell’immaginazione popolare, rese eroi immortali i componenti di quella squadra. Si seppe poi che Novo, notando degli scricchiolii nella macchina perfetta che aveva costruito, aveva in mente dei ritocchi sostanziali. Esistevano già trattative per il milanista Annovazzi e per uno scambio fra Castigliano e il centrocampista dell’Inter Campatelli. Inoltre, si ipotizzava un futuro rimpiazzo di Loik, apparso fra i più logori, e dell’anziano Gabetto. Ma chissà con quale rammarico il presidentissimo si sarebbe separato dai suoi ragazzi. Raccontano che da quando il fato glieli strappò d’un colpo, Novo si perse nel dolore. Aveva azzeccato tutto prima, sbagliò tutto dopo. Come se ai piedi della Basilica fosse rimasta anche la sua anima …
Mary Titton
Auguri Aura, oggi avresti compiuto 100 anni!
3 maggio
PRIMO PIANO
Una ciocca di capelli di Leonardo da Vinci?
Nel giorno del quinto centenario dalla morte di Leonardo, il Museo Ideale, che si trova a Vinci in provincia di Firenze, ha esposto una ciocca sottile di capelli biondi, stretta da un nastro nero, del genio del Rinascimento. “Non è solo un documento storico, né un semplice cimelio, bensì uno strumento straordinario di conoscenza”, ha spiegato il direttore Alessandro Vezzosi, che ha curato la mostra “Leonardo Vive”. È stato esposto insieme alla ciocca anche un anello, proveniente dalla stessa collezione. La storia della reliquia inizia nel 1863 quando Arsène Houssaye, scrittore e ispettore generale dei musei della provincia francese, amico di Eugène Delacroix e Charles Baudelaire, fu incaricato da una commissione imperiale di ricercare la tomba di Leonardo da Vinci tra le rovine del castello di Amboise, dove Leonardo fu inumato il 12 agosto del 1519. Houssaye ritrovò i resti di quelli che ritenne essere le ossa e il cranio del genio fiorentino grazie anche ad alcuni frammenti lapidei di un’iscrizione riconducibile al nome di Leonardus Vinci. Secondo il direttore del Museo Ideale, i reperti da oggi esposti a Vinci attestano che Houssaye trattenne per sé due reliquie, che nel 1925 furono rivendute da un suo pronipote a Harold K. Shigley, collezionista americano appassionato di cimeli. Nel 1985 queste due reliquie sono passate nelle mani di un altro collezionista, sempre americano che, nel 2016, ha preso contatto con il Museo di Vinci. Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt getta però un’ombra sul rarissimo cimelio. “È veramente una cosa sciocca. Nessuno specialista ci crede e tra l’altro è estremamente improbabile che una ciocca di Leonardo potesse essere ritrovata in una collezione privata americana”, dice, sottolineando che la tradizione di collezionare ciocche di famosi personaggi, oppure dei propri cari, risale all’Ottocento, e sarebbe dunque “completamente fuori epoca” per il Rinascimento. Schmidt aggiunge anche: “Solo per i santi martiri, nemmeno per i beati, si tenevano parti del corpo, ma sicuramente non per grandi scienziati e grandi artisti. Questa cosa non vale nemmeno la pena di essere analizzata nel dettaglio.” Di parere diverso è invece la storica Agnese Sabato, co-curatrice della mostra inseme a Vezzosi, che sottolinea l’importanza del ritrovamento: “Se i capelli sono compatibili con il Dna dei discendenti si potrà sequenziare il Dna di Leonardo. E si farà comunque chiarezza sui resti contenuti nella tomba di Leonardo ad Amboise.”
2 maggio
DALLA STORIA
2 maggio 1549: muore Leonardo da Vinci, “il Genio dei geni”.
(Riproduzione Artistica Artigianale dopo il restauro, realizzata da Progetto Editoriale Editions)
In occasione dell’ anniversario della morte di Leonardo da Vinci, avvenuta il 2 maggio 1549 ad Amboise, dove volle essere sepolto, ricordiamo il genio vinciano attraverso un approfondimento del celeberrimo “Cenacolo”, un’opera che rivela, insieme a molte altre di Leonardo, numerosi interrogativi, al vaglio degli studiosi, per il suo linguaggio ermetico ed esoterico.
L’Ultima Cena (460×880 cm) è un dipinto parietale a tempera grassa su intonaco di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1499 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. Si tratta della più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, rievocata nella liturgia cattolica il giovedì santo. Il capolavoro commissionato a Leonardo da Ludovico il Moro, a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata dall’artista, incompatibile con l’umidità dell’ambiente, versa da secoli in un cattivo stato di conservazione ed è stato oggetto di uno dei più lunghi e capillari restauri, realizzato con le tecniche più all’avanguardia e durato dal 1978 al 1999. Nel lavoro di ripulitura ci si è resi conto che il Cenacolo era stato in parte spalmato di cera per essere predisposto al distacco, per fortuna mai eseguito. L’impiastro di colle, resine, polvere, solventi e vernici, sovrapposte nei secoli in maniera disomogenea, hanno peggiorato notevolmente le condizioni, già di per sé molto delicate, della pellicola pittorica, fino a renderla irreparabilmente compromessa. Solo una meticolosa e rigorosa opera di restauro, sostenuta da rilievi ed esami tecnologici approfonditi, ha permesso di restituire all’umanità uno dei capolavori della storia dell’arte più travagliati e di documentare le tracce autografe nel dipinto, mettendo anche in luce tutti gli aspetti della tecnica usata. Una volta eliminate le ridipinture e ritrovata l’opera originale di Leonardo, i restauratori si sono posti il problema di come riempire le zone mancanti, che, in un primo tempo erano state riempite semplicemente con un colore neutro, e le hanno riportate ai colori originali, basati sui frammenti ritrovati e anche sulle copie d’epoca del Cenacolo. Tra le tante scoperte insperate, si è trovato il buco di un chiodo piantato nella testa del Cristo: qui Leonardo aveva appeso i fili per disegnare l’andamento di tutta la prospettiva. Si sono riscoperti anche i piedi degli apostoli sotto il tavolo, ma non quelli del Cristo: questa parte fu infatti distrutta nel XVII secolo dall’apertura di una porta che serviva ai frati per collegare il refettorio con la cucina. Tra i particolari più deteriorati e irrecuperabili si segnala la parte inferiore del viso di Giovanni dove, come scrive la restauratrice Pinin Brambilla, le narici e la bocca erano ormai “ridotte a piccoli tratti scuri”. Pure il soffitto della scatola prospettica che vediamo oggi non è l’originale dipinto da Leonardo, ma frutto di un totale rifacimento settecentesco che, sempre secondo la restauratrice, “non rispetta il sapore e il ritmo leonardeschi”. Dell’originale rimane solo una sottile fascia a destra, che evidenzia come i cassettoni in origine fossero più larghi, profondi e caratterizzati da modanature con sottili fasce rosse e lacunari dal fondo blu-azzurro. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) Leonardo ha creato l’effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell’ambiente del refettorio stesso, una sorta di trompe l’oeil. Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso del territorio dell’alto Lario. Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13,21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli, e sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma Leonardo, come già aveva fatto con l’Adorazione dei Magi, rinnova l’iconografia alla ricerca del significato più intimo dell’episodio religioso. Leonardo infatti studiò i “moti dell’animo” degli apostoli sorpresi e sconcertati all’annuncio dell’imminente tradimento di uno di loro. Dentro la stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l’illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all’antica finestra reale del refettorio, Leonardo pose in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena aperta, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» Mt 26,20. Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l’asse centrale della scena compositiva, ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione. Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L’effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un’eco delle sue parole che si allontana generando stati d’animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Sopra l’Ultima Cena si trovano, oltre una cornice baccellata all’antica, cinque lunette, in larga parte autografe, che contengono imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori e foglie, e iscrizioni su sfondo rosso; in particolare nella lunetta centrale, di dimensione maggiore di quelle laterali e in uno stato di conservazione buono, si trova quello che si ritiene essere il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione, ma, secondo Mario Taddei, il curatore del progetto, sulla base del disegno preparatorio, si potrebbe invece interpretare come un serpente che striscia verso l’alto, un serpente che si trova sospeso esattamente sopra la testa di Gesù. Innumerevoli sono gli studi e, soprattutto ai nostri giorni, le interpretazioni dell’opera, con la ricerca di simboli nascosti nel dipinto o lo studio delle pietre preziose, 8, come lo smeraldo sulla veste del Cristo, che la prof. Elisabetta Sangalli in uno studio inedito rimanda alla simbologia biblica. Una delle interpretazioni che ha fatto più scalpore in anni recenti è quella che lo scrittore Dan Brown dà nel suo popolare romanzo giallo “Il codice da Vinci”: il discepolo alla destra di Gesù Cristo sarebbe da interpretare come una donna, con cui Leonardo avrebbe voluto rappresentare Maria Maddalena, come sposa di Gesù, manca il calice citato nel Nuovo Testamento, la mano di Pietro sarebbe posata sul collo della presunta donna e infine c’è un braccio con la mano che impugna un coltello e non apparterrebbe ad alcun soggetto ritratto nel quadro. Questa lettura del dipinto è confutabile attraverso un’attenta analisi dell’opera, basata sull’episodio dell’Ultima cena narrato nel vangelo di Giovanni: l’aspetto di Giovanni fa parte dell’iconografia dell’epoca, riscontrabile in tutte le ultime cene dipinte da altri artisti tra il XV e il XVI secolo, in cui si rappresentava l’apostolo più giovane (il “prediletto” secondo lo stesso quarto vangelo) come un adolescente dai capelli lunghi e dai lineamenti delicati, in particolare ricordiamo che nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze Giovanni viene descritto come un “giovane vergine” il cui nome “significa che in lui fu la grazia: in lui infatti ci fu la grazia della castità del suo stato virginale”; il calice col vino non è menzionato nel vangelo di Giovanni, nel quale non è neppure narrata l’istituzione dell’Eucaristia; il coltello è impugnato da Pietro, così come in innumerevoli altri dipinti rinascimentali di Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, il Perugino, Andrea del Castagno, Jacopo Bassano, Jaume Huguet, Giovanni Canavesio, in diretto rapporto con la scena successiva, in cui l’apostolo taglierà l’orecchio a Malco, il servo del sommo Sacerdote (Gv 18,10), in questo caso Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena, col polso appoggiato all’anca, posa riscontrabile in tutte le copie dell’Ultima cena e in uno schizzo dello stesso Leonardo; la mano di Pietro posata sulla spalla di Giovanni è il gesto narrato nello stesso quarto vangelo, in cui si legge che Pietro fa un cenno all’apostolo più giovane e gli chiede chi possa essere il traditore (Gv 13,24). Anche la mancanza delle aureole, che a certi scrittori di mistero è parsa sospetta, in realtà non ha nessuna valenza eretica. Tanti altri artisti prima di Leonardo, soprattutto di area nord-europea, avevano omesso le aureole nelle loro opere di soggetto sacro. Un esempio famoso è l’Ultima Cena dell’olandese Dieric Bouts, dipinta attorno al 1465. Tra gli artisti italiani che spesso hanno tralasciato le aureole possiamo citare Giovanni Bellini e Antonello da Messina.
La riproduzione delle Opere di Leonardo: i dipinti più famosi, le litografie, le pregiate edizioni editoriali a lui dedicate, si possono visitare in questo sito alla voce “Leonardo”, nel Catalogo.
1 maggio
DALLA STORIA
1° maggio: festa dei lavoratori.
La Festa del lavoro o Festa dei lavoratori viene celebrata il 1º maggio di ogni anno in molti paesi del mondo per ricordare la lotta dei lavoratori per la riduzione della giornata lavorativa. La festa ricorda le battaglie operaie, in particolare quelle volte alla conquista di un diritto ben preciso: l’orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore (in Italia con il RDL n. 692/1923). Tali battaglie portarono alla promulgazione di una legge che fu approvata nel 1867 nell’Illinois. La Prima Internazionale richiese poi che legislazioni simili fossero introdotte anche in Europa. La sua origine risale a una manifestazione organizzata a New York il 5 settembre 1882 dai Knights of Labor, un’associazione fondata nel 1869. Due anni dopo, nel 1884, in un’analoga manifestazione i Knights of Labor approvarono una risoluzione affinché l’evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate all’Internazionale dei lavoratori – vicine ai movimenti socialisti ed anarchici – suggerirono come data della festività il primo maggio. A far cadere definitivamente la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago e conosciuti come rivolta di Haymarket. Il 3 maggio i lavoratori in sciopero di Chicago si ritrovarono all’ingresso della fabbrica di macchine agricole McCormick. La polizia, chiamata a reprimere l’assembramento, sparò sui manifestanti uccidendone due e ferendone diversi altri. Per protestare contro la brutalità delle forze dell’ordine gli anarchici locali organizzarono una manifestazione da tenersi nell’Haymarket Square, la piazza che normalmente ospitava il mercato delle macchine agricole. Questi fatti ebbero il loro culmine il 4 maggio, quando da una traversa fu lanciata una bomba che provocò la morte di sei poliziotti e ne ferì una cinquantina. A quel punto la polizia sparò sui manifestanti. Nessuno ha mai saputo né il numero delle vittime né chi sia stato a lanciare la bomba. Fu il primo attentato alla dinamite nella storia degli Stati Uniti. In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889, ratificata in Italia due anni dopo. Nel 1947 la ricorrenza venne funestata in Italia, a Portella della Ginestra, Palermo, quando si suppone che la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina. Altre fonti sostengono che tale sparatoria fu organizzata dai “servizi segreti”, al fine di poter accusare e screditare agli occhi dei cittadini Salvatore Giuliano con la sua banda. Il 1º maggio 1955 papa Pio XII istituì la festa di San Giuseppe lavoratore, perché tale data potesse essere condivisa a pieno titolo anche dai lavoratori cattolici. Dal 1990 i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL, in collaborazione con il comune di Roma, organizzano un grande concerto per celebrare il primo maggio, rivolto soprattutto ai giovani: si tiene in piazza San Giovanni, dal pomeriggio a notte, con la partecipazione di molti gruppi musicali e cantanti, ed è seguito da centinaia di migliaia di persone, oltre a essere trasmesso in diretta televisiva dalla Rai.
30 aprile
PRIMO PIANO
Giappone: Akihito lascia il Trono del Crisantemo.
Oggi, 30 aprile, alle 17:00, nella Sala dei Pini del palazzo imperiale hanno avuto inizio i riti per l’abdicazione dell’imperatore Akihito, con una cerimonia finale, che ha visto l’imperatore 85enne pronunciare l’ultimo discorso da reggente e sarà seguita, nella mattinata di mercoledì, dall’ascesa al trono del principe della corona Naruhito. Akihito, salito al trono nel 1989 alla morte del padre Hirohito, che portò il Paese alla disfatta nella Seconda guerra mondiale e lo guidò nei decenni successivi, già ad agosto 2016 aveva chiesto di poter fare questo passo e il governo aveva dovuto approntare un percorso normativo ad hoc, perché erano 202 anni che un imperatore del Giappone non abdicava. L’anziano monarca, con accanto l’imperatrice Michiko, i sigilli e due dei tre simboli della regalità nipponica, lo tsurugi (spada) che sconfisse il drago e il gioiello ricurvo magatama, custoditi in due scatole, ha lasciato il Trono del Crisantemo con una cerimonia sobria e molto breve, in cui ha pronunciato l’ultimo discorso da reggente davanti agli alti funzionari e ai membri della famiglia imperiale, fra la commozione generale. Dall’adozione della costituzione nel 1946, in Giappone l’imperatore svolge un ruolo simbolico piuttosto che politico, ma Akihito non è stato un’istituzione passiva. Già due anni dopo l’ascesa al trono, s’inginocchiò di fronte alla gente di Nagasaki, in un atto del tutto inedito per un imperatore. Anche il matrimonio con Michiko, l’imperatrice uscente, ha avuto un carattere nuovo: Michiko Shoda è infatti la figlia di un grande industriale e non una componente dell’alta nobiltà imperiale, come voleva la tradizione. La visibilità è stata una delle caratteristiche della sua reggenza. Gli imperatori giapponesi hanno storicamente fatto della distanza un elemento di affermazione della sovranità: i giapponesi comuni hanno dovuto aspettare l’imperatore Meiji, alla fine del XIX secolo, per vedere con i propri occhi il Tenno, membro di una dinastia che vanta di essere la più antica del mondo, essendo stata fondata nel 660 a.C. da Jinmu. Akihito, invece, ha visitato in media almeno due volte ognuna delle 47 prefetture in cui è diviso il Giappone. È stato a Kobe dopo il terremoto del 1995 e ha fatto visita agli abitanti della zona dopo il grande terremoto/tsunami del 2011 nel Tohoku, che ha prodotto il disastro nucleare di Fukushima, una piaga ancora aperta per il Giappone. Numerose sono state poi le visite realizzate dalla coppia imperiale in luoghi simbolo della guerra combattuta sotto il padre, Hirohito: dalla scogliera di Saipan, dove migliaia di soldati e civili giapponesi si uccisero in mare piuttosto che arrendersi agli americani, a Hiroshima e Nagasaki distrutte dall’atomica, a Palau e le Filippine. Akihito è stato anche il primo imperatore giapponese a visitare la Cina nel 1992 e ad affrontare alcuni problemi scottanti, come la discriminazione delle persone ammalate di lebbra isolate in lebbrosari, visitando 14 di queste strutture. Ora gran parte degli osservatori si attende che il figlio, Naruhito, prosegua sulla linea tracciata dal padre. Naruhito è il figlio maggiore dell’imperatore Akihito e dell’imperatrice Michiko e salirà al trono del Crisantemo il 1° maggio, dando inizio alla nuova era, “Reiwa” (Ordine e Armonia). Nato il 23 febbraio 1960, è diventato erede al trono nel gennaio 1989 in seguito alla morte di suo nonno, l’imperatore Hirohito, e principe ereditario nel febbraio 1991. Si è laureato presso il Dipartimento di Storia dell’Università Gakushuin a Tokyo nel 1982 e un anno dopo è entrato al Merton College presso l’Università di Oxford, studiando per altri tre anni. Ha anche completato la prima parte di un dottorato in discipline umanistiche presso la scuola di specializzazione dell’Università di Gakushuin nel 1988. Nel 1993 ha sposato Masako Owada, una diplomatica in carriera laureata in economia all’Università di Harvard, da cui ha avuto una figlia, la principessa Aiko, che ora ha 17 anni. Con la cerimonia del 1° maggio Naruhito prenderà possesso delle regalìe imperiali, iniziando una serie di rituali per l’ascesa al trono, che si concluderanno il 14-15 novembre con la controversa cerimonia del Daijosai, in cui il nuovo imperatore offrirà il raccolto di riso agli antenati e agli dei, incontrando la dea del sole Amaterasu, considerata la progenitrice della dinastia.
29 aprile
PRIMO PIANO
Elezioni in Spagna: Vittoria dei socialisti.
In Spagna, dove domenica si sono svolte le elezioni anticipate, hanno vinto i socialisti del premier uscente Sánchez con 123 seggi (28,7%), a seguire il Partito popolare al minimo storico con 66 seggi (16,7%), Ciudadanos in aumento con 57 seggi (15,9%), Podemos in forte calo con 42 seggi (14,3%) e infine l’estrema destra di Vox, che entra per la prima volta in Parlamento, con 24 seggi (10,3%), gli altri partiti hanno riportato il 10,1%. La consultazione ha visto una partecipazione record: ha votato il 75,8%, con un aumento del 9% rispetto alle precedenti politiche. Il Psoe non ha ottenuto, però, una maggioranza tale da poter governare da solo. Come in molti paesi dell’Europa continentale, il voto segna il declino del bipolarismo e apre uno scenario incerto per la formazione dell’esecutivo, infatti nessuna delle coalizioni avrebbe almeno 176 seggi, dando il ruolo di ago della bilancia alle forze regionaliste. Secondo le prime dichiarazioni di alcuni dei massimi dirigenti del Psoe, il tentativo sarà comunque quello di un nuovo governo monocolore socialista. La vice-premier Carmen Calvo ha dichiarato, infatti, in un’intervista a Cadena Ser: “Riteniamo di aver avuto un sostegno più che sufficiente per essere il timone di questa barca.” Al momento sembra, dunque, altamente improbabile qualsiasi apertura diretta a un’intesa con Ciudadanos, che, al contrario di quella con Unidas Podemos, garantirebbe a Sánchez una comoda maggioranza parlamentare. Questa possibilità è stata subito esclusa da Rivera, che preferisce condurre dall’opposizione il suo tentativo di conquistare la leadership dell’intero centro-destra e viene ritenuta improponibile dallo stesso Psoe, preoccupato dalla possibile reazione del proprio elettorato: ieri notte, tra i sostenitori socialisti che celebravano il successo elettorale davanti alla sede della Calle Ferraz, si è levato forte il grido “Con Rivera no! Con Rivera no!” Tutto lascia prevedere che non si deciderà nulla prima delle prossime elezioni europee del 26 maggio. Pedro Sánchez, leader del Partito Socialista spagnolo, individua proprio le elezioni che lo hanno portato alla vittoria con oltre il 28% delle preferenze, come la ripartenza europeista in vista del voto del 23-26 maggio che rinnoverà il Parlamento di Bruxelles: “Abbiamo mandato un messaggio all’Europa e al resto del mondo. Si può vincere l’autoritarismo e l’involuzione. Formeremo un governo pro europeo.”
DALLA STORIA
Alfred Hitchcock: Maestro del brivido.
Il 29 aprile 1980 moriva a Los Angeles Alfred Hitchcock, una delle personalità più importanti della storia del cinema. Hitchcock è considerato il padre del thriller moderno e un geniale innovatore dell’arte cinematografica. Grazie alla sua capacità di inventare nuove forme d’espressione come quella di suscitare emozioni tramite il racconto (invece di riprodurre “realisticamente” fatti e personaggi) e tramite una serie di accorgimenti tecnici, effetti visivi ispirati da idee d’avanguardia, come l’impiego sapiente della lentezza e rapidità del tempo (non a caso è definito “maestro della scena”), il grande regista ha saputo creare dei capolavori, dei classici che hanno influenzato le successive generazioni di cineasti. Fu il primo a considerare la suspense come lo strumento più potente per trattenere l’attenzione dello spettatore costringendolo a identificarsi con il personaggio. Ecco come Hitchcock definì la suspense durante una sua intervista: “La differenza tra suspense e sorpresa è molto semplice e ne parlo spesso … Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena del tutto normale, priva di interesse. Ora veniamo alla suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto, c’è un orologio nella stanza: la stessa conversazione insignificante diventa tutt’a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena. Gli verrebbe da dire ai personaggi sullo schermo: “Non dovreste parlare di cose banali, c’è una bomba sotto il tavolo che sta per esplodere da un momento all’altro”. Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici secondi di sorpresa al momento dell’esplosione. Nel secondo gli offriamo quindici minuti di suspense.” Nei film horror l’effetto sorpresa consiste nel far apparire improvvisamente qualcosa o qualcuno, nei film di Hitchcock, l’effetto ansiogeno è generato dal grado di consapevolezza del pericolo che grava sul personaggio. Tra i film più rappresentativi dello stile hitchcockiano c’è senz’altro “Psyco” del 1960, con Janet Leigh, Anthony Perkins tra gli attori principali. Nel cast vediamo la fugace apparizione del regista inglese, i famosi “camei” con cui Hitchcock firmava i suoi film, una consuetudine scaramantica e una specie di gioco per gli spettatori, che, a ogni uscita di un nuovo film, dovevano cercare d’individuare in quale inquadratura si fosse nascosto. Ma entriamo nel vivo grazie anche ad alcune informazioni di Steven Jay Schneider tratte da “1001 film. I grandi capolavori del cinema”, ed. Atlante: “In Psyco, Hitchcock sostituisce gli esseri soprannaturali del vecchio cinema dell’orrore, vampiri, lupi mannari, zombi e simili, con un mostro fin troppo umano. Il film divenne uno dei film più famosi al mondo e l’horror più imitato e fece di “Norman Bates” un nome familiare. La sceneggiatura, tratta da un trascurabile romanzo di Robert Bloch ispirato alla vita di un omicida seriale del Wisconsin, Ed Gein racconta la storia della giovane e bella Marion Crane, autrice di un furto sul luogo di lavoro. La ragazza lascia la città senza un piano preciso, con la vaga idea di mettere su casa con l’amante, un uomo divorziato. Dopo una notte trascorsa guidando sotto la pioggia, Marion si ferma in un motel sul ciglio della strada. Il gestore è un giovane impacciato ma apparentemente simpatico di nome Norman. Con un colpo di scena che suscitava le grida del pubblico dell’epoca, la ragazza verrà pugnalata a morte sotto la doccia, la sera stessa, per mano di una vecchia signora con un enorme coltello da macellaio. I laceranti violini della colonna sonora (composta da Bernard Herrmann, collaboratore abituale di Hitchcock), accompagnano la terribile aggressione. Per la prima volta in un film destinato al grande pubblico, il personaggio principale veniva brutalmente ucciso prima dell’intervallo! Anche un investigatore incaricato da una compagnia di assicurazioni, verrà assassinato. Lila (Vera Miles) e Sam Loomis (John Gavin), la sorella e l’amante di Marion, seguono le sue tracce fino alla residenza dei Bates, in fondo alla strada del motel. Scopriranno che Norman è un assassino schizofrenico e dedito al travestimento, pronto a trasformarsi nella madre, morta da tempo, seguendo impulsi sessuali o per autodifesa. Nonostante la “spiegazione” fornita dallo psicologo della polizia (Simon Oakland) sulla malattia di Normann alla fine del film, è chiaro che ogni possibile motivazione va oltre l’umana razionalità”. Dopo aver visto Psyco è impossibile fare la doccia senza pensare di venire accoltellati da un efferato assassino! “Psyco venne accolto tiepidamente dalla maggior parte dei critici, ma la reazione del pubblico fu sorprendente: i botteghini furono assediati. Hitchcock ebbe anche una nuova idea che fomentò lo scalpore generato dal film: l’ingresso in sala sarebbe stato vietato dopo la fine dei titoli di testa. Il regista britannico era evidentemente riuscito ad attingere alle profondità della psiche collettiva dell’America: il suo mostro così normale e la sua sordida e spaventosa storia di sesso, follia e morte avevano previsto con esattezza le notizie che avrebbero caratterizzato la cronaca dei decenni seguenti”. Quattro mesi prima di morire all’età di ottant’anni, a Capodanno del 1980, Alfred Hitchcock ricevette dalla regina Elisabetta II d’Inghilterra il titolo di baronetto.
(Il libro di Francois Truffaut del 1966 nel quale è pubblicata l’intervista che il regista inglese gli concesse nell’agosto 1962. Hitchcock, in cinquanta ore di colloqui, risponde a cinquecento domande, ripercorrendo la sua carriera. Fondamentale per studiare la sua opera)
Mary Titton
25 aprile
PRIMO PIANO
25 aprile 2019.
Il 74esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo è stato celebrato da centinaia di migliaia di persone nelle città italiane del Nord e del Sud con manifestazioni più commosse e partecipate del solito. Settantamila le persone solo alla manifestazione di Milano. Nell’anno in cui una forza politica di governo – la Lega – ha deciso di non partecipare alle cerimonie e si sono moltiplicate le provocazioni di formazioni neofasciste, inequivocabili sono state le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di Vittorio Veneto: “Festeggiare il 25 aprile – dice Mattarella – significa celebrare il ritorno dell’Italia alla libertà e alla democrazia, dopo vent’anni di dittatura, di privazione delle libertà fondamentali, di oppressione e di persecuzioni. Significa ricordare la fine di una guerra ingiusta, tragicamente combattuta a fianco di Hitler. La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha deposto una corona davanti al sacrario delle Fosse Ardeatine, in ricordo dell’eccidio del 24 marzo del 1944 in cui furono trucidate 335 persone, tra militari e civili. Con il presidente del Consiglio hanno reso omaggio alle vittime anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. Corre l’obbligo di ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, l’origine e il significato della istituzione della festa della Liberazione, che pose fine a venti anni di dittatura fascista e a cinque anni di guerra. Su proposta del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il principe Umberto II, allora luogotenente del Regno d’Italia, il 22 aprile 1946 emanò un decreto legislativo luogotenenziale, “Disposizioni in materia di ricorrenze festive” che recitava: « A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale. » La ricorrenza venne celebrata anche negli anni successivi, ma solo il 27 maggio 1949, con la legge 260 è stata istituzionalizzata stabilmente quale festa nazionale. Da allora, annualmente, in tutte le città italiane – specialmente in quelle decorate al valor militare per la guerra di liberazione – vengono organizzate manifestazioni pubbliche in memoria dell’evento. La data del 25 aprile simbolicamente rappresenta il culmine della fase militare della Resistenza e l’avvio effettivo di una fase di governo da parte dei suoi rappresentanti, che porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica – consultazione nella quale per la prima volta furono chiamate alle urne per un voto politico le donne – e poi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione.
24 aprile
DALLA STORIA
Padre Pio: il santo più amato.
Il 24 aprile 2008, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, veniva esposto, a San Giovanni Rotondo, all’interno di una teca di cristallo costruita appositamente, il corpo di Padre Pio. Il 23 settembre dello stesso anno, data coincidente con la morte del Santo, si concludeva l’esposizione della salma con una solenne cerimonia. Attorno all’itinerario umano e spirituale di Padre Pio da Pietrelcina, si è realizzata una delle più popolari esperienze di devozione religiosa dell’Italia del Novecento. Per un cinquantennio, dal 1918 al 1968, senza mai spostarsi dal convento di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo, Padre Pio ha attratto generazioni di italiani e stranieri, che si recavano nel Gargano per incontrare colui che amava definirsi “un povero frate che prega”. Quanti hanno visitato il piccolo centro pugliese si sono imbattuti in un prete cappuccino dall’esistenza segnata dalla semplicità, e per certi versi dalla ripetizione. Alla semplicità della sua vita, tuttavia, si sono accompagnati doni spirituali ed esperienze mistiche, tutti di carattere soprannaturale. Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, nacque in una famiglia di contadini meridionali, proprietari di un appezzamento di terra di poco meno di un ettaro distante un’ora di cammino dal paese Pietrelcina. Quarto di otto fratelli Francesco, nacque il 25 maggio 1887. La vita a Pietrelcina era scandita dai ritmi della terra, della famiglia, della religione, “una religiosità semplice e assidua”. La vocazione di Francesco si sviluppò con naturalezza, senza essere legata a eventi straordinari. La frequentazione e la simpatia per un giovane cappuccino che si recava spesso a Pietrelcina, insieme alla devozione francescana della madre, fecero nascere in Fancesco il desiderio di “farsi frate”. La famiglia prese sul serio tale volontà, e investì i pochi averi nell’istruzione del ragazzo, che venne affidata a un prete del paese. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entrò nel convento di Morcone e da francescano cappuccino prese il nome di fra Pio da Pietrelcina. “Francesco sostenne di aver avuto una visione, il 1 gennaio 1903, dopo la comunione, che gli avrebbe preannunciato una continua lotta con Satana. Divenuto sacerdote sette anni dopo, il 10 agosto 1910, voleva partire missionario per terre lontane, ma glielo impedì la grave malattia ai polmoni, che costrinse i superiori a rimandarlo più volte a Pietrelcina. Lì, Padre Pio trascorse sei anni, prima di essere inviato a Foggia e quindi a San Giovanni Rotondo. Gli anni della giovinezza, dello studio, del noviziato e della preparazione non furono assolutamente facili per il frate, segnati dai continui problemi di salute e il moltiplicarsi di sogni, visioni e manifestazioni “non terrene” che anticiparono quello che gli sarebbe occorso lungo tutta la vita. Tali esperienze sono note grazie alla corposa corrispondenza scambiata dal frate con il suo direttore spirituale e con il confessore. Centinaia di lettere, tutte pubblicate, scritte prima della proibizione di intrattenere rapporti epistolari che lo avrebbe raggiunto nel 1922. “In questa corrispondenza intima egli racconta il suo combattimento con il diavolo affrontato, talvolta, anche fisicamente. Incoraggiamenti gli vennero da apparizioni di Gesù e di Maria”. Il giovane frate non amava esternare tali esperienze, né vantarsene. Un senso di timore e di inadeguatezza per l’avventura spirituale di cui era protagonista lo avrebbe accompagnato sempre. Nell’agosto del 1918 frate Pio affermò di aver avuto delle visioni su di un personaggio che lo avrebbe trafitto con una lancia, lasciandogli una ferita costantemente aperta (transverberazione). Poco tempo dopo, in seguito a un’ulteriore visione, il frate affermò che avrebbe ricevuto delle stimmate. (L’inizio del manifestarsi delle stimmate risalirebbe al 1910, quando per la sua malattia il religioso aveva avuto il permesso di lasciare il convento e di vivere nella sua casa natale di Pietrelcina: “In mezzo al palmo delle mani è apparso un po’ di rosso, grande quanto la forma di un centesimo, accompagnato da un forte e acuto dolore. Questo dolore è più sensibile alla mano sinistra. Anche sotto i piedi avverto un po’ di dolore”). Nello stesso periodo cominciarono a circolare voci secondo le quali la sua persona aveva cominciato a emanare un “inspiegabile” profumo, che non era percepito da tutti allo stesso modo: “Chi diceva di sentire profumo di rose, chi di violette, chi di gelsomino, chi di incenso, chi di giglio, chi di lavanda, ecc.”. Un numero incalcolabile di uomini e donne, dal Gargano e da altre parti dell’Italia, cominciarono ad accorrere al suo confessionale, dove egli trascorreva moltissime ore al giorno fra grandi sofferenze fisiche e spirituali. Padre Pio venne visitato da molti medici, tra cui padre Agostino Gemelli (che mantenne sempre un atteggiamento di diffidenza nei confronti del frate) e dovette sottostare a diverse ispezioni canoniche; infine fu anche sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse, fu reintegrato nel suo ministero sacerdotale. La sua celletta, la numero 5, portava appeso alla porta un cartello con una celebre frase di San Bernardo: “Maria è tutta la ragione della mia speranza. Da lei il frate si sentiva protetto nella sua lotta quotidiana col demonio, il “cosaccio”, come lo chiamava, e per ben due volte, nel 1911 e nel 1959, la Vergine lo guarì miracolosamente. A Lei, nel maggio 1956, dedicò la Casa Sollievo della Sofferenza, una delle strutture sanitarie oggi più qualificate a livello nazionale e internazionale, con 70.000 ricoveri all’anno e collegamenti con i principali Istituti di ricerca di tutto il mondo. Negli anni ’40, per combattere con l’arma della preghiera la tremenda realtà della seconda guerra mondiale, padre Pio diede avvio ai Gruppi di Preghiera, una delle realtà ecclesiali più diffuse attualmente nel mondo, con oltre duecentomila devoti. La vicenda del frate fu sempre accompagnata da un lato da intense manifestazioni di fede popolare e dall’altro da sospetti di personalità della Chiesa, tra cui Giovanni XXIII e, come già citato, da Padre Gemelli che fu sempre scettico sulle ferite del cappuccino. A Padre Pio gli vengono attribuiti il dono della bilocazione, la profezia e la scrutazione dei cuori e delle coscienze (cardiognosi). Su di lui sono stati scritti numerosi articoli e tantissimi libri, più di 200 biografie solo in italiano. Diceva: “Farò più rumore da morto che da vivo”. Alle 2,30 del mattino di lunedì 23 settembre 1968 Padre Pio morì all’età di 81 anni. Ai suoi funerali parteciparono più di centomila persone giunte da ogni parte d’Italia. Le stimmate scomparvero dal suo corpo, lasciando le parti completamente sane, come attestano le fotografie scattate subito dopo la sua morte. Fino a pochi giorni prima di morire, ormai stanco e malato, aveva vissuto la sua giornata abituale. La sveglia alle cinque, la preghiera comunitaria, la messa con il popolo, l’interminabile processione di coloro che ne chiedevano la grazia e di essere acoltati. Nel suo testamento Padre Pio istituì la Santa Sede quale legatoria di tutti i beni della Casa Sollievo della Sofferenza. È stato beatificato il 2 maggio 1999 e proclamato Santo il 16 giugno 2002 in piazza San Pietro da Papa Giovanni Paolo II. La memoria liturgica ricorre il 23 settembre. San Giovanni Rotondo è oggi la prima meta di pellegrinaggi d’Italia, con circa nove milioni di visitatori l’anno, (dato del 2002).
(Papa Francesco, in preghiera, davanti al corpo imbalsamato di Padre Pio)
Mary Titton
23 aprile
DALLA STORIA
William Wordsworth
William Wordsworth, insieme a Samuel Taylor Coleridge, è il fondatore del Romanticismo e soprattutto del naturalismo inglese grazie alla pubblicazione, nel 1798, delle “Lyrical Ballads”, vero e proprio manifesto del movimento in Inghilterra. L’amico Coleridge vi contribuì con “La ballata del vecchio marinaio” (“The Rime of the Ancient Mariner”), che apriva la raccolta nella prima edizione, chiusa da “Tintern Abbey”. Benché il poema postumo “The Prelude” di Wordsworth sia considerato il suo capolavoro, sono in realtà le “Ballate liriche” ad influenzare in modo determinante la letteratura ottocentesca. Il carattere decisamente innovativo della sua poesia, ambientata nella cornice suggestiva del Lake District, nel nord del Cumberland, sta nella scelta dei protagonisti, personaggi di umile estrazione tratti dalla vita di tutti i giorni, e in un linguaggio semplice e immediato che ricalca da vicino la loro parlata. Mentre Coleridge vede la poesia come fuga dalla realtà, Wordsworth offre ai suoi lettori un modo per dialogare con il presente e la società: anche se la sua poesia si ambienta nella cornice selvaggia e rupestre dei laghi inglesi, essa è anche una recollection in tranquillity, letteralmente “ricordo nella quiete”, di personali esperienze vissute nella natura che arricchiscono chi vive costretto dalla realtà della metropoli industriale. Il poeta non è solo colui che percepisce il messaggio della natura grazie alla sua particolare sensibilità, ma anche chi lo sa esprimere in modo da evocare in chi legge le sue stesse esperienze visive, uditive, tattili: nella poesia più famosa della raccolta, “Tintern Abbey”, egli dice: «… sento di nuovo/queste acque che scorrono dalle sorgenti montane/portando in sé il dolce rigoglio delle viscere della terra.» Troviamo, poi, nella prefazione alle Lyrical Ballads, anche un’importante definizione di quella che fu, secondo Wordsworth, la poesia romantica: «Ho detto che la poesia è lo spontaneo straripamento di potenti sensazioni: prende origine dall’emozione ricondotta nella tranquillità». In occasione dell’anniversario della morte, avvenuta il 23 aprile 1850 , ecco un piccolo saggio tratto dalle sue “Lyrical Ballads”:
Arcobaleno
Il mio cuore esulta al cospetto
dell’arcobaleno che sta nascendo:
come venendo al mondo;
come nel sapersi uomo;
così, nello scoprirsi vecchio,
mi sia data la morte!
Il Bambino è padre dell’Uomo
e siano i miei giorni
l’uno all’altro stretti
dal sentimento della natura.
Un sonno mi sigillò la mente
Un sonno mi sigillò la mente –
non avevo paure umane –
lei pareva creatura che non sente
il tocco di anni terreni.
Ora non ha più forza né moto,
non vede né sente –
avvolta nel flusso della terra
diuturno, fra piante, sassi, rocce.
PRIMO PIANO
Sri Lanka: Pasqua di sangue.
Domenica mattina a Colombo, la capitale dello Sri Lanka, alle 8.45 (le 4.30 in Italia) otto esplosioni, le prime sei simultanee, hanno squarciato alcune chiese nell’ora della messa ed alberghi pieni di turisti. Sono stati colpiti il famoso Santuario di Sant’Antonio, un’altra chiesa a Katana, una cinquantina di chilometri a nord della capitale, e anche la chiesa di San Sebastiano a Negombo: per i fedeli in preghiera nel giorno della Pasqua non c’è stato scampo. Una strage di cristiani, come ai tempi dei primi martiri, e di occidentali. Gli attentati, tra i più sanguinosi degli ultimi anni, hanno causato almeno 321 morti, tra cui anche 45 bambini e più di 500 feriti. L’Isis, attraverso Amaq, l’agenzia di propaganda del gruppo terroristico, ha rivendicato oggi gli attacchi senza tuttavia fornire alcuna prova del suo coinvolgimento diretto. Secondo quanto ha riferito oggi in Parlamento il vice ministro della Difesa, gli attentati “sono stati compiuti come ritorsione dopo quello di Christchurch”, la strage delle moschee del 15 marzo scorso in Nuova Zelanda, in cui morirono 50 persone. Il governo ha anche rivelato che due gruppi islamisti locali sono sospettati delle stragi: oltre al National Thawheed Jamaat, il cui nome era già circolato nelle scorse ore, ci sarebbe anche il Jammiyathul Millathu Ibrahim. I due gruppi avrebbero agito con il supporto di una rete internazionale e di militanti dello Stato islamico. Le autorità finora hanno arrestato 40 persone, la maggior parte cittadini dello Sri Lanka. Gli interrogatori hanno condotto a un siriano, che è già stato fermato, secondo quanto hanno riferito alla Reuters tre fonti militari e governative. Ieri la polizia dello Sri Lanka ha trovato 87 detonatori vicino alla principale stazione di autobus di Colombo. Lo ha detto un portavoce delle forze dell’ordine, secondo quanto riportato dal Guardian. Oggi, intanto, nel giorno di lutto nazionale, si sono tenuti i funerali di alcune delle vittime, mentre aumenta la pressione sul governo accusato di non aver agito in modo tempestivo in risposta agli allarmi dei mesi scorsi su un possibile attentato alle chiese da parte di un gruppo islamico locale poco conosciuto. Il governo ha anche deciso il blocco di tutti i social network, compresi Facebook, WhatsApp e Instagram, per impedire la circolazione di informazioni e i contatti tra i terroristi, ma, nonostante le misure straordinarie, l’esecutivo di Colombo è sotto accusa per le falle nella sicurezza. L’intelligence indiana e i rapporti delle agenzie di sicurezza interne avevano infatti avvertito della possibilità di attentati su vasta scala contro obiettivi religiosi nel Paese, ma l’allarme è rimasto inascoltato. Purtroppo ancora una volta siamo costretti a registrare attacchi sanguinosi da parte di gruppi che continuano ad avere una visione distorta della religione e ne fanno uno strumento di lotta sanguinaria e di stragi.
Tanti cari auguri di Buona Pasqua.
La Redazione.
19 aprile
DALLA STORIA
Octavio Paz, poeta e saggista messicano, premio Nobel per la letteratura “Per una scrittura appassionata, dai larghi orizzonti, caratterizzata da intelligenza sensuale e da integrità umanistica”.
“Lo scontro di due mondi e di due culture: la distruzione dell’impero azteco da parte di un pugno di conquistadores disposti a tutto è in primo luogo la tragedia dell’incapacità della civiltà occidentale di capire il “diverso”. (da “La Conquista del Messico”), di William H. Prescott.
Il 19 aprile moriva Octavio Paz, Nobel messicano per la letteratura nel 1990. Paz era nato a Città del Messico il 31 marzo 1914, quando il paese era in piena lotta rivoluzionaria, da una famiglia indiano-ispanica. Il padre fu il rappresentante di Zapata negli Stati Uniti, mentre il nonno fu uno dei primi intellettuali a schierarsi in favore della causa degli indios. Paz, poeta e saggista, tra i maggiori intellettuali messicani dell’America Latina, intimamente legato al patrimonio culturale della propria terra e profondo conoscitore di paesi, epoche, lingue e tradizioni, si affermò come innovatore del costume letterario e delle concezioni culturali. Soggiornò a lungo all’estero. In Spagna sostenne la lotta dei repubblicani durante la Guerra civile spagnola (anche se in seguito prenderà le distanze dal comunismo maturando una visione critica dell’Unione Sovietica e delle sue strategie interne e in politica estera. L’ideologia e, conseguentemente, la politica di Stalin, aveva creato nel poeta l’esigenza di modellare una nuova filosofia politica aderente ai concetti di libertà, fraternità e uguaglianza a lui molto cari. Fuori dal coro, criticò coraggiosamente i fondamenti ideologici del comunismo russo, e per estensione quello dei partiti comunisti di Cina e Cuba e, con lo stesso impegno, criticò l’imperialismo americano). In Francia, ebbe modo di avvicinarsi al surrealismo e, durante la sua permanenza, lavorò a fianco di André Breton e Benjamin Péret. Dopo un periodo negli Stati Uniti, entrò, nel 1944, nel corpo diplomatico messicano, periodo in cui pubblicò il suo saggio più famoso, “Il labirinto della solitudine”, del 1950, un’acuta analisi della storia americana, come realtà sotterranea, che affonda le radici nel suo stesso passato pre-colombiano. “La memoria”, scrive Paz, “non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda”. Attraverso la metafora del labirinto, Paz riflette sul motivo che spinge i messicani a sentirsi inferiori rispetto agli Stati Uniti al punto da restare intrappolati nella solitudine; è dal vuoto di identità del suo popolo che nasce perciò una delle sue opere più belle. Ambasciatore in India, si dismise nel 1968 per protesta contro il massacro di Tlatelolco avvenuto, il 2 ottobre, nella Piazza delle tre culture a Città del Messico. Gli studenti volevano aumentare la loro visibilità grazie all’attenzione che c’era sulla città a causa dei Giochi olimpici ma furono oggetto, da parte del governo messicano, di una repressione brutale e cruenta, lo scontro più violento tra studenti e forze dell’ordine (le stime più attendibili indicano oltre 300 vittime, tutte tra i manifestanti). Octavio Paz iniziò allora l’insegnamento universitario, con la cattedra di poesia dapprima all’università di Oxford poi in altre università degli Stati Uniti.
(Labirinto. Tiziana Befani, 2008 – tecnica mista su digitale)
Il testo che segue è tratto dal saggio di Octavio Paz: “Il labirinto della solitudine”, 1950, in cui l’autore riflette sulla storia drammatica e sulla società messicane, dalla “Conquista” fino ai giorni nostri:
… Ebbene, il realismo americano è di una specie molto particolare e la loro ingenuità non esclude la dissimulazione e perfino l’ipocrisia: Un’ipocrisia che, se è un vizio del carattere, è anche una tendenza del pensiero, perché consiste nella negazione di tutti quegli aspetti della realtà che ci appaiono sgradevoli, irrazionali o ripugnanti. La contemplazione dell’orrore e perfino la familiarità e il compiacimento nel trattarlo costituiscono al contrario uno dei tratti salienti del carattere messicano. I Cristi lordi di sangue delle chiese di paese, l’umore macabro di certi titoli di giornali, le veglie funebri, l’usanza di mangiare il 2 novembre pani e dolci fatti a forma di ossa e teschi sono abitudini, ereditate dagli indigeni e dagli Spagnoli, inseparabili dal nostro essere.
… Gli Americani sono creduli, noi credenti / Amano le fiabe e le storie poliziesche, noi i miti e le leggende. / I Messicani mentono per fantasia, per disperazione o per vincere lo squallore della loro vita; / loro non mentono, ma sostituiscono la verità vera, che è / sempre sgradevole, con una verità sociale. / Noi ci ubriachiamo per confessarci; / loro per dimenticare. Sono ottimisti; / noi nichilisti, solo che il nostro nichilismo non è / intellettuale, ma una reazione istintiva; e dunque è / irrefutabile. / I messicani sono diffidenti; / loro invece aperti. / Noi siamo tristi e sarcastici; / loro allegri e spiritosi. / I nordamericani vogliono comprendere, / noi contemplare. / Sono attivi; / noi tranquilli. / Ci compiaciamo delle nostre piaghe, / come essi delle loro invenzioni. / Credono nell’igiene, nella salute, nel lavoro, nella / felicità, ma forse ignorano la vera allegria, che è / un’ebbrezza e un vortice. / Nell’urlo della notte di festa la nostra voce scoppia in / bagliori, e vita e morte si confondono; / la loro vitalità si pietrifica in un sorriso: nega la / vecchiaia e la morte, ma immobilizza la vita. / Credo che per i Nordamericani il mondo sia qualcosa che / si può perfezionare; / per noi è qualcosa che si può redimere. / Loro sono moderni. / Noi, come i loro antenati puritani, crediamo che / il peccato e la morte costituiscano il fondo ultimo della / natura umana. / Solo che il puritano identifica la purezza con la salute. Di qui l’ascetismo che purifica e le sue conseguenze: il culto del lavoro per il lavoro, la vita sobria, a pane e acqua, / l’inesistenza del corpo come possibilità di perdersi o ritrovarsi in un altro corpo. Ogni contatto contamina. / Razze, idee, costumi, corpi estranei portano in sé germi / di perdizione e impurità. L’igiene sociale completa quella dell’anima e del corpo. / Invece i Messicani, antichi o moderni, credono nella / comunione e nella festa; non c’è salute senza contatto. Tlazoltéotl, la dea azteca dell’impurità e della fecondità, degli umori terrestri e umani, era anche la dea dei bagni di vapore, / dell’amore sessuale e della confessione. …
16 aprile
PRIMO PIANO
Parigi: incendio nella cattedrale di Notre-Dame.
(Operai sulle impalcature durante il restauro di Notre Dame, Parigi 1952. Artribune)
Ieri sera, 15 aprile, un violentissiomo incendio ha devastato a Parigi la cattedrale di Notre Dame, uno dei luoghi simbolo della cristianità, patrimonio dell’Unesco. Alcuni fedeli hanno raccontato che intorno alle 19:00, mentre all’interno della cattedrale si stava celebrando la messa, una colonna di fumo e poi di fuoco si è sprigionata da un’impalcatura presente sul posto per i lavori di restauro. Con il passare dei minuti le fiamme sono andate aumentando di intensità sotto gli occhi inorriditi dei parigini e del mondo intero, che ha seguito gli sviluppi dell’incendio con il fiato sospeso. Il fuoco ha avvolto il tetto e la guglia della cattedrale gotica eretta oltre 800 anni fa. La guglia, alta 93 metri, uno dei simboli della città di Parigi, eretta sui quattro pilastri del transetto, è stata divorata dalle fiamme al suo interno ed è crollata su se stessa poco prima delle 20:00, anche gran parte del tetto è andata distrutta. In serata centinaia di cittadini si sono radunati davanti a questo monumento storico di inestimabile valore, che le fiamme stavano divorando, per cantare in ginocchio l’Ave Maria. Nel primo giorno delle celebrazioni della Settimana santa che precede la Pasqua, le immagini dei francesi che pregano nei pressi della chiesa-simbolo di Parigi stanno facendo il giro del mondo sui social network e il romanzo di Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, oggi è numero uno nelle vendite sulla piattaforma Amazon. Solo verso le 2:00 di notte il rogo è stato dichiarato “completamente sotto controllo e parzialmente estinto”. Dopo ore di angoscia è arrivato l’annuncio del capo dei vigili del fuoco: “La struttura è salva: quel che resta di Notre-Dame non crollerà”. Almeno questa è la speranza di fronte a un simbolo di Parigi, della Francia e della cristianità che andava in fumo di fronte agli occhi del mondo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha annullato tutti gli impegni per recarsi sul posto, twittando: “Triste veder bruciare questa parte di noi”. Macron ha anche detto: “Noi, tutti insieme, salveremo questa cattedrale. Il progetto che abbiamo per i prossimi anni comincerà subito, domani. Ci sarà un appello nazionale ai più grandi talenti, verranno qui e daranno il loro contributo. La ricostruiremo, se lo aspettano i francesi da noi, la nostra storia lo merita”. Il restauro della cattedrale “durerà mesi e anni” ha detto il ministro francese della Cultura, Franck Riester, spiegando che è ancora “troppo presto” per valutare la durata precisa della ristrutturazione e aggiungendo che “il tesoro di Notre-Dame è salvo. E’ stato tutto messo in sicurezza in comune.” Sono pure salve le sedici statue di bronzo degli Apostoli, che l’11 aprile erano state rimosse e portate a Périgueux, un piccolo comune nel sud della Francia, per un lungo intervento di restauro, manumerose opere d’arte, invece, sono ancora nella struttura, in particolare, dei grandi quadri, ma Riester ha assicurato che “le squadre del ministero della Cultura sono sul posto per valutare i danni e vedere in che modo si possono portare via per poi spolverarli, deumidificarli, tenerli in appropriati luoghi di conservazione per cominciare il restauro”.
DALLA STORIA
Charlie Chaplin in “Tempi moderni”.
“… Charlie Chaplin è una specie di “Adamo”, il progenitore da cui tutti si discende”. (Federico Fellini)
Chaplin fu una delle personalità più creative e un cineasta tra i più importanti e influenti del XX secolo. Si dice fosse venuto al mondo in un carro di zingari accampato nei pressi di Birmingham (Londra), che la madre, un’attrice di talento, era di origini tzigane e che influenzò, con la sua arte, il piccolo Charlie. Il padre, anch’egli attore di varietà di discreto talento e successo, era vittima del vizio dell’alcool. L’infanzia di Chaplin fu tragicamente segnata dalla povertà a causa delle precarie condizioni finanziarie della famiglia e, per questo, insieme al fratello, visse fra collegi orfanotrofi. Gli stenti minarono la salute fisica e mentale della madre che venne internata in un ospedale e solo più tardi, quando le condizioni economiche di Charlie e il fratello migliorarono, fu possibile per la donna uscire dall’ospedale. Queste esperienze traumatiche determinarono in Chaplin un malinconico disincanto di fronte alla spietatezza e alle ingiustizie della società moderna e fecero del suo famoso personaggio Charlot, l’emblema dell’alienazione umana (in particolare delle classi sociali più emarginate) nell’era del progresso economico e industriale. A tal riguardo celeberrimo è il film “Tempi moderni”, uno dei suoi capolavori cinematografici. “Tempi moderni fu l’ultimo film in cui Charlie Chaplin interpretò il personaggio di Charlot, che aveva creato nel 1914 e che gli era valso stima e successo mondiali. Nel frattempo, molto era cambiato. Quando Nacque Charlot (16 aprile 1889), il XIX secolo era ancora vicino; nel 1936, sulla scia della crisi economica, il mondo si confrontava con angosce che non differiscono molto da quelle del XXI secolo, la povertà, la disoccupazione, gli scioperi, l’intolleranza politica, le disuguaglianze economiche, la tirannia delle macchine e le droghe. Di questi problemi Chaplin si era molto preoccupato nel corso di un tour mondiale di diciotto mesi, durante il quale si era accorto dell’ascesa del nazionalismo e degli effetti sociali della crisi economica. Nel 1931 dichiarò a un giornale: “La disoccupazione è il problema cruciale … La tecnica dovrebbe aiutare l’umanità e non condurla alla tragedia”. Esponendo questi problemi al lume della comicità, Chaplin trasforma Charlot in uno dei milioni di lavoratori delle fabbriche nel mondo. Fin dall’inizio, veste i panni di un operaio sottoposto al lavoro disumano e monotono al nastro trasportatore. Egli viene usato come cavia per testare una macchina che nutre gli operai mentre questi non smettono di lavorare. Fuori dagli schemi, Charlot trova un alleato nella sua battaglia contro questo mondo nuovo: una ragazzina (Paulette Goddard), il cui padre è stato ucciso nel corso di uno sciopero. Non si tratta né di una coppia di vittime né di ribelli, scrisse Chaplin, ma dei “soli due spiriti viventi in un mondo di automi”. Quando uscì Tempi moderni, il sonoro era già in auge da circa dieci anni, e Chaplin prese in considerazione l’idea di usare il dialogo e persino di scrivere una sceneggiatura, ma alla fine riconobbe che Charlot dipendeva dal mimo (udiamo però la sua voce quando, assunto come cameriere-cantante, improvvisa una canzone). Concepito in quattro “atti”, “Tempi moderni” mostra che Chaplin era ancora il genio incontrastato della commedia visiva, uno strumento che, nelle sue mani, poteva denunciare senza reticenze le difficili condizioni di vita dell’uomo nella moderna società industriale”. (David Robinson, storico del cinema). Chaplin morì la notte di Natale del 1977. Il “Corriere della sera” nell’annunciarne la morte delineava l’aspetto psicologico di Chaplin e del personaggio di Charlot nell’articolo di Giovanni Grazzini: “Aveva nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita. Toccato dalla grazia del genio era il guanto rovesciato della nostra civiltà, il miele e lo schiaffo, lo scherno ed il singhiozzo; era il nostro rimprovero e la nostra speranza di essere uomini. Testimone universale commosse e rallegrò i cuori di tutte le razze e latitudini, ovunque si celebrasse il processo all’iniquità, alla presunzione, al cinismo dei ricchi e dei potenti, ovunque dal dolore potesse scaturire la protesta del debole sopraffatto e il riscatto dell’umiliato. Uomini e donne di tutte le età e colore si riconobbero in lui, si contorcevano dalle risa e sentivano salirsi dentro pietà per se stessi. Andavano per gioire e uscivano pieni di malinconia. Così fu, così è, così sarà sempre: il debole vilipeso, lo sconfitto irriso, la dignità dell’uomo calpestata dal soperchiatore e dall’arrogante, e il candore, l’innocenza fraintesi per ingenuità, e sono invece la forza del giusto: è qui la tragedia che si colora di comico, la farsa che si tinge di dramma. Il lungo viaggio di un pessimista europeo, con sangue gitano ed ebreo, carico di antichi dolori, compiuto per convincersi che tuttavia conviene credere nell’uomo; questo il transito di Chaplin, il senso della sua opera di artista universale”.
(Charlie Chaplin e Paulette Goddard in una scena del film)
Mary Titton
11 aprile
PRIMO PIANO
Fotografato per la prima volta un buco nero.
Per la prima volta è stato fotografato un buco nero. Dopo che nel 2016 le onde gravitazionali hanno dimostrato l’esistenza di questi misteriosi oggetti cosmici, arriva la prima prova diretta e l’immagine del buco nero M 87, al centro della galassia Virgo A, distante circa 55 milioni di anni luce. Il buco nero, con la massa di sei miliardi e mezzo quella del nostro Sole, è stato rivelato dalla sua ombra, che appare come una sorta di anello rossastro. “Quella che abbiamo visto è l’ombra di un buco nero”, ha detto all’ANSA Luciano Rezzolla, direttore dell’Istituto di Fisica Teorica di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht (Event Horizon Telescope), spiegando poi che “Nei buchi neri supermassicci, che si trovano al centro delle galassie, la materia che viene attratta si riscalda e, cadendo nel buco nero, emette luce, parte della quale è osservabile con i radiotelescopi. In queste condizioni fisiche, infatti, è possibile rilevare la cosiddetta zona ‘in ombra’, ossia quella regione di ‘assenza di luce’ e che è tale in quanto la luce al suo interno viene assorbita dall’orizzonte degli eventi”. È la superficie oltre la quale non è più possibile tornare indietro e in cui le leggi fisiche che conosciamo non hanno più senso, è il confine che separa un buco nero dallo spazio che lo circonda, un confine matematico dove la forza di gravità è così forte che nulla riesce a sfuggire, nemmeno la luce. Dal momento che l’orizzonte degli eventi assorbe tutta la luce, ha proseguito l’astrofisico, “per definizione un orizzonte degli eventi non può essere visto direttamente. Tuttavia è possibile predire teoricamente come apparirebbe la regione di plasma che gli è molto prossima. Questo è quello che abbiamo fatto e l’ottimo raccordo tra teoria e osservazioni ci ha convinto che questo è un buco nero come predetto da Einstein”. L’esistenza dei buchi neri era stata prevista, infatti, dalla teoria della relatività generale proposta da Albert Einstein proprio cento anni fa, nel 1919, ed è fondamentale per le teorie di unificazione tra Relatività Generale e Meccanica Quantistica, proposte negli anni da scienziati come Stephen Hawking e Roger Penrose. Gli astronomi sono riusciti nell’impresa grazie ad EHT, il telescopio virtuale che, mettendo in collegamento diversi radiotelescopi sparsi sul tutto il globo e sfruttando la tecnica detta Very Long Baseline Interferometry (VLBI), oltre che la rotazione terrestre, ha reso possibile effettuare osservazioni che hanno prodotto diversi petabyte di dati e richiesto circa due anni di analisi, fornendo infine un’immagine senza precedenti. Il prossimo obiettivo è Sagittarius A*, il buco nero al centro della Via Lattea, la cui osservazione è più complessa, poiché l’oggetto è oscurato dalla fitta coltre di gas e polveri che si trovano nel piano della galassia, ma consentirà di compiere un ulteriore passo in avanti nella comprensione della struttura della galassia in cui viviamo. “Abbiamo visto l’invisibile!”: così è stata annunciata alla National Science Foundation dai portavoce di un gruppo internazionale di astronomi la cattura della prima immagine diretta di un buco nero o, più correttamente, della sua ombra cosmica, perché un buco nero, per sua propria natura, non può essere visto. Una scoperta questa, dunque, in grado di cambiare per sempre lo studio e la comprensione dell’Universo con possibilità illimitate.
10 aprile
PRIMO PIANO
Elezioni in Israele: vince di misura la destra di Netanyahu.
In Israele vince la coalizione guidata dal premier Benjamin Netanyahu, che si avvia verso il quinto mandato, ma che deve fare i conti con l’ottimo risultato dello sfidante Benny Gantz. Il partito di Netanyahu, il “Likud”, e quello di Benny Gantz, “Blu e Bianco”, conquistano 35 seggi ciascuno, ma la coalizione di destra del premier può contare su 65 seggi su 120 alla Knesset contro i 56 attribuibili al centrosinistra di Gantz. Con cinque partiti di destra e i religiosi ultra-ortodossi che hanno ottenuto circa 32 seggi insieme, Netanyahu potrebbe formare un governo simile alla sua attuale coalizione di destra, con ben 65 seggi. Dall’altro lato, quattro partiti di sinistra e arabi hanno raccolto soltanto 56 posti nel Knesset. Il terzo e il quarto partito più votato sono stati gli ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism, con rispettivamente il 6,10% e il 5,90% (a entrambi vanno 8 seggi). L’area progressista, composta da Labour e Meretz, ha ottenuto complessivamente 10 seggi, minimo storico, e le due liste arabe (Hadash-Taal e Raam-Balad) hanno conquistato complessivamente 10 seggi, tre in meno rispetto alle politiche del 2015. L’ultradestra, con cui dovrà probabilmente allearsi Netanyahu, ha già chiesto due ministri, la formazione, composta da tre partiti ultra-nazionalisti di estrema destra, accusata di essere razzista, ha anche ricordato al premier Benjamin Netanyahu gli impegni presi in campagna elettorale. “La nostra è una vittoria che non si poteva immaginare”, ha commentato Netanyahu, che, a 69 anni, nonostante le accuse di corruzione, diventerà nel corso dell’anno il primo ministro israeliano più longevo, superando Ben Gurion. I temi della campagna elettorale sono stati quelli della sicurezza e della corruzione, la questione palestinese non è approdata nel dibattito se non alla fine, quando il premier, per sottrarre voti ai suoi potenziali alleati, si è detto favorevole all’annessione di quella parte della Cisgiordania già oggi sotto il controllo israeliano: la cosiddetta Area C degli accordi di Oslo. Il suo sfidante, l’ex capo di Stato maggiore, Benny Gantz, è riuscito nell’impresa, che qualche mese fa sembrava impossibile, di dare a chi non si riconosce nel premier un’alternativa credibile: entrato in politica tre mesi fa, ha raccolto dietro di sé più di un milione di voti, ma non altrettanto hanno ottenuto i suoi alleati. Il nuovo Parlamento si insedierà il 23 aprile. Il commento dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): “Purtroppo gli israeliani hanno in maggioranza votato per candidati impegnati ad arroccarsi nello status quo di oppressione, occupazione, annessione ed esproprio in Palestina … Israele ha scelto un parlamento di destra razzista e xenofobo”.
9 aprile
DALLA STORIA
Il 9 aprile 1682 l’esploratore Robert de la Salle scopre il fiume Mississippi.
“La gloria di aver scoperto il Mississippi e di essere penetrati per primi nella sua valle spetta agli Spagnoli. Ma i Francesi hanno il merito di aver dischiuso alla scienza e all’economia la valle del Mississippi e anche agli Inglesi tocca, in piccola parte, lo stesso merito. Il primo europeo che vide il Mississippi fu Hernando de Soto, uno dei famosi compagni di Pizarro nella conquista del Perù. Egli sbarcò nel maggio del 1539 sulla costa occidentale della Florida con cospicue forze militari, marciò oltre le montagne fino nel Kentucky e nel Tennessee, poi verso il sud nell’Alabama e dopo aspri combattimenti contro i Pellirosse raggiunse il fiume a lungo cercato, probabilmente nella regione di Memphis o più a sud alla confluenza dell’Arkansas. Attraversò il fiume in quel punto su imbarcazioni costruite lì per lì e si spinse poi fino all’altezza del 44° parallelo in direzione nord-ovest. Fece dietrofront al White River, un affluente del Missouri e percorse il Paese fino all’Arkansas superiore, dove stabilì, per la terza volta, i suoi quartieri d’inverno, per riprendere la strada verso il mare nel marzo del 1542, esausto per gli inumani strapazzi e per la vana ricerca del leggendario paese dell’oro Cabeca de Vacas. Non raggiunse il mare. Nei pressi del Red River lo colse la morte e i suoi compagni gli diedero sepoltura nel Mississippi. … Ma la fama di Hernando de Soto, la personalità più eletta tra i conquistadores, e della sua impresa straordinaria impallidiscono di fronte alle gesta del francese Robert Cavelier Sieur de la Salle, che è considerato il vero scopritore del Mississippi. Nelle vene di La Salle, nato a Rouen il 22 novembre 1643, scorreva il sangue inquieto dei Normanni. Era un uomo di mente chiara e penetrante, animato da un ardito spirito d’avventura e carico d’energia in ogni sua fibra; ma ambizione e avidità, orgoglio e prepotenza oscurano la figura di quest’uomo chiamato a compiere azioni fuori del comune. Possedeva in alto grado il dono del comando, ma non era capace di conquistare il cuore delle persone e questa incapacità gli fu fatale. Anelava alla potenza e alla ricchezza e poiché nel Canadà la concorrenza dei cacciatori e dei mercanti di pellicce gli dava ombra, cercò di raggiungere il suo scopo nell’Occidente spazioso. Al tempo stesso sognava di trovare una nuova via verso l’Asia. Nel 1670, superando grandi difficoltà scoperse l’Ohio, “La belle riviére” come la chiamavano i Francesi, e la direzione del fiume rafforzò la sua convinzione che, seguendone il corso, si doveva raggiungere l’Oceano Pacifico. Ma i suoi mezzi erano esauriti e durante gli anni seguenti condusse la vita errabonda degli uomini dei boschi. Poi lo troviamo di nuovo come comandante del Fort Fontenac che egli eresse nel 1673 nel posto dove oggi sorge Kingstone. Qui lo trovò il suo compatriota Joliet. Partendo dal lago Michigan e percorrendo il Fox River e il Wisconsin, Joliet e il sacerdote Marquette erano arrivati al Mississippi e ne avevano seguito il corso per 1700 km fino alla foce dell’Arkansas. Marquette battezzò il fiume “Riviére de la Conception”, aveva invocato tutti i giorni la Vergine e aveva fatto voto di dare al fiume il nome dell’Immacolata Concezione se essa avesse concesso la sua protezione al viaggio. Tutti e due erano convinti che La foce del Mississippi non fosse da cercare nel Golfo di California o nell’Oceano Atlantico, ma nel Golfo del Messico, ma l’opinione non è ancora una prova finché i fatti non confermano; era destino che La Salle dovesse fornire la prova. Nonostante diversi ostacoli, egli cominciò a mettere in esecuzione il suo vasto piano nell’anno 1679. Costruì il primo veliero sui Grandi Laghi, il “Griffin”, che gli doveva assicurare l’approvvigionamento dal Canadà, poi prese le mosse dal Forte Fontenac col tenente Henry de Tonty e quaranta soldati e raggiunse il lago Michigan, dove fondò la stazione St. Joseph. Eresse un secondo forte, il primo insediamento laico nella valle del Mississippi, sull’Illinois e lo chiamò “Crève-Coeur”, a ricordo delle fatiche trovò la devastazione e il terrore sull’Illinois, perché gli Irochesi, i più forti guerrieri delle tribù pellirosse, avevano costretto de Tonty a ritirarsi, e ci volle infinita pazienza e un nuovo equipaggiamento per mettere in efficienza la spedizione.
Finalmente nell’inverno del 1681 La Salle iniziò la discesa dell’Illinois col suo tenente, con 18 pellirosse e 23 francesi. Marciavano sulla coltre di ghiaccio del fiume e si tiravano dietro le canoe montate su slitte. Trovarono acque libere al lago Peoria e raggiunsero il Mississippi che seguirono verso sud. Circondati da lastre di ghiaccio alla deriva, passarono davanti alle foci del Missouri e dell’Ohio, davanti alle desolazioni degli immani acquitrini lungo le rive del fiume e approdarono il 24 febbraio presso il “Terzo Scoglio di Chikasawa”, dove si fermarono e fondarono il Fort Prudhomme. Poi si rimbarcarono e a ogni miglio del loro viaggio avventuroso il segreto di quell’immane mondo nuovo andava svelandosi. Si addentravano sempre più nel regno della primavera: la luce del sole velata, l’aria tiepida, il fogliame delicato erano i segni della vita della natura. Il primo segno della presa di possesso fu eretto sulle rive del grande fiume nel punto dove doveva sorgere in seguito la città Napoleon, nello Stato dell’Arkansas. Strano capriccio del caso… nella medesima località de Soto aveva raggiunto il fiume, Joliet e Marquette vi avevano posto termine al loro viaggio e, il 30 aprile 1803 Napoleone vendette agli Stati Uniti il paese in cui sorge la città che porta il suo nome. La Salle continuò il suo viaggio, sbarcò qua e là e visitò un potente capo-tribù del paese dei Tache, la cui capitale era costruita di mattoni seccati all’aria. Nella città si trovava un tempio, circondato da un muro d’argilla, che conteneva crani umani offerti in sacrificio al sole. Presso gli indiani Natchez, vicino alla località dove sorge oggi la città dallo stesso nome, trovò un regime dispotico teocratico, esercitato da una casta privilegiata che proclamava la propria discendenza dal sole. Poi raggiunse la foce del fiume nel Golfo del Messico. Al cospetto del mare prese possesso della ragione bagnata dal Mississippi, da lui chiamato St. Louis, e dai suoi affluenti e diede al paese il nome di Louisiana, dal nome del suo re. A simbolo di ciò eresse una colonna con lo stemma di Francia e l’iscrizione: “Louis le Grand, Roy de France. Le 9 avril 1682”.
Il Regno di Francia conseguì, quel giorno, un enorme accrescimento. Le pianure feconde del Texas, il bacino gigantesco del Mississippi, dalle sorgenti che si raccolgono nel lago Itasca fino alle calde coste del Golfo, dai pendii boscosi dei monti Allegheni fino alle nude cime delle Montagne Rocciose, un territorio colossale di savane e di foreste, di deserti riarsi dal calore, di praterie coperte d’erba, irrigato da innumerevoli fiumi e abitato da innumerevoli stirpi, tutto ciò veniva a cadere sotto lo scettro dei Borboni, per il risonare di una voce, udibile forse per qualche centinaio di metri all’interno, per l’energia di un uomo che pronunciò le parole decisive: “Prendo possesso …”. Alcuni anni più tardi La Salle fece il tentativo di fondare una colonia nella regione delle foci del Mississippi, partendo dalla Francia con una piccola flotta. Per errore oltrepassò il territorio della foce e approdò 800 km più a ovest. Di là cercò di raggiungere il fiume per via di terra con una faticosissima marcia. Ma i suoi uomini ammutinatisi lo uccisero con un colpo alla schiena. Così finì, a 43 anni, il vero e proprio scopritore del Mississippi, una figura delle più strane, un grande conquistatore del suo tempo, che ha più di un lato in comune con Stanley, per i suoi successi e per i tratti del suo carattere. Il successo che gli era stato fedele nella prima metà della sua impresa lo abbandonò quando la realizzazione dei suoi piani era già a portata di mano. Esploratore ardito, ma non colonizzatore, egli fallì, come de Soto, a causa dell’immensa estensione dei territori da lui scoperti, per superare i quali non gli mancava la capacità, ma gli facevano difetto i mezzi tecnici. Destino eroico. Per affermarne la portata bisogna rendersi conto di quanto la situazione in sé fosse fuori del comune, bisogna quindi avere presenti la mentalità e le concezioni dell’epoca così lontana nel tempo e i suoi intimi nessi e metterli a confronto con la vastità del paese, le cui proporzioni facevano apparire minuscolo tutto quanto l’occhio era stato abituato a vedere fino allora”.
Fonte: “Il romanzo dei grandi fiumi” di Albert Hochheimer, 1956. Ed. Genio.
PRIMO PIANO
Libia: Escalation di violenza.
In Libia da giovedì 7 aprile le milizie del generale Khalifa Haftar continuano ad avanzare verso la capitale e in serata hanno annunciato la conquista dell’aeroporto internazionale, chiuso dal 2014, a soli 25 km dal centro della città. La comunità internazionale – a livello di Consiglio di sicurezza dell’Onu, Ue, G7 e Lega araba – è sempre più preoccupata per l’offensiva lanciata giovedì da Haftar “per liberare Tripoli dai terroristi”, in verità per attaccare il governo del premier Fayez Al Sarraj, riconosciuto dalla stessa comunità internazionale. Dopo gli scontri scoppiati vicino allo scalo, l’Esercito nazionale libico (Lna) ha annunciato di aver preso prima il controllo di Qasr Bin Ghashir, località nei paraggi, e poi dell’aeroporto stesso, che per ora rappresenta il punto più vicino al centro di Tripoli, raggiunto dalle milizie di Haftar. Secondo quanto scrive Al Jazeera, Misurata, la città militarmente più potente della Libia, fedele al premier Fayez al-Serraj, ha ordinato ad alcune sue milizie di spostarsi a Tripoli per far fronte all’avanzata dell’Esercito nazionale libico, di cui Khalifa Haftar è comandante generale, e Al Sarraj ha dichiarato lo stato di emergenza, richiamando tutte le unità di sicurezza per far fronte a qualsiasi attentato nella capitale libica. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha segnalato che negli ultimi tre giorni le strutture sanitarie in Libia hanno denunciato 47 morti, tra cui due medici e sette civili, e 181 feriti nella regione di Tripoli. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha lanciato un appello a tutte le parti in conflitto in Libia a “unirsi per evitare ulteriori violenze e spargimenti di sangue senza senso”. In un comunicato pubblicato a Ginevra, Bachelet ha ammonito le parti coinvolte nel conflitto, ricordando che mirare intenzionalmente civili o strutture civili e condurre attacchi indiscriminati possono costituire crimini di guerra. Bachelet ha ribadito che i principi di distinzione, proporzionalità e precauzione devono sempre essere pienamente rispettati e ha sottolineato la necessità di garantire la protezione dei civili estremamente vulnerabili, inclusi i rifugiati e i migranti, molti dei quali sono detenuti da gruppi armati in condizioni terribili. L’Isis, intanto, ha compiuto un attacco nel centro della Libia, a Fuhaqa, uccidendo due persone, tra cui il presidente del consiglio comunale, e rapendo il capo delle Guardie municipali. È quanto emerge dai resoconti dei siti di due media libici. Nell’attacco avvenuto la scorsa notte nella città a oltre 600 km a sud-est di Tripoli, i terroristi hanno incendiato la sede della Guardia municipale e le abitazioni di alcuni poliziotti, precisa il sito della tv Libya Channel. In questo contesto, che può degenerare in un imminente, sanguinoso conflitto, l’Onu ha rinviato la conferenza nazionale libica in programma dal 14 al 16 aprile a Ghadames: lo ha annunciato l’inviato Ghassan Salamè in un comunicato citato dai media libici. “Lavorerò con tutte le forze per tenere la Conferenza nazionale libica il più presto possibile, non possiamo permetterci di rovinare questa storica opportunità, ma allo stesso tempo non possiamo chiedere alle persone di prendere parte alla Conferenza durante spari e attacchi aerei.”, ha spiegato Salamè nel comunicato diffuso dalla missione Unsmil.
8 aprile
DALLA STORIA
Francesco Petrarca: il “poeta laureato” per eccellenza.
(Giusto di Gand, Francesco Petrarca, pittura, XV secolo, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino. L’alloro con cui Petrarca fu incoronato rivitalizzò il mito del poeta laureato, figura che diventerà un’istituzione pubblica in Paesi quali il Regno Unito)
Francesco Petrarca (Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 18/19 luglio 1374), il sommo poeta e filosofo italiano, è considerato il fondatore della nascente civiltà umanistica e della lirica moderna, soprattutto grazie alla sua opera più celebre, il “Canzoniere”, definito modello di eccellenza stilistica da Pietro Bembo nei primi anni del ‘500, il cui titolo originale in latino è “Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta”. L’8 aprile del 1341 Francesco Petrarca è, infatti, incoronato “poeta et historicus” in Campidoglio per il poemetto in latino “Africa”. La sua fama di poeta in latino e in volgare era talmente cresciuta che il 1° settembre 1340 ricevette, contemporaneamente, l’invito a recarsi a Roma e a Parigi per ricevere la corona poetica. Petrarca scelse Roma, ma prima di ricevere la laurea poetica, nel 1341 si recò a Napoli per farsi esaminare da Roberto d’Angiò, uomo di grande cultura, che lo dichiarò degno dell’alloro, dandogli anche un diploma che attestava il suo talento nella lingua latina. Così il 6 aprile del 1341, due giorni prima dell’incoronazione, il poeta arriva a Roma e visita la parte archeologica e medievale come turista, ospite dei Colonna. Quindi l’ 8 aprile, giorno di Pasqua, sul Campidoglio ha luogo l’incoronazione. Secondo una relazione del tempo, riportata da Ferdinand Gregorovius, «primo ad apparire in scena è un corteo che entra nella grande sala del Palazzo Senatorio tra squilli di tromba. Seguono poi dodici paggi, rampolli di illustri famiglie patrizie, avvolti in vesti scarlatte, e recitano alcuni versi del Petrarca a gloria del popolo romano. Quindi è la volta di sei cittadini, che indossano abiti diversi e portano corone multicolori, seguiti dal senatore Orso dell’Anguillara, che entra circondato da molti signori e con il capo cinto da una corona d’alloro; quando questi si siede su una scranna, un araldo chiama Petrarca. Il poeta si alza e rivolge al popolo un sermone in latino nel quale sottolinea le difficoltà dell’arte poetica, dichiarando che ha accettato l’onore dell’alloro non solo per ambizione, ma perché il suo esempio stimoli altri a coltivare amorosamente gli studi classici. Concluso il discorso Petrarca s’inginocchia davanti al conte Orso; il nobile senatore «pronuncia alcune parole in lode del poeta qualificandolo come Magister, quindi tolto dal proprio capo il serto d’alloro, incorona Petrarca con queste parole: «Prendi la corona come premio della tua virtù». Poi gli consegna il cosiddetto “Privilegium Laureae”, scritto in latino da Petrarca, che vale come certificato ufficiale dell’incoronazione e “carta di cittadinanza romana”. Petrarca ringrazia con un sonetto in onore dei cittadini romani, al quale fa seguito un breve discorso elogiativo sulla poesia, alla fine del quale il popolo lo acclama gridando: «Viva il Campidoglio! Viva il poeta!». Dopo questa cerimonia Petrarca si reca alla basilica di San Pietro e depone la corona sull’altare. Ma non finisce qui la celebrazione del poeta aretino, i Colonna danno uno splendido banchetto nel proprio palazzo in piazza Santi Apostoli. Considerato modello del nuovo intellettuale moderno, slegato ormai dalla concezione della patria come mater e divenuto cittadino del mondo, Petrarca rilanciò, in ambito filosofico, l’agostinismo in contrapposizione alla Scolastica ed operò una rivalutazione storico-filologica dei classici latini. Fautore, dunque, di una ripresa degli studia humanitatis in senso antropocentrico, e non più in chiave assolutamente teocentrica, Petrarca spese l’intera sua vita nella riproposta culturale della poetica e della filosofia antica e patristica attraverso l’imitazione dei classici. Infatti scrisse tutte le sue opere in latino, dall’ Epistolario al Secretum, perché da esse si aspettava gloria immortale, pur non svalutando il volgare, che considerava la lingua dell’interiorità, della coscienza e che usò nella composizione del “Canzoniere” e dei “Trionfi”. E, invece, la fama imperitura gli verrà dal “Canzoniere”, raccolta ordinata di 366 componimenti poetici di varie forme metriche, prevalentemente sonetti e canzoni, in cui il tema principale è l’amore infelice del poeta per Laura, incontrata il 6 aprile 1327, venerdì santo, nella chiesa di Avignone. Al centro del “Canzoniere”, diviso in “rime in vita” e “rime in morte” di Laura, c’è dunque Laura, con il cui nome Petrarca gioca attraverso il senhal, moltiplicandone i significati: “aura”, “lauro”, “l’auro” (“Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ’n mille dolci nodi gli avolgea…”). C’é, però, soprattutto il “dissidio interiore” che il poeta prova tra l’attrazione verso i piaceri terreni e l’amore per Laura e la tensione spirituale verso Dio. Dall’idea di amore-peccato del primo sonetto (“in sul mio primo giovenile errore”) il poeta giunge alla conclusione delle Rime con la canzone alla Vergine (“Vergine bella che di sol vestita”), che però non rappresenta il compimento di un itinerario di conversione felicemente realizzato, tipicamente medievale, ma al massimo una preghiera e un proposito per il futuro. Luperini afferma che “la grande scoperta del “Canzoniere” è quella della coscienza”, contraddistinta dalla conflittualità e dalla problematicità e non più dall’unità, ma dalla molteplicità. Come doloroso e irrisolto è il conflitto interiore del Petrarca, altrettanto triste è lo scontro tra il presente e un passato, continuamente rivisitato, in cui domina con la sua bellezza e la sua fisicità Laura, che, pur conservandone alcuni tratti, non è più la donna-angelo dello Stil novo è ed oggetto di desiderio e di inconsolabile ricordo per il poeta:
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
————
Da’ be’ rami scendea
(dolce nella memoria)
una pioggia di fiori sovra ‘l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch’ oro forbito et perle
eran quel dì, a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l’onde;
qual, con un vago errore
girando, parea dir: Qui regna Amore.
da “Chiare, fresche et dolci acque”
(Anonimo, Laura e il Poeta, Casa di Francesco Petrarca, Arquà Petrarca, Padova. L’affresco fa parte di un ciclo pittorico realizzato nel corso del Cinquecento mentre era proprietario Pietro Paolo Valdezocco)
PRIMO PIANO
Usa: sperimentato con successo un “vaccino” contro il cancro.
Un vaccino contro il cancro è stato sperimentato con successo in un ristretto numero di pazienti affetti da linfoma. I ricercatori del Mount Sinai Hospital di New York hanno testato il trattamento su undici pazienti. I risultati sono stati così incoraggianti da coinvolgere i malati di un altro ospedale, affetti da cancro al seno e alla gola. Secondo gli studiosi, alcuni tra i primi pazienti sottoposti al test hanno mostrato segni completi di guarigione che durano mesi e perfino anni. Lo ha rivelato uno studio pubblicato oggi dalla rivista scientifica Nature Medicine. Il trattamento, come ha spiegato Joshua Brody, direttore del programma di immunoterapia per linfoma, viene chiamato “vaccino” proprio perché crea un sistema di immunizzazione per combattere la malattia: il corpo riconosce i tumori e si prepara ad attaccarli. In tre pazienti la scomparsa di tumori, anche in zone del corpo non trattate direttamente con le radiazioni, è stata completa. Silvia Formenti, responsabile di oncologia e radiologia alla Weill Cornell di New York, che non ha lavorato al progetto, ma sta seguendo un percorso simile, dice: “La scomparsa da zone non trattate è uno dei risultati più interessanti.” Una speranza per il futuro!
5 aprile
DALLA STORIA
James Brown: la notte in cui il soul unì l’America (5 aprile 1968).
“Il 4 aprile del 1968, quando a Memphis venne ucciso Martin Luther King, gli USA vissero uno dei momenti più bui. Il giorno successivo ci furono proteste e rivolte in molte città; gli afroamericani, battuti e delusi, scesero in piazza ovunque e in molti casi esplose la violenza. La sera del 5 aprile era previsto un concerto di James Brown al Boston Garden, nel centro della città, e si stimava che oltre 20.000 afroamericani, in gran parte giovani, avrebbero assistito all’evento. Il sindaco, il liberal Kevin White, eletto solo l’anno prima, era estremamente preoccupato: la sera precedente c’era stato qualche scontro nelle zone “nere” della città, ma il concentramento di così tanti ragazzi neri nel centro di Boston avrebbe potuto portare a incidenti molto più gravi. La città era divisa in due, da una parte la zona “nera” di Roxbury e quella di South End, dall’altra i “quartieri dei bianchi”, molti dei quali fortemente contrari alla politica di desegregazione portata avanti dal sindaco White. La scelta era difficile, se non addirittura impossibile: cancellare il concerto, per evitare possibili incidenti, avrebbe probabilmente esacerbato ancor di più l’animo degli afroamericani, causando forse incidenti ancor più gravi; lasciare che si svolgesse avrebbe significato per White mettersi deliberatamente contro la popolazione bianca di Boston, che aveva apertamente richiesto la sospensione dell’evento. A risolvere il dilemma fu Thomas Atkins, il primo nero eletto al consiglio cittadino, che suggerì al sindaco di consentire lo svolgimento del concerto, convincendo però una tv locale a trasmetterlo gratuitamente in diretta. White contattò immediatamente i responsabili della WGBH, che accettarono subito l’idea e si organizzarono in fretta e furia per l’improvvisa diretta; poi parlò con Brown e, dopo una breve trattativa economica per compensarlo dei biglietti che la gente avrebbe restituito, l’artista accettò l’invito. White tenne una conferenza stampa nella quale invitò i cittadini di Boston a seguire il concerto dalle loro case. E così, nelle ore seguenti, migliaia di persone restituirono i biglietti. La sera del 5 aprile, alle nove, Brown e White salirono sul palco del Boston Garden e il sindaco parlò ai circa 2000 spettatori presenti e a centinaia di migliaia di persone a casa: “Sono qui, come tutti voi, per ascoltare James, ma anche per chiedere tutto il vostro aiuto. Sono qui per chiedervi di stare al mio fianco come vostro sindaco e di fare in modo che il sogno del Dr. King diventi realtà a Boston. Questa è la nostra città, il futuro è nelle nostre mani, oggi, domani e i giorni che seguiranno. Così, tutto quello che vi chiedo è questo: guardatevi negli occhi l’un l’altro e fate in modo che, qualunque cosa accada nelle altre comunità, qui a Boston onoriamo la memoria del Dr. King in pace”. E quindi fu il momento di James Brown: la scommessa quella di riuscire a unire una città intera sotto il segno della musica, di spegnere le fiamme della rabbia con il soul e il funk di uno dei più grandi artisti afroamericani di tutti i tempi, era pazzesca. Brown sapeva che la serata sarebbe stata difficile, ma come sempre era pronto a dare il cento per cento di se stesso. Anche lui provava la stessa rabbia che sentivano i cittadini afroamericani, anche lui era stanco e stufo del razzismo che ancora impregnava la società americana, anche lui stava prendendo coscienza, giorno dopo giorno, della necessità di essere parte del cambiamento. E la sua band lo seguì, con forza ed emozione, quando non a caso, iniziò il concerto con “Get It Together”. Il set era travolgente e caldo: “There Was a Time”, “I Got the Feeling”, “ It’s a Man’s, Man’s, Man’s World”, i brani si susseguivano l’uno dietro l’altro e la città, pian piano, si svuotava, la gente tornava nelle case, per ascoltare Brown e la sua musica, per essere unita dalla musica. Arrivarono le grandi cover, “When a Man Loves a Woman”, “Chain of Fools”, “I Heard It Through the Grapevine”, “Soul Man”: il pubblico era in estasi, ma a un certo punto un gruppo di ragazzi cercò di salire sul palco e venne respinto dalla polizia. L’atmosfera si raggelò, la band si fermò, tutto improvvisamente poteva esplodere. Ma intervenne James Brown, che chiese ai poliziotti di lasciare il palco e strinse la mano a uno dei ragazzi. Poi prese il microfono e disse: “Mi fate arrabbiare… non site giusti con voi stessi e con la vostra gente. Io ho chiesto alla polizia di andarsene perché credo di poter ottenere un po’ di rispetto dalla mia gente. Tutto questo non ha senso, siamo tutti insieme o no?” Quindi, dopo aver battuto il classico “one, two, three, four”, Brown fece partire nuovamente la musica, avviandosi verso il finale, con “Try Me”, “Cold Sweat”, “Please, Please, Please” e “I Can’t Stand It”. Quella sera ci furono incidenti e scontri in oltre un centinaio di città in tutti gli USA, ma Boston rimase tranquilla. La gente restò nelle case per vedere e ascoltare James Brown, persino il livello dei crimini scese in misura evidente. Era chiaro a tutti che “The Godfather of Soul” aveva salvato Boston. Pochi mesi dopo, James Brown registrò “Say It Loud”-I’m Black and I’m Proud”: anche per lui quella serata aveva cambiato il corso delle cose”.
Fonte: “I giorni del Rock”, gli eventi che hanno fatto la storia della musica. Ernesto Assante. Edizioni White Star
(Thomas Atkins, James Brown e il sindaco Kevin White nel backstage del Boston Garden, 5 aprile 1968)
Mary Titton
4 aprile
DALLA STORIA
Isidore Ducasse, Conte di Lautréamont: faro dei poeti maledetti.
Lautréamont, o Conte di Lautréamont è lo pseudonimo con il quale Isidore Lucien Ducasse (Montevideo, 4 aprile 1846 – Parigi, 24 novembre 1870) si impose come una delle voci più originali della poesia francese. Ritenuto empio e immorale in vita divenne il faro dei “poeti maledetti” e, la sua opera a lungo ignorata, venne finalmente valorizzata dai surrealisti che lo consideravano un loro precursore. Figlio di un funzionario dell’ambasciata francese a Montevideo, fu inviato, nel 1859, a studiare in Francia e nel 1868 diede alle stampe, anonimo, il primo canto de “I Canti di Maldoror”, un poema epico in prosa, composto di sei canti. Nel 1869 l’opera fu stampata completa con lo pseudonimo di Conte di Lautréamont, quest’ultimo ispirato dal romanzo “Lautréamont” di Eugene Sue o, secondo un’altra ipotesi, lo stesso deriverebbe dal gioco di parole di “altro mondo, altra verità”. L’editore, A. Lacroix (lo stesso di Victor Hugo e di Émile Zola), tuttavia, non mise in vendita il libro, per timore della censura, data l’eccessiva violenza espressiva dell’opera. È solo con la morte del poeta che vengono infine pubblicati i Canti, nel 1874, sempre sotto pseudonimo mentre nel 1885, Max Waller, direttore della Jeune Belgique, ne pubblicò un estratto e lo fece conoscere indicando il vero nome dell’autore. Isidore Ducasse pubblicò in seguito solamente altre due opere, dallo stile vagamente ironico ed enigmatico, diverso da quello dei “Canti di Maldoror”, in aperta polemica per la difficoltà di esprimersi liberamente, di cantare senza censura gli orrori dell’uomo, la “bestia feroce”. Una mattina di novembre del 1870, il ventiquattrenne Lautréamont fu trovato morto nel proprio letto d’albergo.
L’autore de i “Canti di Maldoror” scrive con un linguaggio mai tentato prima. Nel primo canto, egli avverte: “… Non è bene che tutti leggano le pagine che seguono; pochi soltanto potranno assaporare senza pericolo questo frutto amaro. Perciò, anima timorosa, prima di avventurarti oltre in queste più lande inesplorate, volgi indietro i tacchi, e non in avanti”. Lo scrittore Dario Lodi commenta: “Baudelaire farà altrettanto, ma su un piano concettuale diretto, cioè senza giri di parole e senza quel fascino compositivo che troviamo qui”. “Il poema costituisce uno degli esempi più interessanti e ricchi di spunti del “maledettismo ottocentesco”. Esso si esprime attraverso un unico personaggio, Maldoror, l’uomo tormentato dell’Ottocento che, in un’atmosfera cupa e tumultuosa si ribella contro il suo creatore, Dio stesso; lo uccide e lo fa a pezzi. Tuttavia la serenità nel mondo di Maldoror non ricompare. L’autore così scrive: “Si scrutano l’un l’altro, mentre l’angelo sale verso le altezze serene del bene, e lui, Maldoror, scende invece verso gli abissi vertiginosi del male … Che sguardo! Tutto ciò che l’umanità ha pensato da sessanta secoli, e ciò che ancora penserà nei secoli successivi, potrebbe agevolmente esservi contenuto, tante furono le cose che si dissero in quel supremo addio! Ma si trattava, è evidente, di pensieri più elevati di quelli che scaturiscono dall’intelligenza umana; innanzitutto a causa dei due personaggi, e poi della circostanza. Quello sguardo li unì in un’amicizia eterna”. Maldoror, che letto alla francese si può interpretare come “male di aurora”, mal di vita e, in spagnolo, (lingua parlata da Isidore Ducasse che era nato a Montevideo in Uruguay), “mal”, “horror”, “dolor”, “incarna la rivolta adolescenziale dell’immaginario sul reale”. E’ difficile non essere presi dalle vertigini leggendo i canti, in questo mondo in perpetuo movimento. Non è possibile dissociare il significato e la forma, la storia e lo stile e certe pagine fanno pensare alle tele più allucinanti di Hieronymus Bosch.
(Particolare del pannello centrale del Giudizio Universale di Hieronymus Bosch, 1482)
Ma la rivolta è derisoria e Lautréamont usa anche tutti i processi di presa di distanza per negare se stesso. Una vena buffonesca, che contrasta con il “sole nero” del satanismo apparente, attraversa l’opera: parodia del naturalismo o del romanticismo più scapigliato, luoghi comuni, apostrofi che si prendono gioco del lettore, ironia sarcastica … Tutte le forme d’ironia sono riunite e notano il disprezzo dell’autore per ciò che racconta. Capace dei più bei poemi, ne deride e costringe il lettore a riderne con lui. È l’adolescente che prende la rivincita sulla miseria umana del secolo, diventando l’eroe di un racconto dove si cancellano le barriere che imprigionano. Nel gioco, tutto è permesso: ardente fervore, gioiosa ferocia e metamorfosi”. L’opera sprigiona una prosa di grande potenza lirica. La scrittura vorticosa, lo stile paradossale e irriverente, sono rivendicati dall’autore come spazio libero in cui rappresentare l’inconscio, l’allegoria del male, il processo catartico che produce lo scontro tra il bene il male, il confronto con la coscienza, il disagio esistenziale e il senso di rivolta connaturato nell’età giovanile. Per questo da Philippe Soupault prima e da Louis Aragon e André Breton poi, è ritenuto precursore del movimento surrealista. È l’esempio tipico della “bellezza compulsiva” sbandierata da Breton. “Quest’opera è apocalisse definitiva: tutto ciò che nel corso dei secoli, si penserà e s’intraprenderà di audace è qui formulato in anticipo, nella sua magica legge”. (André Breton)
Mary Titton
PRIMO PIANO
Roma: Un vergognoso episodio di razzismo.
A Roma, a Torre Maura, sulla Casilina, periferia Est della Capitale, martedì sera si è sfiorata la rissa, quando per lo spostamento di alcune famiglie rom, 75 persone, tra cui 33 minori e 22 donne, di cui tre incinte, dall’insediamento di via Toraldo al centro di accoglienza di via Codirossoni, circa duecento manifestanti, con il supporto di militanti di CasaPound, hanno organizzato una violenta protesta di piazza alzando barricate e dando alle fiamme cassonetti, una roulotte e la macchina di una Onlus. Un episodio di intolleranza inqualificabile e vergognoso si è verificato, quando l’addetto che doveva consegnare i pasti si è avvicinato alla struttura, dove erano stati collocati i rom, ma è stato spintonato e malmenato, tanto che i panini sono caduti a terra. I manifestanti, allora, al grido “Fate schifo, zozzoni, gli portate pure da mangiare, devono morire di fame!”, hanno immediatamente calpestato i panini per impedire che venissero raccolti e consegnati ai nomadi lì trsferiti. Che dire! Una scena vergognosa che non si vedeva dal tempo del nazismo. Una nottata di fuoco nel quartiere a est di Roma, conclusasi, dopo gli incendi e le tensioni del pomeriggio di ieri, solo versole 2:00, quando in nottata il Campidoglio ha deciso di trasferire altrove i nomadi. “Non possiamo cedere all’odio razziale, non possiamo cedere contro chi continua a fomentare questo clima e continua a parlare alla pancia delle persone, e mi riferisco prevalentemente a CasaPound e Forza Nuova”. Queste le parole della sindaca di Roma, Virginia Raggi, a margine dell’inaugurazione di una mostra ai Musei Capitolini. “Li stiamo ricollocando all’interno del territorio cittadino perché il dovere dell’amministrazione è quello di tutelare la vita e l’incolumità delle persone.” La procura di Roma ha aperto un’inchiesta per danneggiamenti e minacce aggravati dall’odio razziale. La struttura di Via Codirossoni, ex clinica usata poi per accogliere profughi, è risultata vincitrice di un bando europeo come struttura di accoglienza ed era stata scelta perché più idonea di quella di via Toraldo ad appena tre chilometri di distanza. Il problema del degrado e dell’abbandono delle periferie, soprattutto a Roma, è particolarmente grave, ma colpisce il comportamento incivile di alcuni cittadini, che non fa onore al nostro paese, e preoccupa il crescente clima d’intolleranza verso i diversi siano nomadi o stranieri. Il vescovo Palmieri parla di protesta “disumana” e “particolarmente odiosa” perché tocca anche mamme con bambini, aggiungendo che “la protesta è opera di alcuni facinorosi, che non avrebbero presa sulla cittadinanza se si lavorasse veramente e pienamente per favorire l’integrazione e fosse possibile intervenire con decisione sulle sacche più problematiche delle nostre periferie. Questo diventa il brodo di cultura in cui i gruppi di facinorosi hanno la meglio, pretendendo di imporre le loro leggi”.
3 aprile
DALLA STORIA
Enrichetta Ulivelli: una poetessa poliedrica.
Il 3 aprile, mentre la primavera esplodeva in tutto il suo tripudio di colori, moriva Enrichetta Ulivelli, una poetessa, che aveva scoperto tardi la sua vocazione poetica, sentendo il bisogno di comporre nei momenti più disparati del giorno e della notte. Si dice che Ungaretti andasse annotando i suoi versi su foglietti o scatole di fiammiferi: ecco per lei era un po’ così: nella sua mente si affacciavano frasi e parole che magicamente si armonizzavano in testi di grande suggestività e varietà. La sua poesia infatti spazia dai temi autobiografici (i ricordi dell’infanzia e della giovinezza di vaga reminiscenza pascoliana), al fascino di lontane terre d’oriente, alla malia di incontri amorosi, al calore degli affetti, al ricordo di luoghi e persone. Vario è anche il suo stile: ci sono poesie che rispettano la metrica tradizionale con rime ed assonanze ed altre modernissime in cui dominano le parole con i loro echi suggestivi e la loro pregnanza. Nei versi autobiografici è presente la cittadina di San Miniato e la villetta, dove Enrichetta, nativa della fredda Varese, trascorse gli anni felici della giovinezza, frequentando l’Istituto Magistrale, dove aveva insegnato Giosuè Carducci, con la spensieratezza di quegli anni allietati dalla comitiva degli amici e dai primi amori. Altri versi sono dedicati al figlio e ai nipoti amatissimi, in altri ancora la mente spazia in orizzonti infiniti. Un piccolo Canzoniere, insomma, che meriterebbe di essere conosciuto e divulgato. Di seguito alcune poesie:
Delfino bianco
Come i delfini bianchi,
un giorno,
morirò volgendo il capo
verso il sole;
saranno d’oro gli occhi,
lucida di mare la mia pelle,
ma tornerò,
uccello di spuma,
a cercare ancora una volta
la vita.
A mia figlia
Un canto di bambina
mi scivola addosso
col suo odore verde, d’infanzia
guardo le tue mani piccoline
di donna piccolina
ed ascolto la tua vita crescere
mentre leggeri, i tuoi gesti
vivono senza peso.
Solitudine
M’è sceso in fondo
il tuo silenzio,
non c’è nessuna voce,
forse qualche eco.
Se allungo la mano
non trovo la tua,
se cerco,
non trovo il tuo amore.
Vivo nonostante te,
nonostante me,
nonostante la mia vita
si sia zittita;
il tuo silenzio,
ha coperto tutto.
Le tue mani
Gli uccelli
fuggono dalla pioggia
e trovano riparo
nel loro nido.
Nulla mi ripara
e sono come una canna al vento;
dammi le tue mani,
tienile forte e portami tu.
È da te che stò fuggendo,
ma solo da te, amore mio,
voglio arrivare.
1 aprile
PRIMO PIANO
Sparito il Salvator Mundi attribuito a Leonardo.
Secondo quanto pubblicato dal New York Times, il celebre dipinto “Salvator Mundi”, attribuito a Leonardo, sarebbe scomparso. Il dipinto nel 2017 è stato venduto all’asta da Christie’s per la cifra record di 450,3 milioni di dollari a un intermediario di un ricco uomo saudita che si presume sia il principe ereditario Mohammed bin Salman. Il museo Louvre di Abu Dhabi, partner del ben più noto Louvre di Parigi, ha annunciato, un mese dopo la vendita, che il capolavoro sarebbe arrivato ad arricchire la sua collezione. iI Louvre di Parigi, che vorrebbe esporlo per le celebrazioni autunnali, però ora, “non è in grado di localizzarlo”, la presentazione programmata per settembre è stata annullata e del dipinto al museo non c’è traccia. Il dipartimento culturale degli Emirati arabi uniti non ha mai voluto rispondere alle domande sull’ubicazione dell’opera. Da parte sua, il personale del museo di Abu Dhabi ha dichiarato al quotidiano statunitense di non sapere dove si trovi il dipinto. E pure l’ambasciata saudita a Washington ha rifiutato di commentare. È giallo. Il Louvre di Abu Dhabi espone opere di Rembrandt e Vermeer, Monet e van Gogh, quindi sembra strano che, nell’anno in cui si celebrano i 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, dica di non poter esporre proprio il quadro più costoso al mondo. Nessuna informazione arriva poi dall’ipotetico e misterioso compratore, il principe Bader bin Abdullah bin Mohammed bin Farhan al-Saud, attualmente ministro della cultura saudita. Tutto lascia supporre che il mistero del “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci sia frutto di una lotta interna ai sauditi e dei loro giochi di potere. Intanto nel mondo dell’arte si parla di “intrigo internazionale”, anche perché intorno all’opera aleggia da sempre il dubbio dell’autenticità. “Tragico”, commenta Dianne Modestini, professore all’Istituto di Belle Arti della New York University. Lo storico dell’arte britannico Martin Kemp ha descritto poi il “Salvator Mundi” come “una sorta di versione religiosa della Gioconda di Leonardo”, in cui è presente una “forte affermazione dell’inafferrabilità del divino”. “Privare gli amanti dell’arte dal vedere un capolavoro di tale rarità è profondamente ingiusto.” ha affermato.
DALLA STORIA
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko: un poeta russo contemporaneo.
“L’unica cosa che valga sul serio è la tenerezza” (E. A. Evtušenko)
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, morto il 1°aprile 2017, è stato un poeta e romanziere russo, candidato al Premio Nobel nel 1963. Nacque il 18 luglio 1932 a Zimà, una cittadina della Siberia sudorientale, sorta nel XIX secolo intorno a una stazione della linea ferroviaria Transiberiana, da uno studente di geologia dell’Università di Mosca e da una nota cantante lirica di origine ucraina, Zinaida Evtušenko, da cui prese il cognome d’arte. Da bambino visse a Mosca, nell’estate del 1941, l’invasione nazista dell’Unione sovietica e i primi bombardamenti della capitale colsero la famiglia in un momento di crisi: il padre, abbandonata la moglie, va a lavorare nel Kazakistan in una spedizione scientifica, nell’autunno Evgenij e sua madre lasciano Mosca per rifugiarsi a Zimà, dove rimarranno tre anni. La vita e lo stato d’animo di quei tempi difficili sono descritti in “Nozze di guerra”, “Sono di razza siberiana”, “Ballata su un salame”. In seguito alla ritirata dei tedeschi, nel 1944 Evtušenko torna a Mosca con la madre che lo lascia, però, poco dopo, per andare a cantare per i soldati al fronte. Abbandonato a sé stesso, il ragazzo trascura gli studi, mentre comincia a scrivere i suoi primi versi. Qualche anno dopo, espulso dalla scuola, irrequieto e desideroso di novità, Evtušenko raggiunge nel Kazakistan il padre che gli procura un lavoro da manovale in una spedizione geologica, a patto che non riveli a nessuno di essere suo figlio. Tornato a Mosca, ritrova sua madre, precocemente invecchiata, che canta in un cinema negli intervalli tra gli spettacoli. A quell’epoca Evtušenko divide il suo cuore tra la poesia e il calcio. La sua carriera di atleta finisce presto, ma proprio un giornale sportivo lo fa conoscere come poeta: nel 1949, infatti, il redattore del giornale Sovetskij Sport, pubblica un articolo nel quale racconta la passione sfrenata di Evtušenko per i suoi due “sport”, il calcio e la letteratura. Nello stesso anno Evtušenko si iscrive all’istituto di Letteratura e continua a scrivere poesie, note solo al circolo ristretto degli amici e mai pubblicate, ed elogi di atleti e di gare accolti invece dalla stampa sportiva. Occorre arrivare al 1952 per trovare pubblicata la prima raccolta di versi, “Gli esploratori dell’avvenire”, che lo stesso autore definisce “non felice”, ma che gli frutta l’ingresso nella Unione degli Scrittori, elogiato da alcuni tra i più noti poeti sovietici, come Tvardovskij, Semën Isaakovič Kirsanov, Svetlov, Simonov. Dopo la morte di Stalin, con l’epoca del “disgelo”, la notorietà del poeta si afferma soprattutto negli ambienti giovanili. Egli legge i suoi componimenti nelle serate studentesche e nel 1955 è quasi portato in trionfo dagli studenti di Mosca, ai quali aveva declamato dei versi dall’alto della scalinata dell’Università. Il ventesimo congresso del PCUS nel marzo 1956 segna una nuova tappa nella carriera di Evtušenko. Dopo la condanna ufficiale del culto della personalità, egli pubblica una serie di poesie contro lo “uomo d’acciaio” e i burocrati che ancora segretamente rimpiangono il dittatore: il poema “La stazione di Zimà”, “Gli eredi di Stalin”, “La mensa degli studenti”, “Paure” ed altre). Il temperamento ardente e l’odio sincero contro tutto quanto opprime la libertà dell’uomo spingono il poeta oltre i limiti consentiti. Nella primavera del 1957, per aver difeso il romanzo di Vladimir Dmitrievič Dudincev “Non di solo pane vive l’uomo”, contenente una dura critica alla burocrazia staliniana, Evtušenko viene espulso dal Komsomol col pretesto ufficiale di mancato pagamento dei contributi e dallo stesso Istituto di Letteratura. Tuttavia l’amicizia di influenti membri del partito e dell’Unione degli Scrittori permette presto al poeta il ritorno nel Komsomol e nell’Istituto, presso il quale, anzi, viene eletto segretario della locale sezione della Gioventù Comunista. Il 1957 segna l’inizio del periodo dei maggiori successi di Evtušenko, sostenuto dai suoi “amici politici” e dalla poetessa Bella Achmadulina, che diventerà sua moglie. È dello stesso anno l’incontro con Boris Pasternak, che si complimenta col giovane poeta, che ricambierà l’ammirazione scrivendo, in occasione della morte del grande scrittore, la poesia “Il recinto”. Accanto ai componimenti di impegno civile, Evtušenko scrive liriche dedicate alle donne amate, cominciando da Achmadulina, dalla quale poi divorzierà, alla madre, agli amici (“Affetto”, “Al mio cane”, “Auguri, mamma”, “Il lillà”, “Verrà la mia amata”, “Marietta”, ecc.). Nel suo primo viaggio all’estero, a Monaco di Baviera e soprattutto a Parigi, il poeta si permette delle dichiarazioni poco conformiste e autorizza la pubblicazione a Londra dell’Autobiografia (1963) che provoca nei suoi confronti una campagna di accuse capeggiata dallo stesso segretario generale del Komsomol, Sergej Pavlov. Evtušenko è così costretto ad un’autocritica, nella quale accusa gli editori occidentali di aver falsificato il manoscritto. Una nuova tempesta scoppia dopo la pubblicazione nella Literaturnaja Gazeta del poema “Babij Jar” dedicato allo sterminio degli ebrei di Kiev. In uno degli incontri tra i dirigenti del Partito Comunista e quelli della cultura, il segretario generale del PCUS attacca pesantemente il poeta, accusandolo di aver versato col Babij Jar lacrime soltanto per gli ebrei, senza aggiungere una sola parola di compianto per i russi e gli ucraini trucidati nella stessa Kiev. Evtušenko si giustifica, ricordando che questi ultimi furono eliminati perché appartenenti alla resistenza antinazista, mentre lo sterminio degli ebrei fu motivato esclusivamente dall’odio razziale. Conobbe sia Fidel Castro sia Che Guevara, a cui dedicò anche una poesia in spagnolo “La chiave del comandante”, scritta dopo aver visitato il villaggio boliviano di La Higuera, dove fu ucciso Ernesto Che Guevara. “Non la chiamo poesia politica – disse in un’intervista parlando della sua opera – la chiamo poesia dei diritti dell’uomo. La poesia che difende la coscienza umana come il valore spirituale più alto”. La sua poesia di certo non fu sempre in sintonia con le politiche del Cremlino, ma è stata anche oggetto di critiche e discussioni. Non tutti, infatti, apprezzavano i versi di Evtušenko: un altro grande poeta russo, il dissidente Joseph Brodsky, lo accusava di non essere abbastanza critico nei confronti del potere: “Lancia pietre solo nelle direzioni ufficialmente permesse e approvate”. Brodsky si dimise dall’Accademia americana delle Arti e delle Lettere quando questa accolse Evtušenko come membro onorario. Nel 1991 è stato insignito dal Comitato Nazionale Ebraico Americano di una medaglia per le sue attività in difesa dei diritti civili, dal 1993 ha insegnato Letteratura russa presso l’Università di Tulsa (Oklahoma), dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa. Una delle sue poesie più famose è “La stazione di Zimà”:
Partii …
Mi sentivo triste e puro,
triste certamente, perché
avevo imparato qualcosa nella vita,
ma che cosa,
non me ne sapevo ancora render conto.
Bevvi la vodka coi vicini, in loro onore.
Per l’ultima volta attraversai la mia Zimà.
Continuavo a camminare, triste e libero,
e avendo superato l’ultimo quartiere,
salii su un monticello assolato
e a lungo là rimasi.
Dall’alto vedevo l’edificio della stazione,
i magazzini, i fienili e le case.
Mi parlò allora la stazione di Zimà.
Ecco che mi disse la stazione di Zimà:
“Vivo modestamente, schiaccio noci,
in silenzio emetto fumo dalle mie locomotive,
ma anch’io rifletto molto sull’epoca nostra,
l’amo, e non vado contro la mia coscienza.
Tu non sei il solo al mondo
in questa tua ricerca, nelle intenzioni, nella lotta.
Non t’affliggere, figliolo, se non hai risposto
alla domanda che ti è stata fatta.
Abbi pazienza, osserva, ascolta.
Cerca, cerca. Percorri tutta la terra.
Sì, la verità è buona, ma la felicità è migliore,
eppure non c’è felicità senza verità.
Cammina per il mondo a testa alta,
con il cuore e gli occhi in avanti,
e sul viso
l’umida sferza delle nostre conifere
e sulle ciglia
lacrime e tempesta.
Ama gli uomini, e saprai capirli.
Ricordati.
Io ti seguo.
Quando sarà difficile, tornerai da me …
Va!”
E io andai.
E sono in cammino.
Mary Titton
31 marzo
PRIMO PIANO
Il Papa in Marocco: “L’odio, la divisione e la vendetta uccidono l’anima.”
Sono queste, tra le altre, le parole pronunciate da papa Francesco durante la messa celebrata, a conclusione del suo breve e storico viaggio, nel complesso sportivo di Rabat in Marocco, dove sono convenute 10mila persone. “Sicuramente – dice il Papa – sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo”. Bergoglio, che ha compiuto questa breve visita per promuovere il dialogo interreligioso, è stato accolto, al suo arrivo all’aeroporto internazionale di Rabat-Salé, dal re del Marocco Mohammed VI e da due bambini in abito tradizionale, che gli hanno offerto dei fiori. Il dialogo con l’Islam è un tema molto caro al Pontefice, che, durante lo storico viaggio negli Emirati Arabi Uniti nel mese di febbraio, ha firmato con lo sceicco Ahmed al-Tayeb, il grande imam della massima istituzione sunnita, l’Università di di Al Azhar del Cairo, un “documento sulla fratellanza umana”, che richiede libertà di credo e di espressione e piena cittadinanza per le “minoranze” discriminate. Nel discorso al popolo marocchino, il Papa, citando lo storico incontro tra San Francesco d’Assisi e il Sultano al-Malik al-Kami, avvenuto 800 anni fa in piena crociata, ha insistito sul “coraggio dell’incontro e della mano tesa, … avendo come riferimenti inestimabili del nostro agire i valori che ci sono comuni.” Una viaggio di soli due giorni quello di Bergoglio, ma ricco di incontri, gesti, discorsi significativi, centrati sui valori della dignità della persona, del dialogo e “della fratellanza umana”: la visita all’istituto Mohammed VI per imam, predicatori e predicatrici, voluto dal re, “allo scopo di fornire una formazione adeguata e sana contro tutte le forme di estremismo, che portano spesso alla violenza e al terrorismo e che, in ogni caso, costituiscono un’offesa alla religione e a Dio stesso”; la firma con Mohammed VI di un appello per “preservare lo stato di Gerusalemme come città santa, in cui siano garantiti – si legge – la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto … per un futuro di pace e di fraternità sulla terra”; l’incontro, al Centro Caritas Diocesana di Rabat, con i migranti, a cui ha espresso la sua vicinanza e solidarietà, definendo le vicissitudini che sono costretti ad affrontare “una ferita grande che grida al cielo”; l’appello alla piccola comunità cristiana nella cattedrale di Rabat all’“ecumenismo della carità”, una via di dialogo e di cooperazione con i fratelli e le sorelle musulmani e con tutte le persone di buona volontà, “in favore di una cultura dell’incontro”.
29 marzo
DALLA STORIA
L’epopea dei grandi navigatori italiani: Giovanni Caboto diventa cittadino veneziano (29 marzo 1476). Sebastiano Caboto realizza il “Mappamondo di Anversa” (1544).
(Mappamondo di Sebastiano Caboto, 1544 – realizzato in facsimile e in scala, dalla Progetto Editoriale Editions, nel 2002)
Durante l’epoca dell’espansione europea nel Nuovo Continente, i navigatori italiani ebbero un ruolo predominante. Mossi da una insopprimibile ansia di curiosità e desiderosi di conoscenza e, grazie alla loro abilità nella navigazione, intrapresero viaggi, pieni di insidie e pericoli, alla volta delle terre al di là dei confini dell’Europa, segnalate da rudimentali documentazioni, ma di fatto ancora sconosciute. Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Giovanni e Sebastiano Caboto e Giovanni da Verrazzano furono i navigatori più temerari, condottieri infaticabili, dalla volontà di ferro, animati da una forte convinzione di coronare il sogno di essere i primi a scoprire nuovi mondi. Tutti i navigatori italiani, per realizzare i loro progetti di viaggio, dovettero cercare ingaggi fuori dall’Italia, poiché i governanti di allora non furono così lungimiranti e interessati a sfruttare le loro abili qualità di navigatori come, purtroppo, fece anche la Repubblica di Venezia con Caboto che perse l’occasione storica di inserirsi nel gruppo delle grandi potenze marinare europee, impegnate nell’esplorazione degli oceani e dei mari sconosciuti, un campo dove predominavano spagnoli e portoghesi, limitandosi così a dedicarsi ai traffici commerciali all’interno del Mar Mediterraneo e lungo le rotte nord-europee (Fiandre, Baltico), non capendo che di lì a poco tutto il mondo dei traffici commerciali sarebbe stato rivoluzionato. Giovanni Caboto si spostò perciò in Spagna, a Valencia dove diresse i lavori di ampliamento del porto, proprio nel periodo in cui Colombo rientrava trionfante dal suo primo viaggio. Caboto, entusiasmatosi per quelle scoperte, si rivolse a Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona per ottenere i finanziamenti per un viaggio esplorativo verso l’Occidente, seguendo una rotta più a settentrione di quella percorsa dall’Ammiraglio. Di fronte al rifiuto dei Re Cattolici, nel 1496 si recò in Inghilterra per convincere Enrico VII Tudor ad appoggiare il suo progetto. Così nel 1496 il re, per recuperare terreno rispetto alla Spagna e al Portogallo, gli concesse le patenti reali con le quali permetteva di navigare per la corona d’Inghilterra e cercare nuove terre, isole pagane e terre fino allora sconosciute ai cristiani: “Enrico, per grazia di Dio re di Francia e d’Inghilterra e signore d’Irlanda, saluta tutti coloro ai quali giungeranno queste lettere … abbiamo dato e concesso con queste lettere al nostro amato Giovanni Caboto, cittadino di Venezia, e a Luigi, Sebastiano e Sancio, figli del suddetto Giovanni, ai loro eredi e ai loro rappresentanti, piena e libera autorità, facoltà e potere di navigare verso qualsiasi parte, regione ed insenatura del mare orientale, occidentale e settentrionale, sotto le nostre bandiere, vessilli e insegne, con cinque navi o navigli di qualsiasi stazza o tonnellaggio e con il numero di marinai ed uomini che essi decideranno di imbarcare sulle suddette navi, a loro spese e rischio … (Almagià, 1960, Surdich, 1991). Giovanni Caboto prese il mare in data 2 maggio 1497 sul Matthew, dal peso di 50 tonnellate e con soli 18 uomini d’equipaggio. Il viaggio durò 54 giorni e sembra accertato che il navigatore sia giunto a Cap Breton, toccò la Nuova Scozia, attraversò la baia di Fundy, giungendo fino al Maine, in un luogo chiamato Capo Scoperto. D’altronde abbiamo la certezza delle terre scoperte da Caboto proprio da Jaun de la Cosa che le riporta nella sua carta (Cerezo Martinez, 1992). La notizia del felice viaggio di Caboto si ha in due relazioni diplomatiche fatte rispettivamente da Raimondo da Soncino a Ludovico il Moro, il 18 dicembre 1497, e da Pedro de Ayala, ambasciatore della Spagna in Inghilterra, ai Re Cattolici. Il primo dice: “Egli partì da Bristol, un porto nell’occidente di questo reame, passò l’Irlanda che è ancora più ad ovest, e quindi volse al nord … Dopo aver vagato qualche tempo per il mare, giunse alfine alla terra ferma e, prese varie cose che dimostrassero la scoperta, ritornò … Asseriscono che colà il mare brulica di pesce che si prende non solo con le reti ma anche semplicemente affondando un canestro con una pietra. Questo ho udito da messer Zoane Caboto”. (Berchet, 1892, Marenco, 1900). È evidente in questo caso il riferimento alle zone pescose intorno a Terranova. Pedro de Ayala scrivendo ai Re dice: “Penso che le Vostre Altezze abbiano già appreso come il Re d’Inghilterra abbia armato una flotta per esplorare certe isole o la terraferma che, come gli è stato assicurato, delle persone partite l’anno scorso da Bristol hanno scoperto. Ho visto la carta fatta dallo scopritore, che “un genovés como Colón” è stato a Siviglia e a Lisbona a cercar uomini che lo aiutassero nella scoperta … (Marenco, 1990). Da questa frase di Pietro d’Ayala per molto tempo si è pensato che anche Giovanni Caboto provenisse dalla Liguria, in realtà bisogna pensare che Ayala abbia inteso dire con il termine di genovese che proveniva dall’Italia senza discernere in realtà di quale regione fosse originario. Dai racconti di Giovanni Caboto il re fu indotto a preparare un secondo viaggio di cinque navi che salparono nel maggio 1498 ma dal quale, il grande navigatore, non fece più ritorno. (Williamson, 1929, Ballesteros Gaibrois, 1997). Sulle orme del padre, Sebastiano Caboto divenne a sua volta un grande navigatore e spinto dalla passione per la geografia affinò le sue eccezionali doti di cartografo. Nel 1512 venne assunto da Enrico VIII d’Inghilterra come cartografo a Greenwich. Nello stesso anno venne nominato capitano da Ferdinando II di Aragona e, nel 1522 ebbe un nuovo incarico e assunse il grado di “piloto mayor” nella “casa del Contratacion” di Siviglia; di fatto divenne il cosmografo più importante del regno, responsabile del “Padron Real”, la carta del mondo di allora aggiornata con la complessa e laboriosa raccolta di tutte le notizie riportante da ogni spedizione che tornava dalle Indie Occidentali. (Si suppone che proprio Sebastiano Caboto abbia disegnato il “Mappamondo di Anversa” avendo a disposizione questa leggendaria carta come modello. L’opera fu realizzata su singoli fogli giuntati, prodotti in calcografia e quindi incollati su un pannello di cartone. La colorazione fu eseguita a mano. Oggi il “Mappamondo di Anversa è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi). Caboto in quel periodo offrì segretamente i suoi servigi anche a Venezia. Voleva trovare il Passaggio a nord-ovest per la Cina. Il 4 marzo 1525 ricevette il grado di Capitano generale della Spagna. Siccome voleva scoprire un nuovo itinerario per le Molucche, riuscì ad ottenere dal re di Spagna, Carlo V, l’autorizzazione e il comando della spedizione che era composta di tre navi con 150 uomini d’equipaggio partendo da Cadice il 5 aprile 1526. Arrivò, però, solo fino al Rio della Plata, pensando di poter giungere nel favoloso regno di Birù (Perù), che ancora non era stato conquistato. Nella zona dell’attuale città argentina di Santa Fe fondò un villaggio fortificato, detto di “Santo Spirito”. Rimase nella zona per vari anni, esplorando alcuni fiumi delle vicinanze e facendo osservazioni di carattere naturalistico. I suoi luogotenenti Francisco César, Francisco de Rojas, Martin Mendes e Miguel de Rodas partirono e si inoltrarono all’interno alla ricerca del favoloso regno del Perù e arrivarono, forse solo nella zona dell’attuale Bolivia. Nell’agosto 1530 il villaggio che aveva fatto costruire venne distrutto dai nativi, così decise di rientrare in Spagna. Lì, alla corte di Carlo V, Caboto chiese di essere riconosciuto “Adelantado” e governatore delle terre scoperte e di poter ripartire al comando di una flotta più numerosa. Ma la Corona, che proprio in quegli anni aveva dato a Francisco Pizarro la concessione per la conquista del Perú attraverso la rotta di Panama, non ascoltò le richieste del veneziano, che fu addirittura imprigionato per aver abbandonato i suoi luogotenenti. Un anno dopo fu liberato e prestò servizio presso la Corona di Spagna come Piloto Mayor fino al 1547. Negli anni successivi tentò nuovamente di arruolarsi al servizio del Re d’Inghilterra, ma senza esito. Ebbe contatti con le autorità veneziane, con le quali stava progettando un viaggio in Cina allo scopo di stabilire rapporti commerciali, ma anche questi tentativi non portarono a nulla di concreto. Morì a Londra nel 1557, mentre organizzava ulteriori viaggi di esplorazione per conto della Company of Merchant Adventurers, una società che aveva lo scopo di cercare il leggendario passaggio a nord-ovest per raggiungere la Cina con una rotta più diretta. Le sue esplorazioni nel cono sud del continente americano ebbero il merito di descrivere e redigere le mappe di nuovi territori del Rio de la Plata, che furono colonizzati negli anni successivi.
(Questa iconografia, tratta da questo sito, indica la sezione della Cartografia Antica che Progetto Editoriale realizza in pregiate edizioni facsimilari. Particolare della Carta del Pacifico di Hessel Gerritsz, 1622)
Mary Titton
27 marzo
PRIMO PIANO
La cittadinanza italiana a due piccoli eroi.
Dopo giorni di polemiche, che hanno coinvolto il ministro dell’Interno Matteo Salvini, inizialmente contrario, apprendiamo con soddisfazione che sarà concessa la cittadinanza italiana a Ramy, il ragazzino di 13 anni di origine egiziana e ad Adam El Hamami, l’altro scolaro tredicenne figlio di genitori marocchini, che hanno dato l’allarme sul bus dirottato e poi incendiato il 20 marzo a San Donato Milanese, evitando una strage. Così il giovane Ramy commenta ad Adnkronos la notizia della concessione della cittadinanza italiana: “Sono contento. Penso di meritare la cittadinanza italiana, ma questa notizia non me l’aspettavo. Oggi avevo in programma di andare a seguire una partita di calcio con i miei amici, festeggerò con loro.” Adam e Ramy, i due ragazzini che per primi hanno chiamato i Carabinieri durante il sequestro dell’autobus da parte di Ousseynou Sy, vogliono diventare entrambi carabinieri e in diretta tv a “Che tempo che fa”, su RaiUno, hanno ricevuto in omaggio i cappelli dell’Arma dai militari con loro in studio. Riepiloghiamo la vicenda, che avrebe potuto concludersi con una strage. Martedì mattina l’autista di un bus ha sequestrato e dirottato verso Linate il mezzo con a bordo 51 ragazzini della scuola media Vailati di Crema, che stavano andando dalla loro scuola ad una palestra e ha annunciato di volersi uccidere. “Voglio farla finita, vanno fermate le morti nel Mediterraneo”, avrebbe detto. Ad un certo punto Sy avrebbe cambiato percorso e, rivolgendosi agli studenti con in mano un coltello, avrebbe detto: “Andiamo a Linate, qui non scende più nessuno”. La prima delle tre volte in cui Ousseynou Sy, l’autista 47enne italiano di origini senegalesi, ha fermato il bus per cospargerlo di benzina e per raccogliere i telefoni, Rami lo ha nascosto e tenuto con sé. Quando poi il mezzo è ripartito, il 13enne ha chiamato i Carabinieri, raccontando che quell’uomo voleva ucciderli. Qualcosa di incredibile all’inizio anche per chi era dall’altro capo del telefono, ma i militari hanno comunque allertato tutte le pattuglie per intercettare lo scuolabus. Poi il ragazzino è riuscito anche a chiamare i suoi genitori: “È stato freddo e coraggioso” racconta Adam, il compagno. A quel punto però l’autista si è accorto che qualcuno non aveva consegnato il telefono e si è fermato una seconda volta per prenderglielo. “Ha dovuto consegnarlo o sarebbe successo qualcosa di brutto” dice Adam. Durante la telefonata con le forze dell’ordine le informazioni fornite sono state utili a individuare la posizione dello scuolabus e ad intervenire. L’autobus sequestrato da Ousseynou Sy è stato intercettato da tre pattuglie dei Carabinieri, ma non si è fermato e ha speronato una macchina, colpendone poi altre due “senza provocare feriti”, poi è finito contro il guardrail. È quanto ha spiegato il comandante provinciale dei Carabinieri Luca De Marchis, parlando di “momenti durati pochi minuti ma molto concitati”. Alla fine i Carabinieri, ha ribadito più volte il procuratore di Milano, Francesco Greco, sono stati “bravi” sia nel “bloccare l’uomo in fuga col bus che nel tirare fuori i bambini, hanno rotto i vetri e sono riusciti a tirarli fuori tutti e 51, è stato un miracolo.” Rami “è stato furbo”, quando l’autista “ci ha requisito i telefoni, lui lo ha nascosto e ha chiamato il 112: È il nostro eroe.” dice Adam, il suo compagno.
DALLA STORIA
Stanislaw Lem, un maestro della fantascienza.
Il 27 marzo 2006 lo scrittore polacco Stanislaw Lem, autore brillante e prolifico, tra i più amati dagli estimatori del romanzo fantascientifico/filosofico, moriva a Cracovia, all’età di 84 anni. “Figlio di un medico, subito dopo l’inizio della seconda guerra mondiale iniziò gli studi di medicina nella sua città natale che fu costretto a interrompere a causa dell’occupazione tedesca: lavorò quindi come meccanico e saldatore. Al termine del conflitto si trasferì a Cracovia dove si poté finalmente laureare presso l’Università Jagellonica nel 1946: il perido dell’infanzia e della giovinezza sono descritti nel romanzo autobiografico Wysoki zamek (1966). Abbandonata ben presto la professione, a partire dal 1950 Lem si dedicò alle problematiche delle scienze biologiche e cibernetiche, iniziando a pubblicare liriche e saggi e il suo primo romanzo di fantascienza, Astronauci (1951), ma cadde in disgrazia: si era in pieno periodo staliniano e i suoi articoli di biologia non concordavano troppo con le tesi “ufficiali” di Trofim Lysenko, l’agronomo ucraino, presidente dell’Accademia delle Scienze Agrarie e direttore dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, il quale a partire dal 1948 impose la teoria antimendeliana secondo la quale sarebbe stato possibile modificare artificialmente le specie vegetali e mantenere i caratteri così acquisiti nelle successive generazioni. Lem divenne allora assistente alle ricerche in un istituto scientifico. Questo tormentato periodo della sua esistenza è al centro dell’unico romanzo realistico al suo attivo, “Czas nieutracony”, elaborato alla fine degli anni Quaranta e pubblicato nel 1955. Dopo la caduta di Lysenko (1953) ricominciò a scrivere e pubblicare: racconti e romanzi “fantastico-scientifici”, studi sull’influsso sociale della tecnologia, saggi sulla cibernetica e sulla filosofia della scienza, analisi di opere letterarie dal punto di vista delle scienze naturali. È stato anche uno dei fondatori dell’Accademia di Cibernetica e Astronautica. Lem iniziò anche a scrivere varie serie di racconti con personaggi o ambientazioni comuni: come quelli dedicati al pilota Pirx o allo scienziato Ijon Tichy, le “favole robotiche” di Bajki robotow e di Trurl-Klapaucius (poi confluite nella vasta antologia Cyberiada), i “diari stellari”, cicli che, sovrapponendosi nelle varie raccolte di storie che man mano pubblicava, si devono aggiungere ai romanzi e ai saggi. In venti anni Lem è così diventato uno dei più importanti scrittori polacchi: le sue opere sono oggetto di seminari nelle università del suo paese; nel 1973 ha ottenuto il prestigioso Premio Letterario dello Stato Polacco e nel 1976 il Grand Prix al terzo Congresso Europeo di Fantascienza che si è svolto a Poznam; nel 1977 si è fatto il suo nome come candidato ufficiale al Nobel della letteratura. Le sue opere sono tradotte in una trentina di lingue e nel 1972, avevano già raggiunto una tiratura complessiva di otto milioni di copie. In Occidente la sua fama ha cominciato a diffondersi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta quando alcuni suoi romanzi sono stati tradotti quasi contemporaneamente in tedesco, francese, inglese, italiano, e il regista russo Andrej Tarkovskij trasse da “Solaris” un film che ottenne un notevole successo di critica e di pubblico in tutto il mondo dopo la sua presentazione al Festival di Cannes nel 1972”. (Gianfranco de Turris). Nella trama dei suoi romanzi Lem costringe i suoi personaggi ad affrontare delle profonde riflessioni introspettive, unitamente ad una critica etica e morale della società, nel momento in cui si vengono a trovare in situazioni che sono del tutto estranee alla normalità e lontane da tutto ciò che, per l’uomo, è consueto e conoscibile. I viaggi nel cosmo di Lem, di fronte alla minaccia di una degenerazione della civiltà delle macchine, si trasformano in una riflessione ontologica e morale sul nuovo status dell’uomo nell’era cibernetica che ne denuda la solitudine e la fragilità. “Non è piacevole vivere in un’epoca così, nulla dipende da noi. Io vedo questo con grande pessimismo”, disse Lem in una delle sue ultime interviste.
(Nel romanzo “Solaris” viene scoperto un pianeta abitato da un’unica entità intelligente: un oceano vivente. Gli scienziati che dovrebbero stabilire un contatto con quella presenza smarriscono progressivamente la loro identità costretti a misurarsi con il loro io più profondo e rimosso che l’oceano solariano sembra proiettare come uno specchio)
Mary Titton
26 marzo
PRIMO PIANO
Papa Francesco è arrivato in Campidoglio poco dopo le 10:15, sotto una pioggia battente, con qualche minuto di anticipo rispetto al programma, ed è stato accolto dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi, e dallo squillo delle trombe dei fedeli di Vitorchiano. Il papa e la sindaca sono saliti insieme sulla scalinata dell’ingresso Sisto IV di Palazzo Senatorio e dopo aver posato per i fotografi si sono recati nella sala dell’Orologio, dove Bergoglio ha salutato il piccolo Matteo, figlio della sindaca e il marito Andrea. La sindaca ha dato il benvenuto al Papa nell’aula Giulio Cesare, sottolineando, tra l’altro, l’impegno suo e dell’Amministrazione “per affermare i principi di giustizia e la salvaguardia della dignità di tutti, nel rispetto delle diversità culturali e religiose” perché “nessuno deve rimanere indietro”. Poi, prima dello scambio dei doni e del baciamano dei consiglieri, Francesco ha tenuto il suo discorso all’Amministrazione capitolina con queste parole: Roma “è un organismo delicato, che necessita di cura umile e assidua e di coraggio creativo per mantenersi ordinato e vivibile, perché tanto splendore non si degradi, ma al cumulo delle glorie passate si possa aggiungere il contributo delle nuove generazioni, il loro specifico genio, le loro iniziative, i loro buoni progetti”. Ha quindi proseguito: “Roma si mantenga all’altezza dei suoi compiti e della sua storia, che sappia anche nelle mutate circostanze odierne essere faro di civiltà e maestra di accoglienza, che non perda la saggezza che si manifesta nella capacità di integrare e far sentire ciascuno partecipe a pieno titolo di un destino comune.” Ha infine concluso: “Formulo perciò i migliori auspici affinché tutti si sentano pienamente coinvolti per raggiungere questo obiettivo, per confermare con la chiarezza delle idee e la forza della testimonianza quotidiana le migliori tradizioni di Roma e la sua missione, e perché questo favorisca una rinascita morale e spirituale della Città”. Successivamente Francesco si è affacciato con Virginia Raggi al balcone dello studio della sindaca con vista sui Fori romani, salutando i presenti nella piazza. Il Papa, che è il quarto Pontefice a visitare le sale capitoline, dopo san Paolo VI, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è arrivato in Campidoglio in un momento complicato per la giunta Raggi, decimata dalle recenti indagini. Proprio Francesco l’8 dicembre scorso, nell’omaggio alla Vergine di Piazza di Spagna, aveva invitato i vertici romani a mostrare “saggezza, lungimiranza, spirito di servizio e di collaborazione”, e i romani a “non rassegnarsi ai disagi”. “Roma sia sempre fedele alla sua vocazione e alla sua missione nella storia del mondo”. Firmato: Francesco. È la dedica di papa Bergoglio “a ricordo della visita in Campidoglio. Roma, 26 marzo 2019”, da lui siglata sul libro “Ripensare il futuro dalle relazioni”, consegnato in dono agli amministratori capitolini.
DALLA STORIA
L’Oscar a “Le notti di Cabiria”, di Federico Fellini.
(Giulietta Masina in un fotogramma del film)
Il 26 marzo 1958 il film drammatico “Le notti di Cabiria”, diretto da Federico Fellini nel 1957, vince l’Oscar per il miglior film straniero. “La Cabiria del titolo è interpretata dalla moglie del regista, Giulietta Masina, che vinse meritatamente il premio come miglior attrice a Cannes per la sua interpretazione di un’ingenua prostituta. Vergognandosi del suo lavoro, Cabiria cerca senza speranza un “riccone” che la porti via e la mantenga ma, nel profondo, ciò che sta cercando è il vero amore. Dopo la prima del film, la sequenza controversa del buon Samaritano con un sacco pieno di buona volontà fu tagliata a seguito delle proteste della Chiesa e poi fortunatamente ripristinata. Il tema della bontà è davvero fondamentale nel film di Fellini, in cui, sotto la facciata di spregiudicatezza, Cabiria non può fare a meno di mostrare la sua gentilezza, cosa che le provoca spesso delusione o, peggio, umiliazione. L’incontro fortuito con un ipnotizzatore (Aldo Silvani) fa affiorare i suoi desideri più profondi in modo tanto emozionante quanto crudele, perché sottolinea la possibilità che i suoi sogni e le sue fantasie possano divenire reali. La sua trasparenza porta persino un uomo a sfruttare la sua fragilità emotiva. Le attenzioni altrettanto crudeli di un attore del cinema donnaiolo (Amedeo Nazzari) provocano in lei false speranze, nonostante venga trattata letteralmente come un cane. I sogni di Cabiria non diventano mai realtà, ma Fellini non sfrutta la sua tragica storia per ottenere semplice benevolenza. E’ una donna forte e coraggiosa che combatte, rispondendo a tutte le avversità rialzandosi sempre, scuotendosele di dosso e iniziando da capo la sua marcia verso una nuova vita migliore. “Le notti di Cabiria”, come “La dolce vita” (1960) è raccontato dal punto di vista del sottoproletariato e rappresenta uno sguardo rivolto alla proverbiale vita dorata con gioia ottimistica velata, infine, di tristezza. (Joshua Klein). Il nome “Cabiria” viene dall’omonimo colossal italiano del 1914, mentre il personaggio stesso della protagonista è preso da una breve scena presente ne “Lo sceicco bianco”, uno dei precedenti film di Fellini. Fu la prova d’attrice della Masina in quel film ad ispirare Fellini per “Le notti di Cabiria”. Ma nessuno in Italia all’epoca avrebbe finanziato una pellicola dove la protagonista era una prostituta. Quindi, Fellini dovette faticare non poco per convincere a finanziare il progetto il produttore Dino de Laurentiis, che però accettò solo a condizione che il regista tagliasse dal copione alcune scene da lui ritenute superflue. Fellini basò alcuni dei personaggi su una vera prostituta che aveva conosciuto durante le riprese de “Il bidone”. Per ottenere una maggiore autenticità, il regista chiese la consulenza di Pier Paolo Pasolini, conosciuto per la sua familiarità con il sottoproletariato romano dell’epoca, il quale aiutò a stendere i dialoghi per il film. Il racconto del film costituì la base della commedia musicale “Sweet Charity” e del film (1969) omonimo di Bob Fosse con Shirley MacLaine protagonista nel ruolo che fu di Giulietta Masina nell’originale. “Le notti di Cabiria” di Fellini è come “una sinfonia in cui i diversi tempi, gli episodi, si allacciano l’uno all’altro, distaccati ma complementari, per analogia o per contrasto tutti convergenti nella caratterizzazione della protagonista che tutti li armonizza nella drammaticità del suo destino”. (Morando Morandini).
(Giulietta Masina e Federico Fellini sul set de “Le notti di Cabiria”, nel 1957)
Mary Titton
25 marzo
PRIMO PIANO
Elezioni regionali in Basilicata: vince il Centrodestra.
Dopo una campagna elettorale, in cui si sono calati in Basilicata più volte ministri e segretari di partito, che in genere non si preoccupano minimamente di questa piccola regione del Sud, dove si è andati al voto in ritardo e in seguito all’arresto e alle dimissioni del governatore Pittella, ha vinto il Centrodestra: Vito Bardi, eletto con 124.716 voti, pari al 42,2%, è il nuovo Presidente della Regione, al secondo posto Carlo Trerotola del Centrosinistra con 97.866 voti, pari al 33,11%, poi Antonio Mattia del M5s, con 60.070 voti, pari al 20,32% e infine Valerio Tramutoli di “Basilicata possibile”, con 12.912, pari al 4,37%. Vito Bardi, il nuovo governatore della Basilicata, scelto da Berlusconi per guidare l’asse Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, è un ex generale della Guardia di Finanza, che, nato a Potenza nel 1951, risiede a Napoli, della cui squadra è tifoso; tra l’altro non ha potuto votare per ritardi nel cambio di residenza. Carlo Trerotola, il candidato del Centrosinistra, 62 anni, è un noto farmacista di Potenza, intorno alla cui candidatura non sono mancate polemiche per la sua passata vicinanza al Movimento sociale, di cui il padre Nicola è stato tra i fondatori in Basilicata. Antonio Mattia, 47 anni, nato a Potenza, laureato in Giurisprudenza, è un imprenditore potentino, che, già attivista politico nella Dc e in Forza Italia, milita da qualche anno nel M5s. Valerio Tramutoli, laureato in Fisica, è professore di “Telerilevamento Ambientale” presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata, con all’attivo una ricca attività di ricerca sia in Italia che all’estero e circa 200 pubblicazioni, le sue proposte: fare della Basilicata la prima regione “carbon free” in Europa e la difesa del diritto allo studio e della Costituzione. Primo partito con il 20,27% è il M5s, che, pur crescendo rispetto alle Regionali 2013, dimezza le preferenze rispetto alle Politiche dello scorso anno, seguono Lega (19,15%), Forza Italia (9,15%), Partito democratico (7,8%). L’affluenza alle urne è stata del 53,58%, 6 punti in più rispetto alle regionali del novembre 2013, quando si era fermata al 47,6%. I seggi, 20, nel nuovo Consiglio Regionale risultano così ripartiti: nella maggioranza 6 per la Lega, 3 per Forza Italia, 1 per Fratelli d’Italia, 1 per Idea, 1 per Basilicata Positiva- Bardi Presidente; nell’ opposizione 2 per Comunità Democratiche- Pd, 2 per Avanti Basilicata, 3 per il Movimento 5 Stelle, più lo sfidante sconfitto Carlo Trerotola. Fra tutti i 20 consiglieri eletti (più Bardi) sono cinque quelli confermati, tra cui Marcello Pittella, ex Governatore Pd, eletto con 8803 voti nelle file del Centrosinistra. Alcuni elementi deprecabili in questa corsa al voto: per la commissione Antimafia, presieduta da Nicola Morra del M5s, sono cinque i candidati “impresentabili” alle elezioni Regionali in Basilicata, tra i quali tre condannati in primo grado e due imputati, tre di loro sono candidati in liste che sostengono il candidato di Centrosinistra Carlo Trerotola e due nelle liste del Centrodestra; il ritardo di alcuni mesi nell’andare al voto dopo le dimissioni di Pittella, coinvolto nello scandalo sanità lo scorso luglio, tanto da arrivare all’arresto. Il Centrodestra guida ora 10 Regioni in Italia, una in più rispetto al Centrosinistra, pertanto, al termine dello scrutinio, sia il Presidente del Consiglo Conte che i vice Salvini e Di Maio hanno dichiarato che i risultati di queste elezioni amministrative non hanno alcuna influenza sui rapporti di forza nel governo a livello nazionale.
DALLA STORIA
Il delitto Matteotti: esecutori, mandanti, moventi.
Nella rubrica della Rai intitolata “Accadde oggi”, del 25 marzo, leggiamo: “Il popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, relega in settimana pagina la notizia della sentenza del processo per l’omicidio Matteotti, celebrato a Chieti. L’articolo, firmato da Enrico Rocca, dedica la maggior parte dello spazio a riportare molto dettagliatamente l’arringa di Roberto Farinacci, avvocato difensore degli assassini di Matteotti. Di suo il giornalista aggiunge poco, cioè che “il pubblico nell’aula ha accolto con disciplinato silenzio la lettura del verdetto” e che la sentenza, “conosciuta subito in città, ha prodotto favorevolmente impressione”. Dei cinque assassini tre, Dumini, Poveromo e Volpi, verranno condannati a pene lievissime e, grazie a una amnistia deliberata tempestivamente, liberati dopo qualche mese. Gli altri due, Malacria e Viola saranno assolti”. Ma andiamo con ordine ed entriamo in questa efferata vicenda che darà inizio al regime, raccontandone più dettagliatamente alcuni aspetti nel loro sviluppo. Il primo dei tre procedimenti giudiziari contro gli squadristi materialmente responsabili del rapimento e dell’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo si aprì, a Chieti, il 16 marzo 1926. Di questi Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio preterintenzionale alla pena di anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione, nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per Panzeri, che non partecipò attivamente al rapimento, Malacria e Viola ci fu l’assoluzione. Il collegio di difesa degli imputati, a seguito di richiesta di Dumini, venne guidato da Roberto Farinacci, a quel tempo segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista: l’enfasi di Farinacci nella difesa degli imputati fu tale da indurre Mussolini, che viceversa aveva chiesto un processo senza molto clamore, a costringerlo alle dimissioni una settimana dopo la sentenza del processo. Già nel 1924, nei giorni immediatamente successivi ai drammatici fatti, era stato intentato un procedimento davanti dall’Alta Corte di Giustizia del Senato nei confronti dell’allora capo della Pubblica Sicurezza, il quadrumviro Emilio De Bono, costretto alle dimissioni da Mussolini, per il quale era stato poi ravvisato il non luogo a procedere. Nel 1947, la Corte d’Assise di Roma istituì un nuovo processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli, Panzeri: Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all’ergastolo, poi commutato in 30 anni di carcere, mentre per gli altri imputati fu ravvisato il non luogo a procedere, sei anni dopo il Dumini verrà amnistiato. Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti aveva pronunciato alla Camera un duro discorso contro il governo, accusandolo direttamente di essere il responsabile dei soprusi che avevano accompagnato tutto il periodo elettorale e manifestando una volontà di opposizione intransigente, non disposta più a subire passivamente nessuna illegalità. Qualche giorno dopo, il 10 giugno 1924, l’onorevole Matteotti, all’uscita della sua abitazione di Roma, fu picchiato, rapito dai fascisti e poi ucciso; il suo cadavere venne ritrovato per caso solo il 16 agosto, tra le 7:30 e le 8 del mattino, dal cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza, Ovidio Caratelli, nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano, non si seppe più nulla, invece, della sua borsa piena dei documenti che dovevano essere alla base del discorso che il deputato avrebbe dovuto pronunciare l’11 giugno alla Camera, adducendo le prove della corruzione e dei traffici in cui il fascismo era coinvolto. Dopo l’assassinio di Matteotti, che determinò la trasformazione del fascismo da movimento politico in regime, i deputati dell’opposizione decisero di non partecipare più ai lavori del Parlamento (la cosiddetta “secessione dell’Aventino”), ma questa radicale protesta non scalfì il consolidamento del potere del fascismo. Fin dai primissimi momenti successivi al sequestro e, ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, presso parte della pubblica opinione si diffuse la convinzione che Mussolini fosse il responsabile ultimo del delitto. Mussolini riguardo alla vicenda ebbe un comportamento contraddittorio: il 3 gennaio 1925, alla Camera, respinse inizialmente l’accusa di un suo coinvolgimento diretto nell’omicidio, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell’articolo 47 dello Statuto Albertino, successivamente, con un improvviso cambio di tono, si assunse personalmente, in due vicini passaggi del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni erano maturati. Mussolini stesso, il giorno seguente il discorso di Matteotti, aveva scritto sul “Popolo d’Italia” che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale. Secondo, poi, una delle ricostruzioni, accreditata dal Ministero dell’interno italiano e da Silvio Bertoldi, il presidente del Consiglio, rientrato al Viminale dopo il famoso discorso di Matteotti, si era rivolto a Giovanni Marinelli, capo della polizia segreta fascista urlandogli: “Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare …”. Ugualmente dubbio è l’episodio a discolpa, citato dall’intimo amico e consigliere di Mussolini, il giornalista Carlo Silvestri, che sostenne che fu lo stesso Marinelli ad addossarsi la completa responsabilità e decisione dell’omicidio di Matteotti, confidandolo a Cianetti e Pareschi vent’anni più tardi, quando si trovò con loro nel carcere di Verona per essere processato. Per quasi tutto il XX secolo gli storici ritennero che la principale causa del delitto Matteotti fosse stato il suo discorso di denuncia pronunciato alla Camera il 30 maggio 1924. Negli anni ottanta un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, ritrovò nell’Archivio Nazionale di Washington una lettera redatta da Amerigo Dumini nel 1933: Matteotti, nel discorso annunciato per l’11 giugno in Parlamento, avrebbe denunciato il pagamento di tangenti dalla Sinclair Oil al governo italiano, in cui – avrebbe dichiarato Dumini – era coinvolto Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. La tesi delle tangenti della Sinclair Oil come causa dell’omicidio è stata confermata da ulteriori ricerche, apparse alla fine degli anni novanta, fino alla convinzione maturata dal figlio, Matteo Matteotti, che il principale mandante del delitto, attraverso De Bono, poteva essere stato il re Vittorio Emanuele III per via d’interessi petroliferi correlati sempre al gruppo Sinclair. Ancora oggi gli studiosi sono divisi sulle responsabilità di Mussolini: secondo De Felice fra le motivazioni del rapimento ci sarebbe stato il tentativo del fascismo intransigente di colpire direttamente Mussolini e la sua politica di apertura a sinistra e di parziale legalità parlamentare, impedendogli un riavvicinamento con i sindacalisti di sinistra; lo storico Canali si dichiara, invece, convinto della colpevolezza diretta di Mussolini come mandante, perché direttamente coinvolto nell’affare Sinclair; lo studioso statunitense Peter Tompkins nel volume “Dalle carte segrete del Duce” (2001), aderisce alla tesi secondo cui Giacomo Matteotti sarebbe stato assassinato, oltre che per l’incisiva denuncia delle irregolarità e delle violenze compiute dai fascisti nelle elezioni politiche del 1924, anche perché in possesso di documenti attestanti le tangenti versate dalla Sinclair Oil Company ai ministri Gabriello Carnazza e Orso Maria Corbino, entrambi massoni di Piazza del Gesù. A distanza di quasi cento anni da questo efferato delitto di stato, non c’è ancora una parola definitiva sulle motivazioni che hanno spinto ad uccidere Giacomo Matteotti, divenuto, con la sua morte, un simbolo dell’antifascismo e della libertà.
22 marzo
PRIMO PIANO
World Water day 2019 “Acqua per tutti” è il titolo dato quest’anno alla Giornata mondiale dell’acqua. Il tema della World Water Day 2019 è “Non lasciare nessuno indietro”. Secondo il proclama delle Nazioni Unite anche per l’accesso a questa risorsa fondamentale per la vita deve valere la promessa di solidarietà al centro dell’agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile. Le immagini che provengono da tante parti del mondo ci raccontano però, ogni giorno, che per molti l’acqua buona è ancora un miraggio. Nel 2010 l’ONU ha riconosciuto “il diritto alla sicurezza e alla pulizia dell’acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari come un diritto umano essenziale per il pieno godimento della vita e di tutti gli altri diritti basilari.” Questa petizione dovrebbe assicurare che chiunque, senza discriminazioni, possa disporre di acqua sufficiente, sicura, fisicamente accessibile per l’uso personale e domestico; un uso che include l’acqua potabile per l’igiene personale e domestica, il lavaggio degli indumenti e la preparazione dei cibi. Un diritto che non è assicurato a tutti nello stesso modo, l’ONU ha stilato un elenco dei motivi “che fanno sì che certe persone siano più svantaggiate di altre quando si tratta di accedere all’acqua e molti di questi sono comuni a tanti altri ambiti in cui esistono gravi diseguaglianze: sesso, razza, etnia, religione, nascita, casta, lingua e nazionalità, disabilità, età e stato di salute”. Uno dei fattori che sempre più influisce sul diritto all’acqua è quello ambientale connesso sia all’inquinamento, sia ai cambiamenti climatici con l’estremizzarsi di eventi catastrofici come la siccità e le inondazioni, come quella causata dal ciclone Idai che ha seminato morte in Mozambico. La difficoltà ad approvigionarsi di acqua potabile è spesso dovuta ad una crisi economica e politica. Il rapporto “Acqua sotto attacco” (Water Under Fire) mostra i tassi di mortalità in 16 paesi durante conflitti prolungati e rivela che, nella maggior parte, i bambini sotto i 5 anni hanno probabilità 20 volte maggiori di morire per malattie legate alla diarrea, dovuta alla mancanza di accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sicuri, che per violenza diretta. Secondo gli ultimi dati, nel mondo 2,1 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua sicura e 4,5 miliardi di persone non usano servizi igienico-sanitari sicuri. Senza acqua sicura e servizi igienico sanitari efficaci, i bambini sono a rischio di malnutrizione e malattie prevenibili che comprendono anche diarrea, tifo, colera e polio. Le ragazze sono particolarmente colpite, perché sono esposte a violenza sessuale mentre raccolgono acqua. Settecento milioni di persone in tutto il mondo potrebbero essere entro il 2130 i nuovi profughi provocati dalla drastica mancanza d’acqua. I più ricchi ricevono generalmente alti livelli di servizi WASH (acronimo che sta per WAter, Sanitation e Hygiene, cioè acqua, fognature e igiene), servizi essenziali a basso costo, mentre i poveri pagano un prezzo molto più alto per un servizio di qualità simile o inferiore.
DALLA STORIA
Il 22 marzo Johann Gutenberg completa la stampa del primo libro: la Bibbia.
(Una delle copie della Bibbia di Gutenberg esposta alla Huntington Library di Pasadena, negli Stati Uniti)
La Bibbia di Gutenberg fu il primo libro importante stampato in serie in Europa con l’ausilio della stampa a caratteri mobili e segnò una trasformazione nella creazione dei libri. Prima della metà del XV secolo erano copiati a mano o prodotti usando matrici di legno; appartenevano a persone facoltose o a monasteri che ne producevano la maggior parte. Erano talmente rari che persino le opere più famose potevano essere lette solo da pochi. Poi Joann Gutenberg inventò la macchina da stampa, che rivoluzionò la produzione, introducendo in Europa la possibilità di realizzare velocemente più copie dello stesso test. Alla fine del XV secolo, in tutto il continente circolavano ormai milioni di libri. Gutenberg aveva adottato il concetto della stampa a caratteri mobili, inizialmente messo a punto dai cinesi: e, benché in precedenza avesse “stampato” alcuni pamphlet, la Bibbia fu il primo libro prodotto. Ideò 300 caratteri diversi, comprese le maiuscole e i segni di interpunzione, probabilmente usando un rudimentale sistema di colata in sabbia, in cui la lega metallica era versata in stampi. Ogni pagina della Bibbia richiese circa 2.500 caratteri, disposti fianco a fianco in una cornice utilizzabile per riprodurre la stessa pagina in qualsiasi numero di copie. Per stampare su carta o vellum, inventò un particolare inchiostro a base di olio (mentre gli amanuensi usavano inchiostri a base d’acqua), che si applicava ai caratteri con un tampone di cuoio. Si ritiene che la tiratura iniziale della Bibbia fosse di almeno 180 copie, di cui 145 su carta e il resto su vellum. Le prime furono stampate su carta fine prodotta a mano e importata dall’Italia (ogni pagina recava un’immagine in filigrana impressa dallo stampo: un bue, un toro o grappoli d’uva). La Bibbia di Gutenberg era una copia della Bibbia vulgata in latino, tradotta da san Girolamo nel IV secolo. Fu stampata dopo il 1453, quando spinse gli eruditi a disperdersi in Occidente portando con sé le proprie traduzioni in greco e latino. Nell’Europa del XV secolo l’invenzione della stampa a caratteri mobili ebbe un impatto sociale enorme. L’alfabetizzazione non fu più appannaggio di pochi e la diffusione della conoscenza attraverso i libri aumentò grandemente il numero delle persone colte. I governanti furono sfidati da coloro che ormai avevano acquisito una migliore conoscenza della politica nazionale. In particolare la Chiesa che si trovò contrapposta a voci critiche che osteggiavano parti della sua dottrina e della sua disciplina.
(Gutenberg disegnò le serie di caratteri chiari ed eleganti, noti oggi con i nomi di Textualis, o Textura e Schwabacher. Il testo come si vede qui, è giustificato, cioè i margini sono dritti (un’altra sua innovazione). Ogni pagina contiene due colonne di 42 righe: è anche nota come “la Bibbia a 42 righe”. Le lettere iniziali, o rubriche, in origine erano stampate in inchiostro rosso, ma per risparmiare tempo Guntemberg decise di lasciare lo spazio in bianco e farle disegnare agli amanuensi. Un altro motivo era per ottenere il gradimento di lettori abituati ai manoscritti miniati. La qualità della miniatura differiva tra le copie, secondo il prezzo che l’acquirente era disposto a pagare)
Fonte: ”I libri che hanno cambiato la storia”. Ed. Gribaudo
Mary Titton
20 marzo
PRIMO PIANO
L’arrivo della primavera ci regala, dopo quella di febbraio, l’ultima “superluna” piena del 2019, la più grande dell’anno, che sarà osservabile nella notte tra il 20 e il 21 marzo. L’equinozio, in anticipo di un giorno, accompagnerà l’ultima superluna del 2019. Spiega all’ANSA l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope: “Questo slittamento è dovuto a una lenta deriva del calendario gregoriano legata all’esigenza di dovere approssimare al meglio la durata dell’anno astronomico. Intorno al 2048 l’equinozio cadrà addirittura il 19. Lo stesso calendario, però, prevede un aggiustamento nel 2100”. La coincidenza fra Superluna ed equinozio di primavera, quando cioè il giorno e la notte hanno esattamente la stessa durata, non accadeva dal 2000 e non tornerà fino al 2030. Sempre Masi aggiunge: “Quest’anno, infatti, l’equinozio di Primavera cade il 20 marzo, alle 22:58. Pochissime ore dopo, il 21 marzo alle 02:43, la Luna raggiungerà la fase piena. Questa coincidenza di date non avveniva dal 2000 e non riaccadrà prima del 2030. Ma in questi due casi non si tratta di Superlune. Quindi, l’evento del 20 marzo è abbastanza raro. Un’occasione per alzare lo sguardo al cielo, soprattutto nei centri urbani, dove spesso l’illuminazione limita la vista del firmamento. Proprio per questo – rileva – l’Unione Astronomica Internazionale (Iau) sta organizzando per il 16 maggio, giornata mondiale della luce per l’Unesco, l’iniziativa Cieli bui per tutti.” Nella notte fra mercoledì e giovedì il nostro satellite sarà al massimo della sua luminosità, come è noto, l’orbita della Luna è ellittica, quindi la sua maggiore lucentezza coincide con una minore vicinanza alla Terra. In quest’occasione, il disco lunare sarà per il 14 % più grande e per il 12% più splendente. Secondo i calcoli astronomici oggi è il giorno in cui le ore di luce coincideranno con quelle di buio.
DALLA STORIA
Chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin?
… L’agguato. 20 marzo 1994. L’ultima giornata di Ilaria e Miran comincia con il volo da Bosaso a Mogadiscio su un aereo dell’Unosom, il contingente dell’ONU. Sbarcano alle 13,30 e dopo mezz’ora prendono le stanze 203 e 204 all’hotel Sahafi. Depositano tutto il materiale, fanno la doccia e si cambiano i vestiti. Ilaria parla con gli inviati dell’agenzia francese Afp e di quella statunitense Ap: siccome è stata assente da Mogadiscio vari giorni, chiede gli sviluppi della situazione. Poi chiama con il satellitare la madre e la redazione del Tg3. “Era mezzogiorno e mezzo, le due e mezzo ora di Mogadiscio”, ricorda Luciana Alpi, la madre. “Mi ha detto che era tornata da poco da Bosaso e che era stanca; ma stava bene. Ha detto anche che sarebbe andata a farsi una doccia e che la sera avrebbe mandato un servizio. Poi, io le ho chiesto: “Quando torni?”. “Vorrei trattenermi altri due giorni dopo la partenza delle truppe italiane. Voglio vedere come si mettono le cose”. Al collega del Tg3 Flavio Fusi, Ilaria preannuncia che ha un ottimo e interessante servizio per l’edizione serale. “Era molto raro, commentano i genitori di Ilaria, che lei si esprimesse così. Vuol dire che aveva un servizio bomba, qualcosa di veramente speciale”. “Un quarto d’ora dopo, erano le tre meno un quarto”, testimonia il giornalista di “Panorama” Giovanni Porzio, “Ilaria e Miran salgono in macchina. Ilaria ha bisogno urgente di parlare con il collega dell’Ansa Remigio Benni. Sull’auto c’è l’autista e un solo uomo di scorta armato di kalashnikov. Miran si siede davanti; Ilaria va dietro di lui, accanto alla scorta. Dal “K4” (come convenzionalmente viene definito il quarto chilometro) credo che abbiano preso la via dell’Arco trionfale, ma avrebbero potuto anche passare per il porto. Attraversano il check point dei caschi blu pachistani all’Obelisco. Sono proprio i soldati pachistani a notare per primi dietro l’auto dei due giornalisti una Land Rover azzurra con sei uomini armati a bordo. Alle tre arrivano all’hotel Amana. Scendono dall’auto ed entrano nella hall dell’albergo. Chiedono al portiere di Benni o di altri colleghi italiani. Ma Benni, Odinzov della “Repubblica”, Cervone e Maurizi del “Tg1” si erano trasferiti a Nairobi, in Kenya. Non trovando nessuno, perché gli unici giornalisti italiani presenti in quel momento in città io e Gabriella (l’inviata del Tg4” Gabriella Simoni), lasciano l’Aman e risalgono in macchina”. Alle tre e dieci, la sequenza dell’esecuzione scatta con un meccanismo rapido e inesorabile. “L’auto con a bordo Miran e Ilaria, continua Porzio, esce dal recinto dell’albergo e si avvia verso l’incrocio con il viale delle Poste. Poco prima del crocevia la macchina, è bloccata dalla Land Rover piena di somali armati. L’autista tenta la retromarcia, ma gli assalitori balzano a terra e cominciano a sparare”. La dinamica dell’esecuzione è chiarissima, salvo su un punto: secondo alcune testimonianze entra in scena una seconda auto, una berlina bianca si affianca a quella di Ilaria e Miran, c’è una sparatoria durante la quale uno degli uomini della scorta ferisce uno o due assalitori, poi il suo kalashnikov gli si inceppa e non gli resta che fuggire. Nessun dubbio per Porzio e altri testimoni, si è trattato di “un’esecuzione mafiosa”. Giancarlo Marocchino, il primo italiano accorso sul luogo dell’agguato, considerato il “padrone” di Mogadiscio, dice alla televisione svizzera: “Non è stata una rapina. Si vede che sono stati in certi posti dove non dovevano andare. È stato un agguato bello e buono. Premeditato”. Man mano si precisano meglio i particolari del comportamento dei killer. Quando restano i padroni del campo, si avvicinano all’auto. Un proiettile sparato a distanza ravvicinata, lo confermeranno i medici militari della portaelicotteri Garibaldi sfonda il parabrezza e colpisce alla testa Miran. Poi aprono lo sportello posteriore. Ilaria è piegata in avanti, si protegge la faccia con la mano destra. Il colpo del killer le arriva da dietro. Racconta Porzio: “Il personale di sicurezza dell’Amana esce e spara di corsa verso il commando somalo, che si dilegua. I guardiani si precipitano al porto e chiedono soccorso ai caschi blu nigeriani: senza successo, però. Ma non desistono. Nuovo tentativo alla sede del Cisp. Questa volta via radio riescono a mettersi in contatto con Marocchino:” Hanno ammazzato due italiani vicino all’Amana!”. Il faccendiere italiano va immediatamente sul posto. Sono passati venti minuti, forse qualcosa di più, dall’agguato”. I tre block notes spariti. Fin qui la storia dell’assassinio. Poi comincia un’altra storia, tipicamente italiana, la storia dell’occultamento della verità che Ilaria voleva raccontare e che era così pesante da esserle costata la vita. Gabriella Simoni e Giovanni Porzio, i giornalisti che si occupano di prelevare i corpi e di portarli, insieme ai loro effetti personali, a bordo dell’incrociatore “Garibaldi”, dichiararono al magistrato alle 15,45: “Arriviamo sul posto. La strada è piena di gente, qualche poliziotto somalo, arrivato dalla vicina ambasciata italiana, ora comando della polizia di Mogadiscio. I corpi di Ilaria e Miran sono ancora nell’auto. Sono ancora caldi, ma nessun segno di vita. … Sul tavolino nella stanza di Ilaria, come si vede chiaramente anche dalle immagini, i due giornalisti trovano cinque block notes: due scritti e tre bianchi. C’è anche un taccuino fitto di appunti, che Ilaria aveva con sé al momento dell’attentato, “quello poi consultato alla presenza dei militari sulla nave, precisa Porzio, che, per quanto posso ricordare, era stato riposto nella borsa con i documenti di Ilaria (una Mandarina Duck nera) o, in alternativa, assieme alle videocassette registrate da Miran”. … La Simoni afferma di avere esaminato personalmente i due block notes: “Uno era totalmente annotato e sull’altro comparivano molte annotazioni”. E nel materiale inviato da Mogadiscio risultano cinque block notes. Ai genitori ne sono stati restituiti soltanto due: uno in bianco e uno con alcuni, pochi, appunti. Simoni e Porzio dichiarano di non aver mai ricevuto gli elenchi del materiale. Percorso mortale. Ilaria e Miran volano a Bosaso, l’intervista col sultano migiurtino in cui Ilaria intravede la verità: forse ora sa chi ha sempre giocato con la pelle dei somali, chi ha fatto patti con i signori della guerra per vendere armi sotto copertura delle navi da pesca fornite dalla cooperazione. 20 marzo: ritorno in aereo a Mogadiscio e telefonata al Tg3 per annunciare il servizio. Gli assassini non le danno il tempo di trasmetterlo. L’agguato ha le tipiche modalità dell’esecuzione. Aprono il fuoco contro la scorta che fugge, si avvicinano ai due inermi inviati del Tg3, sparano da vicino mirando alla testa. (Tratto da “Ilaria Alpi – vita e morte di una giornalista”, supplemento al n° 10 di “Avvenimenti”, 1995). Le inchieste della giornalista si sarebbero soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici e, che avrebbe visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: la Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali. Nel novembre precedente l’assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia ed in circostanze misteriose, il sottoufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. A Saxa Rubra, nel cassetto della scrivania di Ilaria, è stato rinvenuto un blok notes nel quale la giornalista si chiedeva dove fossero finiti i 1.400 miliardi di lire della Cooperazione in Somalia? Dopo una serie infinita di depistaggi, malgrado la strenua battaglia dei genitori della giornalista, proseguita, poi, dopo la scomparsa del padre, con incrollabile determinazione dalla madre fino al giorno della sua morte all’età di 85 anni, la condanna a 17 anni di carcere di un innocente (capro espiatorio), uno degli errori giudiziari tra i più clamorosi mai avvenuti, a distanza di venticinque anni, la verità non emerge e il delitto rimane impunito.
Mary Titton
19 marzo
PRIMO PIANO
Don Peppe Diana: “Per il mio popolo non tacerò”.
Alle 7:20 del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, don Giuseppe Diana veniva ucciso dalla camorra per il suo impegno civile, religioso e antimafia. Questo prete scout della diocesi di Aversa fu colpito mentre stava per celebrare la messa nella chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, vicino a Napoli e morì all’istante, raggiunto da cinque proiettili: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Don Diana, che era nato nel paese campano, dove era parroco dal 19 settembre 1989, negli anni del dominio assoluto del clan dei Casalesi, gestito principalmente dal boss Francesco Schiavone, detto Sandokan, cercava di aiutare la gente a liberarsi dal potere malavitoso, denunciando i traffici illeciti di sostanze stupefacenti, le tangenti sui lavori edili, l’infiltrazione negli enti locali degli uomini del clan che gestivano fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare “camorra imprenditrice”. Esercitando una forma di paternità spirituale, si preoccupava soprattutto dei giovani educandoli a spezzare i legami criminali perché potessero aprirsi a nuove possibilità di crescita personale e di riscatto sociale. Don Giuseppe era considerato pericoloso, perché aveva deciso di usare la sua missione pastorale, il suo impegno di cittadino, il Vangelo e la Costituzione per suscitare una rivolta delle coscienze contro la criminalità organizzata, che aveva contatti anche con pubblici amministratori e qualche uomo di Chiesa che faceva inchinare la statua del Santo davanti alle loro case. Il giorno di Natale del 1991 don Peppe Diana aveva diffuso una lettera, letta in tutte le chiese della zona, intitolata appunto “Per amore del mio popolo”. Era un manifesto che annunciava, a voce alta, l’impegno contro la criminalità organizzata, definita una forma di terrorismo, che stava diventando componente endemica della società. Parole ed impegno che gli costarono cari. Dopo averlo ucciso, i malavitosi tentarono anche di depistare le indagini e di diffamarlo, come le mafie fanno con tutte le loro vittime, accusandolo di essere frequentatore di prostitute, pedofilo e custode delle armi destinate a uccidere il procuratore Cordova. Il 30 gennaio 2003 il mandante dell’omicidio è stato riconosciuto in Nunzio De Falco, condannato in primo grado all’ergastolo. De Falco provò a incastrare il rivale Schiavone, ma l’autore materiale dell’omicidio, Giuseppe Quadrano, collaborò con la giustizia, rivelando la verità. Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell’omicidio di don Peppe Diana. Oggi, 25 anni dopo il suo assassinio, 15000 persone, tra cui mgliaia di studenti e pù di 7000 scout provenienti da tutte le parti d’Italia, hanno percorso le vie di Casal di Principe in sua memoria, attestando con la loro presenza che la sua morte non è stata vana e il suo impegno per la legalità e l’onestà è ancora vivo e fruttuoso.
DALLA STORIA
Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS che diresse la realizzazione della Soluzione finale.
Eichmann, classe 1906, entrò nelle SS nel 1933 e più tardi ne divenne l’esperto della questione ebraica facendo una rapida carriera all’interno dell’organizzazione. Fu eletto capo della sezione ebraica della Gestapo nel ’39. Nel 1939-40, elaborò il metodo con cui furono compiute le deportazioni degli ebrei dalla Germania e dagli altri paesi occupati. Per ordine di Reinhard Heydrich progettò e scrisse i protocolli della conferenza di Wannsee, nel corso della quale i vari ministri del governo tedesco seppero della Soluzione finale e del ruolo che in essa avrebbero avuto. L’ufficio di Eichmann, la sezione IV b4 della Gestapo, emanò gli ordini di deportazione degli ebrei nei campi di lavoro forzato, di concentramento e di sterminio. Un lavoro, come testimoniarono le prove al processo, che lo zelante ufficiale nazista svolse con estrema efficienza e meticolosità e questa sua determinazione era stata particolarmente evidente nel massacro della comunità ebraica ungherese. Alla fine della guerra, Eichmann fuggì in Sud America. Nel 1960 i servizi segreti israeliani lo catturarono in Argentina e lo portarono clandestinamente in Israele dove, nel ’61, venne processato da un tribunale israeliano e condannato, per crimini contro il popolo ebraico e contro l’umanità, con la morte per impiccagione il 31 maggio 1962. Eichmann più precisamente fu accusato di quattro tipi di crimine, secondo la legge del 1950 che riguardava i nazisti e i loro collaboratori: 1) crimini contro la nazione ebraica; 2) crimini contro l’umanità; 3) crimini di guerra; 4) appartenenza a un’organizzazione nemica, soprattutto le SS e la Gestapo, che al processo di Norimberga erano state definite organizzazioni criminali. “Celebrare il processo in Israele, davanti a un tribunale israeliano, simboleggiò che il nuovo stato rappresentava la nazione ebraica in ogni questione riguardante l’Olocausto; rappresentava un diritto che era stato inutilmente rivendicato nell’accordo del 1952 con la Germania per risarcimenti, quando Israele desiderava essere considerato l’erede legittimo dei milioni di morti dell’Olocausto. Fin dall’inizio venne deciso che il processo avrebbe avuto un raggio di indagine molto ampio e sarebbe servito a chiarire la storia dell’Olocausto in generale, non solo il ruolo di Eichmann nelle atrocità che erano state commesse. Dopo l’impiccagione, il corpo di Eichmann fu cremato e le ceneri vennero sparse nel Mediterraneo al di fuori delle acque territoriali israeliane. In Israele, il processo ebbe un effetto decisivo sulla presa di coscienza della gente nei confronti dell’Olocausto, specialmente per quanto riguardava la nuova generazione che fino ad allora aveva avuto la tendenza a considerare le vittime dell’Olocausto come pecore andate volontariamente al macello. Con tutti i suoi aspetti emotivi e morali, il processo chiarì sia la complicata situazione degli ebrei sotto il regime nazista sia il significato della Resistenza ebraica. Ebbe anche altre conseguenze: il sistema scolastico d’Israele cominciò a trattare più a fondo il tema dell’Olocausto; dopo la cattura e il processo di Eichmann il Giorno della Memoria, indetto nel 1959, divenne davvero un giorno di lutto nazionale e nelle università del paese vennero avviati numerosi progetti di ricerca sui vari aspetti dell’Olocausto. Quel processo fu anche un incentivo per il governo tedesco a portare in giudizio dozzine di criminali nazisti negli anni Sessanta”. (Hanna Yablonka, storica dell’Olocausto). Il clamoroso processo di Eichmann a Gerusalemme, rimanda immediatamente alle riflessioni delle filosofa Hanna Arendt, presente in tutte le fasi del processo, come inviata per il periodico New Yorker, sulla natura, lei riteneva, non perversa dell’ imputato. Non un mostro ma in fondo un uomo banalmente comune capace, davanti a una propaganda convincente, di diventare uno spietato esecutore d’ordini incurante del male indicibile che provoca agli altri se questo è funzionale alla causa o se, in qualche modo, viene giustificato al fine di ottenere un obiettivo che si fa passare per “necessario”. (A tale proposito negli anni Settanta, in America, fecero un famoso esperimento in cui alcuni attori fingevano di ricevere delle scosse da alcune persone del pubblico, gente comune, a cui era stato detto che quelle scosse erano necessarie per verificare un’importante ricerca utile all’umanità. Ebbene, pochissime furono le persone che si rifiutarono di dare la scossa che, di volta in volta, aumentava di intensità provocando un dolore sempre più intenso. La maggioranza delle persone rimase incurante dei lamenti degli “attori” preferendo obbedire a quanto gli era stato detto di fare! “Il linguaggio burocratico è la mia unica lingua” affermava Eichmann come imputato. “… era la sua lingua perché egli era veramente incapace di pronunciare frasi che non fossero clichè … ” commenta la Arendt. Il suo comportamento così dimesso e comune (ha pure il raffreddore) non lo fa apparire come ci si aspetterebbe, un crudele e spietato mostro ma sembra egli sia un uomo interessato solo alla carriera e incapace di pensare ed esercitare il senso critico, di rendersi conto fino in fondo delle enormità di cui è complice. … Quanto più lo si ascoltava tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a una incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza di altri e, quindi la realtà in quanto tale non lo toccavano.” Un uomo insomma mediocre e banale. Su questo tema la Arendt scrisse il famoso libro “La banalità del male”, nel quale puntualizza che il “Male” non è radicale. “Esso è estremo, non possiede profondità può invadere tutto e devastare il mondo intero precisamente perché si propaga ed infetta. … Esso sfida il pensiero perché il pensiero attinge alle profondità, perviene alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustrato perché non trova niente. È qui la sua banalità, solo il Bene ha profondità e può essere radicale”. Queste affermazioni di carattere filosofico le attirarono le critiche da parte della maggioranza della comunità ebraica che la accusò di aver tradito la sua gente ritenendo che Eichmann in realtà non era soltanto “una semplice rotella dell’efficiente ingranaggio di sterminio”, come egli voleva far credere al processo, ma che in realtà, e c’erano testimonianze che lo confermavano, egli era un essere privo di umanità, e per questo un mostro, come tutti i responsabili delle atrocità del nazionalsocialismo.
Mary Titton
18 marzo
DALLA STORIA
Tamara Lempicka: la travolgente libertà di una donna emancipata.
Nell’epoca effervescente e trasgressiva definita “Belle Epoque” si affermava un’artista-diva che sembrava uscire da un romanzo di Francis Scott Fitzgerald: Tamara Lempicka che incarnerà, con l’ostentazione di una personalità anticonformista e coi suoi dipinti permeati di glamour e talento innovativo, lo spirito lussuoso, decadente e scintillante dei ruggenti anni Venti. Ribelle alle norme borghesi, la pittrice era una donna padrona del suo destino: libera, viaggiatrice, alla moda, progressista, eccentrica, elegante. I fatti biografici della sua vita sono circondati da un alone di mistero, orchestrato abilmente da lei stessa, a partire dall’incertezza sulla sua data di nascita. Figlia di una polacca e di un ebreo russo, era nata intorno al 1898, si era sposata due volte, ebbe una figlia, molti amanti tra uomini e donne, dichiarava apertamente la sua bisessualità “Vivo una vita ai margini della società”, diceva di sé in perfetto stile decadente “e per gli outsider le regole della società non valgono”. Attenta alla sua immagine, sempre chic e sofisticata, si ispirava a un ideale femminile bello e altero, indossava voluttuose pellicce, perle e diamanti, ciglia finte, unghie perfettamente laccate di rosso. La “Dea dagli occhi di acciaio nell’era dell’automobile”, come la definì nel 1978 il New York Times riferendosi al suo famoso “autoritratto” a bordo della Bugatti verde (in realtà lei possedeva una piccola Renault di un giallo sgargiante), “Quel che conta” diceva “è che io sia abbigliata come la macchina, e la macchina come me”, aveva un temperamento intenso, una personalità forte e carismatica, da dominatrice che, si accompagnavano a volte a crisi depressive, ma che affermavano di diritto, in anticipo sui tempi, l’emancipazione femminile e che la consacrarono come icona della donna moderna.
“Moderna nel linguaggio, moderna negli atteggiamenti, moderna nelle strategie” dice Gioia Mori, nota a livello internazionale per le ricerche sull’artista, “è tra gli artisti la prima a capire l’importanza della comunicazione e, con metodi prelevati dal mondo del cinema, appronta studiate campagne stampa per affermare il proprio nome e la propria arte. … Il termine moderno è quello che profondamente restituisce il senso della personalità della Lempicka. Il mondo sofisticato della moda, il mondo della grafica pubblicitaria, il bianco e nero delle fotografie di Tina Modotti, il mondo del cinema, il mondo delle città del futuro con i grattaceli di New York sullo sfondo, l’ambiguità di amori saffici, l’idea moderna della donna che fuma, fa le gare automobilistiche, gestisce affari e agisce con spregiudicatezza, tutto si confonde nell’universo caleidoscopico di Tamara, in quella frenesia creativa che risponde alle sollecitazioni di una realtà nuova”. Nella rivista “Donna” nel 1930, Luigi Chiarelli la descrive così: “Alta, morbida ed armoniosa nelle movenze, tutta accesa di vita, col volto illuminato dai grandi occhi un poco artificiali, con la bocca facile al sorriso e rossa dei rari rouges parigini, ella fa convergere sulla sua persona tutti gli sguardi e tutte le curiosità. Che passi inosservata non è possibile tanto splende nei colori dei suoi abiti, nei toni della pelle, nella femminilità raggiante da tutta la persona”. Nel settembre del 1926, l’amica Mananà Pignatelli le presentò D’Annunzio. Lo scrittore le fece una corte serrata, senza risultato. Così Tamara commentò all’editore Ricci: “Ero una donna bella e giovane e davanti a me avevo un vecchio nano in divisa”. Le sue opere, pur nel solco della corrente dell’Art Déco, “legate alla pittura mondana”, appaiono originalissime ed uniche per il suo stile pittorico, affascinante ed inconfondibile. La pittrice percepisce e rielabora nei suoi dipinti la vita e le mode del suo tempo con fantasia e maestria, ma non senza rigore formale. La sua pittura è fortemente visiva, sensuale e scandalosa, è splendida la sequenza di tensione erotica dedicata alla bella Rafaela, uno dei suoi grandi amori, ed è caratterizzata da un’anatomia sfigurata e deformata all’interno di linee curve che disegnano archi e cerchi di matrice cubista. La potente costruzione scultorea delle figure si fonde in un raffinato decorativismo ed un’aristocratica attenzione per i dettagli come i guanti, le raffinate lingerie, i gioielli, ecc. La gamma cromatica è molto ridotta, gli spazi della composizione sono angusti, i volti delle figure sono definiti da ombre nette e caratterizzati da occhi distratti, malinconici, che tradiscono un disagio psicologico. Le sue donne sono belle, ricche, eleganti, seducenti ma irraggiungibili. Questa pittura raffinata, fredda, teatrale denuncia anche il malessere dell’uomo, il disagio del mondo moderno, il senso estremo del vivere che forse prelude all’imminente tragedia della guerra. Quando la pittrice morì, il 18 marzo 1980, a Cuernavaca, in Messico, in linea con la sua vita esplosiva, le sue ceneri vennero gettate nel cratere del vulcano che vedeva in lontananza dalle finestre di casa sua.
(Tamara Lempicka e Salvador Dalì. New York, 1941)
Mary Titton
16 marzo
PRIMO PIANO
Nuova Zelanda: strage in due moschee di Christchurch.
In due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, durante le preghiere del venerdì è avvenuta una strage che ha provocato 49 morti e 48 feriti. L’attentatore è un australiano di 28 anni, Brenton Tarrant, il quale ha ripreso la strage in diretta streaming e l’ha pubblicata su Facebook con un video, che la polizia ha invitato a non condividere. Alle 13:45 locali, Tarrant è entrato nella moschea di Al Noor sparando all’impazzata con la sua arma automatica e lasciando sul terreno 42 corpi. Poco dopo, un altro attacco, alla moschea di Linwood, a pochi chilometri di distanza: altri 7 morti. I testimoni raccontano scene terribili: “Ci sono stati tre colpi rapidi, dopo 10 secondi la raffica è partita di nuovo. La gente ha cominciato a correre fuori, alcuni erano coperti di sangue”, dice un palestinese. Un altro testimone racconta che stava pregando quando ha sentito i primi spari: “Ho visto anche sparare sui bambini. C’erano cadaveri dappertutto”. Un sopravvissuto racconta: “Sentivo le urla strazianti di chi veniva colpito a morte. Sono rimasto immobile, pregando Dio di essere risparmiato. Il killer ha ucciso alla mia destra e alla mia sinistra. Poi si è spostato nella stanza dove pregavano le donne e da lì sono arrivate altre urla che non riesco a dimenticare”. Poco prima delle stragi, Tarrant aveva postato sui social un manifesto di 87 pagine “anti-immigrati e anti-musulmani”, dal titolo “The great replacement”, che è stato poi bloccato. Il killer dice di essere un australiano bianco di 28 anni e di avere scelto la Nuova Zelanda a causa della sua posizione, per dimostrare che anche le parti più remote del mondo non sono esenti da “immigrazione di massa”. Tarrant, nei suoi ragionamenti distorti, afferma che è in atto un “genocidio dei bianchi” causato “dall’immigrazione di massa” e definisce il suo gesto come una “vendetta”, cominciata a maturare in seguito all’attacco terroristico di Stoccolma, il 7 aprile 2017, quando una ragazza fu uccisa “da un islamista” mentre andava a scuola con sua madre. Parla anche dei suoi modelli e sodali di lotta (che definisce “etnosoldati”) e tra loro cita l’autore della strage di Utoya in Norvegia, Andres Breivick, e l’autore dell’attacco a Macerata, Luca Traini. La premier Jacinda Ardern ha reagito subito con fermezza, ha descritto l’accaduto come “un atto di violenza senza precedenti” e “uno dei giorni più bui della Nuova Zelanda”, ha detto poi che tra le vittime potrebbero esserci rifugiati e migranti, aggiungendo: “Loro hanno scelto la Nuova Zelanda come la loro casa ed è la loro casa. Loro sono noi, le persone che hanno compiuto questo atto di violenza non lo sono. Non c’è spazio per loro in Nuova Zelanda”. Ardern ha poi annunciato che sarà cambiata la legge sul porto d’armi.
15 marzo
PRIMO PIANO
Mobilitazione degli studenti in tutto il mondo per la difesa dell’ambiente.
In 105 Paesi del mondo e in oltre 2000 città gli studenti oggi, venedì 15 marzo, sono scesi in piazza contro le emissioni di Co2, che provocano i cambiamenti climatici, e manifestano insieme a Greta Thunberg per spingere i governi a fermare il surriscaldamento globale. A ispirare e promuovere la mobilitazione, è stata, infatti, la giovanissima Greta Thunberg, l’attivista sedicenne svedese candidata al Nobel per la Pace, che ha dato il via ai “#FridaysForFuture” (gli scioperi del venerdì) e ha ammonito i grandi della Terra al vertice delle Nazioni Unite sul clima, in Polonia e al World Economic Forum di Davos, in Svizzera. In occasione della prima manifestazione globale per il clima, Greta ha spiegato le ragioni della sua protesta, ribadendo che il suo obiettivo è quello di “far capire agli adulti che stanno rubando il futuro dei giovani” e dicendosi anche sopresa e contenta per la vasta eco che hanno avuto le sue parole. Spettacolare la marea colorata di giovani che da Washington a Mosca, da Tromso a Ivercargill, da Beirut a Gerusalemme, da Shanghai a Mumbai hanno sfilato con i loro cartelli con su scritto: “Non c’è un pianeta B”, “Non c’è un piano B”, “Siamo ancora in tempo”, chiedendo a gran voce ai governi dei rispettivi Paesi politiche più incisive contro il riscaldamento globale, in particolare per ridurre le emissioni di anidride carbonica, uno dei principali gas serra. In Italia la mobilitazione per il clima si è svolta in ben 182 città piccole, medie e grandi: a Roma cortei di molte scuole medie inferiori, Licei e Istituti, tra gli interventi quello del geologo Mario Tozzi, unico adulto al quale è stato concesso il microfono, che ha spiegato il rapporto degli scienziati dell’IPCC (il panel intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici), in particolar modo la necessità di agire subito per contenere l’aumento del riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi. Anche nelle altre città d’Italia, da Milano a Bologna, a Firenze, a Napoli, Bari, Taranto, Palermo i giovanissimi attivisti hanno attraversato le città con l’obiettivo che lo sciopero del 15 marzo segni l’inizio di una nuova coscienza collettiva e di una politica globale di difesa e di sviluppo.
14 marzo
DALLA STORIA
Los Reyes Católicos.
(Rilievo raffigurante i Re Cattolici, Isabella e Ferdinando. Cappella reale. Cattedrale di Granada)
Il 14 maro 1492 la regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”, ordina a 150.000 sudditi ebrei di convertirsi al cristianesimo, pena l’espulsione dal regno. Isabella di Castiglia e il marito Ferdinando d’Aragona avevano affidato, nel 1483, all’inquisitore generale Tomás de Torquemada il compito di trovare e punire i “conversi” e i “moriscos” (ebrei e mori che ufficialmente erano convertiti al cristianesimo ma continuavano in segreto a praticare le loro religioni). Se le motivazioni di Isabella furono probabilmente dettate dal suo fervore religioso, di certo erano di carattere politico quelle di Ferdinando, che intendeva indebolire l’opposizione interna al suo regno ed eliminare i debiti che suo padre aveva contratto con i banchieri ebrei. Una volta ottenuta la conversione di circa 130.000 conversi, il 31 marzo del 1492 Isabella e Ferdinando firmarono un decreto di espulsione dal regno per tutti i non convertiti. Fin dall’VIII secolo, a partire dalla prima jihad, o guerra santa, la penisola iberica era stata ininterrottamente un teatro di guerra tra musulmani e cristiani. Man mano che le conquiste del regno di Aragona e dei principi cristiani si consolidavano, si poneva il problema della convivenza religiosa che, per tutto il Medioevo, senza particolari problemi rispetto ad altri paesi europei, aveva visto vivere insieme musulmani, cristiani ed ebrei. Sul finire del XIV secolo per gli ebrei, la situazione iniziò a peggiorare; a Barcellona e in altre città spagnole, nell’estate del 1391, un’ondata di antisemitismo sconvolse i quartieri ebraici in cui gli abitanti di fede ebraica vennero costretti a scegliere tra il battesimo o la morte, dando luogo al fenomeno dei “conversos”. Questa imposizione provocò migliaia di morti. La ferocia dei numerosi massacri indusse lo stesso Papa Nicolò V a condannare questo brutale comportamento con la bolla “Humani generis inimicus”, nella quale affermava che la razza e la discendenza non potevano essere usate come pretesti per discriminare gli ebrei. A seguito di questi fatti, in seno alla società spagnola, si determinò una commistione religiosa giudaico-cristiana in cui i molti “conversi” seguivano al contempo usanze cristiane ed ebree. Molti di loro, per esempio, continuarono a vivere nei quartieri ebrei per mantenere i legami e le tradizioni familiari, pur battezzando e allevando come cattolici i loro figli. Quando salì al trono, nel 1474, Isabella di Castiglia, la convivenza fra ebrei e cristiani si era fortemente deteriorata ed esplose con l’incendio del 1477, provocato da due neoconvertiti, a Llerena. L’incendio fornì al re cattolico Ferdinando il pretesto per dare il via alle persecuzioni contro gli ebrei. Nel 1478 il papa Sisto IV emanò la bolla, richiesta dai re cattolici, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, che autorizzava la Corona spagnola ad istituire un tribunale che avesse giurisdizione esclusivamente sui cristiani battezzati. Questo atto fu la nascita dell’Inquisizione Spagnola. In questo clima di odio fiorirono le denunce e le accuse contro i “conversos”, disprezzati sia dai cristiani che dagli ebrei e, contro di loro si verificarono abusi ed atrocità che lo stesso papa Sisto IV intervenne scrivendo una missiva ai vescovi spagnoli denunciando che “ad Aragona, Valenza, Maiorca e Catalogna, l’Inquisizione, … mossa da avidità di ricchezze, sulla base di testimonianza dei nemici degli ebrei convertiti, senza a loro carico nessuna prova legittima erano stati gettati in prigione, torturati e condannati … generando disgusto in molti”. Re Ferdinando, oltraggiato dal contenuto di questa lettera rispose con asprezza a papa Sisto, insinuando che i “conversos” avevano corrotto anche Roma. Da questo momento il Papato non ricoprì più alcun ruolo nell’Inquisizione spagnola la quale divenne a tutti gli effetti uno strumento della monarchia spagnola e indipendente dall’autorità ecclesiastica. La ragione di questa scelta da parte di re Ferdinando d’Aragona è da ricercare nella sua volontà di riunire sotto un’unica corona il Regno di Castiglia e quello d’Aragona. Il re spagnolo intuì il potere repressivo che un’istituzione come il “Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione, o il “Consiglio della Suprema”, poteva procurargli. Quest’ultimo era un vero e proprio “Consiglio di governo” sotto il controllo diretto della corona ed esercitava pieni poteri. Nel 1483 Ferdinando nominò Tomás de Torquemada inquisitore generale del regno, il più famoso inquisitore della storia. L’azione inquisitoriale presieduta da Torquemada, forte dell’appoggio e del sostegno del re, imperversò in ogni angolo del Regno istituendo tribunali “itineranti” con propri procuratori e notai. L’inquisitore, avvalendosi della delazione da lui alimentata contro i “conversos” procedeva attraverso un metodo intollerante e feroce emarginando, umiliando, espropriando, torturando, bruciando sui roghi i neoconvertiti con la forza provocando nella popolazione terrore e panico e indignando persino molti ecclesiastici. Lo stesso successore di papa Sisto, Innocenzo VIII, scrisse invano, due volte al re per invocare compassione e clemenza per i “conversos”. In questo vortice crescente di abusi giuridici e civili da parte dell’Inquisizione spagnola, crebbe un maggior risentimento popolare contro gli ebrei che venivano anche chiamati spregiativamente “marrani”, porci. Si arrivò, così, all’editto del 31 marzo 1492 in cui veniva decretata l’espulsione indiscriminata di tutti gli ebrei dal Regno di Spagna, (tra i colpiti ci fu anche uno dei finanziatori della spedizione di Cristoforo Colombo). Dopo la riconquista di Granada, nel 1492, si pose il problema dei rapporti con gli arabi, ormai divenuti a pieno titolo parte integrante della popolazione e della società spagnola. La guerra ispanico-araba si era conclusa con la stipulazione di patti che accordavano agli islamici la libertà di culto. Passati dieci anni dalla Riconquista, Isabella di Castiglia si fece promotrice di un’ordinanza con la quale obbligava i cittadini di fede musulmana a scegliere, come fece con gli ebrei, tra esilio e battesimo, provocando gli stessi sanguinosi conflitti che videro al centro la discriminazione razziale degli ebrei e degli arabi.
(Cristoforo Colombo mostra ai Re Cattolici gli Indiani e i doni portati dalle nuove terre).
Mary Titton
13 marzo
DALLA STORIA
Il destino come motore dell’evoluzione.
(Vincolo d’unione”, 1956. Maurits Cornelis Escher)
Nel marzo del 1995, usciva nelle librerie italiane la ristampa di un libro “Il destino come scelta”, Edizioni Mediterranee, 1979 il cui titolo provocatorio e lapidario, definisce lo stile con il quale l’autore, Thorwald Dethlefsen, comunica le conoscenze acquisite in anni di studio e dalla pratica della sua professione come psicoterapeuta e psicologo. Nel libro, Dethlefsen introduce gradualmente il lettore alla comprensione delle sue riflessioni, incentrate su una visione olistica del mondo. Le complesse tematiche, chiamate in causa dal medico tedesco, sono analizzate con un linguaggio essenziale, ermetico e richiedono uno sforzo di concentrazione per comprenderne appieno i concetti che attingono alle antiche conoscenze dei filosofi e dei maestri del passato, all’origine del pensiero occidentale ed orientale. Dethlefsen, in qualità di medico e in base a una visione onnicomprensiva degli aspetti che costituiscono l’uomo nella sua interezza, ritiene che il malessere nell’uomo moderno derivi dalla mancanza di significato della vita ed esorta, per chi voglia approfondire l’argomento, a capire meglio la propria vita e specialmente di vedere il significato della malattia e della morte. Egli ritiene che solo confrontandosi con le dottrine antiche, basilari conoscenze, l’uomo moderno potrà prendere in mano responsabilmente e consapevolmente le redini del proprio destino. Dethelfsen divenne celebre per alcuni esperimenti di ipnosi regressiva, condotti a partire dal 1968, con cui sosteneva di far rivivere ai suoi pazienti non solo momenti della loro infanzia e vita intrauterina, ma anche di vite passate, rammentate in stato di trance a scopo terapeutico e finalizzate esclusivamente alla comprensione, e mai condotte per curiosità o altro, di quando e in quale circostanza si era formata la “disarmonia” che aveva prodotto il problema o il trauma per cui il paziente si era rivolto a lui. Il medico tedesco racconta come il suo approccio, inizialmente scettico e improntato all’ateismo psicologico, fosse mutato di fronte a tali esperimenti, spingendolo ad orientare le sue ricerche nell’ambito della medicina esoterica. Ad esempio, Dethlefsen intese rivalutare il pensiero analogico o verticale rispetto a quello analitico-orizzontale, dominante soprattutto in ambito scientifico. Secondo quanto da lui sostenuto, la spiegazione di un evento, come ad esempio una malattia, non può essere relegata all’ambito puramente funzionale materiale, ma rimanda a un significato, a un contenuto che dà senso alla sua manifestazione. Egli afferma in un altro suo libro, “Malattia e destino”: “Così come tutto il mondo materiale è soltanto il palcoscenico su cui prende forma il gioco delle immagini primigenie che in questo mondo diviene “allegoria”, analogamente anche il corpo materiale è il palcoscenico sul quale si esprimono le immagini della coscienza”. Oggi, è interessante constatare che concetti considerati un tempo paradossali, siano accolti con dignità scientifica da una vasta categoria di medici ed accolti con vivo interesse da una coscienza collettiva sempre più desiderosa di apprendere istanze non solo provenienti dal pensiero logico/razionale o meccanicistico, ma di aprirsi ad interpretazioni più allargate e senza pregiudizi.
“Secondo Dethlefsen, discipline come l’astrologia o la psicologia esoterica, a differenza dell’approccio quantitativo della medicina tradizionale che si limita a un’analisi delle cause efficienti,” si legge sull’enciclopedia di Wikipedia a proposito di Thorwald Dethlefsen, “si basano sull’attribuzione di precise qualità ai vari aspetti della vita delle persone, aspetti che assurgono a simboli di principi eterni metafisici. L’uomo contemporaneo non ha più gli strumenti intellettuali per poter interpretare la realtà in chiave simbolica, ed è caduto pertanto nel vuoto di un’esistenza priva di significato”. Dethlefsen, in “Il destino come scelta”, scrive: “ La malattia del nostro tempo è la mancanza di significato della vita, e questa mancanza di significato ha sradicato l’uomo dal cosmo. La mancanza di significato è il prezzo che l’umanità ha dovuto pagare per il suo tentativo di evitare la responsabilità”. Egli descrive l’importanza, per l’uomo, della conoscenza delle leggi universali, le stesse che governano l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo (come peraltro sosteneva Einstein) e che la comprensione del “destino” di un individuo, per lo psicologo, deve essere individuata nella legge di sincronicità, di risonanza, di ombra, di proiezione, e soprattutto in quella della polarità. Quest’ultima è da lui così descritta: “La polarità è la base della nostra esistenza. … Noi viviamo nei contrari, pensiamo per contrari, anzi la tensione che nasce fra i due poli opposti è il presupposto perché un fenomeno possa venir recepito dalla nostra coscienza. Un solo essere non è soggetto a questa polarità: Dio. E noi proprio per questo non riusciamo ad immaginarlo”. Dunque, essendo l’uomo un microcosmo in cui si riflette il macrocosmo, ogni principio della realtà che non viene vissuto a livello cosciente precipita nell’ombra, dove continua a esistere in una forma che lo fa percepire come estraneo e negativo. Mentre il meccanismo della proiezione tende ad attribuire al caso, o a funzionalità naturali, la causa di eventi spiacevoli, la guarigione consiste nell’assumersi la responsabilità del proprio destino reintegrando nella coscienza quegli aspetti di sé che erano stati rinnegati. In tal senso essa è redenzione, perché ripristina l’unità della persona. “… L’unità è impossibile a chi cerca di evitare una metà della realtà”. Dethlefsen esamina anche tematiche di base come l’astrologia, ritenendola un piano di rappresentazione simbolica e strumento di misurazione della realtà, trasformata dal metodo scientifico, in astronomia, e quella dell’omeopatia. Secondo le dottrine di Dethlefsen, attinte anche dall’ermetismo, poiché il sintomo di una malattia esprimerebbe in forma di ombra il principio non vissuto alla luce della coscienza, non avrebbe senso combatterlo come fa la medicina allopatica, ma al contrario andrebbe accolto secondo il criterio omeopatico della similitudine che ci riporta al pensiero di Hahnemann, lo scopritore del principio omeopatico: “Col principio di similitudine, Hahnemann ha formulato correttamente e in modo valido un principio primo. La guarigione può avvenire soltanto attraverso l’analogia: per questo ogni sistema terapeutico può essere valutato in base alla sua conformità o meno al principio omeopatico. La medicina ufficiale pensa in termini allopatici, cerca cioè di guarire attraverso l’opposto, “per contraria”. Resistenza produce sempre resistenza: in questo modo è possibile ottenere qualche effetto, ma non guarire.”
Mary Titton
12 marzo
DALLA STORIA
Jack Kerouac, il poeta scrittore che fondò il movimento alternativo della Beat Generation.
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”. (On the road).
(Jack Kerouac al Seven Arts Café in New York, 1959)
Nell’America degli anni Cinquanta, in opposizione ai modelli di vita dominati da un pensiero conformista e consumista, irrompe un libro “On the Road”, “Sulla strada” dello scrittore e poeta americano Jack Kerouac: il libro sarà la Bibbia di una nuova generazione di artisti, la Beat Generation, e Kerouac il padre spirituale. “On the road”, scritto con una prosa “spontanea” e libera da schemi darà l’avvio a un nuovo stile narrativo che permette di esprimere liberamente, come in un flusso di coscienza, l’autenticità dei pensieri, i sogni e gli ideali dei protagonisti raccontati attraverso l’esperienza del viaggio. “La prima stesura fu scritta in tre settimane. Sotto l’effetto di anfetamine e caffeina, Kerouac infilò nella macchina da scrivere fogli di carta da lucido uniti con il nastro adesivo e scrisse di getto, a interlinea singola (senza margini né capoversi), finché non completò il romanzo; il “rotolo” risultante era lungo 37 metri. Kerouac lo sottopose poi a diverse rielaborazioni fino al 1957, quando fu pubblicato”. Da allora “On the road” è sempre stato studiato e fonte di ispirazione. Influenzò il modo di vivere dei giovani, l’arte, la musica a partire da Bob Dylan, il cinema. Nel ‘68 uscì Easy Rider, il road movie con Peter Fonda e Dennis Hopper nei panni di due motociclisti che attraversano l’America in chopper, finendo uccisi da chi li considera troppo “diversi”. Il film, premiato a Cannes, diventerà un cult. La “controcultura” del movimento letterario della Beat Generation sarà la risposta alle contraddizioni della società americana: dal consumismo allo sfruttamento dei lavoratori, dal capitalismo al benessere riservato a pochi, dalla Guerra Fredda al sistema repressivo nella sfrenata lotta contro il comunismo (il maccartismo i cui sospetti cadevano per lo più verso chi manifestava comportamenti progressisti, colpì artisti e fece tremare Hollywood). I beat non protestano sono pacifisti e idealisti, si esprimono attraverso un atteggiamento di “assenza” per indicare la loro lontananza dal decadimento dei valori umani come l’amore, l’amicizia, la cultura nel mistificato mito del “sogno americano”. La protesta verrà dopo quando gli studenti insorgeranno nelle università a Barkley, nelle contestazioni del Maggio francese e così via. Fu Kerouac, nel ’48, a coniare il termine beat che offre varie interpretazioni da beat-itudine a battuto. Per lo scrittore il termine era l’equivalente di “beato” una condizione ricercata dalla sua anima tormentata dal disagio esistenziale costantemente alla ricerca di una verità che desse senso alla sua vita: “Se non scrivo quello che vedo effettivamente accadere su questo globo infelice racchiuso nei contorni del mio teschio penserò che il povero Dio mi abbia mandato sulla terra per niente”. (Big Sur). Ma la vita di Kerouac, infine, bruciata dalla droga e smarrita nell’alcool che ne provocò la morte a soli 48 anni è stata coerente alle sue idee libertarie, un insegnamento di integralità incorruttibile da una qualsivoglia convenienza o compromesso (anche se ampliare la coscienza dovrebbe avvenire attraverso un processo che, naturalmente, non ricorra alla droga che uccide. La droga ha ucciso milioni di giovani e da molti è ritenuta un’arma del dissenso per spegnere quel vento di libertà). “A quel tempo danzavano per le strade come pazzi e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno Oooooh!”. (Sulla strada).
(La copertina di una prima edizione statunitense di “Sulla strada” di Jack Kerouac)
Mary Titton
11 marzo
PRIMO PIANO
Scattato l’obbligo vaccini.
Scatta da oggi la norma che vieta ai piccoli non immunizzati di entrare in classe, in quanto il termine della certificazione è scivolato un giorno in avanti, dal 10 marzo (domenica) all’11 marzo. I genitori che non hanno presentato la certificazione originale sulle vaccinazioni dei figli vanno incontro alle sanzioni previste dalla legge Lorenzin, che arrivano fino all’esclusione da scuola per i nidi e le materne, mentre nelle altre scuole è prevista solo una sanzione pecuniaria e gli alunni potranno entrare lo stesso. Il ministro della Salute Giulia Grillo, pur dicendosi contraria per principio all’obbligo, riguardo al morbillo ha affermato che “ c’è un’epidemia in atto. E quindi sul morbillo bisogna tenere misure obbligatorie. Ma dobbiamo anche lavorare – ha aggiunto – per convincere i cittadini a fare una cosa positiva per la loro salute, non imporre”. Continuano, infatti, ad aumentare i casi di morbillo in Europa, con l’Italia sempre nelle prime posizioni della classifica. Nel mese di gennaio 19 Paesi hanno registrato 881 persone contagiate, mentre 10, tra cui la Germania, non ne hanno segnalato nessuno. Rispetto ai mesi di novembre e dicembre 2018, rileva l’ultimo bollettino del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), Romania (261), Italia (165), Polonia (133) e Francia (124) sono i Paesi che hanno registrato il maggior numero. In particolare l’aumento più consistente si è avuto in Italia, dove i casi sono più che raddoppiati, visto che a dicembre sono stati 76 contro i 58 di novembre. A facilitare la diffusione dei contagi è una copertura vaccinale sotto le soglie richieste in molti Paesi europei. La notizia positiva è, invece, che sono in aumento in Italia, nei primi sei mesi del 2018, le coperture vaccinali dei bambini rispetto ai dati del 31 dicembre 2017; in diversi casi è stata raggiunta e superata la soglia minima raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità, pari al 95%. L’aumento è ancora più marcato nel caso della copertura per la prima dose di vaccino contro il morbillo, che arriva al 94,15%, con un+2,30%: sei regioni superano il 95% e altre tre vi si avvicinano. Secondo gli esperti di sanità pubblica, il provvedimento è riuscito nell’intento di alzare le coperture, addirittura, secondo una stima della Società Italiana di Igiene (Siti), almeno per alcuni vaccini si sarebbe superata l’immunità di gregge, ossia la protezione indiretta che si ha quando la vaccinazione di una parte significativa di una popolazione tutela anche gli individui che non hanno sviluppato direttamente l’immunità. Secondo l’Associazione dei presidi il problema “è soprattutto nella scuola primaria, dove i non vaccinati potrebbero restare a contatto con gli immunodepressi, i quali non sono tutelati da questo tipo di previsione normativa”. Il presidente nazionale dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, chiarisce che “per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, si dovrebbe trattare di poche centinaia di casi in tutta Italia e l’emergenza di cui tanto si parla in queste ore è più mediatica che effettiva.” Dovrebbero essere “pochi” i bambini delle materne che rischiano di rimanere fuori dalle classi perchè non in regola con le vaccinazioni. Ora, però, si temono gli scontri con i genitori non vax pronti a sfidare le istituzioni. Questo potrebbe, comunque, essere l’ultimo anno di applicazione della legge Lorenzin. È infatti in discussione in Parlamento, e potrebbe vedere la luce entro aprile, il provvedimento relativo al cosiddetto “obbligo flessibile”, secondo il quale la vaccinazione è obbligatoria solo “in caso di emergenze sanitarie o di compromissione dell’immunità di gruppo”.
DALLA STORIA
Il castello Sonnino.
(Cerimonia dell’Alza Bandiera, in occasione della presentazione dell’Opera editoriale Civiltà del Mare)
A pochi chilometri dalla città di Livorno, in località Romito, si erge su un promontorio a picco sul mare, il castello Sonnino, fatto costruire, alla fine dell’Ottocento, dal barone Sidney Sonnino, su un fortilizio cinquecentesco, realizzato dai Medici sui resti di una precedente fortificazione d’origine remota e facente parte di un complesso sistema per la difesa della costa. Sidney Sonnino, di confessione anglicana, nato a Pisa l’11 marzo 1847 in una nobile famiglia, da padre di origini ebraiche e da madre britannica, era molto legato a questa sua dimora, che un tempo, nota come torre San Salvatore, era costituita da una torre quadrata (il nucleo originario), preceduta da uno spalto per il posizionamento dell’artiglieria. Il castello è un edificio in stile neo-medioevale, percorso com’è da una fitta teoria di piccole merlature, in mezzo a un parco dalla vegetazione lussureggiante e a picco su un mare, il Tirreno, di un azzurro intenso e variegato. Nel 1895 Sonnino, due volte Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia e più volte ministro, fece aggiungere una cappella esterna, che richiama lo stile medioevale, con una facciata aperta da una piccola bifora ogivale e un’aula interna, a pianta rettangolare, chiusa da un’abside coperta da una serie di capriate in legno. L’interno del castello, semplice e austero, con una porta lignea finemente intagliata secondo lo stile neogotico e un grande salone di ricevimento in corrispondenza dell’originario spalto mediceo, è attualmente una residenza privata e quindi non accessibile al pubblico, tranne che in occasioni particolari, come nel corso delle “Giornate del FAI” tenutesi nel 2007, quando la proprietà ha aperto la dimora ai livornesi e ai numerosi turisti, o nel marzo 2015, quando lo storico salone ha ospitato la presentazione del volume “Civiltà del mare” edito da Progetto Editoriale. Sidney Sonnino, che ereditò il nome dal nonno materno, Sidney Tery, fu un esponente di spicco della politica italiana, in un periodo importante della storia, che vide l’Italia partecipe della prima guerra mondiale e della successiva Conferenza di pace di Parigi. Liberale conservatore ed esponente della Destra storica, allievo dello storico e meridionalista Pasquale Villari, in Parlamento fece diversi interventi a favore della classe contadina, come il discorso del 7 maggio 1883, che denunciava le condizioni dei lavoratori del riso e più ancora quelle dei miserabili della Campagna romana, costretti a vivere in luride grotte senza luce. Nel 1876 partì per la Sicilia allo scopo di studiare la situazione dell’agricoltura locale, anche nel timore che un mancato miglioramento della condizione delle masse rurali avrebbe portato allo scontro di classe. Il risultato fu l’inchiesta, redatta con l’amico Leopoldo Franchetti, “La Sicilia nel 1876, che costituì la base di tutti gli studi successivi e dei provvedimenti legislativi in materia. In essa vennero evidenziati gli aspetti negativi del latifondo e fu denunciato l’assenteismo dei proprietari terrieri dell’Italia meridionale. Tra il 1900 e il 1902, infatti, Sonnino si fece promotore della proposta di legge sui contratti agrari, proponendo per il Mezzogiorno una larga riforma con la quale si chiedeva la diminuzione dell’imposta fondiaria, la facilitazione del credito agrario, la diffusione dell’enfiteusi e il miglioramento dei contratti agrari allo scopo di combinare gli interessi dei contadini con quelli dei proprietari, ma il provvedimento non passò. Come Ministro delle finanze e Ministro del tesoro del Regno d’Italia dal 1893 al 1896, riportò il bilancio dello Stato al pareggio e si oppose alla dispendiosa politica aggressiva di Francesco Crispi in Etiopia, fu Presidente del Consiglio dei ministri dall’8 febbraio al 29 maggio 1906 e dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910, nel 1914 divenne Ministro degli affari esteri e con tale carica, che conservò fino al 1919, condusse le trattative che portarono alla firma del patto di Londra, con cui l’Italia si impegnò ad entrare nella prima guerra mondiale contro l’Austria. Dopo la vittoria, partecipò alla conferenza di pace di Parigi, rivendicando per l’Italia i territori promessi dal patto di Londra contro la posizione degli Stati Uniti e del presidente Wilson, che non riconoscevano le trattative del patto di Londra, in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli, dato che all’Italia erano stati promessi territori abitati da slavi. Sonnino si espresse così: “Dopo una guerra così piena di enormi sacrifici, ove l’Italia ha avuto 500.000 morti e 900.000 mutilati, non è concepibile dover ritornare ad una situazione peggiore di prima, perché la stessa Austria-Ungheria, per impedire l’entrata dell’Italia in guerra, ci avrebbe concesso alcune isole della costa dalmata. Voi non vorreste darci nemmeno queste. Per il popolo italiano ciò sarebbe inspiegabile”. Amareggiato da come si era conclusa la Conferenza di Parigi, il settantaduenne Sonnino, in conformità con il suo rigore morale, si ritirò dalla vita politica e negli ultimi tempi si dedicò maggiormente agli studi danteschi che lo avevano sempre appassionato, soggiornando spesso nel castello a picco sul mare che aveva fatto restaurare e gli offriva possibilità di silenzio e solitudine in accordo con il suo carattere severo e schivo. Affascinato dalla bellezza aspra e incontaminata della costa, che poteva dominare dall’alto del maniero, volle essere sepolto lì, in una grotta scavata in una scogliera lambita dalle onde, dove dal 1922 riposa “sotto la guardia della grave mora”.
(Tomba di Sidney Sonnino con picchetto della Marina Militare)
10 marzo
PRIMO PIANO
Precipita aereo Ethiopian Airlines con 157 persone a bordo, tra cui 8 italiani.
Stamattina, 10 marzo, alle 8.44 (ora locale), il Boeing 737 dell’Ethiopian Airlines, partito da Addis Abeba e diretto a Nairobi, è precipitato 6 minuti dopo il decollo. Lo schianto è avvenuto vicino alla località di Bishoftud, ad una cinquantina di chilometri a sud della capitale etiope. Secondo quanto reso noto in una conferenza stampa dall’amministratore delegato della Ethiopian Airlines, Tewolde Gebremariam, il pilota si era accorto che il velivolo aveva dei problemi ed aveva chiesto ed ottenuto dai controllori di volo dell’aeroporto di Addis Abeba, da dove era decollato pochi minuti prima, di tornare a terra, poi l’aereo è scomparso dai radar. A bordo c’erano 8 membri dell’equipaggio e 149 passeggeri di 35 nazionalità diverse, 157 persone che sono tutte morte. Tra le vittime anche 8 italiani, tutti impegnati in missioni umanitarie nel continente africano. È stata, infatti, definita la strage dei volontari. Tra loro una coppia di aretini: il dottor Carlo Spini, di Sansepolcro, 75 anni, a lungo medico all’ospedale di Sansepolcro e dall’aprile 2018 presidente della onlus di Bergamo «Africa Tremila», e la moglie Gabriella Vigiani, attivissimi nelle missioni umanitarie, e il tesoriere dell’associazione Matteo Ravasio. Tra le vittime italiane anche l’Assessore ai Beni Culturali della regione siciliana Sebastiano Tusa, archeologo di fama internazionale, Sovrintendente del Mare della Regione, diretto in Kenia per un progetto dell’Unesco, e Paolo Dieci, residente a Roma, presidente della ong Cisp e rete LinK 2007, un’associazione di coordinamento consortile che raggruppa importanti Organizzazioni Non Governative italiane, in particolare 14 ong. Tra loro anche giovani funzionarie del World Food Programme, membri di onlus, Virginia Chimenti e Maria Pilar Buzzetti, funzionarie del World Food Programme dell’Onu, e Rosemary Mumbi, zambiana con passaporto italiano che lavorava alla Fao. L’aereo, un Boeing 737-8 MAX, era un velivolo nuovo, consegnato alla compagnia aerea a metà novembre. Cinque mesi fa un incidente analogo: uno stesso modello Boeing 737-800 MAX della Lion Air il 29 ottobre scorso era precipitato nel Mare di Java pochi minuti dopo il decollo, causando la morte delle 189 persone a bordo. Non sono ancora chiare le cause del disastro, ma secondo le prime rilevazioni la manovra che ha provocato l’incidente sarebbe dovuta al malfunzionamento di un software di sicurezza di nuova concezione.
9 marzo
PRIMO PIANO
Turchia: Apre al pubblico il tempio di Gobekli Tepe, il più antico del mondo.
Si potrà d’ora in poi visitare il tempio circolare di-Gobekli-Tepe, il luogo di culto più antico del mondo, che si trova nel sudest della Turchia. Precedente a Stonehenge e alle piramidi, risalente al Neolitico preceramico (Neolitico preceramico A) o alla fine del Mesolitico, Gobekli Tepe, vicino alla città di Şanlıurfa, nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, risale, infatti, a 12.000 anni fa: iniziato intorno al 9500 a.C., la sua erezione dovette interessare centinaia di uomini nell’arco di tre o cinque secoli. Intorno all’8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e volontariamente seppellito con terra portata dall’uomo. Nel 1963 gli archeologi turchi e statunitensi iniziarono a rinvenire delle strutture circolari nello scavo a cui stavano lavorando, ma il sito fu scoperto solo trent’anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di una strana forma che spuntavano dal terreno. La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il Ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell’Istituto archeologico germanico. Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico, nel 2006 passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe. Gli scavi hanno rivelato che la struttura non è mai stata utilizzata a scopo abitativo, ma come luogo di culto dove si svolgevano rituali religiosi. Si tratta di almeno 20 costruzioni, ognuna delle quali presenta al proprio centro due pilastri monumentali ed è circondata da mura e palizzate poste in forma ovale o circolare. Gli scavi turco-tedeschi hanno rivelato pure la presenza di obelischi a forma di T alti tra i 3 e i 6 metri, del peso compreso tra le 40 e le 60 tonnellate, la cui costruzione rimane un mistero irrisolto. Tra i ritrovamenti anche manufatti e statuette raffiguranti figure umane, oltre a sculture nella roccia e incisioni con animali, simboli astratti e pitture rupestri. Le raffigurazioni di animali hanno permesso di ipotizzare un culto di tipo sciamanico, antecedente ai culti organizzati di divinità delle culture sumera e mesopotamiche. Lo studio degli strati di detriti accumulati sul fondo del lago di Van in Anatolia ha prodotto importanti informazioni sui cambiamenti climatici del periodo, individuando una consistente crescita della temperatura intorno al 9500 a.C. I resti di pollini presenti nei sedimenti hanno permesso di ricostruire una flora composta da querce, ginepri e mandorli. Fu forse proprio il cambiamento climatico a determinare una progressiva sedentarizzazione delle genti che costruirono il sito. All’inizio degli anni novanta lo studioso di preistoria Jacques Cauvin ha ipotizzato che lo sviluppo delle concezioni religiose avrebbe costituito una spinta alla sedentarizzazione, spingendo gli uomini a raggrupparsi per celebrare riti comunitari. Questa ipotesi ribalta completamente la concezione secondo cui la religione si sarebbe sviluppata solo in seguito al formarsi di insediamenti stabili, causati dalla nascita dell’agricoltura. La presenza di una così grande struttura monumentale dimostra che, anche precedentemente allo sviluppo dell’agricoltura e nell’ambito di un’economia di caccia e raccolta, gli uomini possedevano mezzi sufficienti per erigere strutture monumentali. Secondo il direttore dello scavo fu proprio l’organizzazione sociale necessaria alla creazione di questa struttura a favorire uno sfruttamento pianificato delle risorse alimentari e di conseguenza lo sviluppo delle prime pratiche agricole, tesi che ribalta quindi le ipotesi fino ad allora seguite. Nessuna traccia di piante o animali domestici è stata tuttavia rinvenuta negli scavi e mancano inoltre resti di abitazioni. A circa 4 m. di profondità, ad un livello corrispondente a quello della costruzione del santuario, sono state rinvenute tracce di strumenti in pietra (raschiatoi e punte per frecce), insieme ad ossa di animali selvatici (gazzelle e lepri), semi di piante selvatiche e legno carbonizzato, che testimoniano la presenza in questo periodo di un insediamento stabile. Dopo essere divenuto patrimonio dell’Unesco nel 2018, il 2019 in Turchia è stato dichiarato “l’anno di Gobekli Tepe”.
8 marzo
PRIMO PIANO
8 marzo: una storia per tutte.
È la vicenda di Madam Zhao, una delle ultime vittime della legatura dei piedi, la pratica millenaria del Loto d’Oro, la deformazione forzata dei piedi delle donne cinesi, che è stata abolita nel XX secolo. Molte donne, però, hanno continuato a legare le loro figlie per garantire loro un buon matrimonio. Madam Zhao, la signora di novantadue anni che abita a Shunyi, un distretto di Pechino, è una delle ultime vittime di una tradizione selvaggia imposta dopo la fondazione della Repubblica Popolare con l’eufemismo di “fasciatura dei piedi”, una tortura imposta per oltre mille anni alle donne cinesi e che le mutilava a vita. L’obiettivo di questa crudele usanza era di mantenere il piede di una lunghezza tra i 7 e i 12 centimetri. Per ottenere questo risultato i piedi delle bambine venivano legati fin dalla più tenera età, anche se le bambine nelle famiglie contadine venivano sottoposte alla pratica solo quando raggiungevano l’età da marito perché prima dovevano essere di aiuto nei campi. Perché i piedi prendessero la forma definitiva occorrevano anni, dai 3 fino anche ai 10, poi per tutta la vita la donna doveva curare con una serie di accorgimenti che la deformazione non regredisse. Tra questi accorgimenti c’erano anche le scarpette rigide come quelle mostrate da Madam Zhao che dovevano essere indossate anche durante la notte. La deformazione consisteva in due operazioni distinte: piegare le quattro dita più piccole al di sotto della pianta del piede e avvicinare l’alluce ed il tallone inarcando il collo del piede. Le articolazioni del tarso e le ossa metatarsali venivano così progressivamente deformate. In questo modo i talloni diventavano l’unico punto di appoggio ed era questo il fattore che provocava l’instabilità e l’andatura fluttuante – come un fiore al vento – della donna, da cui il nome della tradizione: Loto d’Oro, un’andatura oscillante considerata attraente per lo sguardo maschile.
DALLA STORIA
Germaine Greer e la liberazione della donna.
(Germaine Greer negli anni Settanta)
Oggi, in occasione della festa della donna, parliamo di Germaine Greer, la scrittrice e femminista considerata una delle voci più autorevoli della seconda ondata femminista del XX secolo e autrice del saggio “L’eunuco femmina”. Grazie alla pubblicazione del libro, nel 1970, l’australiana Greer raggiunse una vasta notorietà in tutto il mondo. Sulla scia di scrittori come Simone de Beauvoir e Betty Friedan, Greer mise in discussione il ruolo delle donne nella società in un’epoca in cui non potevano accendere un mutuo e neppure acquistare un’auto, senza la controfirma del marito o del padre. Nel libro sostiene che la repressione accettata delle donne le castra sul piano emotivo, sessuale e intellettuale. “L’eunuco femmina”, divenuto un bestseller internazionale, accolto da critiche sia positive che negative, rimane ancora oggi un libro importante nella letteratura femminista e non perché, pur non proponendo nuovi spunti di elaborazione teorica, fornisce una ricchissima varietà di fonti letterarie e storiche, che documentano quanto le donne siano state “castrate” come individui. La liberazione delle donne non deve confondersi con “l’uguaglianza” con gli uomini, ma al contrario le donne, per liberare se stesse dalla coercizione dominante del potere maschile, (presente fin dai secoli passati e ancora oggi dura a morire), devono, sostiene Greer, abbracciare le differenze di genere in modo positivo, lottare per la libertà delle donne di definire i propri valori, fare ordine fra le proprie priorità e determinare il proprio destino. La scrittrice vede l’uguaglianza come mera assimilazione e “adeguamento” a vivere la vita di ”uomini non liberi”. La schiavitù della donna è un’arma a doppio taglio, che coinvolge anche l’uomo, costretto in un ruolo opprimente di machismo.
(L’iconica copertina che mostra un busto femminile appeso)
Mary Titton
7 marzo
PRIMO PIANO
La Tavola periodica festeggia 150 anni.
Il 6 marzo 1869 il chimico russo Dmitri Mendeleev pubblicò la prima versione della tavola periodica degli elementi, uno schema perfettamente organizzato nel quale gli elementi che compongono la materia dell’Universo sono fissati sulla base del loro numero atomico Z e del numero degli elettroni negli orbitali atomici s, p, d ed f. La tavola periodica di Mendeleev, all’inizio, conteneva soltanto 63 elementi e tanti spazi vuoti, perché lo scienziato sapeva che tra un “buco” e l’altro sarebbero stati inseriti elementi non ancora scoperti nella sua epoca. Oggi, dopo 150 anni, ne contiene ben 118 e alcuni sono stati scoperti in tempi recentissimi; nell’ultima revisione, aggiornata nel 2016, ne sono stati aggiunti quattro: il 113 (nihonio), il 115 (moscovio), il 117 (tennessinio) e il 118 (oganesson). La storia della Tavola periodica ha, in effetti, radici ben più lontane. A intuire che ci fossero degli elementi fisici, come il platino, il mercurio e lo zinco, erano stati già alcuni filosofi dell’antichità, come Aristotele, secondo cui la materia era il frutto della combinazione di una o più “radici”, chiamate poi “elementi” da Platone. Molto tempo dopo, nel 1869, Mendeleev organizzò gli elementi secondo la loro massa atomica, giocando quello che alcuni hanno definito un “solitario chimico”, dove le carte erano le informazioni note sui vari elementi. Altri studiosi prima di Mendeleev avevano creato bozze di tavole sulla base dei pesi atomici e delle proprietà chimico-fisiche, ma alcune di queste scoperte furono riconosciute solo dopo la “consacrazione” della tavola del chimico russo. Il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius ideò intanto i nomi abbreviati per gli elementi (O per ossigeno, Fe per ferro, Na per sodio e così via). Grazie alla tavola di Mendeleev oggi abbiamo una comprensione superiore dell’Universo e della materia che lo compone, possiamo creare nuovi e straordinari materiali come il grafene e ritenere che molti altri ne verranno creati in futuro. Nella tavola periodica moderna gli elementi sono posti progressivamente in ciascun periodo da sinistra a destra secondo la sequenza dei loro numeri atomici, incominciando una nuova riga dopo un gas nobile. Il primo elemento nella riga successiva è sempre un metallo alcalino con un numero atomico più grande di un’unità rispetto a quello del gas nobile (ad esempio dopo il kripton, un gas nobile con il numero atomico 36, incomincia una nuova riga con il rubidio, un metallo alcalino con il numero atomico 37). Il significato dei numeri atomici per l’organizzazione della tavola periodica non fu apprezzato finché non divennero chiare l’esistenza e le proprietà dei protoni e dei neutroni. Come ricordato in precedenza, le tavole periodiche di Mendeleev usavano invece i pesi atomici, informazioni determinabili ai suoi tempi con precisione accettabile, che funzionarono abbastanza bene nella maggior parte dei casi per offrire una presentazione di grande potenza predittiva, di gran lunga migliore di qualsiasi altra rappresentazione completa delle proprietà degli elementi chimici allora possibile. La sostituzione dei numeri atomici, una volta compresa, diede una sequenza definitiva per gli elementi, basata su numeri interi, utilizzata ancora oggi anche quando si stanno producendo e studiando nuovi elementi sintetici. “La tavola periodica è una pietra miliare della storia dell’umanità. Ha permesso di mettere ordine su una materia complessa, e continua a rimanere valida anche con la scoperta di nuovi elementi”, ha dichiarato all’ANSA il professor Maurizio Peruzzini, direttore del dipartimento di scienze chimiche del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Per il dottor Marco De Vivo, chimico teorico e computazionale dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), poi, “la tavola periodica è l’alfabeto che ci permette di parlare con il mondo intorno a noi e che in futuro ci aiuterà a costruire farmaci, materiali e metalli nuovi”.
6 marzo
PRIMO PIANO
Al via le domande per il Reddito di Cittadinanza.
Da oggi, 6 marzo fino al 31 dello stesso mese, è possibile presentare la domanda per il reddito di cittadinanza alle Poste, ai Caf o dal computer tramite il codice Spid. Chi presenterà la domanda tra il 6 e il 31 marzo, avrà una risposta dall’Inps tra il 26 e il 30 aprile; se la domanda sarà accolta, a maggio partirà il pagamento. Il beneficio per una persona sola ha un tetto massimo di 780 euro, di cui 280 sono un contributo mensile per l’affitto, per le famiglie invece il beneficio sale fino a 1330 euro. Al momento, con la card si potranno acquistare solo beni alimentari, pagare le bollette di luce e gas e fare spese in farmacia con lo sconto del 5%, così come previsto per la vecchia carta acquisti. A differenza però di quest’ultima, ogni mese potranno essere ritirati fino a 100 euro presso un qualsiasi bancomat e si potrà effettuare il bonifico per il pagamento del mutuo o dell’affitto. L’obiettivo resta quello di ampliare le categorie dei beni che si possono acquistare e il Ministero è al lavoro per scrivere il decreto attuativo necessario. Secondo le stime giallo-verdi, a poter usufruire del nuovo sostegno contro povertà e disoccupazione saranno 1,3 milioni di famiglie, ma per l’Istat nel 47,9% dei casi la card andrà ai single. Le coppie con figli minorenni, sempre secondo i modelli dell’Istituto di statistica, sono 257 mila, solo il 19,6% delle famiglie beneficiarie. Guardando alla nazionalità, i nuclei familiari composti da soli cittadini italiani sono un milione 56 mila, circa l’81% del totale delle famiglie beneficiarie, mentre quelli formati da soli stranieri, cittadini dell’Ue ed extra-comunitari, sono 150 mila (11,5%). Di questi ultimi, quelli di soli cittadini extra-comunitari sono 95 mila (7,3%). Dei circa 2,7 milioni di individui, circa un terzo avrà poi l’obbligo di sottoscrivere il Patto per il Lavoro; di questi 900 mila, circa 600 mila hanno la licenza media o nessun titolo di studio. L’Inps ha messo a punto “un pannello di controlli aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla legge, l’istituto effettuerà controlli sui requisiti economici, sui trattamenti già erogati dall’Inps stesso incrociando i dati in archivio, sul patrimonio immobiliare e mobiliare tramite l’Isee.” Secondo il direttore generale dell’Inps, Gabriella Di Michele, in audizione sul decretone davanti alle Commissioni Lavoro e Affari sociali della Camera, il reddito di cittadinanza “avrà un forte impatto sia sotto il profilo di politica economica che sulla ridistribuzione della ricchezza tra le famiglie per le quali ci si attende una riduzione della povertà e un aumento dell’inclusione sociale”.
DALLA STORIA
L’ “Uomo nuovo” di Michelangelo.
Con la nascita di Michelangelo avvenuta in un piccolo paese della Toscana, vicino ad Arezzo, a Caprese, il 6 marzo 1475, si assiste al fenomeno, che a volte si presenta nella storia, di personalità dotate di una particolare genialità che, con le loro opere, segnano passaggi di conoscenza fondamentali nel processo evolutivo dell’intera umanità. La creatività artistica di Michelangelo ha prodotto capolavori di incommensurabile bellezza, frutto di straordinario talento, ma anche di abilità tecnica, fatica, sovrumana dedizione, tanto che al guardarli si è pervasi da uno stato interiore di armonia, di grazia ed insieme si è toccati da un senso di sublime potenza. L’arte non è patrimonio esclusivo di intellettuali e accademici; essa è stata creata dall’Umanità per l’Umanità e come tale parla dell’Essere Umano e della sua vita. L’uomo che è un essere pensante, senziente e volitivo, ritrova se stesso nella scienza (pensiero), nell’arte, (sentimento) e nella religione (volontà) rinchiusi nei vari capolavori artistici. Il valore dell’arte di condurre l’uomo al suo superamento diventa tangibile, in modo particolare, quando si osserva la Cappella Sistina. Essa trabocca in ogni sua parte di verità, bellezza, e bene verso l’umanità; umanità che viene a visitarla in continuazione da tutto il globo, da tante diverse culture ed etnie. Migliaia di persone visitano ogni giorno i Musei vaticani e la Cappella Sistina, situata in essi all’interno delle mura pontificie. È interessante la descrizione della volta della Cappella Sistina di Fabio Delizia, critico d’arte e studioso della Scienza dello Spirito: “Entrandovi si rimane colpiti da un vero e proprio universo di forme e colori che ci si fanno incontro dalla volta e dall’imponente Giudizio michelangioleschi, quest’ultimo dipinto sulla parete dietro all’altare. Osservando queste opere si è colti da un religioso silenzio colmo di ammirazione, mentre una forza sovrannaturale ci investe da ogni parte assorbendo quasi del tutto la nostra attenzione; questo è così vero che il visitatore dapprima quasi neanche nota gli affreschi delle pareti laterali, che pur sono dipinti da grandi pittori italiani quali Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, Perugino e Pinturicchio. Gli occhi delle migliaia di esseri umani che visitano ogni giorno questo luogo, si volgono verso l’alto come calamitati da una forza magica. E lassù, in tutta la loro maestà, ecco le possenti figure dei Profeti e delle Sibille, poste sopra la nostra testa come sospese nell’aria: possiamo avvertirle, sentirle vivere nello stesso spazio in cui siamo posti anche noi. La ricchezza, la complessità, l’originalità e la bellezza delle forme e dei colori sono tali per cui l’occhio è come stordito da una simile tempesta di percezioni. Dentro la Cappella Sistina la pittura sembra prender forma. Michelangelo è riuscito a trasportare nella pittura il principio che compenetra tutta la sua opera di scultore. Ovunque possiamo sentire “forza” emanare da questo capolavoro. La pittura di Michelangelo merita davvero l’aggettivo di sublime. … Mi domando come sia stato possibile realizzarla, come abbia fatto un solo uomo a creare tutto questo stando lì sospeso a venti metri d’altezza, su palchi di legno, in solitudine ed in condizioni disumane. Penso a quest’uomo, il cui nome ci rimanda all’Arcangelo Michele che, in soli quattro anni, ha generato questa nuova GENESI fatta di immagini pittoriche, riuscendo così a trasformare un’impresa inconcepibile alla mente umana in un capolavoro ineguagliabile dell’arte mondiale di tutti i tempi. Anche Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, dopo aver ammirato l’opera di Michelangelo dice: “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un’idea apprezzabile di cosa un uomo sia in grado di raggiungere”. Mentre Giorgio Vasari scrive che: “Quest’opera è stata veramente un faro della nostra arte, ed ha portato tale beneficio ed illuminazione all’arte della pittura che fu sufficiente ad illuminare il mondo che per molti secoli era rimasto nell’oscurità. … perché Michelangelo diede a quest’opera tutta la perfezione che può esser data ai dettagli”. Lo stesso Delizia pensava che “nessun pittore può superare Michelangelo”; ma subito dopo ho sempre aggiunto: “no, qualcuno lo ha superato …”: e questo qualcuno è Michelangelo stesso! Di fatto, se è vero che gli affreschi delle pareti laterali vengono a malapena notati, perché oscurati dalla potenza della volta, non si può dire altrettanto della parete di fondo: soltanto Michelangelo riesce ad oscurare la sua volta nella Sistina creando il Giudizio Universale e superando così se stesso. Infatti un consiglio per poter contemplare la volta della Sistina con la giusta concentrazione è proprio quello di dare le spalle al Giudizio per non esser disturbati dalla sua imponenza. … E pensare che Michelangelo non si considerava neanche un pittore! La Cappella Sistina venne fatta erigere dentro lo Stato Pontificio dal 1474 al 1483 da papa Sisto IV della Rovere, che fu lo zio di Giulio II, il papa che incaricò Michelangelo di affrescare la volta nel 1508. La Cappella venne inaugurata il 15 agosto 1483 e fu dedicata alla “Vergine Assunta in Cielo”. Essa venne pensata come un palazzo isolato all’interno delle mura pontificie; una cappella privata dove si potessero svolgere le cerimonie più importanti e sede di riunione del Conclave in occasione dell’elezione di un nuovo pontefice (tradizione che continua ancora ai giorni nostri). Essa è di forma rettangolare ed ha le stesse misure del tempio di Salomone a Gerusalemme. Questo richiamo al tempio antico si realizza anche nella divisione della Cappella in due zone ottenuta grazie alla presenza di una transenna marmorea: la zona dove è posto l’altare, riservata al clero, e quella riservata ai fedeli. Nei templi antichi vi era infatti un Sancta Sanctorum a cui solo gli iniziati e gli iniziandi avevano accesso. Da questo punto di vista è molto interessante considerare come Michelangelo dipinse la volta: egli orientò tutte le immagini verso l’altare, verso la zona riservata al clero, ma iniziò a dipingere, per così dire a “ritroso”, partendo dalla parte dell’ingresso dei fedeli”. Il tema generale degli affreschi della volta è il mistero della Creazione di Dio, che raggiunge il culmine nella realizzazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza. Con l’incarnazione di Cristo, oltre a riscattare l’umanità dal peccato originale, si raggiunge il perfetto e ultimo compimento della creazione divina, innalzando l’uomo ancora di più verso Dio. In questo senso appare più chiara la celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. “… Alla svolta dei tempi la creazione si compie: l’uomo nuovo sta per nascere; una nuova creazione sta avvenendo. Il tempo della caduta nella materia avrebbe trovato con il Mistero del Golgota il suo compimento perché per la prima volta, un essere umano avrebbe incarnato in sé le forze risananti dell’Amore e del Logos, portando a pienezza il progetto umano ed aprendo così all’intera umanità “la via” di risalita verso “il paradiso” celeste, da cui l’Adamo primordiale venne “cacciato” all’inizio del suo viaggio umano. L’uomo nuovo, il “nuovo Adamo” come lo chiama Paolo è la primizia della nuova creazione. Le forze di resurrezione ora sono entrate nella terra, nell’essere umano. Sta a noi muovere i nostri passi in quella direzione oppure star fermi e ricadere sempre di più nel primo gradino evolutivo “sotto” l’uomo: la bestia. Questa scelta rinnovatamente compiuta in ogni attimo della nostra vita, ci appare nell’opera di Michelangelo spostando il nostro occhio dal centro della Sistina e abbassandolo verso il centro del Giudizio: il primo Adamo, creato, e il secondo Adamo, l’uomo nuovo. E proprio questo metro di “giudizio” dividerà gli Uomini dalle nuove-Bestie, esattamente come raffigurato nella parete di fondo”.
(La volta della Cappella Sistina)
Mary Titton
5 marzo
DALLA STORIA
L’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters.
L’“Antologia di Spoon River” è una raccolta di poesie in cui il poeta statunitense Edgar Lee Masters, nato a Garnett il 23 agosto 1868 e morto di polmonite, in miseria e dimenticato, a Melrose, il 5 marzo 1950, racconta, in forma di epitaffio, la vita di ognuna delle persone sepolte nel cimitero di un immaginario paesino del Midwest statunitense. Masters si propone di descrivere la vita umana in tutte le sue sfaccettature, raccontando le vicende del piccolo paese di Spoon River e ispirandosi a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield, nell’Illinois, tanto che molti di loro, ancora vivi, riconobbero nei testi le loro vicende intime e se ne risentirono. I protagonisti mostrano, nel loro apparente distacco, solo l’ansia di “raccontare” con assoluta sincerità la loro esperienza, che è, ormai, qualcosa che si trova oltre la loro attuale dimensione, essendo per la maggior parte morti. Tutte insieme le storie che coinvolgono ben 248 personaggi, che ripropongono il proprio destino attraverso il filtro della memoria, formano un microcosmo con le sue menzogne, la crisi dei valori, la finzione della rispettabilità, gli amori leciti e illeciti, e disegnano un quadro complessivo della società americana di fine Ottocento, caratterizzata da un cambiamento radicale dei suoi ideali e dei suoi valori. Pavese, che portò il libro in Italia e convinse Einaudi a pubblicarlo, incredibilmente riuscendo a evitare la censura del Ministero della Cultura Popolare cambiando il titolo in “Antologia di S. River”, ne dà questo giudizio: “Si direbbe che per Lee Masters la morte, la fine del tempo, è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima”.
L’opera, nata in seguito alla lettura da parte dell’autore dell’“Elegia su un cimitero di campagna” di Thomas Gray e degli epigrammi greci dell’Antologia Palatina, fu tradotta per la prima volta in Italia nel 1943, in pieno regime fascista, da Fernanda Pivano, che raccontò: “Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta “Spoon River”: me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese”. E ancora: “Era super proibito quel libro in Italia. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto.” L’“Antologia” di Masters divenne in breve il libro di poesia straniera più letto in Italia anche in nuove traduzioni ed è rimasto nel suo genere un capolavoro unico, da cui 9 poesie sono state scelte e rielaborate liberamente dal cantautore Fabrizio De André nell’album “Non al denaro non all’amore né al cielo”. Riportiamo qui alcuni versi tratti da “La collina”, dove l’intera vita di tutti coloro che “dormono sulla collina”, acquista per ognuno, da un unico episodio, un significato totale, diventando simbolo di un’esistenza:
LA COLLINA
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.
Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –
tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,
e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Dov’è quel vecchio suonatore Jones
che giocò con la vita per tutti i novant’anni,
fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.
(Traduzione di Fernanda Pivano)
4 marzo
DALLA STORIA
Il “Noir Assoluto” di James Ellroy.
James Ellroy, pseudonimo di Lee Earle Ellroy, nato a Los Angeles il 4 marzo 1948, è uno dei maggiori autori statunitensi di Crime fiction. Definito “Demon Dog of American Crime Fiction”, James Ellroy è noto per i suoi romanzi polizieschi, capolavori noir assoluti tra i quali si stagliano la famosa tetralogia di Los Angeles: “Dalia Nera”, (ispirato a un fatto realmente accaduto, l’omicidio di Elizabeth Short, aspirante attrice soprannominata “Dalia Nera”), uno dei noir più letti da sempre, “Il grande nulla”, “L. A. Confidential”, “White Jazz” e la trilogia americana: “American Tabloid”, “Sei pezzi da mille”, “Il sangue è randagio”. Ellroy è il distillato della miglior tradizione Noir/Hard Bolide americana, quella di Chandler, Spillane & c. I romanzi, scritti negli anni ’80 e ambientati negli anni ’40 e ’50 a Los Angeles, sono pieni di atmosfera, pervasi di criminalità organizzata e distretti di polizia, tra prostituzione di alta classe e potere corrotto. Una Los Angeles tratteggiata dallo scrittore in modo crudo e senza lirismi, un sogno in bianco e nero come le pellicole dell’epoca, con i vicoli bui, i locali a luci rosse, gli scenari tentacolari delle periferie e l’ industria cinematografica di Hollywood, un mondo di celluloide, di finzione e realtà in cui si mescolano star indimenticabili e grandi capolavori del cinema con una politica ed affari corrotti e collusi con la malavita. Noir perfetti ed affilati. Storie raccontate con un linguaggio schietto, cupo, tramite il discorso indiretto libero, con termini e costruzioni gergali che incalzano formando un ritmo serrato di dialogo-azione-dialogo-azione. “… I protagonisti”, scrive Giuseppe Novella nel recensire i libri di Ellroy, “sono poliziotti coinvolti in una serie rocambolesca di eventi, casi chiusi e poi riaperti a distanza di anni, intrighi e vicende sempre più sporche che alla fine, in un climax vertiginoso, conducono all’avvincente finale. … Los Angeles lascia trasparire le personalità ombrose e contorte degli investigatori in relazione con le sue atmosfere fumose e scure e la voragine di degrado e criminalità che si apre man mano che le indagini degli investigatori procedono. … La “città degli angeli” che avviluppa i personaggi che si muovono dentro di essa nei suoi palazzi giganteschi, nelle periferie squallide e negli ambienti ovattati e posticci del mondo del cinema”. La costruzione delle storie, ricca di trame e sottotrame e la narrazione potente dei romanzi di Ellroy sono ineccepibili. Dalle sue opere sono stati tratti numerosi film di successo, i più noti sono: “L. A. Confidential”, di Curtis Hanson, che riceverà numerosi premi tra cui l’Oscar alla miglior attrice non protagonista, Kim Basinger e l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, Hanson e Brian Helgeland, “La Dalia Nera”, di Brian De Palma, e “La notte non aspetta”, di David Ayer. James Ellroy ebbe l’infanzia segnata dalla tragedia della madre, Geneva, che fu uccisa nel 1958 a El Monte dove lei e il figlio si erano trasferiti tre anni prima dopo il divorzio dal padre, Armand. Il delitto irrisolto e il regalo di compleanno di suo padre pochi mesi dopo, il libro “The Badge” di Jack Webb, che parla del LAPD, la polizia di Los Angeles, sono stati due punti cruciali della sua vita. Anni dopo, nel suo secondo libro “Clandestino”, Ellroy racconterà l’omicidio della madre sotto forma di indagine da parte di un ex-poliziotto. Nel settembre 2014, è uscito negli Stati Uniti il suo nuovo romanzo, “Perfidia”, primo capitolo della seconda tetralogia di Los Angeles. Le vicende narrate nel libro si svolgono nel dicembre del 1941. Da leggere assolutamente se siete appassionati del genere e anche se non lo siete.
Mary Titton
3 marzo
PRIMO PIANO
Primarie del Pd: trionfa Zingaretti.
Oltre un milione e mezzo di elettori ha votato oggi, domenica 3 marzo, alle primarie del Pd, superando abbondantemente le previsioni della vigilia. Nicola Zingaretti ha vinto sugli altri due candidati, Martina (22,5%) e Giachetti (12,5%), ottenendo tra il 67% e il 69% delle preferenze. Zingaretti diventa, così, segretario di un partito, il principale di opposizione nonostante tutto, che a un anno meno un giorno dal tracollo delle politiche del 4 marzo 2018, sembra dare qualche segno di vitalità. Fin dalla mattina si sono viste file in molti dei circa 7.500 seggi allestiti in circoli e gazebo, tanto che in molti casi si é dovuta tenere aperta la sezione oltre le 20:00 per permettere a tutti di votare. L’ultima volta, per la rielezione di Renzi, avevano partecipato alle primarie circa 1,8 milioni di persone, ma poi c’era stato il forte calo delle politiche e l’affluenza di oggi non era scontata. Nicola Zingaretti, il neo eletto segretario del Partito democratico, ha iniziato il suo impegno nell’associazionismo prendendo parte al movimento per la pace, nel 1991 poi viene eletto Segretario Nazionale della Sinistra Giovanile e l’anno successivo Consigliere Comunale di Roma. Deputato al Parlamento europeo dal 12 febbraio 1992 al 14 marzo 1995, è stato Presidente della Provincia di Roma dal 28 aprile 2008 al 29 dicembre 2012 e dal 12 marzo 2013 è presidente della regione Lazio. Nel suo primo discorso da neo segretario Pd Zingaretti ha detto tra l’altro: “Penso ai delusi, a chi ci ha criticato, a chi ci ha frainteso e ha votato altre forze politiche che si sono presentate con idee suggestive. Molti sono tornati, stanno tornando e torneranno nel nuovo Pd e nella nuova alleanza, un nuovo campo unitario e combattivo per voltare pagina in questo Paese. È un inizio, non illudiamoci, la destra è rocciosa, forte, radicata, non cederà il potere in maniera semplice.”Aggiunge poi: “Io farò di tutto per essere all’altezza. E essere all’altezza vorrà dire sapere ascoltare e sapere decidere. Apriremo una nuova fase costituente per un nuovo Pd che dovrà avere dei segnali chiari per far contare di più le persone.” Per lui i complimenti dei rivali Martina e Giachetti e tanti commenti, tra cui quello di Gentiloni: “Zingaretti ora può ridare slancio al Pd e all’opposizione.” Walter Veltroni, tra in fondatori del partito, ha definito le primarie “un segnale di luce” nel “buio” della perdita di speranza, pure escludendo per sé ruoli attivi nel Pd.
1 marzo
PRIMO PIANO
Quando la burocrazia e i soldi valgono più del salvataggio di una vita.
“L’elicottero va pagato in anticipo.” L’agenzia di volo Askari “accetta soltanto pagamenti anticipati e il deposito lasciato dagli alpinisti si è esaurito con le operazioni di ieri”, spiega lo staff dell’alpinista Nardi. La sua famiglia “si è resa immediatamente disponibile al pagamento dell’intera somma necessaria, ma i tempi tecnici e burocratici hanno di fatto impedito di poterlo fare in poche ore”. L’agenzia vuole, dunque, il pagamento anticipato. L’elicottero che avrebbe dovuto trasferire dal campo base del K2 al Nanga Parbat l’alpinista basco Alex Txikon e i suoi collaboratori per tentare il piano B, volto a soccorrere con i droni Daniele Nardi e Tom Ballard, i due alpinisti di cui non si hanno più notizie da cinque giorni, non è decollato perché l’agenzia privata Askari, che gestisce in concessione i voli degli elicotteri dell’esercito pakistano, ha chiesto il pagamento anticipato dell’importante somma necessaria. “L’Italia, tramite l’Ambasciatore Stefano Pontecorvo, – precisano i collaboratori dell’alpinista disperso – ha pertanto provveduto concretamente e direttamente a gestire i pagamenti con l’Aviazione pakistana di quanto richiesto da Askari per il volo degli elicotteri in attesa dei rimborsi assicurativi.” Per oggi però è ormai tardi anche per il peggioramento delle condizioni meteo e il volo è rinviato a domani, quando Txikon farà perlustrare dai suoi droni tutta la zona dello Sperone Mummery, fino al plateau sovrastante, e tutte le vie che teoricamente possono aver percorso Daniele e Tom. Ieri un elicottero con a bordo l’alpinista pakistano Ali Sadpara e il suo team aveva localizzato la tenda, invasa dalla neve, dei due scalatori al campo 3 con intorno tracce di valanghe. E proprio a causa del forte rischio valanghe della zona il team russo al campo base del K2, che si era offerto di intervenire, in accordo con l’organizzazione, ha deciso di rinunciare. Per Daniele Nardi, alpinista di 43 anni nato a Sezze, che in carriera ha scalato Everest e K2, questa è la quinta spedizione in Karakorum. “Non è un’ossessione, piuttosto è amore per un’idea e ancor di più per uno stile di intendere la montagna e la vita” ha detto prima di partire. Tom Ballard, inglese di 31 anni, è un fuoriclasse dell’arrampicata su misto (ghiaccio e roccia con piccozze e ramponi) e del dry tooling, nel 2015 ha scalato le sei grandi pareti nord delle Alpi in solitaria invernale, sua madre Alison Hargreaves, famosa per le sue salite sulle montagne più alte della terra senza ossigeno, morì il 13 agosto del 1995 sul K2. Ribattezzata la “montagna assassina” per l’alto indice di mortalità, il Nanga Parbat con i suoi 8126 m. è la nona montagna più alta della Terra.
DALLA STORIA
Sandro Botticelli: “ La Primavera”.
Firenze è una città che esercita un fascino particolare, perché con le sue chiese, i suoi monumenti, i suoi palazzi, ti fa fare immediatamente un salto epocale, tanto che sembra che da un momento all’altro debbano materializzarsi nelle sue strade uomini politici, poeti, filosofi, pittori e artisti di un passato remoto contraddistinto dalla grande fioritura delle Lettere e delle Arti, quale fu l’Umanesimo fiorentino del Quattrocento. In questo clima di grande fermento culturale della Firenze medicea si formò e operò Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, nato a Firenze, in via Nuova (oggi via del Porcellana), il 1º marzo 1445, e detto Botticelli, forse, come riferisce il Vasari nelle “Vite”, da un certo maestro Botticello, amico del padre, nella cui bottega fece tirocinio, o più probabilmente da “battigello”, colui che batte l’oro, in riferimento al mestiere del fratello orafo. Botticelli scelse di esaltare la grazia, l’eleganza intellettuale e la squisita rappresentazione dei sentimenti e per questo le sue opere più celebri furono caratterizzate da un marcato linearismo e da un intenso lirismo, dalla particolare fisionomia dei personaggi, contraddistinti da una bellezza senza tempo, sottilmente velata di malinconia. Fu proprio la continua ricerca della bellezza assoluta, al di là del tempo e dello spazio, che portò il pittore fiorentino a staccarsi progressivamente dai modelli iniziali, che risentivano dell’influenza del Lippi e del Verrocchio, e a elaborare uno stile sostanzialmente diverso da quello dei suoi contemporanei, che lo rese un caso praticamente unico nel panorama artistico fiorentino dell’epoca. Botticelli risentì dell’influenza delle teorie dei neoplatonici fiorentini, che conciliarono gli ideali cristiani con quelli della cultura classica, ne accolse pienamente le idee e riuscì a rendere visibile la bellezza da loro teorizzata, dandole un carattere malinconico e contemplativo. Nonostante numerose siano le opere famose da lui prodotte, dire Botticelli è avere negli occhi “La Primavera”, il capolavoro dell’artista, che ci introduce in un’atmosfera di incanto ed emana un fascino indescrivibile per la bellezza e l’armonia delle linee, delle forme, dei colori. In un ombroso boschetto di alberi di aranci, che sembra richiamare il giardino delle Esperidi, sullo sfondo di un cielo azzurrino, su un verde prato, disseminato da un’infinita varietà di fiori, nontiscordardimé, iris, fiordalisi, ranuncoli, papaveri, margherite, viole, gelsomini, sono disposti, in una composizione armonica e bilanciata, nove personaggi, tutti appartenenti alla mitologia greca. Procedendo da destra verso sinistra vi è Zefiro, la personificazione del vento di primavera, che, arrivando in planata, rapisce per amore la ninfa Clori, dalla cui bocca esce un ramo di fiori che allude alla sua prossima trasformazione e rinascita in Flora, la personificazione della stessa Primavera, che indossa uno splendido abito fiorito e sparge a terra i fiori che tiene in grembo. Al centro campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell’amore più elevato, sopra di lei vola il figlio Cupido, pronto a scoccare una freccia contro una delle Grazie, mentre a sinistra si trovano le Grazie, che, vestite di veli leggerissimi, disegnano un’armoniosa figura di danza, muovendo ritmicamente le braccia e intrecciando le dita. Chiude il gruppo a sinistra Mercurio, con i tipici calzari alati, che con il caduceo scaccia le nubi per garantire un’eterna primavera. Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli: innanzitutto l’innegabile ricerca di bellezza ideale e armonia, emblematiche dell’Umanesimo, che si attua nel ricorso in via preferenziale al disegno e alla linea di contorno, scelte stilistiche che, derivate dall’esempio del Lippi, generano pose sinuose e sciolte, gesti armoniosi, profili idealmente perfetti. La scena idilliaca viene così ad essere dominata da ritmi ed equilibri formali sapientemente calibrati, che iniziano dal rapimento e si esauriscono nel gesto di Mercurio, tanto che l’ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l’unità della rappresentazione, è stato definito “musicale”. Il significato allegorico di questo capolavoro di Botticelli è stato oggetto di numerose interpretazioni e ha dato luogo a diverse letture di carattere storico e filosofico: secondo Horst Bredekamp, che data la tavola a non prima del 1485, si dovrebbe considerare il dipinto come una allegoria dell’età medicea, intesa come età dell’oro, ma sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco e non del Magnifico, confermandone così la committenza, la presenza di Flora sarebbe pertanto un’allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città; altri hanno letto “La Primavera” come il manifesto del sodalizio filosofico ed artistico dell’Accademia Neoplatonica di Careggi, Botticelli rappresenterebbe come l’amore possa staccare l’uomo dalle passioni terrene ed elevarlo ad un livello spirituale superiore. Al di là dei possibili significati allegorici, rimangono l’indiscusso e ineffabile fascino dell’opera e l’emozione che ogni volta suscita in chi la può contemplare agli Uffizi, dove fu trasferita nel 1919 dalla villa medicea di Castello, dove il Vasari riferisce di averla vista nel 1550, citandola come “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”, notazione da cui è poi derivato il titolo.
28 febbraio
PRIMO PIANO
Isole Salomone: una perdita di petrolio minaccia la barriera corallina.
Un disastro ambientale minaccia l’atollo più grande del mondo, la barriera corallina vicino alla remota isola Rennell, che, situata a circa 240 km dalla capitale Honaria, è patrimonio dell’Unesco. Il greggio dal 5 febbraio scorso fuoriesce dal cargo MV Solomon Trader, che si è incagliato sui banchi corallini, e al momento si stima che siano già in mare 100 tonnellate di petrolio, con altre 600 circa ancora nei serbatoi. La nave, lunga 225 metri, ne stava trasportando 600, quando è stata travolta dal ciclone Oma, mentre caricava bauxite, minerale usato per produrre alluminio. Le operazioni di recupero potrebbero richiedere mesi e ulteriore assistenza da parte di altri Paesi, come Australia e Nuova Zelanda. L’Australian Maritime Safety Authority ha eseguito voli di ricognizione sull’area e ha rivelato pesanti perdite di carburante nel mare cristallino. A rendere più difficili le operazioni per trasferire il petrolio nei serbatoi sono i danni che la nave ha riportato e l’allagamento della sala motori. Il National Disaster Council delle isole Salomone avverte in un rapporto della “mancanza di capacità nel paese per affrontare un disastro ambientale di questa portata”. In un comunicato l’Unesco si dice “preoccupata per l’impatto”, aggiungendo che “sta lavorando con le autorità nazionali per verificare lo stato della situazione e le migliori misure da adottare”. Anche l’Australia è impegnata ad assistere il governo di Honiara con le operazioni di contenimento e decontaminazione, dopo la richiesta d’aiuto del Primo Ministro. L’Australian Department of Foreign Affairs and Trade ha aggiornato l’avviso per i viaggiatori di riconsiderare la visita all’Isola Rennell perché “il petrolio è una sostanza tossica” e l’esposizione ad esso crea un rischio per la salute. Il governo australiano sta contribuendo all’intervento di risposta all’emergenza e ha espresso la sua preoccupazione per l’estensione del danno: “L’impatto di questo sversamento di petrolio avrà un effetto devastante sull’ambiente circostante, incluso potenzialmente su un sito protetto dall’Unesco così come sulla sopravvivenza degli abitanti di Rennell. Siamo molto preoccupati dalle circostanze che hanno portato a questo disastro.” Anche la Nuova Zelanda ha inviato due esperti per aiutare negli sforzi di recupero.
DALLA STORIA
Aretha Franklin. La voce dell’anima.
“Io credo che nell’odio dei negri ci sia una terrificante carica di amore. Tutto ciò che è autentico è “soul”. Anche la religione, anche il sesso”.
(Aretha Franklin agli inizi della carriera)
Nel febbraio del 2017 Aretha Franklin annunciò che avrebbe smesso di fare tour. Si sarebbe dedicata esclusivamente alla registrazione di album in studio, anche se poi nei fatti continuò a programmare degli spettacoli (molti dei quali vennero, purtroppo, annullati a causa delle sue precarie condizioni di salute). La grande cantante, soprannominata la “Regina del blues” per la sua capacità di aggiungere una vena soul a qualsiasi cosa cantasse e per le enormi qualità vocali morirà, un anno e mezzo dopo, il 16 agosto 2018, nella propria abitazione a Detroit per le complicanze di un cancro al pancreas (già diagnosticato nel 2010). “Lady Soul”, la cui voce venne definita “una meraviglia della natura”, lasciava un patrimonio musicale quasi impossibile da eguagliare per la straordinaria bellezza. “Aretha seppe combinare l’emotività del canto con la tecnica il che rende la sua versatilità e padronanza nelle note alte ineguagliata. Questa speciale parte dell’estensione è una caratteristica facilmente attribuibile ad Aretha Franklin e a tutti i cantanti successivi o seguaci di Ella Fitzgerald che hanno seguito il suo nuovo modo di cantare nella musica nera, scollandosi dal modello di impostazione canoro stilistico jazz ispirato dal bel canto o dalla concezione di far riflettere nel canto un sentimento esclusivamente pessimista sulla visione di una vita ingiusta e drammatica, cioè il canto come espressione di sofferenza (espressionismo). Invece Aretha fu una delle artefici (se non la principale) che ha dato origine a un nuovo modo di cantare più ribelle, basato più sull’esclamazione. Caratteristica canora che si affermò in seguito nel rock e nella musica pop. Dunque la straordinaria voce di Aretha è dovuta in gran parte al suo mutevole vibrato (arioso, jazzista e teatrale), ma principalmente al suo grandioso e inimitabile timbro, ricco di varie chiarezze, punti focali scuri e caratteri diversi”. Secondo il miglior copione soul Aretha Franklin nasce a Memphis, il 25 marzo 1942. Cresce a Detroit sulle strade della black music e anche il seguito sembra una bella favola nera: è solista nei canti gospel della chiesa in cui il padre Clarence (amico di Martin Luther King e impegnato nella difficile lotta per i diritti civili) è reverendo. “In casa, quando ero bambina, sette, otto anni, “ ricorda Aretha “c’erano sempre, con mio padre cantanti e predicatori. Ho conosciuto molto bene Mahalia Jackson, James Cleveland, Arthur Prysock, B.B. King, Dorothy Donegan, Dinah Washington, Lou Rawls, Sam Cooke e tanti altri. In chiesa, naturalmente, si cantavano soltanto inni religiosi, ma a casa, soprattutto la sera, si faceva musica d’ogni genere. Ricordo le cose straordinarie che B.B. King riusciva a dire nei suoi blues. E’ lì che ho imparato che non esiste un confine definito fra il canto religioso e quello profano e che anche un buon canto pieno di riferimenti sessuali può essere profondamente religioso. Ciò che conta è che ci sia dentro l’anima, quella vera, quella sincera. Il soul è appunto questo, è l’anima vera che ora parla di Dio e ora parla d’amore. Cioè parla sempre d’amore. Anche quando grida l’odio, perché io credo che nell’odio dei negri ci sia una terribile carica d’amore. Tutto ciò che è autentico è soul”. A quattordici anni Aretha incominciò a seguire il padre e il fratello Cecil nei loro giri attraverso le chiese negre. “Quando ripenso a quegli anni”, ricorderà poi Aretha, “mi prende una terribile tristezza … L’ufficio in chiesa era bellissimo, anche se la chiesa era piccola e povera e bellissimi anche gli incontri con la gente di colore, ma i viaggi erano terribili. Certe volte, soprattutto nel Sud, guidavamo per otto o dieci ore senza poter trovare un posto in cui ci dessero un bicchiere d’acqua o un panino. Anche per dormire dovevamo girare decine di alberghetti prima di trovarne uno disposto a ospitare un gruppo di negri. Una volta eravamo in viaggio verso Montgomery. Mio padre era al volante da sette ore. Ci avevano respinti da cinque bar, lungo la strada. “Niente negri”, diceva il barista appena ci vedeva scendere dalla macchina. Faceva molto caldo ed eravamo assetati. Proprio assetati, come quelli che si perdono nel deserto. A un certo punto mio fratello disse: “Adesso basta, al prossimo bar scendo e li obbligo a darci bere”. “Trovammo un bar e ci fermammo. Mio fratello scese ed entrò. Il barista gli disse di andarsene che non lo avrebbe servito. Cecil insistette. Disse che avevamo sete. “Non vogliamo altro che un po’ d’acqua pulita e fresca”, disse. Il barista gli indicò un fosso che correva lungo la strada. L’acqua era putrida. “Quell’acqua”, disse Cecil, “non possiamo berla. Vogliamo acqua pulita”. Il barista gli sorrise. “D’accordo, ragazzo, se si tratta soltanto di acqua posso servirti”, disse. E prese un secchio d’acqua e glielo buttò addosso”. Il pregiudizio razzista è realmente la cosa più ignobile che una persona possa sentire, qualifica il suo livello disumano. Ma torniamo alla voce di Aretha che si alza dal coro fino a farsi ascoltare da mister John Hammond, l’uomo che scoprì, tra i tanti, Billie Holiday. Un avvio difficile e poi l’esplosione nel 1966, in piena era beat, quando entra nella scuderia Atlantic, una casa newyorkese infinitamente più piccola della Columbia, ma specializzata in cantanti neri di soul music e di rhythm’n’blues. Nel catalogo dell’Atlantic figuravano già i nomi di Wilson Pickett, Solomon Burke, Ruth Brown, Ray Charles, Otis Redding magnifico interprete di “Respect”, la canzone che Aretha trasfomò in un inno per i diritti civili. Nei jukebox il nome di Aretha Franklin è affiancato a hit mondiali, titoli quali Chain of Fools, Think, I Never Loved a Man. Intervistata alla televisione, la notte di Natale, Aretha Franklinh disse, con molta sincerità: “Non so rendermi conto di che cosa sia successo. La fortuna è arrivata di colpo, inattesa. Quando, un anno fa, rifiutai di rinnovare il contratto con la Columbia ero molto demoralizzata. In cinque anni avevo fatto ben pochi passai avanti. Firmai con L’Atlantic sperando di aver più successo in un catalogo specializzato, ma non avevo grandi illusioni. Avevo deciso di provare ancora per cinque anni. E, invece, ecco qua, il successo è arrivato. Io credo che il maggior merito l’abbia Jerry Wexler, il vicepresidente dell’Atlantic. E’ stato lui a produrre tutti i miei ultimi dischi. Mi ha lasciato piena libertà di scelta, ha consentito che includessi molti brani miei, che mi accompagnassi al pianoforte, che controllassi gli arrangiamenti”. In realtà, a far esplodere il successo di Aretha Franklin furono anche altre ragioni. Il 1968 fu infatti un anno-chiave nella carriera della musica leggera. Proprio parlando della fortuna improvvisa di Aretha, Jerry Wexler ebbe occasione di dire: “A imporre il rock, lo sappiamo tutti, furono, negli anni Cinquanta, soprattutto cantanti bianchi. Come Elvis Presley e Bill Haley. Attingevano dalla musica negra ma il loro stile era assai lontano da quello autentico degli interpreti di colore di rhythm’n’blues. Era bianco e destinato a un pubblico bianco. In quegli anni era ancora molto difficile per un cantante negro trovare accoglienza nei club dei bianchi. Per le donne era più facile perché anche la morale razzista ammette che un bianco possa farsi eccitare sessualmente da una negra. Il caso contrario è inammissibile e non dimentichiamo che il rock e il rhythm’n’blues sono una musica profondamente carica di inviti sessuali. I cantanti negri non avevano che il pubblico negro. Per il pubblico bianco c’erano i surrogati, appunto Elvis Presley e Bill Haley. Nella prima metà degli anni Sessanta le cose incominciarono a cambiare. Ci furono i complessi inglesi, come i Beatles e i Rolling Stones, a continuare il filone bianco del rock, ma ci fu anche la progressiva scoperta delle radici di quella musica. E fu la fortuna per i cantanti negri. Il 1968 è stato il giro di boa del rock. Dal ’68 in poi la fortuna degli interpreti di colore è andata crescendo. Ray Charles e Aretha Franklin sono due grandi creatori e non possono venir eguagliati da nessuno”. “Lady soul” si “contamina di rock” con i Rolling Stones (Jumpin’ Jack Flash) e col cinema grazie a John Landis (“The Blues Brothers” nel 1980 e “Blues Brothers – il mito continua” nel 1998 dove interpreta se stessa). La carriera di Aretha è stata contrassegnata da memorabili successi, riconoscimenti, premi: ha vinto 18 Grammy Awards e ha venduto 75 milioni di dischi nel mondo ed è stata contesa dai palcoscenici più importanti del mondo. Al suo funerale erano presenti numerosi personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica, fan e la bara è stata scortata da numerose Cadillac rosa, tributo alla sua canzone “Freeway Of Love”, del 1985.
Mary Titton
26 febbraio
DALLA STORIA
“Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice …”
(Ritratto di Manfredi re di Sicilia, anonimo XIII secolo)
Così nel canto III del Purgatorio, il giovane re di Sicilia, figlio naturale di Federico II, si presenta a Dante nell’Antipurgatorio e racconta con brevi, ma significative parole la sua morte avvenuta il 26 febbraio 1266, nella battaglia di Benevento, combattendo contro Carlo d’Angiò, sceso in Italia per istigazione di Urbano IV. Nella battaglia, che dopo un inizio favorevole al re svevo, si volse rapidamente contro di lui, le milizie siciliane e saracene insieme a quelle tedesche difesero strenuamente il loro re, mentre quelle italiane abbandonarono Manfredi, che morì combattendo con disperato valore, come attestano i segni che porta ancora sul corpo nel colloquio con Dante: “biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”, “e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto”. Controversa fu la sua figura storica, in quanto i cronisti del tempo lo giudicarono in modo opposto: i guelfi, come Giovanni Villani, lo accusarono di grandi crudeltà, “non curando quasi né Iddio né Santi”, i ghibellini lo esaltarono come grande re e condottiero.
(Incoronazione di Manfredi, re di Sicilia – dettaglio miniatura dal Codice Chigi)
Dante ne fa il rappresentante di quel mondo aristocratico e cavalleresco, caratterizzato da valori quali la magnanimità, la liberalità, la cortesia, in estinzione al tempo del sommo poeta. È inoltre il tenace sostenitore dell’Impero, l’ultimo dei grandi sovrani italiani in grado di opporsi al potere e alla politica temporale dei pontefici, che aveva insanguinato l’Italia ed era stata causa della corruzione dell’umanità. Eppure questo campione splendido e leggendario, discendente da Costanza d’Altavilla, ultima erede della dominazione normanna sul meridione d’Italia, morto opponendosi coraggiosamente al nemico e seppellito sul campo di battaglia, sotto un mucchio di pietre, dagli stessi cavalieri francesi, che ne vollero così onorare il valore, per sua stessa ammissione si è macchiato di peccati “orribili”, che nell’aldilà vengono appena ricordati per mettere in risalto l’ infinita misericordia di Dio, che ha salvato anche lui che si era ribellato alla Chiesa ed era stato scomunicato. Così recita la terzina dantesca: “Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei.” Dante coraggiosamente salva Manfredi immaginando un suo pentimento in punto di morte, mentre era diffusa l’opinione che la sua anima fosse dannata a causa della scomunica e insiste sulla misericordia del Padre che la creatura può sempre sperimentare, nonostante la ribellione e la degradazione, aspetto sorprendentemente ripreso e riproposto, oggi, a distanza di secoli, da papa Francesco. Chiara e ferma è, invece, la posizione di Dante contro l’accanimento inutile dell’arcivescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli, che con il consenso del papa Clemente IV, fece disseppellire e gettare il corpo fuori dei territori della Chiesa, a candele spente e rovesciate come si conveniva ad uno scomunicato, lungo il fiume Verde, nome medievale del Liri, all’insegna di un odio che permane fino dopo la morte e ispira un gesto profanatorio, chiuso ad ogni intervento della Misericordia di Dio e ad ogni umana pietà:
“Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘ Verde,
dov’è le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.”
(La battaglia di Benevento, miniatura della Nuova Cronica di Giovanni Villani)
25 febbraio
PRIMO PIANO
Regionali in Sardegna: vince Solinas del Centrodestra.
Christian Solinas, il candidato di centrodestra, ha vinto le elezioni regionali sarde, battendo il candidato del centrosinistra Massimo Zedda e distaccando nettamente Francesco Desogus del Movimento 5 stelle, che vede percentuali più che dimezzate rispetto alle politiche di appena un anno fa. Solinas, che è dunque il nuovo presidente della Regione Sardegna, ha detto in conferenza stampa: “Oggi ha vinto la Sardegna… Girando la Sardegna in lungo e in largo ho incontrato tantissime persone, riscontrando la netta percezione di voglia di cambiamento e i sardi ci hanno premiato.” L’avversario di Solinas, Massimo Zedda, attuale sindaco di Cagliari, ha riconosciuto la sconfitta: “Il risultato dà la vittoria al centro destra. Ho provato a chiamare Christian Solinas e gli ho già mandato un messaggio per augurargli buon lavoro”, ma poi aggiunge: “Siamo andati ben oltre le aspettative. Ci davano per inesistenti, invece ci siamo, eccome. Abbiamo battuto il Movimento 5 stelle, la prossima volta batteremo il centrodestra.” Dal canto suo, il candidato governatore del M5s Francesco Desogus, rispondendo alle domande dei cronisti sul crollo dei consensi per il M5s dal 42% delle politiche a circa il 10% di oggi, ha imputato a “una legge regionale per noi difficile” la strada “in salita” che ha dovuto affrontare il suo movimento. Ha anche aggiunto: “Ma soprattutto siamo partiti da zero senza tutte quelle liste che sostenevano centrodestra e centrosinistra.” Nonostante questo, sottolinea di non essere “già stato convinto di perdere, anche se era una partita molto difficile”. I capi politici dei diversi schieramenti in corsa hanno così commentato i risultati: il vicepremier Luigi Di Maio ha affermato fuori da Palazzo Chigi, quando ancora c’erano solo i primissimi dati: “Noi siamo positivi perchè per la prima volta in Sardegna entriamo come consiglieri regionali.” Ha poi proseguito e sottolineato: “Certo, eravamo 60 candidati contro 1.350 con decine di liste civiche ed una scheda elettorale che era un lenzuolo … Il tema, quindi, sono le ammucchiate delle liste civiche.” Il premier Conte da Sharm El-Sheikh, dove si trova per il vertice tra l’Unione europea e la Lega degli Stati arabi, ha assicurato che non ci saranno conseguenze sul governo, affermazione ribadita anche dal vicepremier Matteo Salvini. Le urne si sono chiuse con un’affluenza del 53,77%, +1,5% rispetto al 2014. Lo scrutinio, che va estremamente a rilento, ha smentito nettamente le previsioni degli exit poll, che davano Solinas e Zedda divisi da un solo punto. Parziale anche il dato sulle singole liste, che al momento vede il Pd come primo partito, seguito da Lega e Forza Italia, poi il M5S appaiato al Partito sardo d’azione.
DALLA STORIA
(Monumento a Carlo Goldoni, Campo S. Bartolomeo a Venezia)
Venezia, la città dove Carlo Goldoni nacque il 25 febbraio 1707 e scrisse e rappresentò gran parte delle sue commedie, aveva una fiorente tradizione teatrale, dominata ancora dalla commedia dell’arte, in cui gli attori impersonano caratteri fissi: Arlecchino, Brighella, Pantalone, che improvvisano le battute secondo l’estro del momento e sulla base di canovacci che riportano solo lo sviluppo generale dell’intreccio. Quando Goldoni, dopo aver esercitato anche la professione di avvocato, torna alla sua vocazione giovanile e si avvicina al teatro comico, la commedia dell’arte, dopo i successi del secolo precedente, è in piena decadenza per la volgarità buffonesca in cui era scaduta la comicità, per la rigidità dei tipi rappresentati dalle maschere, per la ripetitività delle battute e dei lazzi, per la banalizzazione delle situazioni sceniche, tutti mezzi volti a strappare il consenso del pubblico. Siamo nell’età della cultura arcadica e illuministica, che rifiuta le stravaganze e le bizzarrie del barocco e, in nome dell’ordine, della semplicità e del buon gusto, sente l’esigenza di una riforma della commedia, che fu tentata da alcuni scrittori toscani, ma si risolse in una esperienza solo letteraria e rimase chiusa nell’ambito delle accademie. Per Goldoni fu diverso, perché era uno scrittore di teatro, che conosceva perfettamente gli umori e i gusti del pubblico e proprio il pubblico fu uno dei parametri decisivi della riforma da lui proposta, che attuò gradualmente, evitando atteggiamenti polemici e provocatori e vincendo a poco a poco le resistenze degli attori e le diffidenze degli impresari. Contrario agli arbitri degli attori e all’approssimazione dei testi messi in scena, sancì la priorità del testo scritto, ma adottò una tattica prudente: nel 1738 compose il “Momolo cortesan”, di cui scrisse per intero solo la parte del protagonista, lasciando all’improvvisazione tradizionale tutto il resto, e, solo cinque anni dopo, nel 1743, mise in scena la prima commedia, in cui tutte le parti erano scritte, “La donna di garbo”. Lo scrittore nella prefazione all’edizione Bettinelli delle sue commedie indica i libri essenziali della sua formazione: quello del “mondo”, che gli ha mostrato gli aspetti naturali degli uomini, e quello del “teatro”, che gli ha insegnato la tecnica della scena e del comico: “Sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro”. Così Goldoni traccia le due direttrici fondamentali della sua riforma: da una parte vuole scrivere testi che vadano incontro alle attese e ai gusti del pubblico, dall’altro vuole che la sua commedia sia “verisimile”, rifletta il mondo, ossia la realtà della vita con la sua molteplicità di tipi umani, caratteri, passioni e situazioni che vi si determinano. Nascono così i capolavori come “La putta onorata”, “La famiglia dell’antiquario”, “La locandiera”, con l’indimenticabile personaggio di Mirandolina.
È la commedia di carattere, che ha come riferimento la borghesia operosa, per questo le maschere, con i loro stereotipi, non vanno più bene, i personaggi sono colti nella loro individualità irripetibile e inconfondibile e, anche se ci sarà lo sbruffone, sarà uno sbruffone ben definito, non un archetipo, anche Pantalone è presente, ma è stato abilmente trasformato dall’autore nel mercante veneziano, contraddistinto da forte attaccamento alla famiglia, laboriosità, senso dell’economia e salda moralità, Arlecchino, divenuto Truffaldino ne “Il servitore di due padroni”, acquista nuove caratteristiche, come si vede anche nelle magistrali interpretazioni dei nostri anni dell’attore fiorentino Ferruccio Soleri. Innovare significa, però, scontrarsi con la tradizione, perciò Goldoni fu oggetto di numerose critiche, provenienti dagli accademici e dai conservatori del suo tempo. A questi che lo definivano plebeo, volgare, triviale Goldoni risponde che “Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que’ Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno non l’hanno adoperata”. Non gli furono risparmiate amarezze per le polemiche sempre più aspre con i suoi avversari, tra cui il Chiari, e per la volubilità del pubblico veneziano, che tornò a preferire un teatro più fantasioso, come le fiabe di Carlo Gozzi, tanto che fu costretto a partire per la Francia, dove troverà la spiacevole sorpresa dell’affezione del pubblico alla commedia dell’arte, a cui dovrà in un certo senso ottemperare, tornando indietro. Il congedo da Venezia e dal suo pubblico, che non lo seguiva più come prima è adombrato nella commedia “Una delle ultime sere di carnovale”, rappresentata alla vigilia della partenza di Goldoni per la Francia: l’addio all’amata Venezia di Anzoleto, disegnatore di ricami costretto a partire per la Russia, commosse il pubblico, perché alludeva chiaramente all’allontanamento dell’autore: “Confesso, e zuro su l’onor mio, che parto col cuore strazzà”.
24 febbraio
PRIMO PIANO
Vaticano: summit sulla pedofilia nella Chiesa.
Si è concluso oggi in Vaticano l’incontro “dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali sul tema della protezione dei minori nella Chiesa”, che, fortemente voluto da Papa Francesco e molto atteso, si era aperto lo scorso 21 febbraio. Il Papa già nella sua introduzione aveva sottolineato che “il popolo di Dio si aspetta da noi non semplici e scontate condanne ma misure concrete ed efficaci” ed aveva invitato ad ascoltare “il grido dei piccoli che chiedono giustizia.” I temi principali di queste quattro giornate di incontri dei Pastori delle Comunità cattoliche in tutto il mondo sono stati tre: “responsabilità, accountability e trasparenza”. Papa Francesco ha chiesto a tutti i partecipanti al summit di ascoltare gli abusati prima dell’incontro in Vaticano, in quanto è necessario partire dall’ascolto delle vittime per comprendere il fenomeno nella sua reale gravità e per mettere in campo immediatamente serie strategie per contrastarlo in modo radicale. Così durante il primo giorno si sono succedute le drammatiche testimonianze di 5 vittime dei diversi continenti, che rivivono un incubo infinito e oltre il dolore e l’orrore per gli abusi subiti e le ferite che non si cancellano per tutta la vita, se denunciano, vengono oltraggiate, insultate e derise. Ha detto il papa: “Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire, ancora una volta, il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità … Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il Vaticano ha dato spazio anche alle critiche più feroci, come quella di Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frising, che ha accusato la Chiesa di aver distrutto “i dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili di molti casi di pedofilia”, denuncia che fuori dal Vaticano ha suscitato l’indignazione delle vittime di abusi e delle loro organizzazioni, tra cui Rete l’Abuso, che riferisce come “in Italia nell’ultima decina di anni potrebbero esserci state un milione di vittime di pedofilia”, secondo le proiezioni di Mark Vincent Healy fatte sulla base dei dati emersi dalle commissioni governative di inchiesta in tutto il mondo. Anche questa mattina, durante l’Angelus, dopo il discorso conclusivo del summit in Vaticano contro gli abusi sui minori, papa Francesco è tornato a condannare con durezza la “piaga” della pedofilia, sottolineandone “la mostruosità all’interno della Chiesa” e annunciando la volontà di prendere “tutte le misure possibili perché simili crimini non si ripetano e la Chiesa torni ad essere assolutamente credibile e affidabile nella sua missione di servizio e di educazione per i piccoli secondo l’insegnamento di Gesù.” Viene quindi annunciata tolleranza zero verso chi si è macchiato o si macchi di crimini contro i minori e, come ha annunciato padre Federico Lombardi, è in arrivo un nuovo Motu Proprio del Papa sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, che sarà accompagnato da una nuova legge dello Stato della Città del Vaticano e da Linee guida per il Vicariato della Città del Vaticano sullo stesso argomento. Inoltre è imminente la pubblicazione da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede di un “vademecum” che aiuterà i vescovi del mondo a comprendere chiaramente i loro doveri e i loro compiti.
22 febbraio
PRIMO PIANO
Parigi: migliaia di giovani alla marcia per il clima di Greta Thunberg.
Migliaia di studenti francesi hanno sfilato al centro di Parigi per il secondo venerdì di protesta contro il riscaldamento globale e a tutela del Pianeta. A guidare il corteo, partito da Piazza dell’Opera, come 24 ore prima a Bruxelles, è stata la 16enne attivista svedese Greta Thunberg, che ha dato vita al movimento europeo “Fridays for Future” ed è stata accompagnata dai colleghi belgi Anuna de Wever e Kyra Gantois. La giornata parigina di Greta e degli altri giovani attivisti per il clima è cominciata in tarda mattinata, in Piazza della Repubblica, con una conferenza stampa, a cui era presente anche la militante ambientalista indiana Vandana Shiva. “Quando ho cominciato gli scioperi delle scuole per il clima, non mi sarei mai aspettata un movimento come questo. Ogni volta rimango sorpresa.”, ha detto Greta, con i capelli raccolti in due lunghe trecce e un piumino viola. Greta è stata accolta dal sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, mentre gli studenti francesi hanno intonato vari slogan per chiedere “la rivoluzione ambientale adesso” e denunciare “un crimine contro l’umanità”, quello del riscaldamento globale. Se venerdì scorso solo 500 studenti si erano riuniti davanti al ministero della Transizione ambientale, il raduno di oggi ha visto in piazza “alcune migliaia di giovani”, secondo quanto riferito da fonti di stampa francese. La scorsa settimana i giovani hanno chiesto ai governanti di rispettare l’accordo di Parigi sul clima, mentre oggi hanno invitato a rallentare i consumi energetici. L’iniziativa dei “Fridays for Future” lanciata da Greta si è rapidamente propagata fuori dai confini svedesi per raggiungere Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Australia e soprattutto Belgio, dove migliaia di giovani si mobilitano da gennaio ogni giovedì. Il prossimo appuntamento della protesta studentesca è uno sciopero mondiale per il clima indetto per il 15 marzo, scadenza entro la quale i governanti “devono dare prova dei loro impegni per una transizione ambientale equa tra ricchi e poveri”, come si legge sulla pagina Facebook dell’evento.
21 febbraio
PRIMO PIANO
Presentata a Roma la prima mano bionica, capace di sensazioni tattili.
Una mano bionica, sensibile e precisa nei movimenti come una mano naturale, è in grado di garantire il recupero delle sensazioni dopo l’amputazione e permette di orientarsi nello spazio anche al buio, evitando la dipendenza dalla vista. Dopo un periodo di addestramento, i pazienti imparano a poco a poco a tradurre questi impulsi in sensazioni di natura tattile. Il lavoro è frutto di dieci anni di ricerche condotte da due gruppi, coordinati da Silvestro Micera, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e del Politecnico Federale di Losanna, e da Paolo Maria Rossini, della fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli – Università Cattolica di Roma ed è stato sviluppato grazie a fondi europei. È quanto emerge dal convegno “Mano bionica, dalle origini della ricerca alle sperimentazioni su soggetti amputati”, in corso a Roma, presso l’Accademia dei Lincei. Era la fine degli anni ’80 quando il pioniere della Biorobotica, Paolo Dario, docente di Robotica biomedica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, lanciò l’ambizioso progetto di creare una protesi di mano a controllo neurale, basata su elettrodi impiantati nei nervi periferici di persone con amputazioni al braccio. Dario ha detto: “A quel tempo sembrava fantascienza, ma oggi la connessione di una mano bionica al sistema nervoso è una sfida che abbiamo vinto. Le nuove protesi bioniche consentono, infatti, non solo di riacquistare l’utilizzo della mano, ma soprattutto di percepire le sensazioni provenienti dall’ambiente esterno. L’obiettivo è fare in modo che la persona con un’amputazione abbia la percezione di ciò che sta facendo. Proprio come se avesse una mano in carne e ossa.”Alla signora Puleo, rimasta senza una mano per un incidente all’età di 10 anni, due anni fa è stato proposto di entrare nel programma con la nuova mano mioelettrica e di farsi installare gli elettrodi neuronali. Il ministro della Salute Giulia Grillo ha commentato: “La nuova mano bionica è una delle più grandi conquiste della nostra scienza … la grande ambizione dal punto di vista politico è quella di poter dare a tutti i cittadini che ne avranno bisogno questo tipo di protesi.” A margine della presentazione, la ministra Grillo ha annunciato che il nuovo nomenclatore delle protesi e degli ausili sarà varato prima dell’estate.
DALLA STORIA
Galileo: “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”.
“Vide / sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento”. (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 165-169)
(Nel controfrontespizio, a sinistra, le incisioni di Cesare della Bella, raffigurano Aristotele e Tolomeo durante una discussione con Copernico, e contengono una dedica al mecenate di Galileo, il granduca di Toscana)
(Il frontespizio, della prima edizione, a destra, illustra un’altra dedica al granduca e una descrizione di Galileo come matematico straordinario. Il Dialogo fu stampato a Firenze da Giovanni Battista Landini; la pagina riporta il suo stemma di famiglia, con tre pesci in un cerchio)
Il 21 febbraio 1632, dopo aver ricevuto l’imprimatur del papa, venne pubblicato a Firenze da Giovan Batista Landini il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, che successivamente, nel 1633, fu inserito nell’Indice dei libri proibiti e costò a Galileo il processo, la condanna e l’abiura davanti al Santo Uffizio. Galilei iniziò la progettazione dell’opera nel 1624, dopo l’elezione al soglio pontificio con il nome di Urbano VIII del cardinale Maffeo Barberini, fiorentino, estimatore di Galileo e dei Lincei, nella speranza di poter pubblicare un’opera complessiva del suo pensiero, che fosse un vero e proprio manifesto copernicano. Il “Dialogo” si presenta, infatti, come una confutazione del sistema tolemaico-aristotelico a sostegno del sistema copernicano, benché le teorie moderne rivelino l’inesattezza della dimostrazione galileiana sulle maree, e costituisce per l’epoca una vera rivoluzione, in quanto non mise in gioco solo le teorie astronomiche accettate da secoli, ma lo stesso principio di auctoritas, biblico ed aristotelico, a favore della completa autonomia delle scienze naturali dalla teologia e del metodo sperimentale, che da lui prenderà il nome di metodo galileiano. Galilei, per evitare la frattura con la Chiesa che avrebbe avuto gravi conseguenze per la sua sincera fede cattolica e per la verità della scienza e per non incorrere nella censura ecclesiastica, non solo dovette modificare il proemio e la conclusione, ma accettò anche di cambiare il previsto titolo “Dialogo sopra il flusso e riflusso del mare”, che richiamava quella che Galileo considerava la prova della correttezza del sistema copernicano, in quello più neutrale con cui fu stampato, “Dialogo di Galileo Galilei Linceo”, che poteva accreditare la tesi di una discussione accademica e astratta intorno alle due teorie della struttura dell’universo. Galileo sceglie per l’opera non il latino, di solito usato nei trattati scientifici e compreso dai dotti astronomi di tutta Europa, ma il volgare con l’intento di rivolgersi anche a persone meno colte, a “intendenti”, capaci di comprendere tali teorie, inoltre adotta la forma del dialogo sia per intrattenere i lettori con una gradevole conversazione, in cui le tesi scientifiche sono accompagnate da situazioni teatrali, sia per presentare le prove a favore della teoria eliocentrica di Copernico senza impegnarsi personalmente in esse. Gli interlocutori del “Dialogo” sono tre: Filippo Salviati, scienziato e astronomo proveniente da una nobile famiglia fiorentina, che si fa portavoce delle idee copernicane di Galileo e viene descritto dall’autore come uno scienziato con una personalità equilibrata, acuto e soprattutto razionale; Giovan Francesco Sagredo, nobile e colto veneziano, di idee progressiste e di grande esperienza, “intendente di scienza”, non specialista, rappresentante di quelle persone curiose, che costituiscono i destinatari ideali dell’opera; Simplicio, un peripatetico dalla rigida impostazione propria dei docenti di filosofia naturale delle Università italiane del tardo Rinascimento, personaggio immaginario che ricorda nel nome un celebre commentatore delle opere di Aristotele vissuto nel VI secolo. Il dialogo si svolge lungo l’arco di quattro giornate a Venezia, nel palazzo Sagredo sul Canal Grande, dove i tre personaggi si trovano a discutere amichevolmente intorno al sistema copernicano (eliocentrico) e aristotelico-tolemaico (geocentrico). La conclusione del “Dialogo”, in cui si afferma che tutto quanto è stato discusso è solo “fantasia”, come pure il proemio, con l’avvertenza al “discreto lettore” a saper distinguere il vero dal falso rovesciando il senso del messaggio, mirava ad attenuare la portata dirompente dell’opera, ma non bastò ad evitare allo scienziato il processo e la condanna come eretico, perché la diffusione della sua dottrina metteva in discussione l’interpretazione dogmatica della Scrittura, già scossa dalla pretesa del libero esame della Bibbia avanzata dai luterani. La Chiesa, solo il 31 ottobre 1992, con Giovanni Paolo II, ha riconosciuto i “torti” fatti allo scienziato e ha cancellato la condanna di Galileo dopo tredici anni di studio di una commissione di nomina pontificia. Nel Novecento le tesi dello scienziato toscano sono diventate oggetto di un acceso dibattito in campo filosofico tra due posizioni contrapposte: da un lato quella dei neopositivisti come Paolo Rossi, che hanno visto in Galilei il campione della ricerca scientifica moderna, e quella dei filosofi marxisti quali Ludovico Geymonat, che hanno colto in lui la rivalutazione della “pratica”, cioè dell’aspetto tecnico, dall’altro i seguaci del filosofo tedesco Heidegger e i teorici della “crisi della ragione”, come Emanuele Severino, che vedono in lui il responsabile dell’affermazione in Occidente di un pensiero tecnologico e utilitaristico che non tiene conto delle sfere profonde dell’essere, fino ad arrivare alle valutazioni esasperate di Popper e Feyerabend e all’interpretazione postmoderna, secondo cui Galilei avrebbe avuto il torto di voler racchiudere in modo “totalitario” i processi naturali in rigide leggi. Al di là di ogni legittima opinione e interpretazione, a Galilei va il merito di aver fondato, in contrasto con la tradizione aristotelica e la sua analisi qualitativa del cosmo, la scienza moderna e il metodo scientifico sperimentale, senza il quale non sarebbero stati possibili i successivi sviluppi in questo campo. Galilei affermava: “… nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie.” (Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana).
(Galileo Galilei davanti al Sant’Uffizio. Olio su tela, 1847. Robert Fleury. Parigi)
20 febbraio
DALLA STORIA
Il 20 febbraio 2007 l’ONU istituisce la Giornata Mondiale per la Giustizia Sociale.
(Allegoria della giustizia e dell’ingiustizia, Giotto. Padova, cappella degli Scrovegni, 1306)
Si celebra oggi la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale. Istituita il 20 febbraio 2007 durante la sessantaduesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite “intende sottolineare l’importanza dell’equità nel mondo”. Tale concetto significa pari condizioni tra i ceti sociali e i popoli di accedere all’istruzione, ai servizi e al soddisfacimento dei bisogni primari per l’uomo: abitazioni e alimentazione dignitose, in ottemperanza agli “Obiettivi comuni per lo Sviluppo” che riguardano tutti i paesi e tutti gli individui. “La giustizia sociale per tutti è al centro della missione globale che l’ONU svolge per promuovere sviluppo e dignità umana e per rammentare all’opinione pubblica mondiale che occorre incrementare gli sforzi di tutti gli Stati membri per assicurare un mondo più giusto ed equo, veramente per tutti”. Nel 2015, i governi dei 193 Paesi membri dell’ONU hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”, un programma ben definito a sostegno di una politica sociale. Oggi, a dodici anni dalle dichiarazioni delle Nazioni Unite, la cronaca descrive una realtà politica e sociale globale ben diversa dagli obiettivi in programma dell’Organizzazione internazionale. Attualmente il mondo è contrassegnato dalle diseguaglianze che crescono in modo esponenziale che generano fasce sempre più larghe di povertà e nuovi sudditi alle dipendenze di una politica che tutto si può definire tranne che un baluardo contro l’ingiustizia ma che, al contrario, è responsabile, essa stessa, di divisione ed emarginazione. La paura e la rabbia, su scala mondiale, oggi, occupano il posto della compassione, persino della pietà, diversamente da prima, quando, perlomeno nel recente passato storico, se non altro se ne difendeva l’idea; l’idea della dignità, dell’etica, del senso della vergogna, del rispetto, della capacità di indignarsi davanti a un’ingiustizia che era ben radicata nella coscienza della maggior parte delle persone. Nella “civile mentalità occidentale”, recentemente, si sono messe in atto scelte politiche in cui la vita stessa delle persone è stata strumentalizzata come arma di ricatto. Questo dimostra l’incapacità, da parte dei politici, di trovare soluzioni democratiche ai problemi cui sono chiamati a gestire. Il compito difficile dell’arte di fare politica, prevede persone la cui maturità, competenza, cultura, umiltà, interesse per il bene comune siano tali da considerare il proprio lavoro come fosse una missione al servizio degli altri. Il termine “cultura” dal latino “colere” significa coltivare che metaforicamente indica il concetto “colo”, “cultus”, ossia sacro. Fare la voce grossa significa usare un linguaggio rudimentale che in sé non contiene nessuna sacralità ma, viceversa, riporta a una dimensione arcaica, primitiva del linguaggio. Prima di tutto l’uomo, come recita la bella poesia del poeta turco Nazim Hikmet; se non si capisce questo non c’è altro da dire. Anche molti cattolici, non per questo automaticamente cristiani, non disapprovano ingerenze e prevaricazioni contro persone in difficoltà pur di avallare politiche sovraniste. “Giusto è chi prova l’intollerabilità di ogni sofferenza” scrive il filosofo Massimo Cacciari in un interessante articolo dal titolo “Senza giustizia non c’è democrazia”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 20 gennaio 2019”. In esso il professore sottolinea, con la profondità di pensiero che gli appartiene, che oggi i problemi legati alla giustizia e ai valori umani non solo non vengono affrontati ma neppure sembrano più interessare. Il suo articolo, che attribuisce all’assenza della cultura l’aridità di questi tempi in cui i governanti preferiscono mostrare i muscoli, erigere muri, esseri “cattivi”, inumani, sottolinea la complessità del processo di trasformazione sociale e politico in corso andando dentro le cose col pensiero. La vita umana è complessa non la si può semplificare con qualche frase d’effetto e liquidare con un linguaggio semplice, popolare che scarta la scomodità del pensare e stimola istinti più primitivi come l’emotività. Per capire la dimensione umana, si legga Dostoevskij, se è ancora possibile suggerire tali consigli. Ecco cosa scrive nel suo articolo Massimo Cacciari: “Tra i benefici che arreca quest’epoca in cui tutti sono informati su tutto e perciò esonerati dal comprendere è da annoverarsi senz’altro quello che impedirà a chicchessia domani di dire “non c’ero”, “non sapevo”. Testimonianze, foto, filmati fanno il giro del mondo a mostrare esodi sanguinosi di milioni di persone, lager, stupri, torture, naufragi. Le ragioni profonde, le cause che rendono quegli esodi irreversibili, non solo non vengono affrontate, sembrano neppure più interessare. L’Occidente che per almeno due millenni non ha lasciato il mondo in pace per un solo secondo, l’Occidente che ha fatto del pianeta un unico Globo, ora erige muraglie a sua difesa. Europa e Nord America, che erano 1/3 della popolazione mondiale alla vigilia del primo suicidio europeo (1913) e sono oggi meno di 1/7, per scendere tra breve a meno di 1/10, invocano per salvarsi la saldezza dei propri confini. L’Europa che aveva quasi cinque volte gli abitanti dell’Africa, oggi ne conta la metà. Nei prossimi trent’anni la popolazione nell’insieme dei Paesi più poveri (che continueranno a esserlo in assoluto sempre di più) raddoppierà, a fronte di nessun aumento nei paesi occidentali dell’ex-benessere. Perché le economie europee possano ancora far lavorare le loro industrie, la loro agricoltura, i loro servizi si calcola che dovremo “accogliere” in qualche modo almeno 8 milioni di persone. Con famiglie o senza? Integrandoli come? Scherziamo? Chi propone queste domande vive nel mondo dei sogni, è un “buonista”. Il politico di razza, il realista sa bene che il vero problema, invece, è quello di non concedere l’accesso di un porto a una nave, rimandare a casa a morire di fame o di guerra qualche decina di disperati, oppure, più efficace ancora rispetto ai problemi che affliggono l’umanità, promulgare una legge sulla legittima difesa. Tuttavia, ormai, anche ragionamenti basati su inconfutabili elementi di fatto e mero buon senso debbono lasciare il posto a considerazioni culturali di fondo. Uso il termine “cultura” senza alcun orpello letterario-intellettuale, si tranquillizzino i nostri politici “realisti”. Mi riferisco proprio alle trasformazioni rapidissime e radicali del nostro ethos, del senso comune, del modo in cui percepiamo il nostro mondo e i nostri rapporti con gli altri. In ogni comunità si formano dei “termini” (chiamiamoli così, altri avrebbero detto una volta “valori”, ricordate i tempi in cui tutti se ne riempivano la bocca?) intorno al cui significato ci intendiamo o fra-intendiamo, termini che ci forniscono una sorta di orizzonte comune, al di là dei diversi interessi e delle diverse tendenze politiche. Sono “termini”, lo concedo, molto vaghi, ma la loro funzione sociale è importantissima, proprio perché è intorno a essi, nel tentativo di definirli, che si accende la discussione pubblica, il confronto nell’agorà comune, e di conseguenza ciascuno può tendere ad adeguarvisi nelle sue pratiche. Potremmo chiamarli anche elementi della consuetudine o del costume; mille volte traditi nei fatti, certo, ma mai rinnegati nella loro ragion d’essere. Nulla di statico e sicuro, certo, eppure capaci di orientare la nostra azione, di fornirle un metro in grado di valutarla e correggerla eventualmente. Negli anni del dopoguerra , dopo il secondo (e per certi aspetti definitivo) suicidio europeo, questi “termini” hanno ruotato intorno a due fondamentali pilastri: che non vi potesse essere libertà senza uguaglianza di opportunità e senza ricercarla su scala globale, e che sovra-ordinato rispetto a ogni legge, norma o disposizione fosse il Principio della difesa della dignità della persona, senza distinzione di lingua, di religione, di etnia. Troppo cara era costata all’Europa la semplice obbedienza alla legge positiva, qualsiasi cosa essa ingiunga; a troppi disastri aveva portato l’idea di una gerarchia di culture e valori che si trasformava in strumento di potere e di sopraffazione sull’altro. L’idea dell’unità politica europea si genera da quei principi e da questa coscienza. Dubito che si stia oggi sgretolando soltanto per le ondate di crisi economica e dell’emergenza immigrazione. Credo purtroppo si tratti di una crisi di cultura (nel senso che ho spiegato) che matura da tempo e che oggi si dispiega in tutta la sua vastità. Si potrebbe così riassumerne la portata: l’idea di giustizia neglecta terras fugit, fugge disprezzata dalla nostra terra. Intendo giustizia in modo concretissimo, fattore del nostro quotidiano comportamento. Obbedienza alla legge scritta? Certo, ma insieme interpretazione e applicazione della legge sulla base di quei principi. Solo questo? Certamente no, perché giusto sarà il mio agire quando in relazione con gli altri miro anche al loro bene, e non soltanto al mio, quando opero anche per il bene dell’altro, quando comprendo che fare il bene dell’altro è alla lunga anche fare il mio. Giusto è chi prova l’intollerabilità di ogni sofferenza. E allora seppellisce il fratello e soccorre il naufrago anche quando la legge glielo proibisce. Fino a poco tempo fa si diceva da parte dei “realisti”: quando mai ciò è avvenuto? Quando mai ha regnato questa giustizia? Mai, certo. Ma si avvertiva ancora la grandiosità di simili idee e l’importanza decisiva che esse dovevano rivestire per la formazione dell’unità europea. Ne facevamo addirittura il vanto della nostra civiltà. Ora, più che ignorate, sembra quasi che mai abbiano visto la luce; forse andrebbe promossa anche per loro una Giornata della memoria. Magari proprio a Samos; Pitagora sarebbe lieto di accogliere così degni eredi. Credete che si tratti soltanto di quell’astratta idea di giustizia, che nulla ha a che fare col diritto e ancora meno con la politica? Che irresponsabile miopia. Non vedete che in gioco una forma mentis che investe ogni campo dell’umano agire? Pensare la legge unicamente in base al proprio utile di breve periodo, pensarla in chiave elettorale, pensarla come accomodamento passeggero in funzione di qualche emergenza e null’altro, è la stessa cosa di non aver alcuna strategia in materia di immigrazione, di integrazione, di ambiente, di politica industriale. Non concepire alcun rapporto tra legge e giustizia equivale esattamente all’impotenza a collegare politiche per l’immigrazione a politiche per il nostro sviluppo, da un lato, e a politica estera con i Paesi africani, dall’altro. La catastrofe culturale che viviamo sul piano della giustizia è segno della possibile, prossima catastrofe della costruzione unitaria europea, che se avverrà, sarà per responsabilità degli Stati e staterelli europei, non di un’Europa politica che non c’è, degli Stati e staterelli che pretendono di continuare a fare da sé, a darsi leggi all’insegnamento di interessi particolari, che sarebbero invece difendibili soltanto all’interno di una federazione politica. La politica dei “realisti” è la più classica delle politiche dell’illusione. E la più grande delle illusioni è sperare che in questo contesto la democrazia abbia un futuro. Questa democrazia appare ogni giorno di più in contraddizione col termine stesso di futuro! Un regime capace, quando va bene, di dare qualche risposta la mattina per la sera, incurante di giovani e non nati, del tutto indifferente per ogni ineguaglianza, che non riguardi l’elettorato di questo o quel partito, lascerà inevitabilmente il campo a forme di potere elitario-autoritarie o autocratiche. Un profetico studioso del nostro tempo, ce l’aveva insegnato: la democrazia ha spezzato antiche, pesanti catene, ma se poi gli anelli restano separati l’uno dall’altro, se non sussiste tra loro né patto, né amicizia, né senso di giustizia, se nulla dovrebbe tenerli uniti se non l’obbedienza alla nuda legge, e questa non risponde che a miopi calcoli di utilità, essa si rivelerà prima inutile, inefficace e poi dannosa. Sotto le bandiere di un “realismo” senza virtù e senza idea di giustizia procediamo su questa via, a un passo dal punto di non ritorno.
Il grande poeta turco Nazim Hikmet, con questa poesia che parla di pace, della verità, della libertà, dell’eguaglianza, della dignità, dell’amore, della giustizia, lascia al figlio la sua eredità spirituale quale insegnamento universale.
Prima di tutto l’uomo.
“Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra
ma soprattutto all’uomo.
Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzi tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza
del ramo che si secca
del pianeta che si spegne
dell’animale infermo
ma innanzitutto la tristezza dell’uomo.
Che tutti i beni terrestri
ti diano gioia,
che l’ombre e il chiaro
che le quattro stagioni
ti diano gioia,
ma che soprattutto, l’uomo
ti dia gioia.
Nazim Hikmet
Mary Titton
19 febbraio
PRIMO PIANO
Diciotti: la Giunta del Senato dice no a processso per Salvini.
La Giunta per le Immunità del Senato ha respinto la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania di poter processare il ministro dell’Interno Matteo Salvini con l’accusa di “sequestro di persona aggravato” per non aver fatto sbarcare per 5 giorni 177 migranti dalla nave Diciotti della Guardia costiera. I voti a favore della proposta del presidente della Giunta Maurizio Gasparri di dire no all’autorizzazione sono stati 16, espressi dai sei esponenti del M5s (assente la settima senatrice, D’Angelo, che ha partorito in nottata), dai quattro della Lega, dai quattro di Forza Italia, da uno di FdI e da uno del gruppo Autonomie; i sei voti contrari alla proposta del relatore, e dunque a favore dell’autorizzazione a procedere, sono stati quelli di quattro esponenti del Pd e di due commissari del Gruppo Misto, Pietro Grasso e Gregorio De Falco. Ora, dopo il voto in Giunta, sarà l’Aula di Palazzo Madama a dover esprimersi entro il 24 marzo e, salvo sorprese, si allineerà con quanto deciso dai colleghi. Il voto, atteso da settimane tra polemiche e strategie interne, è arrivato nel primo pomeriggio e ha creato molte tensioni. Il senatore M5s Mario Giarrusso, all’uscita dalla giunta, ha replicato ai senatori Pd che protestavano con i cartelli “vergogna”, facendo il gesto delle manette. “Io non ho parenti arrestati”, ha detto riferendosi ai genitori dell’ex premier Matteo Renzi che sono stati messi agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sul fallimento di tre cooperative, provocando le grida dei democratici. In serata, però, lo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s) ha condannato il gesto del collega Giarrusso. “È sicuramente sbagliato, un senatore della Repubblica non deve permettersi di farlo”, ha detto intervistato a Otto e mezzo su La7. Non sono mancate le polemiche all’interno del Movimento 5 Stelle e le proteste degli attivisti sulla rete per il ricorso alla piattaforma Rousseau per decidere come votare. Il capogruppo M5s al Senato, Patuanelli, difende la scelta fatta con queste parole: “Il Movimento 5 Stelle ha preso la sua decisione. L’ha presa tenendo fede ai propri valori e al principio della democrazia partecipata. 52.417 di votanti su Rousseau sono una risposta”. Di altro parere i dissidenti: “Sarebbe un fatto grave se qualcuno si sottraesse al giudizio dei cittadini.” Per De Falco, poi, il voto online è stato un errore politico perchè dice “Credo che il parlamentare del movimento debba seguire il programma, che prevede l’eliminazione delle garanzie”.
DALLA STORIA
“Salvia” o “Savoia”? La tragica storia dell’anarchico Giovanni Passannante.
(Rappresentazione dell’attentato su un antico giornale spagnolo)
C’è un piccolo paese della Basilicata in provincia di Potenza, che in origine si chiamava Salvia, derivante per alcuni dal latino Saulia “luogo piantato a salici”, per altri da Salvia “pianta aromatica” che tuttora cresce abbondante e spontanea nelle campagne circostanti e poi ebbe il nome mutato in Savoia, in omaggio “riparatorio” alla dinastia reale, in quanto un suo cittadino Giovanni Passannante, cuoco di idee anarchiche, il 17 novembre 1878, attentò alla vita di re Umberto I in visita a Napoli. Giovanni Parrella, sindaco di Salvia, si recò a Napoli per porgere le sue scuse e chiedere perdono a Umberto I, il quale le accettò dicendogli: “gli assassini non hanno patria”. Fu, in seguito, ricevuto dai consiglieri del re che gli imposero il cambiamento di nome della città d’origine dell’anarchico, rinominandola Savoia di Lucania. Il sindaco accettò e il comune, per regio decreto, il 3 luglio 1879 cambiò nome, non senza discussioni da parte di alcuni, come il meridionalista Giustino Fortunato che, nel 1913, commentò: “Io non so rassegnarmi che un così bel nome sia andato capricciosamente cancellato!” Giovanni Passannante, l’attentatore, era nato a Salvia di Lucania il 19 febbraio 1849 in una famiglia poverissima, ultimo di dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età, in paese era soprannominato “Cambio” e aveva una mano storpia a causa di una scottatura nell’acqua bollente. Da bambino fu costretto a elemosinare o svolse lavori occasionali, facendo il guardiano di pecore e il domestico, poté frequentare solo la prima elementare e cercò di imparare a leggere e scrivere da sé. In seguito, il ragazzo si recò a Vietri, a lavorare come sguattero, poi si spostò a Potenza, dove trovò lavoro come lavapiatti presso l’albergo “Croce di Savoia” e conobbe Giovanni Agoglia, ex capitano dell’esercito napoleonico, anch’egli originario di Salvia, il quale, avendo notato l’interesse del ragazzo per gli studi, lo portò con sé a Salerno, assumendolo come domestico e assegnandogli un vitalizio per migliorare la sua istruzione. Passannante alternò la lettura della Bibbia a quella dei giornali e degli scritti di Giuseppe Mazzini, inizialmente cattolico fervente nelle pratiche religiose, si convertì poi al culto evangelico e abbandonò le forme esteriori, anche se la fede in Dio rimase sempre viva in lui. A Salerno incominciò a frequentare i circoli filo-mazziniani, conobbe Matteo Melillo, uno dei maggiori esponenti internazionalisti e, nella notte tra il 15 e il 16 maggio del 1870, mentre stava affiggendo proclami rivoluzionari, fu arrestato con l’accusa di sovversione e trattenuto in carcere per tre mesi.
Il 17 novembre 1878, a Napoli, Giovanni Passannante attentò alla vita di Umberto I: quando il corteo reale giunse all’altezza del “Largo della Carriera Grande”, l’uomo sbucò all’improvviso dalla folla festante, salì sul predellino della carrozza del re, scoprì un coltello, che teneva avvolto in uno straccio rosso, e tentò di accoltellare Umberto I urlando: “Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!” Il re riuscì a difendersi, rimanendo leggermente ferito al braccio sinistro, mentre l’attentatore, colpito da un corazziere con un fendente alla testa, venne subito tratto in arresto. La notizia dell’attentato fece il giro d’Europa e vi furono opinioni opposte: alcuni giornali italiani e stranieri condannarono l’attentatore rivolgendogli diverse accuse, alcune prive di fondamento, il quotidiano “La Stampa” lo descrisse come un “omiciattolo cachettico, smilzo, butterato dal vaiolo” e Francesco II, sovrano del decaduto regno delle Due Sicilie, in esilio a Parigi, deplorò l’attentato, definendo la Basilicata “paesi cattivi: un nido di socialisti … di socialisti, non esattamente, più precisamente di comunisti partigiani!”; altre testate, come l’inglese “Daily News” videro nel malcontento e nella miseria i fattori che spinsero l’anarchico ad armarsi. Il 28 dicembre il giornale “Roma” pubblicò un manoscritto dell’anarchico intitolato “Ricordo per l’avvenire al popolo universale”, dove Passannante esponeva la sua visione di società egualitaria, il disprezzo verso la Monarchia, e la promozione di assistenza economica per le fasce deboli come donne incinte, anziani e ammalati, visione progressista e avanzata per l’epoca, se si pensa che il quotidiano, benché di ideali simili all’attentatore, derise il documento e anche illustri repubblicani presero le distanze da lui. Il gesto di Passannante spinse, tuttavia, Umberto I a garantire alcuni sussidi al popolo e in comuni come Torre Annunziata, Castel di Sangro, San Buono vennero distribuiti, gratuitamente, cibo e abiti ai più poveri. La sera stessa dell’attentato Giuseppe Zanardelli, allora ministro dell’Interno, informò il prefetto di Potenza, che inviò i carabinieri a Salvia per perquisire la casa dell’anarchico, dove furono trovati una stampa de “La Marsigliese” e una copia del giornale “La Nuova Basilicata” datata 1871, contenente notizie sulla Comune di Parigi. La famiglia dell’attentatore fu dichiarata folle e suo fratello Giuseppe, risultato affetto da alienazione mentale, fu internato nel manicomio criminale di Aversa. Il 6 e il 7 marzo 1879, davanti a una folla gremita, venne celebrato il processo e Passannante fu condannato a morte, poi la pena per grazia del re gli fu commutata nell’ergastolo, che scontò a Portoferraio, nella prigione della Torre della Linguella, in condizioni disumane, che influirono sulla sua salute sia fisica sia mentale: la cella era piccolissima, umida, buia, senza servizi igienici e posta sotto il livello del mare, i barcaioli che passavano nelle vicinanze della torre udivano spesso le urla strazianti del detenuto, che finì per arrivare alla pazzia. Nel 1889 fu trasferito segretamente presso la Villa medicea dell’Ambrogiana, il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove continuò a coltivare la passione per la scrittura e morì all’età di 60 anni. Anche dopo la morte Passannante ha continuato a richiamare l’attenzione su di sé: il cervello e il cranio immersi in formalina vennero conservati, per essere oggetto di studio, presso il Museo Criminologico dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma, dove rimasero esposti sino al 2007, quando furono tumulati nel paese natio per sollecitazione di alcuni parlamentari e dell’attore Ulderico Pesce, che diede vita a una raccolta di firme volte a portare i resti del defunto nella cittadina natale. Passanante non trova però pace neanche dopo la morte: la sua tomba è stata profanata nel piccolo paese d’origine, la cui popolazione è ancora divisa in due comitati opposti, un comitato “pro-Salvia” che rivendica il desiderio di ritornare al vecchio nome “Salvia di Lucania”, in memoria delle torture inflitte al suo concittadino e un comitato “pro-Savoia” che rivendica l’onore di essere legati alla dinastia sabauda e condanna l’atto compiuto dall’anarchico.
18 febbraio
PRIMO PIANO
In arrivo la “superluna” più luminosa del 2019.
È in arrivo la superluna più spettacolare del 2019, in quanto l’evento di Luna piena coinciderà con la massima vicinanza della Luna alla Terra. Si parla di “Supermoon”, spiega il Time, quando una luna è allo stesso tempo piena e al suo perigeo, il punto nella sua orbita più vicino alla Terra. Trattandosi della seconda luna piena dell’inverno si parla anche di “luna di neve”, come è stata ribattezzata da alcune tribù native americane negli Stati Uniti. A febbraio, infatti, nel Nord America e in Canada, le abbondanti nevicate ricoprivano gli accampamenti dei pellerossa rendendoli candidi, e la luna piena, vicina alla terra, luminosissima, sembrava specchiarsi sul manto nevoso e appariva anch’essa come fatta di neve. Le forti nevicate, che caratterizzano il periodo, sono anche la ragione del suo nome alternativo e più cupo: la luna della fame. Spiega l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope: “Sappiamo che ‘superluna’ non è un termine scientifico, ma ha il pregio di trasferire in modo efficace il significato che la fase di Luna piena è vicina al ‘perigeo’, ossia al punto dell’orbita lunare che corrisponde alla minima distanza dalla Terra. Questo fa apparire la Luna piena più luminosa e circa il 7% più grande di una Luna piena normale.” La luna percorre intorno alla Terra un’orbita molto schiacciata, nella quale ogni mese tocca la distanza minima (perigeo) e quella massima (apogeo): la superluna si ha ogni volta che la Luna piena coincide con l’orario del perigeo. Alle 10:07 del 19 febbraio la Luna si troverà quindi al perigeo e la sua distanza dalla Terra sarà di 356.761 Km. “Mai, per tutto il 2019, avremo una Luna piena più vicina di così”, osserva Masi. Quella del 19 febbraio è anche la seconda superluna del 2019, dopo quella che ha coinciso con l’eclissi della notte fra il 20 e il 21 gennaio, con la suggestiva “alba della Luna rossa”. La “terza e ultima Superluna dell’anno è prevista il 19 marzo, quando la distanza del perigeo sarà raggiunta un giorno e cinque ore prima della Luna piena” anticipa l’astronoma della Nasa Mitzi Adams. Domani, 19 febbraio, a partire dalle 17:30 (a seconda della zona d’Italia) la Luna piena più grande e luminosa di tutto il 2019 potrà essere osservata tranquillamente a occhio nudo.
DALLA STORIA
Kwame Nkrumah conquista l’indipendenza del Ghana con metodi pacifici e democratici.
“La nostra indipendenza è senza significato, se non è congiunta alla totale liberazione dell’Africa”. (K. Nkrumah)
(Il presidente John Fitzgerald Kennedy e Kwame Nkrumah, presiedente della Repubblica del Ghana, nel 1961)
Alla metà degli anni Settanta quasi tutta l’Africa ha ormai acquisito l’indipendenza, se non la pace. Il lungo processo ebbe inizio quando, nel febbraio del 1948, in Costa d’Oro, colonia britannica in Africa occidentale che ormai da diversi anni reclamava l’indipendenza, “un gruppo di ex soldati africani disarmati marciò verso la sede del governatore britannico per presentare una petizione di rimostranze. Quando fu loro ordinato di fermarsi, rifiutarono, e la polizia aprì il fuoco. Per reazione all’episodio, nel 1949 il nazionalista Kwame Nkrumah creò il Partito della convenzione del popolo (Ppc), un’organizzazione che si batteva per l’autogoverno. Nkrumah avviò una campagna di attivismo che si ispirava alla filosofia di non cooperazione non violenta adottata in India da Gandhi contro i britannici. Le proteste e gli scioperi che furono organizzati rimasero pacifici ma paralizzarono il Paese, e all’inizio del 1951 la Gran Bretagna acconsentì a indire le elezioni. Il Ppc conquistò 35 dei 38 seggi e la Costa d’Oro si avviò rapidamente verso l’indipendenza, proclamata il 6 marzo 1957, quando Nkrumah divenne primo ministro della nazione del Ghana. Fu un momento di grandi speranze per una nuova Africa. Le potenze europee che dominavano l’Africa erano uscite impoverite dalla Seconda guerra mondiale e gli atteggiamenti verso il colonialismo stavano mutando. I Paesi che avevano combattuto contro il fascismo trovavano difficile giustificare l’imperialismo. Gli eventi in Ghana ebbero un impatto significativo sull’Africa occidentale. Nel 1958 la Guinea votò la secessione dalla Francia. Decisa a non essere lasciata da parte, il 1° ottobre 1960 la Nigeria si affrancò dalla Gran Bretagna. Nel 1964 l’indipendenza era stata ormai concessa a Kenya, Rhodesia del Nord (Zambia), Nyasaland (Malawi) e Uganda. I francesi combatterono una guerra di otto anni per tenere l’Algeria, concedendo finalmente l’indipendenza nel 1962. I portoghesi, la prima potenza coloniale europea in Africa, combatterono una lunga guerra dal 1961 al 1974 per conservare le colonie di Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. Nel 1960 il crollo dell’autorità belga in Congo provocò un’ondata di violenze in tutto il Paese e l’assassinio del primo capo del governo, Patrice Lumumba, nel 1961. Molti Paesi africani acquisirono l’indipendenza durante la guerra fredda. Usati come pedine dalle superpotenze capitalista e comunista, accettarono prestiti e aiuti militari: negli anni ’70 l’Etiopia fu ricompensata con i miliardi di dollari in forniture militari sovietiche. Vi furono anche numerose guerre civili, come i conflitti etnici in Ruanda e Zaire, nonché scontri fra capibanda per gli approvvigionamenti di cibo in Somalia. Una volta conseguita l’indipendenza, le autorità nazionaliste africane cercarono di consolidare il loro potere vietando le formazioni politiche rivali. Predominarono colpi di stato e governi militari, come quello di Idi Amin in Uganda. All’inizio degli anni ‘70 solo Zimbabwe e Sudafrica erano ancora governati dall’élite politica bianca. Tuttavia, in quasi tutti i Paesi africani regnava la corruzione. Nkrumah voleva che il Ghana rappresentasse un successo esemplare, ma il suo panafricanismo fallì e, quando assunse atteggiamenti sempre più dittatoriali, le fortune del Ghana comiciarono a declinare”.
(La regina Elisabetta II con Kwame Nkrumah, presidente del Ghana, durante un ballo ufficiale, 1961)
Fonte: “Il libro della Storia”. Ed. Gribaudo
Mary Titton
16 febbraio
PRIMO PIANO
È morto Bruno Ganz: interpretò Hitler nel film “La caduta”.
L’attore svizzero Bruno Ganz è morto oggi 16 febbraio, a Zurigo, a 77 anni. Ganz, nato il 22 marzo del 1941, è stato tra gli attori più importamnti del cinema in lingua tedesca degli ultimi decenni. Figlio di un operaio svizzero e di una donna italiana, debutta nel cinema nel 1960 nel film Der Herr mit der schwarzen Melone, grazie al quale viene notato dall’attore Gustav Knuth, che ne apprezza il talento. Nel 1970 è uno dei fondatori, insieme al regista Peter Stein e all’attrice Edith Clever, della compagnia teatrale berlinese di ispirazione brechtiana Schaubühne am Halleschen Ufer. Torna al cinema nel 1975 e nel 1977 il regista tedesco Wim Wenders gli affida la parte del corniciaio Jonathan Zimmermann ne L’amico americano. Nel 1978 interpreta l’agente immobiliare Jonathan Harker nella celebre rivisitazione di Nosferatu, il principe della notte di Werner Herzog. Il successo arriva nel 1987 con il film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Nel 1995 recita nella miniserie televisiva Il grande Fausto, incentrata sulla vita del campionissimo del ciclismo Fausto Coppi, interpretando il ruolo del massaggiatore non vedente Biagio Cavanna, scopritore e guida di Coppi per l’intera carriera. Per la partecipazione a Pane e tulipani ottiene nel 2000 il David di Donatello come miglior attore protagonista. Da segnalare anche le sue interpretazioni in alcune opere teatrali di Bertolt Brecht, nel Prometeo incatenato di Eschilo (1987) e nel Faust goethiano nella messinscena diretta da Peter Stein nel 2000 ad Hannover durante l’EXPO. Nel 2004 è il magistrale interprete di Adolf Hitler in La caduta, diretto da Oliver Hirschbiegel, film che ottenne una nomination agli Oscar tra i film stranieri, mentre nel 2010 è Tiziano Terzani ne La fine è il mio inizio, diretto da Jo Baier e tratto dall’omonimo libro postumo del giornalista e scrittore fiorentino. L’11 agosto 2011 l’attore, che vive dividendosi tra Zurigo, Berlino e Venezia, riceve il Pardo alla carriera al Festival del cinema di Locarno. Nel 2013 viene scelto dal regista Ridley Scott per interpretare il ruolo del Papa nella serie The Vatican.
14 febbraio
PRIMO PIANO
Scavi di Pompei: riaffiora l’affresco di Narciso.
A Pompei, dopo la stanza di Leda, nell’atrio della stessa domus, gli archeologi hanno riportato alla luce un altro affresco con l’immagine di Narciso, che, secondo l’iconografia classica, si specchia nell’acqua e s’innamora dalla sua stessa immagine. Tale domus, emersa in via del Vesuvio nella Regio V, doveva essere sicuramente un’elegante dimora che già nel suo atrio ospitava un’immagine imponente come quella del Priapo. L’affresco di Narciso, che, come detto sopra, si specchia nell’acqua rapito dalla sua immagine, si trova nell’atrio della domus, al centro di una delle pareti dai vividi colori. Gli analisti si soffermano sull’opera e sulla traccia ancora visibile delle scale, che dall’atrio di Narciso conducevano al piano superiore. Interessante è anche lo spazio del sottoscala, utilizzato come deposito, custode di una dozzina di contenitori in vetro, otto anfore e un imbuto di bronzo. Una situla bronzea (contenitore per liquidi) è stata invece rinvenuta accanto all’impluvio. Già qualche mese fa, nel corso delle operazioni di consolidamento dei fronti di scavo lungo via Vesuvio, era venuta alla luce la Stanza di Leda con l’affresco della bellissima regina di Sparta e del cigno, un’alcova sensuale e raffinata con decori di IV stile, con delicati ornamenti floreali, intervallati da grifoni con cornucopie, amorini volanti, nature morte e scene di lotte tra animali; anche il soffitto, crollato sotto il peso dei lapilli durante l’eruzione del 79 d.C., aveva pregiati disegni, i cui frammenti sono stati recuperati dai restauratori per ricomporne la trama. L’ex direttore, Massimo Osanna, lo descrive come “un ambiente pervaso dal tema della gioia di vivere, della bellezza e vanità, sottolineato anche dalle figure di menadi e satiri che, in una sorta di corteggio dionisiaco, accompagnavano i visitatori all’interno della parte pubblica della casa. Una decorazione volutamente lussuosa e probabilmente pertinente agli ultimi anni della colonia di Pompei, sepolta nel 79 dopo Cristo, come testimonia lo straordinario stato di conservazione dei colori.” La direttrice ad interim, Alfonsina Russo, sul sito ufficiale del Parco Archeologico di Pompei, aggiunge: “La bellezza di queste stanze, evidente già dalle prime scoperte, ci ha indotto a modificare il progetto e a proseguire lo scavo per portare alla luce l’ambiente di Leda e l’atrio retrostante. Ciò ci consentirà in futuro di aprire alla fruizione del pubblico almeno una parte di questa domus.”
DALLA STORIA
Oggi è San Valentino, festa degli innamorati.
La tradizione di San Valentino quale protettore degli innamorati risale all’epoca romana, al 496 d.C., quando l’allora papa Gelasio I volle porre fine ai lupercali, gli antichi riti pagani che si celebravano nei giorni di febbraio, mese purificatorio, dal 13 fino al 15 febbraio, in onore del dio Fauno, nella sua accezione di Luperco. Questi riti prevedevano rituali in cui si sacrificavano capri e si svolgevano cerimonie simboliche. Plutarco riferisce nella “Vita di Romolo” che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre, i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con la lana intinta nel latte di capra e a questo punto i due ragazzi dovevano ridere. Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nella quale la “segnatura” con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione “profana”, mentre la pulitura con il latte e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale. Nel Cristianesimo esistono molti santi di nome Valentino, tutti martiri, tra questi, due sono i più noti. Il primo, nato a Interamna, oggi Terni, nel 176, che proteggeva gli innamorati, li guidava verso il matrimonio e li incoraggiava a mettere al mondo dei figli. La letteratura religiosa descrive il santo come guaritore degli epilettici e difensore delle storie d’amore. Il secondo, invece sarebbe morto a Roma il 14 febbraio del 274, decapitato. Per alcune fonti sarebbe lo stesso vescovo di Terni. Per altri, tesi più plausibile, sarebbe un altro martire cristiano. Per altri ancora, non sarebbe mai esistito. Si racconta che Valentino sarebbe stato giustiziato perché aveva celebrato il matrimonio tra la cristiana Serapia e il legionario romano Sabino, che invece era pagano. La cerimonia avvenne in fretta, perché la giovane era malata. I due sposi morirono insieme proprio mentre Valentino li benediceva. In seguito a ciò avvenne il martirio di Valentino. Un’ulteriore ipotesi letteraria a consacrare Valentino come santo patrono dell’amore è da ascrivere a Geoffrey Chaucer, il padre della letteratura inglese, autore dei “Racconti di Canterbuy” che, alla fine del ‘300 scrisse in onore delle nozze tra Riccardo II e Anna di Boemia, “Il parlamento degli Uccelli”, un poema di 700 versi che associa Cupido a San Valentino, divenendo così il tramite ultraterreno della dimensione dell’Amore cortese. La ricorrenza di San Valentino, come la conosciamo oggi, fa riferimento a dei bigliettini d’amore che furono scritti da Carlo duca d’Orleans, nel XV secolo, mentre era prigioniero nella torre di Londra. A partire dalla metà dell’Ottocento, con l’affermarsi della società capitalistica, questa festa assume soprattutto un carattere commerciale, attraverso lo scambio di doni, seconda, in questo senso, solo alla festività del Natale. Ma, al di là di ogni altro aspetto storico, sulle origini di questa festa dedicata agli innamorati, quello che in realtà viene celebrato in questo giorno è l’Amore. “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, canto XXXIII) scrive Dante ad indicare che l’Amore è la forza più grande esistente in grado di modificare qualsiasi altra condizione umana. Ne “L’ arte di amare” di Eric Fromm, l’autore descrive l’amore come la massima libertà per l’uomo. Un concetto da non confondere con la licenza di fare quello che si vuole, ma di essere liberi da ogni cosa. Progetto molto impegnativo, ma l’unico per l’uomo chiamato a fare della propria vita un’opera d’arte. Chi è innamorato profondamente sa che l’amore per l’altro, così come dice Fromm “richiede la totale partecipazione dell’essere che, mosso da un’attrazione istintiva, andando verso l’altro, fa dono di sé. L’amore richiede lo stesso impegno, la stessa umiltà, lo stesso coraggio di quando un artista crea un’opera d’arte; non di qualcosa legato solo al talento o all’istintività, bensì alla necessità improrogabile di trasferire il proprio essere nell’altro, prendersene cura, averne la responsabilità, provarne rispetto, desiderarne la conoscenza”. Auguri agli innamorati e tanto amore per tutti.
(“Amore e Psiche”. Antonio Canova, 1787 – 1793. Museo del Louvre di Parigi)
Mary Titton
13 febbraio
DALLA STORIA
Benvenuto Cellini. (La concezione celliniana è tipica di quel periodo di inquieti e febbrili tentativi a creare qualcosa di più interessante e originale dell’arte delle precedenti generazioni). (Gombrich)
(Statua di Benvenuto Cellini, Loggiato degli Uffizi, Firenze)
Il 13 febbraio 1571 moriva a Firenze Benvenuto Cellini. Orafo e scultore di grandissimo talento, è considerato uno dei più importanti artisti del Manierismo. Non tutti, però, sanno che fu anche uno scrittore “notevolissimo”. Nel 1558 iniziò a dettare al suo garzone la cronaca della sua vita, come sembra fosse abituale tra gli artigiani del tempo per lasciare una testimonianza scritta della loro arte. La descrizione degli episodi del suo vissuto esistenziale, la sua concezione dell’arte e le iperboli autoreferenziali produssero “Vita”, un’opera letteraria “vivacissima”, “capolavoro singolare del Rinascimento” e prezioso documento di valore storiografico per la ricostruzione della società del Cinquecento, tanto che nel 1807 venne tradotta da Goethe. “Tutti gli uomini di ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita”. (B. Cellini). Ecco come il famoso storico dell’arte Gombrich descrive ne “La storia dell’arte raccontata” ed. Einaudi la personalità irosa e inguaribilmente arrogante, ma anche appassionata, libera, bizzarra dell’artista fiorentino: “Un tipico artista del suo tempo, lo scultore e orafo fiorentino Benvenuto Cellini, descrisse la sua vita in un libro famoso che è un quadro straordinariamente colorito e vivace dell’epoca. Era millantatore, spietato e vanitoso, ma è difficile irritarsi con lui perché racconta la storia delle sue avventure e delle sue imprese con tal gusto che si ha l’impressione di leggere un romanzo di Dumas. Con tutta la vanità, la presunzione e l’irrequietezza che lo spingevano di città in città, di corte in corte, coinvolto in risse o ricco di allori, Cellini è un autentico prodotto del suo tempo. Per lui essere artista non significava più essere un rispettabile e tranquillo proprietario di bottega, ma piuttosto un “virtuoso” per cui i favori rivaleggiassero principi e cardinali. Una delle poche opere di mano sua giunta fino a noi è una saliera d’oro fatta per il re di Francia nel 1543. Cellini ce ne racconta la storia con ricchezza di particolari: come egli umiliò i due famosi studiosi che arrischiarono a suggerirgli un tema, come fece un modello in cera di sua invenzione che rappresentava la Terra e il Mare. Per mostrare come mare e terra si compenetrino, intrecciò le gambe delle due figure. “A il mare avevo posto in mano un tridente in nella destra; e in nella sinistra avevo posto una barca sottilmente lavorata, in nella quale si metteva la salina. Era sotto a questa detta figura i sua quattro cavalli marittimi, che insino al petto e le zampe dinnanzi erano di cavallo; tutta la parte dal mezzo indietro era di pesce: queste code di pesce con piacevol modo s’intrecciavano insieme: in sul qual gruppo sedeva con fierissima attitudine il detto mare: aveva all’intorno molta sorte di pesci e altri animali marittimi. L’acqua era figurata con le sue onde; di poi era benissimo smaltata nel suo proprio colore. Per la terra avevo figurato una bellissima donna, con il corno della sua dovizia in mano, tutta ignuda come il mastio appunto; nell’altra sua sinistra mano avevo fatto un tempietto di ordine ionico, sottilissimamente lavorato; e in questo avevo accomodato il “pepe”. Ma tutta questa sottile invenzione si legge con minor gusto del passo in cui Cellini narra come, andato a prender l’oro dal tesoriere reale, venne attaccato da quattro banditi, e riuscì a metterli in fuga da solo. Ad alcuni la levigata eleganza delle sue figure potrà apparire troppo elaborata e affettata. Ma possiamo forse consolarci pensando che la sana vigoria che manca in esse abbondò senza dubbio in chi le fece”. Cellini scrisse anche “Rime”, due trattati, “Sull’oreficeria” e “Sulla scultura” e altri scritti sull’architettura e sull’arte del disegno.
(La Saliera di Francesco I di Francia, 1540-1543, di Benvenuto Cellini. Kunsthistorisches Museum, Vienna)
Il sale, fin dai tempi dell’antica Roma, veniva offerto ai Penati, le divinità che proteggevano la casa. Sulle tavole medievali e rinascimentali non poteva mancare la saliera, spesso realizzata in materiali preziosi. La forma era frequentemente di navicella o di conchiglia; era quasi sempre previsto un coperchio per impedire che vi si potesse aggiungere della polvere di arsenico con cui avvelenare il pasto del signore, abitudine piuttosto frequente all’epoca.
Un altro capolavoro, esempio cospicuo della plastica celliniana, è costituito dal “Perseo con la testa di Medusa” della loggia della Signoria, che “fra le costruzioni classicamente rinascimentali del Sansovino e la figura serpentinata del Giambologna” rappresenta la scultura più importante. La fortuna dell’opera fu immediata: il “Perseo”, infatti, al di là del significato politico (in riferimento a Cosimo de’ Medici che stronca ogni velleità repubblicana, così come l’eroe greco decapita la Gorgone), riflette perfettamente l’ideale di bellezza maschile secondo i canoni manieristici, presentando una figura “agile, raffinata, languida, sensuale … altamente aristocratica che non incarna né l’eroismo né la spiritualità”. (Giuseppe Nifosì). La gestazione del Perseo fu molto ardua a causa di numerose difficoltà incontrate durante la fusione del metallo e che Cellini affrontò riprendendo la tecnica della fusione a cera. Grazie a questa tecnica fusoria Cellini raggiunse l’effetto di eleganza manieristica che caratterizza il gruppo realizzando una scultura di stupefacente bellezza.
(Il Perseo con la testa di Medusa. Particolare)
(Autoritratto di Benvenuto Cellini cesellato sul retro della testa di Perseo)
Benvenuto Cellini, dopo aver condotto una vita avventurosa, in cui non mancò di rimanere implicato in liti e risse: si macchiò perfino di diversi omicidi, spesso mossi da motivi futili, in maniera analoga a come farà l’ancor più famigerato Caravaggio nel Seicento, infine, morì a Firenze, all’età di settant’anni, il 13 febbraio 1571. Fece dono di tutte le sue sculture “finite et non finite” a Francesco I de’ Medici e fu sepolto nella Cappella di San Luca.
Mary Titton
12 febbraio
PRIMO PIANO
Unicef: la piaga dei bambini soldato nel mondo.
In occasione della Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, che ricorre il 12 febbraio, l’Unicef ricorda che decine di migliaia di bambini vengono reclutati e utilizzati nei conflitti in tutto il mondo. La situazione è grave in Yemen, Sud Sudan e Repubblica Centrafricana, dove i bambini soldato accertati dall’Unicef sono circa 15mila in ciascun paese, ma il loro numero è in aumento anche in Nigeria, Siria, Somalia, Repubblica Democratica del Congo. Spesso i reclutamenti avvengono anche dentro le città, dove scuole, ospedali e campi da gioco sono presi d’assalto dai gruppi armati. Dice Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia: “Il bambino soldato è un giovane sotto i 18 anni di età che fa parte di una qualsiasi forza armata. Sono combattenti, cuochi, facchini, messaggeri ed è una dimensione che comprende anche le ragazze che vengono reclutate per fini sessuali e per matrimoni forzati.” Il Rappresentante Speciale Onu per i minori in guerra, Leila Zerrougui, parla di “unspeakable violences”, violenze inenarrabili. Anche Papa Francesco ha sottolineato la gravità della situazione: “Migliaia di bambini, costretti a combattere nei conflitti armati, sono derubati della loro infanzia. Fermiamo questo crimine abominevole”. Il fenomeno, già definito dal Papa una “tragedia” e una “schiavitù”, rimane ancora diffuso nella maggior parte delle guerre nel mondo e le misure internazionali, come il Protocollo opzionale della Convenzione Onu sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, firmato da 153 Stati nel 2000, sono state finora poco efficaci. La Corte penale internazionale considera l’arruolamento di bambini al di sotto dei 15 anni un crimine di guerra, eppure in molti Paesi si continuano ad arruolare adolescenti. Da ottobre 2014 a giugno 2018 il meccanismo di monitoraggio e segnalazione (MRM) delle Nazioni Unite ha registrato 2.894 incidenti e verificato sei tipi di gravi violazioni, quali uccisioni o mutilazioni, reclutamento da forze e gruppi armati, stupri o altre forme di violenza sessuale, rapimenti, attacchi su scuole e ospedali e negazione di assistenza umanitaria, tutte forme di violenza che hanno colpito 9.268 bambini. “Dobbiamo analizzare i motivi sociali che in questi Paesi portano al reclutamento dei bambini: se sono reclutati forzatamente, se si uniscono volontariamente ai gruppi armati, se devono fuggire da situazioni di povertà, di fame o addirittura per sostenere una causa.” ha affermato Iacomini. Oltre al monitoraggio, l’aspetto più difficile, probabilmente, è il “recupero di un bambino soldato”, come ha ribadito Giovanni Visone, responsabile della comunicazione di Intersos: “il trauma non si cancella completamente subito, perché forse è impossibile, ma sicuramente il bambino può tornare ad una vita normale e a proseguire la sua vita”. Per aiutarli, secondo l’Unicef, bisogna: allontanare i bambini dai gruppi armati o dagli eserciti; assicurare loro l’accesso ai servizi sanitari e sociali di base; consentire il reinserimento familiare e sociale presso le comunità di origine; offrire loro alternative concrete attraverso percorsi di scolarizzazione, formazione psico-attitudinale, supporto psicologico, mediazione familiare e supporto alle comunità di provenienza; proporre progetti specifici rivolti alle bambine e ragazze vittime di violenza sessuale e alle giovani madri. Dal 2014 l’Unicef ha richiesto il rilascio di oltre 3.000 bambini da forze e gruppi armati, i bambini (955, fra cui 265 ragazze) rilasciati nel 2018 da gruppi nelle vicinanze di Juba, Bentiu, Pibor e Western Equatoria sono stati inseriti in un programma di reintegrazione guidato dall’Unicef che comprende cure mediche, supporto psicosociale, istruzione e formazione professionale.
DALLA STORIA
Abraham Lincoln: il Presidente americano che pose fine alla schiavitù.
(La prima foto presidenziale di Abraham Lincoln, 1860)
Il 12 febbraio, giorno della nascita di Lincoln, fu dichiarato, nel 1892, festività federale degli Stati Uniti, anche se in seguito venne combinato con il compleanno di George Washington nel President’s Day. Abraham Lincoln, infatti, nacque, a Hodgenville, il 12 febbraio 1809 e fu il 16º Presidente degli Stati Uniti d’America, il primo appartenente al Partito Repubblicano. Fu il presidente che pose fine alla schiavitù, prima nel 1863 con il Proclama di emancipazione, che liberò gli schiavi afroamericani negli Stati della Confederazione e poi con la ratifica del XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, con il quale nel 1865 la schiavitù venne abolita in tutti gli Stati Uniti. Per questo è considerato dalla storiografia uno dei più importanti e popolari presidenti degli USA, anche se la posizione di Lincoln riguardo alla liberazione degli afroamericani è a tutt’oggi oggetto di controversie perché la sua posizione sull’uguaglianza razziale non era naturalmente quella odierna, come è manifesto da una sua dichiarazione del 1858: “Non sono, e non sono mai stato, favorevole a una qualsiasi realizzazione della parità sociale e politica della razza bianca e nera; esiste una differenza fisica tra la razza bianca e nera che credo impedirà per sempre alle due razze una convivenza in termini di parità sociale e politica. E poiché esse non possono convivere in questa maniera, finché rimangono assieme ci dovrà essere la posizione superiore e inferiore, e io, al pari di chiunque altro, sono favorevole a che la posizione superiore venga assegnata alla razza bianca.” Naturalmente sono affermazioni spregevoli che vanno inquadrate, come affermano alcuni studiosi, tra cui Stacy Pratt McDermott, nel contesto del pensiero e della cultura dell’Ottocento, anche se quella mentalità continua vergognosamente a sopravvivere, ancora oggi, in molti individui, negli USA, nonostante la lotta di Martin Luther King e i proclami ufficiali. Lincoln, in ogni caso, è accreditato come colui che liberò gli schiavi afroamericani con il Proclama di emancipazione, che nei territori del Nord non attuò cambiamenti radicali, in quanto il sistema economico-lavorativo non si basava sullo schiavismo, mentre mantenne temporaneamente la schiavitù negli Stati dell’Unione al confine con i Confederati, il Missouri, il Kentucky, il Delaware e il Maryland, per non perdere i suddetti stati che appartenevano all’Unione, ma non si erano pronunciati sulla questione della schiavitù. Il Proclama, emesso il 1 gennaio del 1863, oltre a essere una battaglia di tipo ideale, che mirava a porre fine alla schiavitù in tutti gli Stati, si rivelò anche un’importante misura strategica: gli schiavi che appartenevano ai proprietari della Confederazione, entità politica sorta dalla riunione confederale di Stati secessionisti dall’Unione, venivano dichiarati liberi, così molti fuggirono al Nord e si arruolarono nell’esercito dell’Unione. Abraham Lincoln fu eletto alla presidenza degli Stati Uniti il 6 novembre 1860 e, poco dopo la sua elezione, alcuni stati del Sud proclamarono la loro indipendenza dall’Unione e la nascita degli Stati Confederati d’America, dando avvio, con l’attacco a Fort Sumter il 12 aprile del 1861, a quella che va sotto il nome di guerra di secessione o guerra civile americana, che negli anni 1861-1865 causò 600.000 morti. Il 1863 si rivelò l’anno cruciale per l’esito del conflitto: le armate sudiste opposero un’accanita resistenza, ma dopo la vittoria dell’esercito unionista, guidato dal generale Grant, a Gettysburg (luglio 1863), una delle battaglie più sanguinose di tutta la guerra, cominciarono a cedere fino alla sconfitta definitiva. Il successo delle operazioni belliche e la crescente popolarità assicurarono a Lincoln la vittoria alle elezioni del 1864 e nella primavera del 1865, a seguito della battaglia di Appotomax, il generale Grant riuscì a sconfiggere definitivamente le forze della Confederazione: il generale Lee si arrese alle forze unioniste il 9 aprile del 1865 nell’Appoto-max Court House. A Lincoln, assassinato, a guerra conclusa, da John Wilkes Booth, un sostenitore della Confederazione degli Stati secessionisti dall’Unione, è riconosciuto il merito di avere preservato l’unità federale della nazione, infatti fu questo il suo costante pensiero, come emerge già nel famoso discorso di Gettysburg, pronunciato dal Presidente statunitense il pomeriggio del 19 novembre 1863, alla cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, quattro mesi e mezzo dopo l’omonima battaglia. Lincoln afferma che nessun soldato, dell’Unione o della Confederazione, del Nord o del Sud, è morto invano e richiama quanto sancito nella Dichiarazione di Indipendenza, sostenendo che la guerra civile è stata una lotta non solo per l’Unione, ma per “la rinascita della libertà”, che avrebbe reso tutti davvero uguali all’interno di un’unica nazione finalmente unita, con la promessa che “ that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth”.
11 febbraio
PRIMO PIANO
Elezioni regionali in Abruzzo.
Alle elezioni regionali in Abruzzo ha vinto il Centrodestra con Marco Marsilio, che, sostenuto da cinque liste, ha ottenuto il 48% dei consensi, mentre il candidato del Centrosinistra allargato, Giovanni Legnini, si è fermato al 31,3 % e la candidata del M5S, Sara Marcozzi, è risultata terza con il 20,1% dei voti. Il nuovo governatore dell’Abruzzo è, dunque, Marco Marsilio, già deputato dal 2008 al 2013 e dal 2018 senatore della Repubblica Italiana per Fratelli D’Italia. Nato a Roma da una famiglia di origini abruzzesi e laureato in filosofia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è professore a contratto di Estetica, Museologia e Marketing applicato ai Beni culturali presso l’Università Link Campus. Giovanni Legnini (Roccamontepiano, 6 gennaio 1959), arrivato secondo, è un politico e avvocato italiano, dal 30 settembre 2014 al 27 settembre 2018 Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri del Governo Letta dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014 e Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze nel Governo Renzi dal 28 febbraio 2014 al 30 settembre 2014. Sara Marcozzi, terza, di origini abruzzesi, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Teramo, e nel 2014 è stata candidata alla Presidenza di Regione Abruzzo portando per la prima volta nella storia di questa regione il M5S tra i banchi del Consiglio Regionale a L’Aquila. La vittoria di Marco Marsilio rilancia dunque la coalizione di centrodestra e segna la vittoria di FdI di cui è esponente. Chiaramente ogni forza in campo ha commentato i risultati secondo il suo “particulare”: il centrodestra con 18 seggi e in particolare la Lega che ha raddoppiato i consensi ed è ora 27,45% sottolinea “la vittoria clamorosa”, anche se Salvini dice: “Non cambia nulla a livello di governo. Avanti con il lavoro. Abbiamo tanti impegni da mantenere.” Il centrosinistra guarda al risultato del progetto politico, con 7 liste collegate al Pd: “Siamo oltre il 30%, vorrei ricordare che l’anno scorso in Abruzzo il centrosinistra compreso Leu ha conseguito un risultato del 17,6%, abbiamo avuto 10 punti in più ma non è stato sufficiente. Si tratta di un punto di partenza e oltre il 30% ottenuto in due mesi, mi sembra un risultato importante.” ha detto Legnini. La candidata 5s Sara Marcozzi ha parlato di “sconfitta della democrazia”, rappresentata dall’avere “permesso di partecipare alle elezioni a otto liste create poco prima delle elezioni”, e riguardo al dimezzamento dei voti per il M5s rispetto alle politiche dello scorso anno, guardando alle ultime regionali, spiega “noi confermiamo il risultato del 2014.” C’è stato poi un sensibile calo dell’affluenza alle urne: si è recato ai seggi solo il 53% degli oltre 1 milione e 211 mila abruzzesi aventi diritto.
DALLA STORIA
“La vita non vale la pena di essere vissuta se non la si può riportare in scrittura”. Sylvia Plath
“Dalla cenere io rinvengo, e con le mie rosse chiome, divoro uomini come aria di vento”. “La bambina che voleva essere Dio” e che moriva suicida a soli trent’anni è Sylvia Plath. Nata in un distretto di Boston il 27 ottobre 1932 e morta a Londra l’11 febbraio 1963, diventerà una grande poetessa e scrittrice statunitense. La sua poesia sarà ritenuta oggetto di culto dagli studiosi di letteratura americana, poetessa e musa emblematica di una stagione letteraria cruciale, in un momento di rinnovamento e di rottura con il passato. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si sviluppa, negli Stati Uniti, un genere di poesia definito “Poesia confessionale” che introduce un nuovo linguaggio e nuove forme espressive che usano parole schiette, dirette, spesso con stile volutamente trasandato a sferzare l’ipocrisia che si cela dietro i falsi pudori. Questi poeti si ispirano al vissuto personale come centro principale di esplorazione, i loro traumi sono usati come fonte di intensità per il loro testi. Sylvia Plath, assieme ad Anne Sexton, è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo di questa espressione poetica, iniziata dal “maestro riconosciuto” Robert Lowell e da William De Witt Snodgrass. Anche buona parte delle opere del poeta John Barryman sono considerate aderenti a questa corrente e, inoltre, si trova un evidente legame col confessionalismo nelle opere dei poeti della Beat Generation degli anni Cinquanta e Sessanta, particolarmente in Allen Ginsberg. Nell’intervista a cura di Giancarlo Susanna a Stefania Caracci, studiosa ed esperta di Sylvia Plath, autrice di “Sylvia” e di “Sylvia Plath: i giorni del suicidio”, così la biografa parla di lei: “Dal punto di vista femminile, credo che Sylvia sia un personaggio che ha percorso una strada difficile, ostica: una strada che l’ha portata al suicidio. Alle ragazze di oggi, alle donne di oggi, e non soltanto a loro, può insegnare ad affrontare i problemi di faccia, come faceva lei. Prima che le cose cambiassero … Ha avuto il coraggio di dire “odio mia madre”, è andata dallo psicanalista, ha avuto la forza di mandare via il marito che l’aveva delusa … Tutto sommato, a un certo punto, è lei che non ha voluto più. Ha avuto la capacità di affrontare i suoi problemi e nella poesia si vede quanto questi problemi abbiano scavato dentro di lei e con quanta energia li abbia affrontati. Per una serie di circostanze è morta, ma poteva anche non morire. Alvarez, il critico, dice che il suo gesto rappresenta un ultimo grido lacerante. Non è detto che volesse morire. Che volesse aiuto invece è certo. Oggi farebbe bene a tutti vedere una persona che con grande coraggio affronta realtà difficili, di un mondo in cambiamento. Come poetessa è grandiosa, perché la sua è una poesia libera. Dice quello che le viene in mente, non le importa se è sconveniente dire che il bambino fa la caccca, sporca la cucina ed è un rompiballe … perché lo è! Nessuno prima si era permesso di adombrare in questo modo la maternità. Lei ha avuto il coraggio di dire tutte quelle cose che non si sono mai dette; e questo coraggio lo ha pagato sulla pelle. Ci vuole una grande sensibilità per buttare fuori il buio che c’è in noi.” Sylvia Plath, nella sua breve vita ha scritto moltissimo: vari racconti, un dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono state distrutte dall’ex-marito, il poeta inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli. Ma sono soprattutto le poesie, gli aforismi che mettono a nudo la sua tormentata anima. “Tra il ’61 e il ’63, in un momento della sua vita difficilissimo, senza più il marito”, continua la biografa “lei era sola, ma integra nella propria grandezza. Una grandezza che sconvolge, alla quale lei per prima non ha retto è come se si fosse, a un certo punto, sradicata. Per me non c’è poesia scritta da una donna, che sia così titanica. Sylvia Plath è straripante … e la sua poesia ha una sua musicalità particolare”.
Io sono verticale (1961)
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo
che succhia minerali e amore materno
per poter brillare di foglie ogni marzo,
e nemmeno sono la bella di un’aiola
che attira la sua parte di Ooh,
dipinta di colori stupendi,
ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me un albero è immortale,
la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,
e a me manca la longevità dell’uno e l’audacia dell’altra.
Questa notte, sotto l’infinitesima luce delle stelle,
alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi.
Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.
A volte penso che è quando dormo
che assomiglio loro più perfettamente –
i pensieri offuscati.
L’essere distesa mi è più naturale.
Allora c’è aperto colloquio tra il cielo e me
e sarò utile quando sarò distesa per sempre:
forse allora gli alberi mi toccheranno
e i fiori avranno tempo per me.
Mary Titton
Buon Compleanno a Stefano e Francesco!
10 febbraio
PRIMO PIANO
Sanremo 2019: a sorpresa vince Mahmood con “Soldi”.
Vince la 69esima edizione del Festival di Sanremo con “Soldi” Mahmood, già vincitore di Sanremo Giovani 2018, secondo Ultimo con “I tuoi particolari” e terzo Il volo con “Musica che resta”. Il giovane cantautore italo-egiziano, visibilmente incredulo, dice “Grazie mille a tutti, non ci sto proprio credendo: è incredibile.” Virginia Raffaele lo abbraccia e lo rassicura: “È tutto vero. È tutto vero.” Nato a Milano nel 1992 da madre italiana e padre egiziano, Alessandro, questo il nome del cantautore, è cresciuto nella periferia milanese, iniziando a studiare canto fin da piccolo e risentendo dell’abbandono del padre, col quale non ha più rapporti. Il brano con cui ha vinto ruota proprio intorno alla figura del padre che se ne è andato e non è più tornato, “racconta la storia di una famiglia non tradizionale” e ha un significato più profondo di quello che si può ritenere, con spunti anche autobiografici. Gli altri premi: il Premio della critica Mia Martini è andato a Daniele Silvestri (6°) per “Argento vivo”, il Premio Sergio Endrigo per la miglior interpretazione a Simone Cristicchi (5°) per “Abbi cura di me”, il Premio per il miglior testo a Daniele Silvestri per “Argento vivo”, il Premio per la miglior composizione musicale sempre a Simone Cristicchi per “Abbi cura di me”, il Premio Tim Music a Ultimo per “I tuoi particolari”. Tutti i brani sono molto validi con testi significativi, soprattutto la canzone di Cristicchi, una vera e propria poesia ricca di anologie, con cui l’artista rivela di aver deciso di proporre la fragilità dell’essere umano, convinto che grazie all’amore è possibile cambiare la società, che in questo momento sarebbe composta da egoismo e indifferenza “verso le persone che soffrono”; spiega: “il ritornello sembra come se fosse tratto da un’opera, ma cantato come un sussurro”. Sanremo ha fatto registrare 10,6 milioni di spettatori con uno share del 56.5% per la finale, ma non sono mancate le polemiche: i fischi e le urla prolungati del pubblico dell’Ariston al momento dell’annuncio della classifica, che ha visto Loredana Bertè al quarto posto, esclusa dalle prime tre posizioni, le proteste di Ultimo che, deluso per la mancata vittoria, ha attaccato duramente i giornalisti nella conferenza stampa post-finale, ancora poi le polemiche fuori luogo, anche di carattere politico, su Mahmood per le sue origini paterne e per il ribaltone del voto popolare da parte della Giuria d’onore e della Giuria della Sala stampa. La classifica: dal quarto al 24mo posto, nell’ordine: Loredana Bertè, Simone Cristicchi, Daniele Silvestri, Irama, Arisa, Achille Lauro, Enrico Nigiotti, Boomdabash, Ghemon, Ex-Otago, Motta, Francesco Renga, Paola Turci, The Zen Circus, Federica Carta e Shade, Nek, Negrita, Patty Pravo con Briga, Anna Tatangelo, Einar, Nino D’Angelo e Livio Cori. Fra gli ospiti dell’ultima sera da segnalare Eros Ramazzotti con “Vita ce n’è”, tratta dal suo ultimo album e il duetto con Baglioni sulle note di “Adesso tu” e una Elisa straordinaria, commovente che canta “Anche fragile”, il suo nuovo singolo e, in omaggio a Tenco, con Claudio Baglioni “Vedrai, vedrai”. Bravi i conduttori Baglioni, Bisio, Raffaele. “Di sicuro ha vinto la musica, hanno vinto le parole, le speranze di tanti giovani artisti, di alcuni giovani artisti che confidano in quello che accadrà domani e mettono la vita nelle mani degli altri, e confidano anche nelle vostre critiche …” Così Baglioni durante l’ultima serata.
8 febbraio
DALLA STORIA
Nasce James Dean.
8 febbraio 1931: nasce James Dean! La sola pronuncia del suo nome, per usare un’ espressione shakespeariana, provoca un’agitazione del sangue. Dean è un mito, l’incarnazione simbolica dei turbamenti e dell’inquietudine dei giovani di tutti i tempi, quando si ribellano davanti alle contraddizioni e all’ipocrisia del mondo degli adulti. La sua breve vita si riassume perfettamente nel titolo del suo film più celebre: “Gioventù bruciata”, in inglese letteralmente “ribelle senza una causa”. Il regista del film, Nicholas Ray lasciò libero Dean di interpretare il suo personaggio con una recitazione istintiva e imprevedibile. Ray capì che, specialmente da giovani, la vita è percepita come un dramma e una delle ragioni per cui lui e Dean erano fatti l’uno per l’altro era che lo stile dell’attore e tutto il suo corpo davano vigore drammatico al tormento interiore. Una qualità perfetta per il soggetto del film così come per la regia di Ray, incentrata sulla fisicità di un Dean abilissimo nell’esprimere un ribollente conflitto esistenziale. (Peccato che gli altri soggetti di Ray e Dean non abbiano mai visto la luce). Jimmy, come lo chiamavano gli amici, restò a Hollywood appena diciotto mesi ed ebbe il tempo di recitare solo in tre pellicole, ma rivoluzionò non soltanto la vita di milioni di teenagers, ma anche lo stile di recitazione di parecchi attori cinematografici. Truffaut scrisse di lui, dopo la sua morte: “Dean va contro cinquant’anni di cinema. Lui recita qualcos’altro da quello che pronuncia, il suo sguardo non segue la conversazione, provoca una sfasatura tra l’espressione e la cosa espressa. Ogni suo gesto è imprevedibile. Dean può, parlando, girare la schiena alla cinepresa e terminare in questo modo la scena, può spingere bruscamente la testa all’indietro o buttarsi in avanti, può ridere là dove un altro attore piangerebbe e viceversa, perché ha ucciso la recitazione psicologica il giorno stesso in cui è apparso sulla scena”. John Lennon giunse a dichiarare che “senza James Dean non sarebbero mai esistiti i Beatles”; li univa un legame spirituale intessuto con la cultura della musica rock. Il ritratto di Dean, del giornalista Marco Innocenti, pubblicato sul Sole 24Ore nella rubrica “Storie dalla Storia”, restituisce con particolare efficacia, in poche frasi essenziali, la figura di questo ragazzo dell’Indiana, “star di Hollywood, dio pagano del ventesimo secolo, ruvido e disperato”. Eccone uno stralcio: “La sua breve vita è un mix di esasperato egocentrismo e di una tensione senza fine. La sua natura è sfuggente e contradditoria: posa da ribelle senza causa, capriccioso ragazzo di una generazione in jeans, ma prova anche un disperato desiderio di verità e bellezza, di certezze e di riscontri che non trova. La sua introversa intensità colpisce al cuore gli adolescenti, la figura tormentata incarna l’ansia e l’impulso di ribellione di una generazione confusa e frastornata. La sua vita e i suoi film, interpretati con una recitazione istintiva e imprevedibile, trasmettono una profonda inquietudine, alimentata dalla sua vulnerabilità, dall’ossessione della solitudine e da un’ambiguità sessuale che gli dà un fascino equivoco febbrile. Il giovane anticonformista, ribelle e impudente, sfonda nei sonnolenti anni Cinquanta dell’America di Eisenhower. E lo schianto della sua Porche fa di un ragazzo di 24 anni un mito che non tramonterà”. A James Byron Dean, (il suo nome per esteso) piacevano le sfide. Morì com’era vissuto, senza ipocrisia e di corsa. “Si schianterà contro una Ford sedan sbucata all’improvviso alla guida della sua “bambina”, una Porsche spyder 550, un bolide da trecento chilometri all’ora. Un giorno citando a sorpresa Rimbaud, Jimmy aveva detto che la morte era l’unica cosa al mondo che riuscisse a rispettare. Scolpita sul cippo funerario nel luogo in cui morì c’è una frase del “Piccolo principe” di Saint-Exupery che dice: “Tutto ciò che è realmente importante nella vita è invisibile all’occhio e può essere colto soltanto dal cuore”.
(Fotografia di Dennis Stock, James Dean in the rain, New York, 1955)
Mary Titton
7 febbraio
PRIMO PIANO
“Carità senza confini.”
È questo il titolo del docufilm in onda su RAI3 in occasione del 51mo anniversario della Comunità di Sant’Egidio. È la storia di un’avventura cominciata il 7 febbraio 1968 a Roma per iniziativa di un giovane liceale, Andrea Riccardi, insieme a un piccolo gruppo di compagni del liceo Virgilio, che volevano cambiare il mondo e la Chiesa. Secondo le parole del presidente Marco Impagliazzo “Sant’Egidio emerge in un contesto storico di grande contestazione da parte dei giovani occidentali, europei e americani, alle strutture fondamentali della società, alla famiglia, alla Chiesa, alla scuola, alle forze armate, alle istituzioni in genere. Una contestazione nella quale Sant’Egidio nasce senza porsi né a favore né contro ma dentro questi rivolgimenti maturando una convinzione molto chiara: lavorare per un mondo unito e una fraternità universale …” Nel giro di pochi anni la loro esperienza si diffonde in diversi ambienti studenteschi e si concretizza in attività a favore degli emarginati nei quartieri popolari della periferia romana, come il “Cinodromo”, lungo il Tevere, nella zona sud di Roma. Il primo dei servizi della comunità, quando ancora non aveva preso il nome di Sant’Egidio, fu la scuola popolare per i bambini emarginati delle baraccopoli romane. La Comunità ha preso il nome dal piccolo ex-monastero abbandonato nel cuore di Trastevere, accanto alla Basilica di Santa Maria, dove dal 1973 i suoi membri e tutti quelli che vogliono partecipano alla preghiera comunitaria serale, che ha come temi centrali la misericordia di Dio per i malati e per i peccatori, la commozione di Gesù per le folle e l’invito ad annunciare il Vangelo. Nella seconda metà degli anni Settanta la Comunità comincia a radicarsi anche in altre città italiane e negli anni Ottanta a diffondersi in Africa, America e Asia. Nel docufilm Andrea Riccardi ricorda anche che il pranzo di Natale con i poveri è una tradizione della Comunità di Sant’Egidio da quando, nel 1982, un piccolo gruppo di persone povere, circa 20, fu accolto attorno alla tavola della festa nella Basilica di Santa Maria in Trastevere: c’erano alcuni anziani del quartiere, che in quel giorno sarebbero rimasti soli, e alcune persone senza fissa dimora conosciute nelle strade di Roma. Sono passati 37 anni da quel primo pranzo: da allora la tavola si è allargata di anno in anno, un luogo dove tutti si possano sentire a casa loro, e da Trastevere ha raggiunto tante parti del mondo, dovunque la Comunità è presente. Sin dalle origini il servizio ai poveri e il sostegno ai diritti e alla dignità della persona, insieme alla promozione della cultura dell’incontro e all’impegno per la pace, ha caratterizzato la vita della Comunità, che in diversi Paesi ha attuato numerose opere di sostegno ai poveri: mense, scuole di lingua per gli immigrati, scuole pomeridiane per bambini, centri per portatori di handicap, centri per anziani, ambulatori medici e centri per persone con disagio psichico, assistenza a senza fissa dimora e nomadi, a tossicodipendenti e malati di AIDS, carcerati e condannati a morte. Oggi “il popolo delle tre P”- preghiera, pace e povertà-, come lo ha definito papa Francesco, è diffuso in oltre 70 Paesi del mondo e conta 60mila persone di tutte le età e condizioni sociali. La Comunità è conosciuta per il suo impegno nelle periferie più povere delle città, per l’apertura al dialogo con tutti, per i processi di pace avviati in più punti del pianeta e ultimamente anche per il progetto dei corridoi umanitari che insieme alle Chiese evangeliche sta portando avanti in Italia, Francia e Belgio.
DALLA STORIA
Il falò delle vanità del domenicano Girolamo Savonarola.
Il falò delle vanità, avvenuto il 7 febbraio del 1497, ci riporta nella Firenze rinascimentale, quando, durante il martedì grasso, in seguito alla cacciata dei Medici, i seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola sequestrarono e bruciarono pubblicamente qualsiasi oggetto considerato peccaminoso o di vanità. Migliaia di fiorentini seguirono il frate domenicano Girolamo Savonarola in processione fino in piazza della Signoria, dove era stato allestito nei giorni precedenti un rogo alto trenta braccia. Tra canti e inni un singolarissimo esercito di quindicimila “fanciulli”, le squadre di ragazzini che al servizio del frate vigilavano sulla moralità dei fiorentini, con il fanatismo cieco dell’età, appiccò il fuoco: quadri di valore inestimabile, gioielli, libri preziosi, parrucche, libri, cosmetici e tutto quanto appariva frivolo e peccaminoso finì distrutto. Si dice che Botticelli, divenuto savonaroliano, colpito da una profonda crisi spirituale e religiosa, portò lui stesso al rogo alcuni quadri ispirati alla mitologia classica. La Firenze in cui Savonarola, di origine ferrarese, giunge nel 1482, è una città resa splendida dalle opere d’arte volute da Lorenzo il Magnifico, che, divenuto signore de facto di Firenze alla morte del padre Piero, fu un vero mecenate e si circondò di intellettuali, quali Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, di letterati, Poliziano e Pulci, di artisti quali Botticelli e il giovane Michelangelo. Lorenzo de’ Medici, lui stesso scrittore e poeta, scrisse numerose opere, tra cui i “Canti Carnascialeschi”, di cui fa parte il famoso “Trionfo di Bacco e Arianna”, che, riprendendo il “carpe diem” oraziano, invita a godere della giovinezza, a vivere l’oggi con spensieratezza. E proprio tale cultura che si rifà al mondo classico e tale visione gioiosa della vita cozza con la concezione austera del frate domenicano, che nelle sue prediche nel Duomo e anche in piazza della Signoria tuona contro l’immoralità e l’indecenza, profetizzando imminenti sventure sulla città: “aspettiamo presto un flagello, o Anticristo o peste o fame”. Con la morte di Lorenzo, che avvenne l’8 aprile 1492 e fu accompagnata dai più sinistri presagi (una pioggia di tempesta e di vento, la cupola di santa Maria del Fiore colpita da un fulmine, lo stemma dei Medici andato in mille pezzi, il medico di Lorenzo trovato morto in fondo ad un pozzo, tutti segnali di una prossima Apocalisse), l’atmosfera in città si fece cupa e triste, “Non si giocava più in pubblico, stavano serrate le taverne, le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi … frequentavano le chiese”, scrive il Guicciardini. In tale contesto, anche a causa della debolezza e dell’incapacità di Piero de’ Medici, che nel 1494 fu cacciato da una sommossa popolare, il frate, priore del convento di San Marco, divenne ispiratore e sostenitore della Repubblica, che, guidata da Pier Soderini, assunse i caratteri di una vera “teocrazia”. Savonarola continuò in prediche sempre più infuocate contro la corruzione non solo dei fiorentini, ma anche del papato, che nella figura di Alessandro VI Borgia, il 12 maggio del 1497, lo scomunicò, minacciando i fiorentini d’interdetto se avessero seguito il frate ribelle; il papa, prima di tale provvedimento, aveva anche tentato di zittirlo con l’offerta della nomina a cardinale, ma il frate nella predica, che tenne nella Sala del Consiglio, alla presenza della Signoria, rifiutò con un grido: “Non voglio cappelli, non voglio mitrie grandi o piccole, voglio quello che hai dato ai tuoi santi: la morte. Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!”. Il 23 maggio 1498 Savonarola, che si era fatto molti nemici in città, tra cui i Palleschi, i Compagnacci, gli Arrabbiati e persino i frati francescani di San Marco, fu impiccato e bruciato sul rogo come “eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove”, le sue opere furono inserite nel 1559 nell’Indice dei libri proibiti. I suoi scritti sono stati poi riabilitati dalla Chiesa nei secoli seguenti fino a essere presi in considerazione in importanti trattati di teologia. Figura complessa quella del Savonarola, capace di suscitare i giudizi opposti di chi lo ha considerato un fanatico esaltato e un impostore e di chi ha visto in lui un rivoluzionario che si batteva per il miglioramento delle condizioni dei poveri e denunciava il vizio e la corruzione dell’aristocrazia fiorentina e del papato. Comunque lo si giudichi, rimane assolutamente deprecabile il fatto che si sia fatto promotore di quel rogo descritto dal Vasari nella “Vita di fra’ Bartolomeo”, in cui vennero bruciati libri d’inestimabile valore di Dante, Petrarca, Boccaccio e anche di autori greci e latini, come Platone, Aristotele, Virgilio, espressione di quella cultura classica da lui considerata inconciliabile con la vita cristiana e giudicata strumento di perdizione. Un gesto di oscurantismo ingiustificato e ingiustificabile, frutto di fanatismo e superstizione, che andò ben oltre quello che poteva essere il retto intento di richiamare a costumi più morigerati e sobri. L’Arte, in quanto ricerca del bello, non può indurre al vizio e alla depravazione ma, al contrario, essa li può solo redimere.
(“Il supplizio di Savonarola”. Francesco di Lorenzo Rosselli, 1498. Museo di San Marco, Firenze)
6 febbraio
PRIMO PIANO
Spreco alimentare: oltre la metà del cibo finisce nella spazzatura.
La sesta Giornata mondiale contro lo spreco di cibo, istituita in Italia il 5 febbraio 2014, è stata l’occasione per riflettere sui numeri dello spreco alimentare: 15 miliardi di euro, lo 0,88% del Pil, finiscono nella pattumiera, 36 chili di alimenti, che si sarebbero potuti consumare, vengono gettati via, 2,4 chili di cibo si buttano ogni mese in casa. Pane e verdure fresche sono fra gli alimenti più spesso eliminati, ma anche bevande analcoliche, legumi, frutta fresca e pasta. La nuova “fotografia” sulle abitudini degl italiani emerge dai dati raccolti da Waste Watchers e Last minute Market, lo spin off dell’Università di Bologna che da vent’anni si occupa dell’argomento. “La percezione degli italiani – spiega Andrea Segrè, fondatore e presidente di Last Minute Market – è ancora poco consapevole. Basterebbe acquistare ciò che serve realmente, compilando liste precise che non cadono nelle sirene del marketing, scegliendo alimenti locali e di stagione basati sulla Dieta Mediterranea, consultando etichette e scadenze, utilizzando al meglio frigo, freezer e dispensa per gli alimenti senza stiparli alla rinfusa.” Negli ultimi cinque anni lo spreco alimentare supera di gran lunga quello idrico, energetico o monetario. Varie le iniziative promosse, come l’inaugurzione alla Fao della mostra “Primo non sprecare, secondo Altan. Lo spreco formato vignetta”, che sarà visitabile fino a lunedì 11 febbraio, e la mattinata dedicata all’educazione alimentare e al valore del cibo, alla quale parteciperanno centinaia di studenti, che ideeranno e prepareranno anche un piatto con cibo di recupero, da condividere piacevolmente alla fine. L’indagine dell’Osservatorio Waste Watcher 2019 ci guida nelle abitudini di acquisto degli italiani: un plebiscito per i supermercati, perché 7 italiani su 10 (72%) li scelgono per la loro spesa, seguono gli ipermercati e i centri commerciali (30%), caduta libera per il dettaglio e i piccoli negozi (18%) così come per i mercati (15%), ma, a sorpresa, l’acquisto online entra nella quotidianità di acquisto anche per i generi alimentari (8%). Qualcosa, però, per una maggiore attenzione da parte degli italiani o per la crisi, sta cambiando, Waste Watcher ha permesso di confrontare i risultati della sensibilizzazione avviata in questi anni: eloquente il raffronto fra i dati 2014 e quelli 2018 rispetto alle abitudini allo spreco. Se nel 2014 1 italiano su 2 dichiarava di gettare cibo quasi ogni giorno, nel 2018 solo l’1% ha dichiarato di cestinare il cibo. Oltre sette italiani su dieci (71%) hanno diminuito o annullato gli sprechi alimentari adottando nell’ultimo anno strategie che vanno dal riutilizzo in cucina degli avanzi a una maggiore attenzione alla data di scadenza, alla richiesta della doggy bag al ristorante, alla spesa a chilometro zero dal campo alla tavola con prodotti più freschi che durano di più. Molto resta da fare, ma l’impegno per la prevenzione dello spreco alimentare comincia a dare i suoi frutti attraverso un’educazione alimentare rivolta soprattutto alle nuove generazioni. Last Minute Market, che nel 2019 festeggia i suoi primi 20 anni grazie al networking con 350 punti vendita e oltre 400 enti del terzo settore, recupera annualmente 55mila pasti cotti, prodotti alimentari per un valore di 5,5 milioni euro, farmaci per 1.000.000 e più di 1000 tonnellate di prodotti non alimentari.
DALLA STORIA
Il reggae di Bob Marley.
(Image by © Michael Ochs Archives/Corbis, 1979)
Londra, 17 e 18 luglio 1975: al Lyceum Ballroom, uno dei teatri più belli della capitale inglese, di fronte a 3.000 ragazzi giamaicani, arrivati lì per ascoltare il loro padre spirituale, perfettamente mescolati ai ragazzi inglesi, si consacrò in sole due notti un nuovo sogno collettivo, il reggae di Bob Marley. Nel libro di Ernesto Assante, “I giorni del rock”, si legge: “L’atmosfera di quella sera era inspiegabile. Dennis Morris, fotografo di scena, l’avrebbe sintetizzata così’: “Quella sera tutti i presenti decisero che sarebbero diventati dei rasta”. “Lively Up Yourself” e “No Woman No Cry” trasportarono il pubblico e la musica popolare in altri territori: esotici, incontaminati. Il rock riscoprì il sacro, divenne l’accesso a un libero paradiso nel cuore dell’Occidente, che avrebbe trovato proprio in Inghilterra i suoi discepoli: senza l’impatto di quel concerto, i Clash, i Police e decine di altri gruppi non sarebbero semplicemente esistiti”. Bob Marley, estraendo dai generi musicali occidentali e attingendo ai ritmi della musica afrogiamaicana, produceva insieme alla sua formazione, “I Wailers”, un canto dalle sonorità mistiche e vibranti che assumeva, per il coinvolgimento con il pubblico, il significato di un messaggio “messianico”. Lì dentro c’era tutto: il rock degli ultimi vent’anni, il soul, la musica elettronica, la musica giamaicana delle origini inclusi i generi di ispirazione del reggae, come la musica ska, e la sua leggera variante nella rocksteady miscelati, come in una osmosi alchemica producevano un suono del tutto nuovo che assumeva l’intensità di un canto ecumenico. Quando Marley, da adolescente, scopre il rock provocatorio di Elvis Presly, il soul di Sam Cooke e Otis Redding e il country di Jim Reeves, attraverso un’emittente di New Orleans, grazie a Neville O’Riley Livingston, “Bunny” suo mentore, decide ardentemente di possedere una chitarra che, essendo poverissimo, si costruisce in modo rudimentale da solo. In seguito conoscerà Peter Tosh, “che possedeva una vecchia e scassata chitarra acustica”. Tosch e Neville O’ Riley Livingston costituiranno il primo nucleo dei “Wailers”, che significa “coloro che si lamentano”. Marley in relazione all’attribuzione di quel nome così si espresse:” Ho preso il nome dalla Bibbia. Quasi in ogni pagina ci sono storie di persone che si lamentano. E poi, i bambini piangono sempre, come se reclamassero giustizia”. È da questo momento che la musica di Marley entra in simbiosi con la storia del popolo giamaicano. Infatti Bob Marley, il cui vero nome è Robert Nesta Marley, nasce nel villaggio di Rhoden Hall situato ai piedi della collina di Nine Miles, nella regione di St. Ann’s Bay, nella Giamaica settentrionale, si presume il 6 febbraio 1945. Suo padre, Norval Sinclair Marley, era un giamaicano bianco di discendenza inglese, nato nel 1885 da genitori originari del Sussex. Norval era un capitano della marina, oltre che un sovrintendente delle piantagioni quando sposò Cedella Booker, all’epoca diciottenne giamaicana nera. La loro relazione provocò subito uno scandalo ed infine il padre di Bob abbandonò la madre mentre lei era incinta. Bob aveva appena dieci anni quando il padre morì, parlando di lui diceva: “Non ho avuto padre. Mai conosciuto … Mio padre era come quelle storie che si leggono, storie di schiavi: l’uomo bianco che prende la donna nera e la mette incinta”. Robert fu vittima di pregiudizi razziali da giovane, a causa delle sue origini razziali miste, e affrontò la questione della sua identità razziale durante tutta la sua vita. Di sé sosteneva: “Io non ho pregiudizi contro me stesso. Mio padre era bianco e mia madre era nera. Mi chiamano mezzosangue, o qualcosa del genere. Ma io non parteggio per nessuno, né per l’uomo bianco né per l’uomo nero. Io sto dalla parte di Dio, colui che mi ha creato e che ha fatto in modo che io venissi generato sia dal nero che dal bianco”. Infatti la musica di Bob Marley è fortemente dedicata al tema della lotta contro l’oppressione politica e razziale e all’invito dell’unificazione dei popoli di colore come unico modo per raggiungere la libertà e l’uguaglianza. L’aspetto politico della sua vita è stato più importante di quello artistico. Egli è stato soprattutto un leader politico, spirituale e religioso: non solo trasformò l’aspetto musicale e ritmico della musica reggae, della quale fu il principale esponente, ma la diffuse come culto vero e proprio, cambiandone notevolmente quelle che erano le radici. Nel 1978 gli fu conferita, a nome di 500 milioni di africani, la medaglia della pace dalle Nazioni Unite ed è considerato dal suo popolo una guida spirituale. In Giamaica, ogni 6 febbraio vi è una festa nazionale in suo onore. Inoltre è stato insignito del prestigioso “Jamaica Order of Merit” per aver contribuito a diffondere in tutto il mondo uno stile di vita generalmente identificato con la musica reggae. Marley venne educato da cristiano ma decise nel tempo di seguire il movimento Rastafari, la cui dottrina considera l’imperatore etiope Haile Selassie I come il Messia, l’incarnazione di Dio, in qualità di negus dell’Etiopia. Bob Marley morì la mattina dell’11 maggio 1981 a causa di un cancro all’età di 36 anni. Poco prima di morire decise di parlare con tutti i suoi tredici figli e senza più la sua simbolica capigliatura “rasta”, perduta a causa delle cure a cui si era dovuto sottoporre, (capelli annodati in un rigido intreccio come pratica religiosa. Essi possono ricordare la criniera del leone, simbolo della tribù di Giuda da cui discende Ras Tafari) e adottata dai fans di tutto il mondo insieme ai concetti di libertà, unità e redenzione che Marley ha saputo comunicare attraverso una musica bellissima.
Mary Titton
5 febbraio
PRIMO PIANO
Il Capodanno cinese.
Il 5 febbraio i cinesi in tutto il mondo festeggiano il loro Capodanno, la festa di primavera, questo è il vero nome. Il 2019 è l’anno del maiale, l’ultimo dei segni dello zodiaco, secondo le fiabe cinesi, infatti, in una gara tra animali per diventare le guardie personali dell’Imperatore di Giada che, in fin di vita, cercava accompagnatori per l’aldilà, vinse il topo facendosi trasportare dal bue e saltandogli davanti al traguardo, mentre il maiale, pigro e generoso, arrivò per ultimo. Poiché quello cinese è un calendario lunare, la data del capodanno cambia ogni anno e può variare di circa 29 giorni, venendo a coincidere con la seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno, evento che può avvenire fra il 21 gennaio e il 19 febbraio del calendario gregoriano. A partire da questa data le festività durano quindici giorni e si concludono con la tradizionale Festa delle lanterne. Per il calendario cinese, poi, siamo nel 4717 perché gli anni si contano da quello che per noi è il 2637 a.C.. Il maiale è un segno particolarmente caro ai cinesi perché in Cina è un animale fondamentale per l’economia e, come spiega Francesco Boggio Ferraris, direttore della scuola di formazione permanente della Fondazione Italia-Cina, “ha tratti considerati importanti e tipici della cultura cinese come l’abbondanza, la ricchezza, la solidarietà, il collettivismo. I nati sotto il segno del maiale aiutano gli amici, risultano un po’ ingenui, sono altruisti e non vedono gli inganni. L’essere determinati ad aiutare gli altri, la benevolenza, è virtù tipica del confucianesimo andando al di là dell’oroscopo.” Il 2019, poi, è un anno particolarmente fortunato perché è l’anno del maiale d’oro, che capita ogni 60 anni, perché ogni 12 anni si alterna anche uno degli elementi di cui è composta la natura per i cinesi: metallo (oro), acqua, fuoco, legno, terra. Nel periodo del Chunyun, come è chiamato il capodanno in cinese, il governo stima che verranno effettuati 2,99 miliardi di viaggi da chi torna al proprio paese per trascorrere le feste con i parenti più stretti. Il Capodanno si festeggia in molti paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Corea, Mongolia, Singapore, Malaysia, Nepal, Bhutan, Vietnam, Taiwan e Giappone e anche nelle innumerevoli comunità cinesi sparse in tutto il mondo. Luci, lanterne rosse, maialini dorati addobbano le strade delle città, dove si svolge la rituale danza del leone, nella quale si sfila per le strade al ritmo chiassoso e battente di tamburi e cimbali, inseguendo una maschera da leone, che rappresenterebbe un mostro, il Nian. Molte sono le tradizioni che vengono rispettate in questo periodo, dagli addobbi e decorazioni delle case con fiocchi e nastri di colore rosso, considerato di buon auspicio, allo scambio di buste rosse contenenti denaro (il numero di monete deve essere sempre pari, in quanto i numeri dispari sono associati al denaro che si dona in caso di funerali, inoltre, poiché il numero 4 è considerato di malaugurio, a causa di una sua assonanza con il termine “morte”, le buste non contengono mai monete in numero di quattro o multipli; fa eccezione il numero 8, considerato invece di buon auspicio). Importantissima è la la cena conviviale della vigilia, quando i parenti più stretti si ritrovano, generalmente a casa della persona più anziana, davanti a una tavola riccamente imbandita, in cui le pietanze principali e immancabili sono pesce e pollo in gran quantità, perché hanno un valore scaramantico.
DALLA STORIA
La Repubblica Romana del 1849: una “fiammata” base delle future democrazie.
Il 5 febbraio 1849 si insediò in Campidoglio e iniziò i lavori l’Assemblea Costituente, che, eletta il 21 gennaio del 1849 con voto a suffragio universale, all’alba del 9 successivo, dichiarò decaduto di fatto e di diritto il potere temporale del papa e proclamò la Repubblica Romana con a capo un comitato esecutivo di tre membri, Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti. Gli antefatti: tutto comincia il 1848, l’anno delle rivoluzioni. Pio IX, che ha fama di liberale moderato, anche se il 14 marzo ha concesso la Costituzione e ha permesso ai volontari, comandati dal generale Andrea Ferrari, e ad alcune truppe regolari, comandate dal generale Durando, di affiancarsi all’esercito piemontese, poi fa marcia indietro e rifiuta ogni partecipazione alla guerra contro l’Austria. Il 15 novembre, Pellegrino Rossi, capo del governo pontificio, mentre sale le scale del Palazzo della Cancelleria, sede del Consiglio dei deputati, viene ucciso probabilmente da Luigi Brunetti, figlio di Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio: inizia la rivoluzione. Pio IX si chiude nel palazzo del Quirinale, assediato dalla folla, e il 24 novembre, travestito da semplice prete, fugge e raggiunge Gaeta, dove si pone sotto la protezione di Ferdinando II, re delle Due Sicilie e richiede l’intervento delle potenze cattoliche per ristabilire l’ordine nello Stato Pontificio. Falliti i varî tentativi per far tornare il papa, a Roma l’11 dicembre il governo è assunto dalla Giunta di Stato che, dopo aver sciolto la Camera, convoca i comizi per l’elezione di un’Assemblea Costituente dello Stato Romano, in cui per darle un carattere nazionale, vengono eletti anche cittadini degli altri Stati italiani, tra cui Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Tale organismo, fortemente orientato all’unità nazionale e contrario al potere temporale del papa, il 9 febbraio, come già detto, proclama la Repubblica Romana e il mese successivo ne affida la guida a un triumvirato composto da Mazzini, Armellini e Saffi. Nella sua breve vita, solo 5 mesi, la Repubblica Romana, che adotta come bandiera il tricolore, vara una serie di provvedimenti democratici, ispirati principalmente al mazzinianesimo: il suffragio universale maschile (il suffragio femminile in realtà non era vietato dalla Costituzione, ma le donne ne restarono escluse per consuetudine), l’abolizione della censura, della pena di morte e del Tribunale del S. Offizio, la libertà di culto, la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, l’istituzione dello stato civile e del matrimonio civile, la riforma agraria e il diritto alla casa tramite la requisizione dei beni ecclesiastici, la divisione dei poteri, tutte riforme che sarebbero diventate realtà in Europa solo più di un secolo dopo. Grande importanza assunse la presenza di Mazzini, che cercò di realizzare in Roma le sue idee morali, politiche e sociali, prospettate nel proclama del 5 aprile, continuando a invocare ordine, moralità, temperanza e dando mano a una radicale opera di rinnovamento. Le circostanze, però, furono avverse: alle difficoltà interne, dovute alla gravissima crisi economica e alle violenze degli estremisti, si aggiunse l’intervento della Francia di Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, in favore del papa. Il generale Oudinot, al comando delle truppe francesi, respinte il 30 aprile, anche per l’intervento di Garibaldi, a Porta Angelica e a Porta San Pancrazio, dopo aver sconfessato l’accordo raggiunto tra Mazzini e il diplomatico francese De Lesseps, forte dei rinforzi ricevuti, all’alba del 3 giugno attaccò di sorpresa la città. Comincia così l’eroica resistenza per difendere Roma, cinta d’assedio: si combatte al Vascello, a Villa Corsini, a Villa Spada, a Villa Pamphili, dove versano il loro sangue tanti giovani accorsi da diverse province per difendere la Repubblica e gli ideali di democrazia e libertà, cadono tra gli altri Luciano Manara, Ludovico Pietramellara, Enrico Dandolo, il Morosini, il Masina, il Daverio, Giacomo Veneziani, Goffredo Mameli. Dopo un mese, divenuta impossibile ogni ulteriore resistenza, respinta la proposta di Mazzini di proseguire la lotta altrove, l’Assemblea delibera di cessare “una resistenza divenuta impossibile” e di restare “al suo posto”, i triumviri che non approvano la resa si dimettono e viene eletto un nuovo Comitato Esecutivo con Aurelio Saliceti, Alessandro Calandrelli, Livio Mariani, che invece l’approva. Il 3 luglio i francesi entrano a Roma, mentre l’Assemblea costituente proclama, ultimo atto fortemente simbolico dell’esperienza repubblicana, la nuova Costituzione elaborata in quei mesi. È la fine della Repubblica romana, un’esperienza significativa nella storia dell’unificazione italiana, tanto che alla sua Costituzione, la più democratica in Europa a quei tempi, si richiamano la Costituzione della Repubblica italiana e la maggior parte delle Costituzioni moderne degli Stati occidentali. Il Papa, dopo un esilio di diciassette mesi, fece ritorno a Roma il 12 aprile 1850 e abrogò la Costituzione concessa nel marzo di due anni prima. Fece poi seguire una profonda opera di restaurazione, annullando molti atti della Repubblica Romana: ripristinò la pena di morte che era stata soppressa, fece abbattere la statua eretta in memoria di Giordano Bruno, ripristinò l’isolamento degli Ebrei nel Ghetto con relativi balzelli e divieti. Ai militari che parteciparono alle operazioni venne assegnata la medaglia commemorativa della restaurazione dell’autorità pontificia.
N.B. Nel 2011, in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, la Progetto Editoriale Editions, in collaborazione con la Biblioteca del Senato della Repubblica, pubblicava una preziosa Opera editoriale: i “Giornali del Risorgimento”. La collezione che comprende novantuno giornali, gazzette e periodi, dal 1797 al 1861, riprodotti e individuati cronologicamente per importanza e rappresentatività storica e originalità, a cura dell’Emeroteca della sopracitata Biblioteca, è da considerare un’edizione di straordinario interesse culturale: sfogliandone le pagine è come vivere di “prima mano” la cronaca di quei tumultuosi avvenimenti e dei suoi protagonisti. A completamento dei “Giornali del Risorgimento”, la Casa Editrice ha riprodotto l’intera monetazione, gli stemmi, le bandiere, le stampe degli Stati preunitari.
(Bandiera di guerra della Repubblica Romana che reca al centro l’acronimo, per l’appunto, della Repubblica Romana (12 febbraio 1849 – 15 luglio 1849). L’immagine qui rappresentata riproduce la bandiera incorniciata realizzata dalla Progetto Editoriale Editions)
Mary Titton
4 febbraio
PRIMO PIANO
25mo anniversario della morte dei tre giornalisti della Rai uccisi a Mostar.
I tre giornalisti italiani, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Sasha Ota, uccisi nel 1994 da una granata a Mostar, sono stati ricordati oggi nella città bosniaca con una commemorazione, durante la quale l’ambasciatore Minasi ha deposto una corona di fiori davanti alla targa posta in loro ricordo in Brace Fejica 82a., il luogo dell’uccisione, e i bambini dell’orfanotrofio “Dječiji dom Mostar” hanno lasciato una rosa a fianco della corona. La cerimonia si è svolta in contemporanea anche a Trieste, città da cui i tre reporter provenivano ed in cui ha sede la “Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin”, istituita a seguito dei fatti di Mostar per assicurare le cure necessarie ai piccoli feriti in guerra o colpiti da malattie non curabili nei loro Paesi di origine. Il 28 gennaio 1994 i tre giornalisti della Rai di Trieste, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Sasha Ota erano arrivati a Mostar est- parte della città controllata dall’Armija e sotto assedio da più di un anno per mano dell’HVO, esercito croato-bosniaco – sui mezzi del convoglio della Croce Rossa internazionale, partito la mattina dalla vicina Medjugorije sotto controllo dell’HVO, scortato dal contingente spagnolo dei Caschi blu, per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra nella ex-Jugoslavia. Marco Luchetta, 42 anni, giornalista, Dario D’Angelo, 47 anni, operatore e Alessandro Ota, 37 anni, tecnico, vicino a un piccolo edificio adibito a ospedale entrarono nel cortile di un complesso quadrilatero residenziale dove si affacciava l’ingresso di un rifugio in cui da mesi si nascondevano decine di persone tra cui molti bambini. All’ingresso del rifugio, mentre stavano intervistando un bimbo, Zlatko Omanović, cadde a poca distanza una granata, che colpì gli operatori, che con i loro corpi fecero da scudo a Zlatko, che si salvò. In seguito venne aperta un’inchiesta, poi archiviata, per indagare su responsabilità e sospetta intenzionalità dell’uccisione da parte delle forze croato-bosniache. La presenza dei tre giornalisti a Mostar est era infatti risaputa, avendo passato diversi check point prima di entrare, ma la conclusione fu che erano stati vittime di uno dei quotidiani bombardamenti sulla parte est della città. La loro morte ha indotto i familiari e un gruppo di amici a creare una Fondazione per i bambini vittime di tutte le guerre, con l’intento di ricordare i tre inviati, ma anche il bambino salvato, Zlatko Omanović, primo bimbo aiutato dalla Fondazione, che oggi ha 29 anni, vive in Svezia e continua a mantenere i contatti con le famiglie dei tre giornalisti. Ad oggi la Fondazione ha aiutato decine di bambini, come ha dichiarato il figlio di Marco, Andrea Luchetta, in un’intervista rilasciata pochi giorni fa ad Al Jazeera Balkans: “In 24 anni abbiamo accolto circa 700 bambini e 1000 persone tra genitori e parenti. La Fondazione si è occupata di tutti i loro bisogni durante la permanenza nei due centri che abbiamo a Trieste. Oggi, oltretutto, abbiamo anche un altro centro unico in Italia, in cui accogliamo richiedenti asilo con minori malati e bisognosi di cure specifiche.” Il loro sacrificio non è stato vano!
DALLA STORIA
4 febbraio 1900, nasce Jacques Prévert.
Nella ricorrenza della nascita di Jacques Prévert, protagonista della scena culturale francese, quando gli artisti, i cineasti, gli scrittori si incontravano nei caffè del quartiere di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi a parlare del Surrealismo, di un nuovo modo di fare cinema, di impegno sociale e politico, di arte e cultura, nel confronto delle idee, ricordiamo il celebre poeta e sceneggiatore attraverso la sua poesia, magari immaginando, come in un gioco “surreale” di sedere accanto a lui, in uno di quei tavolini e ascoltarlo leggere, come per magia, questo piccolo estratto che qui presentiamo.
Sabbie Mobili
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
S’è ritirato già il mare in lontananza
E tu
Come alga dolcemente dal vento accarezzata
Nelle sabbie del letto ti agiti sognando
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
Il mare sé ritirato già in lontananza
Ma nei tuoi occhi socchiusi
Due piccole onde son rimaste
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
Due piccole onde per farmi annegare.
Prevért, in tutte le sue poesie, canta l’amore come unica salvezza del mondo, un amore implorato, sofferto, tradito, ricercato, perduto. (In “Barbara, una delle poesie più famose del poeta egli canta l’amore come una forza indistruttibile, anche quando tutto intorno ci sono solo macerie).
Barbara
Ricordati Barbara
Pioveva senza sosta quel giorno su Brest
E tu camminavi sorridente
Serena rapita grondante
Sotto la pioggia
Ricordati Barbara
Come pioveva su Brest
E io ti ho incontrata a rue de Siam
Tu sorridevi
Ed anch’io sorridevo
Ricordati Barbara
Tu che io non conoscevo
Tu che non mi conoscevi
Ricordati
Ricordati quel giorno ad ogni costo
Non lo dimenticare
Un uomo s’era rifugiato sotto un portico
E ha gridato il tuo nome
Barbara
E sei corsa verso di lui sotto la pioggia
Grondante rapita rasserenata
E ti sei gettata tra le sue braccia
Ricordati questo Barbara
E non mi rimproverare di darti del tu
Io dico tu a tutti quelli che amo
Anche se una sola volta li ho veduti
Io dico tu a tutti quelli che si amano
Anche se non li conosco
Ricordati Barbara
Non dimenticare
Questa pioggia buona e felice
Sul tuo volto felice
Su questa città felice
Questa pioggia sul mare
Sull’arsenale
Sul battello d’Ouessant
Oh Barbara
Che coglionata la guerra
Che ne è di te ora
Sotto questa pioggia di ferro
Di fuoco d’acciaio di sangue
E l’uomo che ti stringeva tra le braccia
Amorosamente
È morto disperso o è ancora vivo
Oh Barbara
Piove senza sosta su Brest
Come pioveva allora
Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato
È una pioggia di lutti terribili e desolata
Non c’è nemmeno più la tempesta
Di ferro d’acciaio e di sangue
Soltanto di nuvole
Che crepano come cani
Come i cani che spariscono
Sul filo dell’acqua a Brest
E vanno ad imputridire lontano
Lontano molto lontano da Brest
Dove non vi è più nulla.
Paris at night
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vedere tutto intero il tuo volto
Il secondo per vedere i tuoi occhi
Il terzo per vedere la tua bocca
E l’oscurità intera per ricordare tutto questo
Mentre ti stringo fra le braccia.
La canzone del carceriere
Dove vai bel carceriere
Con quella chiave macchiata di sangue
Vado a liberare la mia amata
Se sono ancora in tempo
L’avevo chiusa dentro
Teneramente crudelmente
Nella cella del mio desiderio
Nel più profondo del mio tormento
Nelle menzogne dell’avvenire
Nelle sciocchezze del giuramento
Voglio liberarla
Voglio che sia libera
E anche di dimenticarmi
E anche di lasciarmi
E anche di tornare
E di amarmi ancora
O di amare un altro
Se un giorno le va a genio
E se resto solo
E lei sarà andata via
Io serberò soltanto
Serberò tuttavia
Nel cavo delle mani
Fino alle ultime mie ore
La dolcezza dei suoi seni plasmati dall’amore.
(Jacques Prévert e Pablo Picasso)
Mary Titton
2 febbraio
PRIMO PIANO
Italia investita dal maltempo: automobilisti bloccati per ore sulla A22.
L’Italia si trova investita da una forte ondata di maltempo da Nord a Sud. Il tempo è caratterizzato da abbondanti nevicate, valanghe, fiumi in piena, violenti temporali e nubifragi. A Vipiteno, l’ultima città dell’Alto Adige prima del valico del Brennero, sono caduti 65 cm. di neve e al momento la cittadina è raggiungibile solo dal territorio austriaco o in treno. A Maranza, all’imbocco della Val Pusteria, sono caduti nella notte 90 cm di neve e in quasi tutte le località turistiche di montagna almeno mezzo metro. Era da qualche anno che non cadeva così tanta neve anche nel capoluogo altoatesino, dove non sono mancati disagi alla circolazione. L’autostrada del Brennero è stata chiusa in direzione nord tra Chiusa e Vipiteno a causa di mezzi pesanti senza catene bloccati dalla neve, dopo la chiusura è arrivata anche una valanga che ha interessato il km 5 dell’A22 al confine tra Austria e Italia. Il tratto di autostrada è rimasto chiuso al traffico in entrambe le direzioni dalle 8:00 del mattino. Si è formata una lunga coda, arrivata fino a 12 km. Anche il servizio strade ha avuto difficoltà a raggiungere i mezzi bloccati. Gli automobilisti hanno vissuto una vera e propria notte da incubo, rimanendo intrappolati per più di quindici ore, senza aiuti e informazioni In mattinata è stata allestita una cucina da campo per assistere le persone ferme in autostrada. “Mia moglie e i miei due figli sono rimasti fermi per 12 ore in autostrada del Brennero, a una ventina di chilometri dal valico”, ha raccontato in mattinata un infermiere residente in Germania. Alle 12:00 di questa mattina la situazione si è finalmente sbloccata. In Emilia la piena del fiume Reno ha travolto persone e soccorritori, sei carabinieri sono finiti in ospedale per ipotermia. Sono dovuti intervenire i Vigili del Fuoco in elicottero per portare tutti in salvo. A Roma sono stati chiusi tutti gli accessi alle banchine del Tevere mentre il livello del Po è salito di tre metri in 12 ore a causa delle piogge intense. “Sto seguendo, in contatto con il Dipartimento della Protezione Civile, gli sviluppi di questa nuova ondata di maltempo che nelle ultime ore sta coinvolgendo buona parte dell’Italia, soprattutto l’Alto Adige, l’Emilia Romagna, la Campania e che sta creando notevoli disagi ai cittadini e alle comunità coinvolte.” Lo ha scritto su Facebook il premier Giuseppe Conte, ribadendo che “la nostra priorità è mettere in sicurezza il territorio, con azioni di contrasto e prevenzione del rischio idrogeologico, e fare un tagliando alla nostra rete viaria, per buona parte datata, a strade, ponti, viadotti.”
31 gennaio
PRIMO PIANO
Sbarcati oggi a Catania i 47 migranti della Sea Watch 3.
Alle 10:00 di questa mattina la nave Sea Watch, scortata da quattro motovedette della guardia di finanza e della guardia costiera, è attraccata nel porto di Levante di Catania tra le urla di gioia dei migranti a bordo e gli applausi delle persone assiepate sul molo. All’arrivo i migranti hanno festeggiato abbracciandosi tra di loro e abbracciando i componenti dell’equipaggio della nave della Ong tedesca battente bandiera olandese. La Caritas Diocesana, su richiesta dei Servizi Sociali del Comune di Catania, ha messo a disposizione dei migranti sbarcati 60 paia di scarpe nuove, provenienti dai sequestri svolti dal Comando Provinciale della Guardia di Finanza, e 60 paia di calze nuove acquistate. La nave, rimasta bloccata per sei giorni al largo di Siracusa, era salpata alle 5:30 di oggi, dopo che la partenza per Catania, nella tarda serata di mercoledì, era stata rimandata a causa di un guasto tecnico. I migranti sono scesi uno per volta pieni di gioia: i 15 minori non accompagnati sono stati condotti in un in un’unica struttura di accoglienza, che aderisce al Fondo asilo migrazione e integrazione del Ministero dell’Interno e a ciascuno di loro è stato assegnato un tutore legale. Gli adulti sono stati condotti con un autobus all’hotspot di Messina, dove saranno identificati e poi trasferiti negli 8 Paesi Ue che hanno aderito all’accordo per la ridistribuzione: Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Lituania, Malta, Romania, Lussemburgo; alcuni rimarranno in Italia. Si è sbloccato così dopo sei giorni il braccio di ferro con la Ue da parte del Governo italiano, che più volte ha sollecitato l’intervento e la collaborazione dell’Europa sulla problematica della distribuzione dei migranti, di cui non può farsi carico solo il Paese di prima accoglienza. Tutto è finito bene, possiamo dire, ma non sono mancate, soprattutto da parte delle opposizioni e di organizzazioni umanitarie, proteste e sollecitazioni al Governo a far sbarcare i naufraghi e a non farne ostaggio della trattativa con gli altri Paesi Ue. Polemiche anche da parte di alcuni ministri sulla decisione del comandante di far rotta sull’Italia anziché sulla più vicina Tunisia. La Ong ha spiegato che “l’Olanda aveva detto a Sea Watch che avrebbe valutato se la Tunisia poteva essere un porto rifugio. L’Olanda ha quindi richiesto alle autorità tunisine di verificare questa possibilità ma non ha mai ricevuto risposta a questa richiesta. E Sea Watch non ha mai avuto risposta”. A quel punto, anche per il peggioramento delle condizioni meteo, hanno deciso di fare rotta verso l’Italia, ritenuta la più sicura, a tutela dei migranti e dell’equipaggio. Tale tesi sarebbe stata sostenuta dall’equipaggio anche oggi davanti agli investigatori, saliti a bordo della nave per le ispezioni e gli interrogatori del caso.
30 gennaio
DALLA STORIA
30 gennaio 1933: Hindenburg nomina cancelliere Hitler.
(Giovanni da Modena – L’Inferno, 1410 circa. Cappella Bolognini, Basilica di San Petronio – Bologna)
Come avvenne l’ascesa del partito nazista? Anche se la seconda guerra mondiale fu innescata dall’invasione della Polonia da parte di Hitler, le sue origini possono essere fatte risalire alla sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale e alla richiesta di risarcimento di guerra. Le nazioni sconfitte persero territori e prestigio e ciò causò un profondo risentimento. La Germania fu costretta a restituire alla Francia l’Alsazia e la Lorena e tutte le sue colonie d’oltremare furono annesse dagli alleati. Negli anni Venti la Repubblica di Weimar avviò la ripresa economica della Germania, ma non poté sopravvivere al colpo inferto dal crollo della borsa americana del 1929. La crisi finanziaria contribuì, perciò, all’ascesa del Partito nazionalsocialista guidato da Hitler, che prometteva ai tedeschi di rendere nuovamente grande la loro nazione. Hitler aveva combattuto nella Prima guerra mondiale e l’esperienza della guerra di trincea, lo choc della sconfitta e le clausole del Trattato di Versailles e probabilmente altre cause ancora, forse inimmaginabili per i comuni mortali, lo resero, per dodici anni in cui terrà il potere, l’artefice dei peggiori crimini contro l’umanità in assoluto. (In assoluto perché nella coscienza collettiva l’idea di disumanizzare scientificamente delle persone, attraverso un metodo pianificato (Conferenza di Wannsee, “La soluzione finale”,1942) volto all’eliminazione di un intero popolo nei campi di sterminio, nella Germania “illuminata” del XX secolo, è scioccante, orrorifico come trovarsi davanti al Diavolo o stare all’Inferno). Hitler, elaborò, perciò, opinioni estremiste fondate su un nazionalismo di estrema destra; e quando il 30 gennaio 1933, il vecchio Hindenburg, senza troppa convinzione, lo nominò cancelliere del governo di coalizione tedesco, e dittatore del Paese l’anno successivo, questi perseguì spietatamente le sue politiche di nazionalismo, antisemitismo e anticomunismo. Guidato da tali convinzioni, avviò una politica estera “ambiziosa”. Nel 1935, schierandosi apertamente contro le clausole del Trattato di Versailles, avviò un massiccio programma di riarmo. Nel 1936 occupò la Renania smilitarizzata, ma nessuna delle principali potenze intervenne. Nel marzo del ’38 annesse l’Austria alla Germania, prima di mettere gli occhi sui Sudeti, la parte della Cecoslovacchia abitata da popolazioni di lingua tedesca. I politici britannici e francesi volevano evitare una ripetizione degli orrori della Prima guerra mondiale e ritenevano che non valesse la pena combattere per i Sudeti. Con il patto di Monaco di Baviera del 29 settembre 1938, i Sudeti furono ceduti a Hitler in cambio della promessa di porre fine alle annessioni territoriali. Il primo ministro britannico Neville Chamberlain dichiarò di avere garantito “la pace per la nostra epoca”, solo per vedere i nazisti invadere il resto della Cecoslovacchia nel marzo del 1939. Con l’invasione della Polonia, iniziata il 1° settembre 1939, la furia distruttiva di Hitler costrinse, infine, la Gran Bretagna e la Francia a una guerra che avevano cercato disperatamente di evitare. I due Paesi, dopo la conquista della Cecoslovacchia da parte di Hitler, avevano garantito, in caso di agressione tedesca, sostegno alla Polonia. Il delirio di onnipotenza di Hitler provocherà la Seconda guerra mondiale segnando tragicamente il destino di milioni di uomini. Ecco come racconta la personalità di Adolf Hitler, in un sintetico e arguto ritratto, il giornalista Marco Innocenti in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore: “Torbido, monomaniaco, invasato, Hitler si sente predestinato: ha una grande capacità di illudersi e una magnetica forza di illudere. Assorbe come una spugna ansie e desideri, paure e pregiudizi del tedesco medio, e si appropria dei simboli del suo tempo: revanscismo, bellicismo, società di massa, orgoglio nazionale, antisemitismo. Cavalca la crisi economica che ha fatto a pezzi il ceto medio, dà speranza all’uomo della strada: è figlio della Grande Depressione e della Germania della sua stagione, interprete perfetto di una generazione che si nutre di irrazionalismo e odia l’illuminismo e la democrazia. Grande persuasore, demagogo irresistibile, splendido oratore, abile manipolatore di coscienza, incendiario dominatore di folle, unisce una pratica antica a una moderna: il rituale dell’adunata di massa e l’ideologia esaltata dal microfono. Converte le grandi piazze in cattedrali del nazismo, umilia la ragione e inietta nei tedeschi la percezione del destino. Ha il diavolo in corpo, è portatore di una lucida pazzia. Scatena l’eccitata emozione delle masse, combina una miscela omicida di nazionalismo esasperato e di cupo nichilismo. Il suo sinistro carisma, il potere di seduzione e la propaganda martellante diventano il punto di riferimento e di raccolta della disperazione di un popolo. Hitler è un profeta del facile, un predicatore dell’ovvio. Impone il grezzo semplicismo di pochi slogan: la vita è lotta, il forte abbatte il debole, la morale è stupidità e decadenza. E il 30 gennaio 1933, spinto da alcuni “utili idioti” e sottovalutato da chi non ne ha percepito la violenza dirompente, coglie il potere che gli offre la democrazia agonizzante di Weimar, pronto a seppellirne il cadavere … in soli dodici anni ucciderà la democrazia, la legge, la morale, la pietà, il suo Paese e alla fine anche se stesso”. La strategia del potere si potrebbe racchiudere in poche semplici equazioni: creare un evento tale da sconvolgere la coscienza collettiva, creare crisi economiche per provocare precarietà, incertezza e paura del futuro, alimentare l’odio verso un capro espiatorio a cui attribuire la responsabilità dei problemi per giustificare così politiche autoritarie che prima di questa “messa in opera” non avrebbero convinto tanto facilmente l’opinione pubblica. Il modello politico di Hitler, con pochi accorgimenti di ammodernamento, come potrebbe essere oggi l’impiego della tecnologia che ne amplifica la comunicazione, non diverge, nella sostanza, dalle tante rappresentazioni del male che leggiamo quotidianamente nella cronaca. Ciò che fa la differenza tra una vita umana e una disumana dipende dalle scelte degli uomini, così come si legge in “Modernità e Olocausto” di Zygmunt Bauman.
Mary Titton
29 gennaio
PRIMO PIANO
Svelato il mistero della “morte apparente” di Alessandro Magno.
Alessandro Magno morì a Babilonia nel 323 a.C., a soli 32 anni, dopo 12 giorni di sofferenze atroci e, secondo i resoconti degli storici, il suo corpo non mostrò segni di decomposizione per sei giorni. Questo fatto per gli antichi Greci costituiva la conferma che il giovane re macedone fosse un dio, con le cui sembianze, nella tradizione letteraria e figurativa, veniva ritratto, spesso nudo, trattamento riservato nella Grecia classica esclusivamente agli dei o ai semidei. In soli dodici anni, Alessandro il Grande aveva, infatti, conquistato l’intero Impero persiano, un territorio immenso che si estendeva dall’Asia Minore all’Egitto fino agli attuali Pakistan, Afghanistan e India settentrionale. Tale straordinario successo fu dovuto sia a una congiuntura storica eccezionalmente favorevole (la crisi dell’Impero persiano e delle poleis greche unita all’opera espansionistica già incominciata dal padre Filippo), sia alla sua intelligenza e al suo coraggio. Sulle cause della sua morte sono state formulate molte ipotesi, nessuna delle quali ritenuta finora convincente: l’avvelenamento da parte dei figli di Antipatro o da parte della moglie Rossane, una ricaduta della malaria che aveva contratto nel 336 a.C., un eccessivo abuso di alcool durante una cena o anche, per le caratteristiche della febbre, il tifo addominale. Ora uno studio di Katherine Hall, della Dunedin School of Medicine dell’Università di Otago (Nuova Zelanda), pubblicato su The Ancient History Bulletin, avanza un’ipotesi che potrebbe svelare il mistero: Alessandro Magno morì a causa della sindrome di Guillain-Barré, un disturbo neurologico autoimmune, raro, che lo lasciò paralizzato per sei giorni, privandolo a poco a poco della capacità di camminare, parlare e infine respirare. La causa fu un’infezione da Campylobacter pylori, a quel tempo comune, ma non diagnosticabile. Secondo la studiosa neozelandese la morte potrebbe essere il caso più famoso di pseudotanatos, o falsa diagnosi di morte: in sostanza, non ci furono immediati segni di decomposizione sul corpo del giovane condottiero macedone semplicemente perché non era ancora morto. Quando i soldati iniziarono a preparare il suo corpo per la sepoltura, Alessandro era ancora vivo, anche se i suoi muscoli erano paralizzati e il suo respiro così debole, che i medici, con gli strumenti dell’epoca, non poterono rilevarlo. Quindi Alessandro fu sepolto mentre “in realtà era ancora vivo”. “Volevo stimolare nuovi dibattiti e discussioni e forse riscrivere i libri di storia argomentando che la vera morte di Alessandro fu sei giorni dopo rispetto a quanto si pensasse in precedenza”, spiega la Hall, che aggiunge: “Il sistema immunitario ha iniziato ad attaccare il sistema nervoso, non lasciando scampo al generale. La malattia, causata da un’infezione batterica nello stomaco, non intacca il cervello. Per questo, come riportano i testi dell’epoca, Alessandro era presente e lucido durante l’ineluttabile decorso.” A dimostrazione della tesi della Hall il fatto che il corpo non mostrò segni di decomposizione dopo la morte per ben 6 giorni. Alessandro era ancora in vita.
28 gennaio
PRIMO PIANO
25mo anniversario della morte dei tre giornalisti della Rai uccisi a Mostar.
I tre giornalisti italiani, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Sasha Ota, uccisi nel 1994 da una granata a Mostar, sono stati ricordati oggi nella città bosniaca con una commemorazione, durante la quale l’ambasciatore Minasi ha deposto una corona di fiori davanti alla targa posta in loro ricordo in Brace Fejica 82a, il luogo dell’uccisione, e i bambini dell’orfanotrofio “Dječiji dom Mostar” hanno lasciato una rosa a fianco della corona. La cerimonia si è svolta in contemporanea anche a Trieste, città da cui i tre reporter provenivano ed in cui ha sede la “Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin”, istituita a seguito dei fatti di Mostar per assicurare le cure necessarie ai piccoli feriti in guerra o colpiti da malattie non curabili nei loro Paesi di origine. Il 28 gennaio 1994 i tre giornalisti della Rai di Trieste, Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Sasha Ota erano arrivati a Mostar est- parte della città controllata dall’Armija e sotto assedio da più di un anno per mano dell’HVO, esercito croato-bosniaco – sui mezzi del convoglio della Croce Rossa internazionale, partito la mattina dalla vicina Medjugorije sotto controllo dell’HVO, scortato dal contingente spagnolo dei Caschi blu, per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra nella ex-Jugoslavia. Marco Luchetta, 42 anni, giornalista, Dario D’Angelo, 47 anni, operatore e Alessandro Ota, 37 anni, tecnico, vicino a un piccolo edificio adibito a ospedale entrarono nel cortile di un complesso quadrilatero residenziale dove si affacciava l’ingresso di un rifugio in cui da mesi si nascondevano decine di persone tra cui molti bambini. All’ingresso del rifugio, mentre stavano intervistando un bimbo, Zlatko Omanović, cadde a poca distanza una granata, che colpì gli operatori, che con i loro corpi fecero da scudo a Zlatko, che si salvò. In seguito venne aperta un’inchiesta, poi archiviata, per indagare su responsabilità e sospetta intenzionalità dell’uccisione da parte delle forze croato-bosniache. La presenza dei tre giornalisti a Mostar est era infatti risaputa, avendo passato diversi check point prima di entrare, ma la conclusione fu che erano stati vittime di uno dei quotidiani bombardamenti sulla parte est della città. La loro morte ha indotto i familiari e un gruppo di amici a creare una Fondazione per i bambini vittime di tutte le guerre, con l’intento di ricordare i tre inviati, ma anche il bambino salvato, Zlatko Omanović, primo bimbo aiutato dalla Fondazione, che oggi ha 29 anni, vive in Svezia e continua a mantenere i contatti con le famiglie dei tre giornalisti. Ad oggi la Fondazione ha aiutato decine di bambini, come ha dichiarato il figlio di Marco, Andrea Luchetta, in un’intervista rilasciata pochi giorni fa ad Al Jazeera Balkans: “In 24 anni abbiamo accolto circa 700 bambini e 1000 persone tra genitori e parenti. La Fondazione si è occupata di tutti i loro bisogni durante la permanenza nei due centri che abbiamo a Trieste. Oggi, oltretutto, abbiamo anche un altro centro unico in Italia, in cui accogliamo richiedenti asilo con minori malati e bisognosi di cure specifiche.” Il loro sacrificio non è stato vano!
DALLA STORIA
Carlo Magno e la Rinascita carolingia.
(Carlo Magno, 1512 Albrecht Dürer)
Il 28 gennaio 814 morì ad Aquisgrana Carlo Magno (l’appellativo Magno, dal latino Magnus, Grande, gli fu dato dal suo biografo, Eginardo). Divenuto re nel 768, alla morte di suo padre, Pipino il Breve, e poi, rimasto, nel 771, unico sovrano del regno franco per la morte improvvisa del fratello Carlomanno, Carlo allargò il territorio fino a comprendere una vasta parte dell’Europa occidentale grazie a una serie di fortunate campagne militari, tra cui la conquista del Regno longobardo. In particolare il ripudio, da parte di Carlo, di Ermengarda, figlia di Desiderio, consumatasi di dolore e la guerra contro i Longobardi ispirarono al Manzoni “Adelchi”, la tragedia in cui viene esaltato l’eroico sacrificio dello sfortunato principe longobardo. Avendo riunito sotto il suo dominio diversi vastissimi territori ed essendosi presentato come difensore della Chiesa, nella notte di Natale dell’800, durante la Messa solenne celebrata nella basilica di San Pietro, Carlo fu incoronato da papa Leone III, che trovava in lui il proprio campione e protettore, imperatore del Sacro Romano Impero, detto sacro in quanto rinnovato nel nome di Dio e consacrato da una cerimonia religiosa, romano perché ricostituito da un sovrano considerato successore dei Cesari ed erede della tradizione romana. Divenuto imperatore, provvide all’organizzazione territoriale dello stato, dividendolo in contee e marche, controllate dai missi dominici, mentre sul piano giuridico-amministrativo istituì i capitolari, vere e proprie disposizioni legislative, costituite da numerosi articoli (capitula), emanate per inviare ordini specifici a tutto l’impero. Benché sapesse a mala pena leggere e scrivere, Carlo Magno promosse una vera e propria riforma nei vari ambiti culturali: in architettura, nelle arti filosofiche, nella letteratura, nella poesia, dando impulso alla Rinascita carolingia, un periodo di risveglio culturale dell’Occidente, che influenzò radicalmente la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi. A tal fine riunì nel palazzo di Aquisgrana un gruppo di dotti, monaci e chierici, quasi tutti di origine straniera, tra cui Eginardo, suo futuro biografo, Paolo Diacono, celebre storico, Rabano Mauro, erudito e teologo di grande fama, che insieme formarono la Scuola palatina, una specie di piccolo senato accademico, dove si discutevano problemi sacri e profani sotto la guida del monaco anglosassone Alcuino e con l’aiuto di 10 dotti abati fatti venire appositamente da Montecassino. Si dedicò poi allo studio approfondito delle sette arti liberali con particolare perseveranza, soprattutto rivolse le sue attenzioni alla grammatica latina, aiutato nello studio elementare da Pietro da Pisa e in quello intermedio da Paolo Diacono, approfondì pure la retorica e la dialettica, importanti per la sua azione di governo e fece aprire presso cattedrali e monasteri numerose biblioteche e scriptoria, dove i monaci erano intenti alla copiatura di preziosissimi codici, arricchiti da splendide miniature e redatti con una nuova tecnica calligrafica, chiara e facilmente leggibile, la scrittura carolina, detta anche minuscola carolina, sulla quale sarebbero poi stati modellati nel XV secolo i primi caratteri a stampa. A livello architettonico l’imperatore si occupò di far restaurare i vecchi edifici e monumenti romani, ma la sua opera più ambiziosa rimane senza dubbio la cappella palatina di Aquisgrana, con tutto il complesso di costruzioni annesse. Aquisgrana e il suo palazzo dovevano costituire, secondo Carlo Magno, una terza Roma oppure, per il nuovo ruolo di popolo eletto da Dio, assunto dai franchi, secondo Paolo Diacono, la città doveva essere considerata “come una nuova Gerusalemme, in terra nostra.” Gli ambasciatori franchi riferirono al re che il complesso della basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli non differiva tanto da quello di San Vitale a Ravenna, perciò si fecero venire ingegneri e architetti longobardi con tutte le proporzioni e le misurazioni necessarie a realizzare l’opera.
(La cappella palatina di Aquisgrana. Veduta della volta)
Carlo Mago esercitò anche un notevole fascino sulla letteratura successiva: uno dei grandi cicli letterari medioevali, il Ciclo Carolingio, sviluppatosi dopo l’anno Mille, esalta le imprese straordinarie dell’imperatore e dei paladini di Francia, cioè di tutti i nobili della sua corte, primo tra tutti Orlando, nipote di Carlo, che combattono per alti ideali, come la fede religiosa, la patria, il sovrano, l’onore; proprio con la Chanson de Roland comincia di fatto la fioritura della letteratura francese, l’imperatore fu inoltre preso a modello di cavaliere come uno dei Nove Eroi. La Rinascita carolingia, così definita da J.J. Ampère, storico dell’Ottocento, che rimase affascinato, come tanti altri studiosi, dallo splendore culturale e politico dell’impero carolingio, fu diffusa e capillare, volta ad uniformare l’intero impero attraverso la cultura, per la prima volta genti diverse furono chiamate a condividere un’analoga esperienza di civiltà, per la prima volta risulta evidente la coincidenza tra caratteri di una civiltà e spazio geografico in cui essa si sviluppa. Le riforme di Carlo Magno, attuate in tempi così lontani e complessi rivestono una grandissima importanza: proprio al nome e all’opera di Carlo Magno, infatti, si possono far risalire le lontane radici dell’Europa: non a caso il palazzo sede dell’Unione europea a Bruxelles si chiama Palazzo Carlo Magno.
27 gennaio
DALLA STORIA
“Se questi sono uomini”. Naufraghi in mezzo al mare.
Sulla pelle dei migranti si gioca l’incapacità dei governi di gestire il drammatico problema dell’immigrazione che fugge da fame e guerra da un’Africa martirizzata. Questo sconcertante spalleggiarsi le responsabilità di soccorrere in mare centinaia di persone da parte delle forze politiche, tanto più alla luce delle recenti celebrazioni nella giornata della memoria, per non dimenticare gli orrori del nazismo e della persecuzione di un popolo considerato inferiore rispetto ai canoni di “una razza superiore”, è sconvolgente. Come non vedere la correlazione tra questi esecrabili episodi di discriminazione e stolida indifferenza da parte della maggioranza della popolazione dei paesi europei per la sofferenza di bambini, donne incinte, adolescenti, povera gente desiderosa di arrivare al più presto ad un porto in cui trovare una forma di soccorso, una decente accoglienza invece di essere usati dai nostri governanti come mezzo di ricatto nei confronti dell’Europa? È inutile, per chi non vuole vedere, ricordare la tragedia, avvenuta solo qualche giorno fa, di 117 migranti morti annegati perché scivolati in mare aperto via via che il gommone si sgonfiava. È inutile di fronte, a chi non vuol sentire, alla maggioranza della popolazione dei Paesi europei “democratici, civili” e perlopiù cristiani e ciononostante incapace di indignarsi, scandalizzarsi ma, viceversa osserva, compiacente, purché venga garantita una presunta sicurezza che li preservi dall’invasione (fantomatica) di un popolo di neri. Si nasconde un malcelato egoismo, in Italia, al grido di “prima gli italiani” e nell’accogliere slogan di propaganda: “saremo cattivi”, non fletteremo, ma saremo duri e puri nel difendere i diritti degli Italiani?!? Il 27 gennaio, nel giorno della memoria, il sacrosanto mantra “ricordare affinché non si ripeta più lo sterminio di un popolo” sembra svuotarsi di significato perché stiamo già assistendo alla decimazione di un popolo imputato di essere la causa di tutti i mali: “ci tolgono il lavoro”, “sono dei terroristi”, “sono diversi” e intanto li rimandiamo indietro, rifiutati da tutti, a casa di quegli Stati in cui si praticano la tortura ed altre atrocità. Kant diceva: “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. Principio etico ineccepibile, che nella storia non è mai stato rispettato, quando addirittura non è stato trasgredito come oggi nel caso dei migranti abbandonati sulle navi che li hanno soccorsi naufraghi in mezzo al mare. Oggi, e fa male dirlo, tutti siamo testimoni di questa vicenda che tanto ricorda la storia della nave clandestina “Exodus”, una storia che divenne il simbolo del travaglio dei profughi ebrei che salpò dall’Europa nel luglio 1947, con circa 5000 persone a bordo diretta in Palestina che per motivi “sordidamente” politici, malgrado i traumi subiti dai suoi passeggeri, tutti ex detenuti dei lager nazisti, che dovette ritornare in Germania, con tutti i suoi passeggeri. Ma ricordare, significa conoscere, approfondire usare il pensiero critico per non cadere nelle trappole della propaganda che sempre afferma di essere dalla tua parte (ma è sempre contro un altro) per cogliere la differenza tra umanità e disumanità.
Mary Titton
26 gennaio
PRIMO PIANO
Addio a Zamberletti, il padre della Protezione civile.
È morto a Varese, dopo lunga malattia, a 85 anni, Giuseppe Zamberletti, considerato il padre fondatore della moderna Protezione civile in Italia. Nato a Varese il 17 dicembre 1933, il 19 maggio 1968 venne eletto, per la prima volta, per la Democrazia Cristiana, alla Camera dei deputati nella Circoscrizione Como – Sondrio – Varese ed entrò a far parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Rieletto deputato il 7 maggio 1972, fece parte del Governo come Sottosegretario all’Interno nel IV e V Governo Moro e nel III Governo Andreotti, con delega per la Pubblica sicurezza e per il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e Protezione civile. Zamberletti si trovò a gestire le emergenze derivanti dai terremoti in Friuli nel 1976 e in Irpinia nel 1980, quale Commissario del Governo incaricato del coordinamento dei soccorsi, che furono gestiti in modo poco incisivo nel secondo evento. Nell’estate del 1979 si occupò, su delega del primo ministro Giulio Andreotti, dell’operazione di salvataggio dei Boat people, profughi in fuga dal Vietnam, occupato dal regime del Vietnam del Nord. L’operazione coinvolse le tre navi della Marina Militare Italiana: l’incrociatore Andrea Doria, l’incrociatore Vittorio Veneto e la nave d’appoggio Vesuvio. La spedizione, unica nel suo genere poiché si svolse senza scalo, si concluse con il salvataggio di circa 2000 persone tra uomini, donne, vecchi e bambini, che furono poi accolti nel territorio italiano grazie all’appoggio della Croce Rossa e della Caritas italiana. Nel 1980, in qualità di Commissario Straordinario, organizzò e coordinò le operazioni di soccorso in seguito al terremoto che colpì la Campania e la Basilicata. L’esperienza maturata lo portò a pensare che le calamità, sia naturali che legate all’attività dell’uomo, devono essere previste, prevenute e mitigate nei loro effetti mediante una struttura stabile creata ad hoc. Così nel giugno 1981, anche in seguito al clamore e alle polemiche seguite al non riuscito salvataggio del piccolo Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, fu incaricato dall’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, di predisporre gli strumenti organizzativi della nuova Protezione civile e nel 1982 fu nominato Ministro per il coordinamento della stessa, che nella sua attività si avvalse del Dipartimento della Protezione Civile, con a capo Elveno Pastorelli, il comandante dei vigili del fuoco di Roma che aveva coordinato le iniziative per salvare Alfredino Rampi. A Zamberletti va dunque il merito dell’introduzione del concetto di previsione e prevenzione, distinto dalle attività di soccorso, l’organizzazione del servizio nazionale in tutte le sue componenti, la valorizzazione degli enti locali e del volontariato. Angelo Borrelli, attuale capo della Protezione civile, lo ricorda come “un amico, un maestro, una guida” dicendo: “Oggi perdiamo uno straordinario conoscitore della fragilità del nostro paese, un uomo che per primo intuì la necessità di distinguere la fase del soccorso in emergenza da quella fondamentale della previsione e della prevenzione dei rischi naturali”.
25 gennaio
DALLA STORIA
Etta James.
Etta James “Era una delle più grandi voci della musica popolare Americana di tutti i tempi”, scriveva il New York Times all’indomani della scomparsa della grande interprete secondo cui “un’artista di tale versatilità è impossibile da etichettare”. Jamesetta Hawking (il nome d’arte è la divisione e l’inversione di quello vero) era nata a Los Angeles il 25 gennaio 1938. In America, in quegli anni di segregazione razziale, nascere povera, da una madre afro-americana di soli 14 anni e da padre sconosciuto (Etta pensava che suo padre fosse un bianco, il campione di biliardo Rudolf “Minnesota Fats” che ebbe modo di conoscere fugacemente nel 1987) significava avere in sorte un destino avverso, segnato da una vita di emarginazione e grande sofferenza. Infatti la sua vita è stata turbolenta intervallata da episodi di droga e povertà, ma è riuscita a mettere tutta la sua angoscia nella musica e nelle sue interpretazioni. Nella sua biografia “Rage to Live”, per l’appunto (“La rabbia di vivere”), uscita nel 1995, Etta scrisse queste parole: “Ho imparato a vivere attraverso la rabbia. In qualche modo è proprio questa rabbia che mi ha permesso di andare avanti in questi anni. Senza di essa sarei rimasta fregata diverso tempo fa. Grazie a questa mia rabbia ho ancora un sacco di canzoni da cantare”. Cresciuta in modo discontinuo dalla giovane madre, Etta fu allevata, perlopiù, dai nonni e da alcune famiglie affidatarie. Sembra sia stata una bambina prodigio che fin dall’età di 5 anni cantava brani gospel nel coro della chiesa. Si racconta che il patrigno la svegliasse in piena notte obbligandola a cantare per il piacere dei suoi amici con i quali giocava a carte traumatizzando la bambina che spesso bagnava il letto e che, malgrado ciò, era costretta ad esibirsi davanti a quello scellerato pubblico (da adulta conservò l’avversione a cantare su richiesta). Nel 1950 si trasferì con la madre a San Francisco e a quattordici anni conobbe Johnny Otis, leggendario conduttore di una band che tra le prime ha reso il R&B popolare tra i bianchi e grazie al quale Etta, con altre due ragazze, formò il trio “The Creolettes”. Ma la vera svolta della carriera di Etta James arrivò a Chicago, con Leonard Chess che ne intuì l’enorme talento. “Cadillac Records”, il film del 2008, ne racconta la storia unitamente a quella della leggendaria casa discografica che lanciò i grandi della musica nera a partire da Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Chuck Berry, ecc. In seguito, negli anni Sessanta la Chess Records lanciò Etta James con la pubblicazione del 45 giri “At Last” che ottenne un successo planetario e che divenne la canzone di punta della grande artista. Seguiranno brani bellissimi e famosissimi pluripremiati da continui riconoscimenti: Grammy Award, Blues Music Awards e per Etta James l’inserimento nella Rock and Roll of Fame nel 1993, nella Blues Hall of Fame nel 2001 e nella Grammy Hall of Fame sia nel 1999 e nel 2008 e il Grammy Award alla carriera nel 2003. Osannata dal pubblico la James è diventata il punto di riferimento di molte altre note cantanti del panorama internazionale: Christina Aguilera ha sempre affermato di volersi ispirarsi a Etta James per l’interpretazione dei brani e per la forte personalità dell’artista. Anche il graffiante timbro di Janis Joplin aveva preso ad imitazione lo stile di Etta quando questa interpretava magistralmente i diversi generi musicali mescolando R&B, gospel e blues. E più recentemente la stessa Amy Winehouse, come è noto scomparsa prematuramente a causa di un mix letale di alcool e droga, la imitava con la profondità della sua voce, con la “black music” e lo stile anni ’50. Uno stile che rimanda alla problematica esistenziale della cantante americana e che, molto spesso, “brucia l’anima” come se gli artisti venissero in qualche modo travolti dal loro stesso talento. I Rolling Stones, che come è noto amano invitare nelle loro esibizioni i più grossi protagonisti della musica blues, dai quali trae origine la loro musica, nel 1978, hanno portato in tournée Etta James facendo conoscere a una nuova generazione di fan rock la musica di questa artista che, malgrado le sue origini sfortunate, ha saputo affermare il suo talento con la passione, l’impegno, ed una giustificata rabbia illuminando il mondo della musica. “La vita con me è stata dura ma allo stesso tempo buona. Se dovessi tornare indietro e fare tutto da capo, vorrei vivere nello stesso modo”. (Etta James).
PRIMO PIANO
Regeni: Verità e giustizia per Giulio.
A tre anni dalla sparizione al Cairo del giovane ricercatore friulano, Giulio Regeni, alle 19:41, l’ora esatta in cui partì l’ultimo messaggio dal suo cellulare, Fiumicello si è illuminata di giallo, colore simbolo di Amnesty International, come le altre 100 piazze d’Italia, da nord a sud, in una “staffetta” ideale di fiaccole, per chiedere ancora una volta la verità sulla morte di Giulio. In piazza ci sono la mamma, Paola Deffendi, il papà, Claudio, e la sorella, Irene. Accanto a loro il Presidente della Camera, Roberto Fico, che prima di raggiungere il centro del paese ha sfilato con la famiglia, accanto al padre, lungo le vie nella “Camminata dei diritti”. In centinaia, avvolti nelle loro sciarpe, hanno accompagnato il Governo dei giovani, progetto di cittadinanza attiva e partecipazione democratica che coinvolge studenti e amministrazione comunale, nella marcia per ricordare gli articoli della Convenzione sui diritti dei bambini e degli adolescenti. Presente alla manifestazione anche Denis Cavatassi, l’italiano condannato a morte in Thailandia e poi assolto dalla Corte Suprema, che ha incontrato la famiglia Regeni e il Presidente della Camera. La serata è proseguita con una tavola rotonda: sul palco anche una sedia libera con una rosa, che Paola Deffendi ha lasciato simbolicamente ad Amal Fathy, moglie del consulente legale egiziano della famiglia Regeni, liberata a dicembre dopo 7 mesi di carcere al Cairo. Il Presidente della Camera, Roberto Fico, ai microfoni de La Vita in Diretta, ha detto: “Quando sono andato a parlare con il Presidente egiziano Al Sisi gli ho detto che l’Italia sa che sono stati gli apparati dello stato egiziano a rapire, torturare e uccidere Giulio Regeni e lo Stato egiziano deve fare verità su se stesso. Lo Stato italiano deve ogni giorno, insieme alla famiglia, chiedere verità e giustizia. Dobbiamo provare ogni tipo di strada per cercare di far si che l’Egitto inizi un processo vero, La famiglia Regeni non si è mai arresa e chi non si arrende mai non può essere mai sconfitto. E’ questo il messaggio che lanciamo all’Egitto. Quello che è accaduto a Il Cairo poteva capitare a qualsiasi dei nostri figli e non bisogna voltarsi dall’altro lato, mai.” “Giulio Regeni – si legge nell’appello che sta facendo il giro del mondo promosso da Amnesty per arrivare alla verità sul suo omicidio – era un cittadino italiano e uno studente di dottorato presso l’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto nel periodo successivo al 2011, quando finì il governo di Hosni Mubarak. Era al Cairo per svolgere la sua ricerca quando, il 25 gennaio 2016, il quinto anniversario della “Rivoluzione del 25 gennaio”, è scomparso. Il suo corpo, con evidenti segni di tortura, è stato ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, in un fosso ai bordi dell’autostrada Cairo-Alessandria. Da allora è partita una grande campagna e migliaia di persone, enti, scuole, media hanno esposto striscioni con la richiesta di verità per Giulio Regeni … Il 4 dicembre 2018 la Procura di Roma ha iscritto cinque persone nel registro degli indagati.” Su Facebook le parole risolute, che condividiamo, della madre del giovane ricercatore: “Noi non molliamo, caro Giulio.”
24 gennaio
PRIMO PIANO
Ritrovato dopo 400 anni “Cristo Portacroce” del Vasari.
Il “Cristo Portacroce” di Giorgio Vasari, da tempo considerato perduto, è stato identificato in un’asta ad Hartford, negli Stati Uniti, e sarà in mostra per la prima volta dal 25 gennaio al 30 giugno 2019 alla Galleria Corsini di Roma. Il dipinto, realizzato dal Vasari nel 1553 per il banchiere e collezionista Bindo Altoviti, acquistato nel Seicento dai Savoia, poi scomparso, è stato ritrovato da Carlo Falciani, studioso di pittura vasariana, che lo ha riconosciuto nel quadro registrato da Vasari nel proprio libro delle Ricordanze, in cui indica la data e il nome del prestigioso destinatario: “Ricordo come a dì XX di maggio 1553 Messer Bindo Altoviti ebbe un quadro di braccia uno e mezzo drentovi una figura dal mezzo in su grande, un Cristo che portava la Croce che valeva scudi quindici d’oro.” L’opera,“dal gusto curiosamente retro”, secondo l’affermazione del Falciani, rappresenta uno dei vertici della produzione dell’artista aretino: il volto di Cristo, incorniciato da riccioli color rame, leggermente reclinato a significare l’accettazione della croce, esprime, nella sua posa di profilo, una bellezza e una dolcezza struggenti, che contrastano con la mano che regge la corona di spine e con il braccio possente, gigantesco, fuoriscala, che sostiene la croce. Il “Cristo Portacroce”, oltre che per la sua indiscutibile bellezza, è particolarmente importante perché riguarda un momento significativo dell’attività romana di Vasari, quando, al servizio di papa Giulio III e del suo “cerchio magico”, realizza, prima della sua partenza per Firenze, uno degli ultimi dipinti romani, mentre è ospite del “cordialissimo messer Bindo”, nella cui residenza affresca anche la loggia con il Trionfo di Cerere, unica decorazione sopravvissuta alla distruzione del palazzo nel 1888. È con questo capolavoro che il pittore si congeda da Roma per far ritorno a Firenze ed entrare al servizio di Cosimo I de’ Medici, acerrimo nemico di Bindo Altoviti, il banchiere dedito alle arti, stimato anche da Michelangelo, che lo omaggiò in uno dei cartoni della volta della Sistina. Il collezionista americano che ha acquistato il quadro all’asta ha permesso che arrivasse in Italia per essere esposto a Roma, città dove venne realizzato da Vasari poco prima di partire per Firenze. Per la mostra alle Gallerie Corsini è previsto un ciclo di conferenze sull’opera esposta e la figura dell’artista.
DALLA STORIA
24 gennaio 1989: l’efferato serial killer statunitense Ted Bundy viene giustiziato sulla sedia elettrica. Si pensa abbia ucciso più di cento giovani donne.
Theodore Robert Bundy. (Di sé disse “… il più insensibile figlio di puttana che tu abbia mai visto.”)
Ted Bundy contrasta in modo evidente con l’immagine abituale del “maniaco omicida”: attraente, sicuro di sé, con ambizioni politiche, apprezzato da varie categorie di donne. Ma i suoi demoni personali lo portarono a estremi di tale violenza da far sembrare insignificanti, al confronto, le scene più cruente dei moderni film di sangue e violenza. Con la sua camaleontica abilità nel sapersi mescolare, il suo talento nell’integrarsi, Bundy rappresentava un costante pericolo per le belle signore con i capelli scuri che sceglieva come vittime. Ecco la storia di un individuo ricordato come un uomo affascinante, tratto che sfruttava per conquistare la fiducia delle sue vittime per poi aggredirle stuprarle in luoghi appartati. “Talvolta ritornava sulla scena del crimine per avere rapporti sessuali con i cadaveri in decomposizione, almeno finché la putrefazione non era tale da rendere questi atti impraticabili. Ha decapitato almeno 12 vittime, conservandone le teste nel suo appartamento come trofeo. La sua biografa e conoscente personale Ann Rule lo ha descritto come sadico sociopatico che traeva piacere dal dolore altrui e dal senso di potere che provava verso le sue vittime, sia quando stavano per morire, che dopo. Il Procuratore Polly Nelson, uno dei membri che aveva il compito di difenderlo in tribunale, scrisse che “era la precisa definizione del male”. (Wikipedia).
“Theodore Robert Cowell, nato nel novembre 1946 in un istituto per madri nubili nel Vermont, non conobbe mai il padre, vagamente descritto da Louise Cowell come un militare con il quale lei era uscita varie volte. La povertà costrinse Louise e il figlio neonato a vivere con i suoi genitori, metodisti osservanti, a Philadelfia, dove Ted trascorse i primi quattro anni della sua vita fingendo che Louise fosse sua sorella. In seguito Ted avrebbe fatto un ritratto solare di quegli anni, dichiarando di voler bene al nonno Sam Cowell, che altri membri della famiglia descrivono invece come un accanito razzista, che picchiava la moglie e si divertiva a prendere a calci i cani e a far dondolare i gatti tenendoli per la coda. Qualunque sia la verità, è chiaro che qualcosa turbò Ted in quel periodo. Una mattina presto, quando aveva appena tre anni, la zia quindicenne di Ted si svegliò mentre il bambino sollevava le sue coperte e faceva scivolare nel letto accanto a lei dei coltelli da macelleria. “Stava lì e sorrideva”, ricordava. “Lo cacciai dalla stanza, presi i coltelli, li riportai giù in cucina e raccontai tutto a mia madre. Ricordo di aver pensato allora che ero l’unica persona a ritenere che fosse un tipo strano. Nessuno fece nulla”. Nel 1950 Louise e Ted si trasferirono a Tacoma, Stato di Washington, dove lei conobbe John Bundy che sposò nel maggio 1951. Nonostante i buoni voti a scuola, il dossier di Ted era pieno di note dei suoi insegnanti, che alludevano al suo carattere esplosivo e imprevedibile. Al termine della scuola superiore, Ted si masturbava in modo compulsivo e di notte si appostava come voyeur, tanto da farsi arrestare due volte dalle autorità minorili per furto per scasso e furto d’auto. Nel 1970 sembrò cambiare rotta, ottenendo un encomio dal Seattle Police Department per aver catturato un borseggiatore. Un anno dopo, Ted si iscrisse alla University of Washington, lavorando part-time per una linea telefonica di assistenza anti-suicidio. Dietro la nuova facciata di impegno civile, tuttavia, le morbose fantasie di Ted stavano progredendo verso l’esplosione letale. Linda Healy fu la prima vittima. Il 31 gennaio 1974 sparì dal suo alloggio in un seminterrato di Seattle, lasciando dietro di sé delle lenzuola insanguinate e una vestaglia macchiata di sangue appesa nell’armadio. A diversi isolati di distanza la giovane Susan Clarke era stata aggredita e colpita con un randello nel suo letto alcune settimane prima, ma era riuscita a sopravvivere alle ferite e si sarebbe poi ripresa. Come nel caso della ventunenne Linda Healy, era a suo tempo sparita senza lasciare tracce. La polizia non aveva ancora prove convincenti dell’esistenza di uno schema, ma esse non avrebbero tardato ad arrivare. Il 12 marzo Donna Gail Manson, 19 anni, sparì mentre si recava a un concerto a Olympia, Washington. Il 17 aprile, la diciottenne Susan Rancourt scomparve mentre stava andando alla proiezione di un film in lingua tedesca a Ellensburg. Il 6 maggio, la ventiduenne Roberta Parks non fece ritorno dalla sua passeggiata a tarda sera nelle vicinanze del suo quartiere, Corvallis. Il primo giugno, la ventiduenne Brenda Ball lasciò la Flame Tavern di Seattle con un uomo sconosciuto e scomparve nel nulla. Dieci giorni dopo, la diciottenne Georgeann Hawkins si unì alla lista delle donne scomparse: di lei si persero le tracce tra l’appartamento del suo ragazzo e l’edificio della sua associazione studentesca a Seattle. Ora i detective avevano il loro schema. Tutte le donne scomparse erano giovani, attraenti, con i capelli neri lunghi fino alle spalle e divisi nel mezzo. Dalle loro foto, posate una accanto all’altra, si sarebbero dette sorelle, alcune persino gemelle. La squadra omicidi non aveva ancora dei cadaveri, ma gli investigatori non nutrivano false illusioni circa un esito positivo del caso. Vi erano talmente tante sparizioni, e il peggio doveva ancora venire. Il 14 luglio, le spiagge del lago Sammamish erano affollate di persone che si godevano il sole e gli sport acquatici dell’estate. Al termine della giornata, altri due nomi si aggiunsero alla lista sempre più lunga delle donne scomparse: la ventitreenne Janice Ott e la diciannovenne Denise Naslund, ognuna delle quali scomparsa dalla vista dei rispettivi amici; questa volta però la polizia aveva una debole traccia. Alcune passanti ricordavano di aver visto la Ott parlare con un uomo che portava un braccio al collo, e che udirono presentarsi come “Ted”. In possesso di quella testimonianza, gli investigatori trovarono altre donne che erano state personalmente avvicinate da Ted al lago Sammamish. In ognuno dei casi, egli aveva chiesto il loro aiuto per assicurare la sua barca a vela alla macchina. Le fortunate donne avevano declinato, ma una aveva seguito Ted fino al punto in cui era parcheggiato un piccolo Maggiolino Volkswagen. Non vi era traccia della barca a vela e la sua spiegazione, la barca avrebbe dovuto essere recuperata da una casa “sulla collina”, aveva destato i suoi sospetti, inducendola a sbarazzarsi dello sconosciuto. La polizia ora aveva una bella descrizione del suo uomo e della sua auto. La pubblicazione delle informazioni su Ted provocò un’ondata di chiamate che davano notizie di persone sospette; una di esse accennava a uno studente di college, Ted Bundy. Le autorità controllarono ogni traccia, per quanto possibile, ma Bundy era considerato “immacolato”, studente di legge e Young Republican, attivo nella politica a favore di ordine e legalità, con tanto di encomio del Seattle Police Department. Erano state fatte tante chiamate che segnalavano persone sospette, per cattiveria o semplice eccesso di zelo, che il nome di Bundy fu archiviato insieme a innumerevoli altri, e momentaneamente dimenticato. Il 7 settembre, alcuni cacciatori trovarono una tomba improvvisata in un bosco su una collina a diversi chilometri dal lago Sammamish. Alla fine furono necessari anche i dati odontoiatrici per identificare i resti di Janice Ott e Denise Naslund; lo scheletro di una terza donna, rinvenuto con gli altri, non potè essere identificato. Cinque settimane dopo, il 12 ottobre, un cacciatore trovò le ossa di altre due donne nella contea di Clark. Una delle vittime fu identificata come la ventenne Carol Valenzuela, scomparsa due mesi prima da Vancouver, Stato di Washington, al confine con l’Oregon; mentre la seconda, anche in questo caso, rimase sconosciuta, registrata soltanto come “Jane Doe”, donna non identificata. La polizia era ottimista, sperava che la scoperta delle vittime li avrebbe finalmente condotti al killer, ma non avevano modo di sapere che il loro uomo li aveva già seminati, spostandosi a caccia di altre prede su terreni più sicuri. Il terrore arrivò nello Utah il 2 ottobre 1974, quando la sedicenne Nancy Wilcox scomparve a Salt Lake City. Il 18 ottobre, la diciassettenne Melissa Smith sparì a Midvale; il suo corpo, con segni di violenza carnale e percosse, sarebbe riaffiorato sulle Wasatch Mountains nove giorni dopo. Laura Aimee, 17 anni, entrò a far parte dell’elenco delle scomparse il 31 ottobre, mentre tornava a casa in costume da una festa per Halloween. Trascorse un mese prima che il suo corpo, che aveva subito violenza sessuale e maltrattamenti, fosse rinvenuto in un’area boschiva fuori città. Un uomo cercò di rapire l’attraente Carol Da Ronch da un centro commerciale di Salt Lake City l’8 novembre, ma lei riuscì a fuggire prima che egli le mettesse un paio di manette ai polsi. Quella sera, la diciassettenne Debbie Kent fu rapita dall’auditorium della Viewmont High School di Salt Lake City. Le autorità dello Utah rimasero costantemente in contatto con la polizia di altri Stati, compreso quello di Washington. Avrebbero dunque potuto notare che un uomo sospetto, un certo Ted Bundy, da Seattle, stava frequentando una scuola nello Utah nel periodo in cui erano avvenute le sparizioni in quello Stato, ma erano alla ricerca di un folle, piuttosto che di un compassato, ben vestito studente in legge, che sembrava avere a Seattle delle conoscenze a livello politico. Bundy rimase archiviato e fu nuovamente dimenticato. Con l’inizio del nuovo anno, il Colorado entrò a far parte dell’elenco dei territori di caccia di un killer inafferrabile che sembrava scegliere le sue vittime in base alla loro acconciatura. Caryn Campbell, 23 anni, fu la prima a sparire da un villino per le vacanze sulla neve a Snowmass il 12 gennaio; il suo corpo, con segni di violenza sessuale e percosse, sarebbe stato ritrovato il 17 febbraio. Il 15 marzo, la ventiseienne Julie Cunningham scomparve mentre stava andando in un locale a Vail. Esattamente un mese dopo, la diciottenne Melanie Cooley sparì mentre faceva un giro in bici a Nederland; fu ritrovata otto giorni dopo, morta, il cranio schiacciato, i jeans abbassati fino alle caviglie. Il primo luglio a Golden, Shelly Robertson, 24 anni, venne aggiunta alla lista delle scomparse; i suoi resti furono rinvenuti il 23 agosto, abbandonati nel pozzo di una miniera vicino a Berthoud Pass. Una settimana prima dell’ultima macabra scoperta, Ted Bundy fu arrestato a Salt Lake City perché sospettato di furto. Il suo strano modo di guidare aveva attirato l’attenzione della polizia, e un controllo dell’auto rivelò la presenza di oggetti singolari, come delle manette e una calzamaglia tagliata con i buchi per gli occhi, da utilizzare come maschera. Il vano portaoggetti conteneva ricevute dei rifornimenti di benzina e cartine che collegavano il sospettato a un elenco di località sciistiche del Colorado, tra cui Vail e Snowmass. Carol Da Ronch riconobbe in Ted Bundy l’uomo che l’aveva aggredita a novembre e la sua testimonianza fu sufficiente ad accusarlo di tentato rapimento. Altri Stati aspettavano ora di incastrare Bundy, e nel gennaio 1977 egli fu estradato in Colorado per essere processato per l’omicidio di Caryn Campbell a Snowmass. Dopo aver già affrontato un periodo in carcere, Bundy non aveva intenzione di aspettare un altro processo. In giugno fuggì dalla prigione e fu catturato in strada otto giorni dopo. Il 30 dicembre ci provò ancora ed ebbe maggior successo, riuscendo ad arrivare fino a Tallahassee, in Florida, dove si sistemò nelle vicinanze della Florida State University. Già sospettato ormai di una ventina di delitti, Bundy si era assicurato un nuovo terreno di caccia. Le prime ore del mattino del 15 gennaio 1978, egli si introdusse nell’edificio dell’associazione studentesca femminile di Chi Omega, tutto vestito di nero e armato di un pesante bastone di legno. Prima che lasciasse la palazzina, due donne erano state violentate e uccise, una terza era rimasta gravemente ferita per la pioggia dei colpi ricevuti alla testa. Nel giro di un’ora egli si era infilato in un’altra casa a pochi isolati di distanza, dove aveva preso a bastonate nel suo letto un’altra vittima. Anche questa sopravvisse. Nell’edificio di Chi Omega gli investigatori trovarono segni di morsi sui cadaveri della ventenne Lisa Levy e della ventunenne Margaret Bowman, prova agghiacciante dell’accanimento di Bundy. Il 6 febbraio, Ted rubò un furgoncino e arrivò a Jacksonville, dove fu visto mentre tentava di rapire una ragazzina. Tre giorni dopo, la dodicenne Kimberly Leach scomparve dal cortile di una scuola della zona; il suo corpo fu ritrovato la prima settimana di aprile, vicino al Suwanee Park. Il 15 febbraio la polizia di Pensacola trovò le targhe rubate da Bundy e fu costretta ad inseguirlo mentre a piedi cercava di fuggire. Non appena identificato, furono prese le impronte dei denti di Bundy, per confrontarle con i segni dei morsi sulle vittime di Chi Omega: la sua sorte era ormai segnata. Giudicato colpevole di due omicidi nel luglio 1979, in Florida fu condannato alla sedia elettrica. Successivamente ebbe un terzo verdetto di colpevolezza e un’ulteriore condanna a morte per il caso di Kimberly Leach. Ci sarebbero voluti quasi dieci anni prima che giustizia fosse fatta. Ted temporeggiò per rimandare la sua esecuzione con ripetuti e vani appelli, che arrivarono fino alla Corte Suprema federale a Washington. Tra una manovra legale e l’altra, trascorreva il suo tempo concedendo interviste ai media, conversando in carcere con un altro sadico, Gerard Schaefer, e intrattenendosi in brevi consultazioni con le autorità dello Stato di Washington sul caso ancora irrisolo del killer del Green River. I giorni di Teddy, e la sua fortuna, finirono il 24 gennaio 1989, quando egli fu giustiziato in Florida. Prima dell’esecuzione Bundy confessò da 20 a 30 omicidi (i rapporti pubblicati variano). Il primo delitto ammesso da Bundy fu quello di un’autostoppista sconosciuta uccisa vicino a Olympia, Washington, nel maggio 1973. Due anni dopo, raccontò Bundy, egli aveva ucciso la dodicenne Lynette Culver, rapita da una scuola media di Pocatello, Idaho. Oltre a quelli nominati, le autorità lo ritengono responsabile di almeno altri sette omicidi, commessi tra il 1973 e il 1975. Vittime di questi casi sono: Rita Jolly, 17 anni, della contea di Clackamas, in Oregon; Vicki Hollar, 24 anni, di Eugene; la quattordicenne Katherine Devine, di Seattle; Brenda Baker, un’altra quattordicenne di Seattle; Nancy Baird, 21 anni, di Farmington, nello Utah; la diciassettenne Sue Curtis. Alcuni investigatori pensano che Bundy possa aver fatto in tutto 100 o più vittime, cominciando forse quando era ancora adolescente, ma in questo caso le prove sono quasi del tutto inesistenti. Bundy si è portato il segreto nella tomba”.
Fonte: “Dizionario dei serial killer”, di Michael Newton, 2000. Ed. Grandi Manuali Newton.
23 gennaio
PRIMO PIANO
Venezuela nel caos.
Il leader dell’opposizione, Juan Guaidó, oggi, 23 gennaio, a Caracas si è autoproclamato presidente ad interim con il sostegno degli Usa, del Canada e di molti stati sudamericani, tra cui Brasile e Colombia. Juan Guaidó il 5 gennaio è stato eletto presidente dell’Assemblea Nazionale, il parlamento dominato dall’opposizione che continua a funzionare, anche se il regime chavista di Nicolas Maduro l’ha privato delle sue funzioni nel 2017. Nato nel 1983 in una famiglia della classe media nello stato venezuelano di Vargas, Guaidó, che fino a tre mesi fa era uno sconosciuto, è figlio di un pilota d’aereo e di una insegnante, nel 2007 si è laureato in ingegneria industriale all’Università Cattolica Andres Bello di Caracas, con una specializzazione alla George Washington University negli Stati Uniti, e ha preso parte alle proteste in Venezuela contro il rinnovamento della licenza alla rete televisiva RCTV e contro il referendum costituzionale promosso dall’allora presidente Chávez. Nel 2009 è stato tra i membri fondatori del partito Voluntad Popular (Volontà Popolare), forte oppositore di Chávez prima e di Maduro poi. L’anno successivo è stato eletto deputato dell’Assemblea Nazionale per il suo Stato e, con questo incarico, ha indagato sulla corruzione presente nell’amministrazione del Presidente venezuelano Nicolàs Maduro. È sposato e padre di una bambina. Durante l’autoproclamazione a presidente ad interim, Guaidó, davanti a migliaia di sostenitori, in piazza da giorni, ha alzato la propria mano destra affermando di “assumere formalmente la responsabilità dell’esecutivo” e ha aggiunto di aver preso questa decisione “per ottenere la fine dell’usurpazione, un governo di transizione e libere elezioni.” Dopo il giuramento, ha chiesto anche ai presenti alla manifestazione di giurare e di impegnarsi “a ristabilire la Costituzione in Venezuela”. È consapevole dei rischi che corre, perché Maduro, che ha già esautorato i poteri del parlamento, potrebbe dichiararne le scioglimento, arrestarlo e scatenare una violenta repressione contro gli oppositori. “So che ci saranno conseguenze, per riuscire a compiere questa missione e ristabilire la Costituzione occorre il consenso di tutti i venezuelani”, ha detto alla folla mentre si autoproclamava presidente. Il Presidente Nicolas Maduro, al timone del Paese dal 2013, dopo aver intimato agli Stati Uniti di richiamare il proprio personale diplomatico entro 72 ore, ha chiamato il popolo alla mobilitazione, scrivendo su Twitter: “Invito il popolo coraggioso e combattivo ad essere vigile, dedito da una parte al lavoro e allo studio, e dall’altra alla mobilitazione per difendere la stabilità della Patria. Né colpo di Stato, né interventismo, il Venezuela vuole la pace!” Durante un intervento in tv dal palazzo presidenziale, Maduro, che il 10 gennaio si è insediato per un secondo mandato, ha accusato l’opposizione di tentato colpo di stato con il sostegno degli americani, indicando che l’esercito – cruciale per legittimare un cambio di potere – è con lui. In questo clima si susseguono manifestazioni e incidenti, in due giorni le vittime degli scontri con la polizia sono 14 e oltre 200 gli arresti. Resta alto il rischio di guerra civile.
DALLA STORIA
“L’urlo”, del pittore norvegese Edvard Munch.
(Disegno preparatorio dell’Urlo, non datato, Bergen Kunstmuseum – Norvegia)
Edvard Munch, a proposito de “L’urlo”, scriveva: “Una sera camminavo / lungo un viottolo in collina / nei pressi di Kristiania / con due compagni. Era / il periodo in cui la vita / aveva ridotto a brandelli / la mia anima. / Il sole calava, si era / immerso fiammeggiando / sotto l’orizzonte. / Sembrava / una spada infuocata / di sangue che tagliasse / la volta celeste. / Il cielo era di / sangue sezionato / in strisce di fuoco, / le pareti rocciose infondevano / un blu profondo / al fiordo scolorandolo / in azzurro freddo, giallo e / rosso. / Esplodeva / il rosso sanguinante lungo / il sentiero e il corrimano, / mentre i miei amici assumevano / un pallore luminescente. / Ho avvertito / un grande urlo, / ho udito, / realmente, un grande / urlo, i colori della / natura mandavano in pezzi / le sue linee, / le linee e i colori / risuonavano vibrando, / queste oscillazioni della vita / non solo costringevano / i miei occhi a oscillare, / ma imprimevano altrettante / oscillazioni alle orecchie, / perché io realmente ho udito / quell’urlo – e poi ho dipinto / il quadro L’urlo”.
La stessa scena fu descritta da Munch anche con alcune righe scritte sul diario, mentre era malato a Nizza, nell’Ospedale di San Caterina di Osvaldo:
« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura … e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
(L’urlo, versione del 1910. Olio, tempera, pastello su cartone. Galleria Nazionale, Oslo)
“In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore. Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore”. Così Edvard Munch, il pittore norvegese morto a Oslo il 23 gennaio 1944, definiva la pittura, che intendeva non come semplice arte di decorazione, ma come un approfondimento della propria vita e dei segreti più reconditi dell’animo umano: una sorta di autoanalisi ante litteram. Infatti L’urlo, uno dei quadri più celebri dipinti dall’artista, ineguagliabile espressione di un terrore cosmico, è un’esplosione di energia psichica di inaudita potenza, che rende la tela una metafora della morte che spazza via e travolge il senso della vita. Ispiratosi a una mummia ritrovata in Perù, Munch vuole trasferire sulla tela con inaudita violenza il terrore dell’uomo di fronte alla precarietà e alla tragicità dell’esistenza, che poi è la stessa angoscia e la stessa disperazione esistenziale provata dall’artista “… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.” Il protagonista al centro della scena è, infatti, proprio l’uomo urlante, che più che un uomo sembra uno spirito per la deformazione del volto che evoca un teschio e il corpo simile a un’ombra sinuosa, nera e molle. Il suo grido, lancinante ed unico, trasmette angoscia allo spettatore e si dilata all’intero paesaggio, riducendolo, attraverso l’ondulazione delle linee e l’accentuazione violenta e innaturale dei colori, a pochi segni emblematici: le nuvole di sangue, le lingue di fuoco, il mare nero e oleoso. Oltre al personaggio al centro, sullo sfondo vi sono le sagome di due uomini, che sembrano ignorare completamente quel grido lancinante di disperazione, anche la loro collocazione, posta ai margini della tela, suggerisce questa loro sordità e impassibilità di fronte all’angoscia del pittore, che ha deciso di tradurre così in immagini la falsità dei rapporti umani. Munch dipinse L’urlo nel 1893 a Berlino, dove il clima artistico era molto teso a causa della contrapposizione tra i tradizionalisti e gli artisti disponibili agli influssi francesi e naturalistici: la mostra di Munch e la sua pittura, influenzata durante il soggiorno parigino dalle tecniche impressioniste e da Gaugin e caratterizzatasi poi per una violenza deformante che contorce i volti, stravolge ogni verosimiglianza ed esprime l’angoscia interiore della solitudine (Malinconia, 1891), della follia, della malattia, della morte (La morte nella stanza della malata, 1893), non fecero che acuire questi dissidi. Gli accademici ottennero la chiusura della mostra e lo scandalo che ne seguì venne definito dalla stampa teutonica “Der Fall Munch” (“L’affare Munch”). Berlino ospitò in seguito altre mostre dell’artista norvegese, che già nei primi anni novanta sentì la necessità di riunire tutti i dipinti in un progetto unitario, dove potesse esprimere i grandi temi esistenziali dell’amore, dell’angoscia, della malattia e della morte, dando inizio al ciclo chiamato “Fregio della vita”, di cui fanno parte Il Monte Calvario, detto Golgota (1900), che, dominato dalla figura del Cristo crocifisso, solo tra la folla, ha la stessa forza impressionistica de L’urlo: qui Munch si identifica con il Cristo in croce per ribadire le numerose tragedie che ha sofferto nella vita, ma anche per sottolineare il difficile ruolo del poeta del Novecento. L’ectoplasma de L’urlo, invece, In Sera sul viale Karl Johan (1892), lascia il posto ad una massa di uomini borghesi, immersi in un’atmosfera allucinante: gli uomini sono tutti pallidissimi, hanno tutti gli occhi sbarrati, così il passeggio si trasforma in un lugubre corteo spettrale di figure borghesi e anonime, uomini vuoti e alienati, che si limitano ad esistere e non a vivere. Anche questi quadri suscitarono il disappunto di molti, che criticarono soprattutto le tele più provocatorie, colpevoli di aver messo in dubbio le istanze e la fiducia nel progresso dell’epoca: per l’Aftenposen, storico giornale di Oslo, Munch era “un artista allucinato e allo stesso tempo uno spirito cattivo che si prende gioco del pubblico e si burla della pittura come della vita umana”; William Ritter lo accusò addirittura di “trasformare troppo semplicisticamente oggetti e persone in una bruttezza indecente, con una esecuzione troppo naive, a scapito di una forte educazione artistica”; il giornale tedesco Magdeburgische Zeitung riprese alcune critiche già mosse negli esordi, affermando che l’artista “dipinge come in passato; gli stessi quadri non finiti, appena abbozzati”. Al di là di queste critiche ricorrenti di fronte all’innovazione, come è successo sempre per le avanguardie, resta indiscusso il valore della pittura di Munch, che, ispirandosi alla cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica, dai drammi di Ibsen e Strindberg alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard, affidò alla deformazione delle linee e alla violenza espressiva dei colori la rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo ed esercitò un’influenza determinante sull’arte a lui coeva, specialmente sull’espressionismo tedesco e su quello nord-europeo.
(Munch, Autoritratto con braccio di scheletro, 1895 – litografia)
22 gennaio
PRIMO PIANO
Anemia mediterranea: rivoluzionaria terapia genica.
I malati di anemia mediterranea, o beta talassemia, potranno fare a meno delle trasfusioni grazie a una rivoluzionaria terapia genica. La terapia, chiamata LentiGlobin BB305, è stata messa a punto da un team internazionale di ricerca guidato da alcuni scienziati americani del Brigham and Women’s Hospital di Boston e della prestigiosa Scuola di Medicina dell’Università di Harvard. Gli studiosi, coordinati dal professor Philippe Leboulch, la hanno testata con successo su 22 pazienti affetti da una forma grave della malattia, eliminando del tutto o riducendo la necessità di effettuare le ripetute e invasive trasfusioni di sangue. Il professor Leboulch già da molti anni cercava di creare un ‘vettore’ in grado di ripristinare le istruzioni genetiche corrette nelle cellule staminali progenitrici dei globuli rossi e con il suo team lo ha trovato nel virus LentiGlobin, modificato in modo da colpire e sostituire le mutazioni responsabili della beta talassemia. Dopo gli esperimenti di successo sui topi e sui primissimi volontari, Leboulch e i suoi collaboratori hanno trattato con la nuova terapia genica 22 pazienti, ottenendo risultati estremamente positivi: fra i 22 pazienti tra i 12 e i 35 anni trattati, 15 non hanno più avuto bisogno di fare trasfusioni, mentre nei rimanenti la necessità di sottoporsi alle trasfusioni è stata ridotta del 73%. Il risultato ottenuto sottolinea l’efficacia della terapia, considerata sicura anche per quanto riguarda gli effetti collaterali. “È sempre stata la nostra speranza quella di portare i risultati della ricerca ai pazienti, – ha sottolineati Leboulch – abbiamo preso il nostro lavoro dal laboratorio e ora siamo in grado di valutare la sua efficacia in pazienti con questa malattia. Tutto questo è immensamente gratificante”. Gli studiosi hanno iniziato un nuovo ciclo sperimentale coinvolgendo anche i bambini. I dettagli sulla rivoluzionaria terapia sono stati pubblicati sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine. La beta talassemia è una malattia ereditaria del sangue legata a mutazioni nel gene HBB sul cromosoma 11. Comporta una sintomatologia da molto lieve a grave (anemia), legata al funzionamento deficitario dei globuli rossi a causa della mancata o insufficiente produzione di una componente chiave dell’emoglobina, pertanto i pazienti sono obbligati a effettuare continue trasfusioni per rimpiazzare i globuli rossi e rimuovere il ferro in eccesso che si accumula nell’organismo. Le persone colpite dalle forme più gravi sono costrette a fare ogni mese trasfusioni, che vanno ad incidere sulla qualità della vita. Grazie all’innovativa terapia genica per la maggior parte delle persone colpite dalla beta talassemia tutto questo sarà solo un brutto ricordo.
21 gennaio
PRIMO PIANO
L’unica luna rossa del 2019.
L’eclisse totale di luna del 2019 in Italia è stata visibile all’alba del 21 gennaio, è iniziata alle 5:41 ed è terminata alle 6:43. Al centro dell’eclisse, alle 06:12, la Luna si è trovata a 14 gradi di altezza sull’orizzonte nella costellazione del Cancro, in direzione Ovest-Nord-Ovest. Milioni di persone in America e nelle regioni occidentali dell’Africa e dell’Europa hanno potuto ammirare l’eclissi: la Luna, trovandosi nel punto più vicino alla Terra (perigeo), è apparsa leggermente più grande e più luminosa (da qui il termine poco amato dagli astronomi “Superluna”) ed ha assunto la tipica colorazione rossastra. Il nostro satellite è venuto a trovarsi nel cono d’ombra creato dalla Terra, che si frappone tra Luna e Sole, dando vita a un’eclissi lunare totale. In genere l’intero evento dura due ore: il satellite transita completamente attraverso l’ombra della Terra ed attraversa prima la fase di penombra, poi di ombra e infine nuovamente la penombra. Le eclissi lunari totali sono qualcosa di spettacolare ed eccezionale. Da quando la Luna si è formata, circa 4,5 miliardi di anni fa, si va allontanando dal nostro pianeta di circa 4 centimetri all’anno. La posizione ora è perfetta: la sua distanza dalla Terra è tale che l’ombra di quest’ultima la ricopre completamente, ma delicatamente, tra miliardi di anni non sarà più così. La luna appare rossa, perché, come spiega la NASA, l’atmosfera della Terra si estende oltre il pianeta e la luce solare la attraversa, raggiungendo la Luna, e “durante un’eclissi lunare totale, la luce solare che colpisce l’atmosfera viene assorbita e poi irradiata verso l’esterno. La luce blu è la più colpita. Ciò significa che l’atmosfera filtra la maggior parte della luce blu. Quel che rimane è la luce arancione e rossa”. Si parla, infatti, di “Luna rossa“, “Luna di Sangue”, “Blood Moon”. Nel corso della storia gli uomini hanno attribuito al fenomeno, che ha una spiegazione scientifica, effetti nefasti alimentati da fantasie, miti e leggende: già nella Bibbia risuonano inquietanti le parole del profeta Gioele: “Il Sole sarà mutato in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il grande e terribile giorno del Signore”. Assiri e Babilonesi, durante le eclissi di luna erano soliti suonare il timpano sacro e cantare fino a che queste non fossero finite. I Persiani credevano che l’eclissi fosse una punizione divina nei confronti degli uomini. Nell’antica Roma si credeva che durante le eclissi fosse un mostro a divorare la luna, con lo scopo di attirarla verso la terra, per questo, nonostante non ce ne sia traccia nei testi letterari, per tutta la durata dell’evento si organizzavano riti per scacciare il demone. Anche in Cina c’era la stessa credenza: in questo caso a divorare il nostro satellite era un drago. Durante le eclissi, quindi, si organizzavano cerimonie in cui si faceva moltissimo rumore per scacciarlo e liberare la luna. L’antica civiltà degli Inca interpretava la sfumatura rossa come l’attacco di un giaguaro che divorava la luna. Si credeva che il giaguaro potesse poi rivolgere la sua attenzione alla Terra, quindi le persone urlavano e lanciavano frecce verso la luna nella speranza di allontanare con il frastuono l’animale feroce. I miti che collegano la luna rossa a eventi catastrofici o apocalittici, come un terremoto imminente o addirittura la fine del mondo, si trovano poi in alcune profezie di Nostradamus. In epoca medievale ci si rinchiudeva in casa per restare al riparo da spiriti o creature notturne e si evitava di guardarla perché si credeva che si potesse rimanerne incantati e diventare preda di creature mostruose. Giovanni Keplero, nel suo “Somnium”, racconta di demoni in viaggio verso la Terra per rapire gli essere umani durante le eclissi. In quegli anni era credenza comune che chi dormiva sotto la luna piena rischiasse la pazzia, la cecità o di trasformarsi in un lupo mannaro. Nonostante sia un fenomeno del tutto spiegabile scientificamente, la luna rossa resta comunque carica di simboli e suggestioni, che hanno ispirato canzoni come, tra le tante, “The dark Side of the Moon” dei Pink Floyd o film come “Lady Hawke”. Per la prossima eclissi totale di Luna dovremo aspettare 9 anni 11 mesi e 10 giorni, il 31 dicembre 2028.
21 gennaio
PRIMO PIANO
Il Papa all’Angelus: “Le 170 vittime del naufragio nel Mediterraneo cercavano futuro per la loro vita.”
Il pensiero di papa Francesco questa domenica all’Angelus va all’ennesima tragedia avvenuta nelle scorse ore in due distinti naufragi di migranti a nord della Libia: “Penso alle 170 vittime del naufragio nel Mediterraneo, – dice – cercavano futuro per la loro vita. Vittime forse di trafficanti. Preghiamo per loro e per coloro che hanno responsabilità per quello che è successo.” Le sue parole piene di dolore confermano l’attenzione di Francesco al dramma di chi, per fuggire da barbarie e torture, cerca di scappare su barconi fatiscenti verso l’Europa e diventa preda di trafficanti senza scrupoli. Il Papa si è sempre speso personalmente per chiedere accoglienza e sicurezza per i migranti all’Europa, che anche questa volta è rimasta sorda e insensibile al problema. L’Italia, al di là delle contrapposizioni tra il Governo, in particolare il ministro dell’Interno Salvini che ribadisce la linea della chiusura dei porti per le navi delle Ong per stroncare, a suo dire, un traffico organizzato sulla pelle dei migranti, e le opposizioni che affermano come il salvataggio di vite umane sia prioritario rispetto a qualunque altro problema, da tempo, anche con il precedente Governo, sta cercando di investire della questione gli Organismi europei, ribadendo il concetto che l’accoglienza dei migranti non può essere lasciata solo al nostro Paese e agli altri che si affacciano sul Mediterraneo, ma deve essere gestita dall’Unione europea. Intanto quello che i Romani definivano “mare nostrum” è diventato la tomba di migliaia di esseri umani in cerca di una vita e di un futuro migliore. L’ultimo caso quello del gommone sopra citato, semi affondato davanti a Tripoli, partito giovedì sera con 120 persone a bordo. Solo 3 di loro si sono salvate, grazie all’intervento della Marina militare italiana. Portate a Lampedusa, hanno raccontato agli operatori dell’Oim il drammatico epilogo di un viaggio disperato: dopo circa undici ore di navigazione, il gommone si è sgonfiato e le persone sono via via cadute in mare. A parte i tre salvati – due sudanesi e un gambiano, gli altri, tra cui dieci donne, una delle quali incinta, e due bimbi, uno di appena due mesi, sono tutti annegati. Provenivano soprattutto da Nigeria, Camerun, Gambia, Costa d’Avorio e Sudan. Traumatizzati e sotto choc, i tre superstiti hanno raccontato pure di essere rimasti tre ore in acqua, assistendo alla tragedia, prima di essere recuperati dalla Marina militare italiana.
17 gennaio
PRIMO PIANO
Buon compleanno Braccio di Ferro!
Compie 90 anni Popeye, Braccio di Ferro, il personaggio statunitense creato da Elzie Crisler Segar e apparso in strisce a fumetti e cartoni animati cinematografici e televisivi. Popeye comparve per la prima volta il 17 gennaio 1929, a pochi giorni da un altro mito dell’animazione, Tin Tin, e da quel momento il suo successo è sempre cresciuto tanto da diventare, nel 1935, più amato di Topolino. Sembra che Segar si fosse ispirato a Frank Rocky Fiegel, un suo concittadino un po’ attaccabrighe. Popeye è un simpatico marinaio dagli avambracci sproporzionati, che ha una benda su un occhio, in bocca la pipa che emette un suono simile a quello di un piroscafo e la scatoletta di spinaci sempre pronta a essere ingurgitata per fare a cazzotti con Bruto, eterno rivale, per amore della lunga e magrissima fidanzata Olivia. Gli spinaci: Braccio di ferro ne mangiava in continuazione, rigorosamente in lattina, perché all’epoca si riteneva che fossero ricchi di ferro; la scienza ha smentito questa credenza, ma nessun bambino cresciuto negli anni del boom di Popeye è stato dispensato dalla frase: “Mangia gli spinaci che diventi forte come Braccio di Ferro!” A Crystal City, in Texas, i coltivatori di spinaci, per ringraziarlo dell’aumento della produzione, hanno addirittura costruito una statua che rappresenta Braccio di Ferro. Fondamentali nella storia sono gli altri componenti della famiglia: la fidanzata Olivia, magra come un chiodo, e il padre, chiamato Braccio di Legno, che gli assomiglia in modo impressionante e che l’ha lasciato 40 anni prima, quando Popeye aveva appena due anni. Nei cortometraggi lo schema narrativo si chiude solitamente con una inevitabile scazzottata e con l’aiuto in extremis di una scatola di spinaci dalla quale Popeye attinge la forza per sconfiggere il nemico di turno. Nei fumetti Popeye è protagonista di storie di ampio respiro in cui, oltre a lui, vi sono altri personaggi come Bruto, Olivia, Poldo e Pisellino. Nel 1980 è uscito il film Popeye – Braccio di ferro, co-prodotto da Disney e Paramount e diretto da Robert Altman, con Robin Williams al suo primo ruolo come protagonista. Per l’occasione fu costruito a Malta un set cinematografico, oggi noto come il Villaggio di Braccio di Ferro, diventato un’attrazione per i turisti di tutto il mondo. Per festeggiare i 90 anni di Braccio di Ferro sono pronte una nuova striscia a fumetti, intitolata Popeye’s Cartoon Club, e una nuova serie animata su King Features, intitolata Popeye’s Island Adventures, dedicata ai più piccoli: qui Braccio di Ferro è più giovane, ha un ciuffo di capelli biondi sotto il solito cappello e rispetta l’ambiente mettendo al bando le scatolette e coltivando i suoi spinaci sul tetto della sua casa.
16 gennaio
PRIMO PIANO
Brexit: bocciato l’accordo negoziato da Theresa May.
L’accordo sull’uscita della Gran Bretagna dall’Ue raggiunto con Bruxelles a novembre dalla premier Tory, Theresa May, è stato bocciato ieri sera, 15 maggio, dalla Camera dei Comuni britannica con 432 no contro 202 sì. La ratifica è stata negata con uno scarto di 239 voti, molto pesante per il governo. Subito dopo il voto, Theresa May non si è dimessa e ha chiesto alle opposizioni di presentare una mozione di fiducia sul suo governo da discutere l’indomani e vedere se l’esecutivo dispone ancora di una maggioranza. La premier ha detto che il no all’accordo è chiaro, ma non sono emerse altre proposte e ha insistito, in caso di fiducia, sulla volontà di andare avanti e di continuare a lavorare per attuare la Brexit, sottolineando come l’accordo, bocciato dal Parlamento, rispetti “la volontà democratica” espressa dal popolo britannico nel referendum del 2016 e apra la strada “a un futuro migliore” per la Gran Bretagna. Oggi, 16 gennaio, il primo ministro Theresa May ha superato nuovamente lo scoglio del voto di sfiducia: la mozione presentata contro di lei dal leader laburista Jeremy Corbyn è, infatti, stata sconfitta con 325 voti contro e solo 306 voti a favore. May ha ora tre giorni di lavori parlamentari per tornare davanti alla Camera con un nuovo piano di azione per la Brexit, pertanto punta su una serie d’incontri con le opposizioni per evitare il “No deal”, “l’uscita senza un accordo”, che sarebbe una catastrofe per l’economia e anche l’Unione vorrebbe evitare. Come scrive il Times, la Ue sta valutando, infatti, l’ipotesi di rinviare la Brexit fino al 2020: diplomatici e funzionari starebbero preparando un’estensione più lunga del previsto dell’iter di uscita stabilito dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona, attivato per la Brexit. Le pianificazioni precedenti prevedevano un ritardo di tre mesi rispetto alla data programmata del 29 marzo 2019 mentre adesso, secondo diverse fonti citate dal quotidiano, i funzionari Ue stanno vagliando le vie legali per rinviare l’uscita di Londra dall’Ue fino al prossimo anno. Il governo tedesco è stato il primo a schiudere uno spiraglio a “nuovi colloqui”, ma ha spiegato che in ogni modo sul tavolo rimarrebbero le 585 pagine del testo faticosamente negoziato nei mesi scorsi, quindi il piano B non potrà che esserne una riscrittura.
15 gennaio
PRIMO PIANO
Polonia: ucciso il sindaco di Danzica.
Il sindaco della città di Danzica, Pawel Adamowicz, è morto lunedì in ospedale, dopo essere stato accoltellato domenica sera, durante un evento di beneficenza, mentre si trovava sul palco di una piazza di Danzica, di fronte a migliaia di persone: è stato colpito al cuore e ad altri organi interni da un uomo di 27 anni, Stefan Wilmont, che, uscito di prigione a dicembre, ha detto di volersi vendicare per essere stato ingiustamente messo in carcere quando al governo c’era Piattaforma civica, il partito di Adamowicz. L’attentatore, con problemi di disagio psichico, non è fuggito, ma ha continuato per alcuni istanti a girare sul palco con il coltello insanguinato in mano, prima di strappare il microfono ad un organizzatore e urlare: “Mi chiamo Stefan, e Adamowicz doveva morire”. Non è chiaro come l’assalitore sia riuscito ad avvicinarsi al sindaco: alcuni media locali scrivono che potrebbe avere usato un pass speciale destinato ai giornalisti. Adamowicz, 53 anni, era considerato un progressista ed era intervenuto spesso criticamente contro l’attuale governo di estrema destra polacco: tra le altre cose, si era espresso a favore dei diritti dei migranti e dei rifugiati e sperava di ospitare bambini siriani feriti in guerra. La Gazeta Wyborcza è stata la prima a parlare di “delitto politico”, che, maturato nel “clima di odio e di ostilità” che contrddistingue oggi la politica polacca, ha messo a tacere una delle poche voci di dissenso nei confronti di una classe politica nazionalista e chiusa. Finora non ci sono elementi per provare che l’uccisione di Adamowicz sia legata in qualche modo alle sue posizioni politiche più recenti, ma diversi osservatori ritengono che il gesto dell’assalitore potrebbe essere stato determinato dal clima di crescente tensione sociale e violenza verbale presente nel dibattito politico della Polonia. L’omicidio di uno dei politici più popolari del Paese, che si spendeva per una città aperta e solidale contro la chiusura del governo attuale, ha scosso non solo la Polonia di Kaczynski, ma tutta l’Europa, a pochi mesi dal voto per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo.
14 gennaio
PRIMO PIANO
Arrestato in Bolivia e riportato in Italia l’ex terrorista Cesare Battisti.
L’ex terrorista Cesare Battisti, arrestato il 12 gennaio a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, da una squadra dell’Interpol (team composto da Polizia italiana, Criminalpol e Antiterrorismo), oggi 14 gennaio è stato trasferito in Italia, dove sconterà l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza di Oristano, in isolamento diurno per sei mesi. Finita la fuga durata 40 anni, l’ex terrorista dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo), condannato per 4 omicidi, arrestato mentre passeggiava tranquillo per le vie della città boliviana, all’aeroporto internazionale Viru Viru di Santa Cruz è stato fatto salire sul Falcon del Governo italiano con a bordo gli uomini dell’Aise e della Polizia, che è atterrato pochi minuti dopo le 11:30 all’aeroporto di Ciampino, dove ad attendere il suo arrivo c’erano i ministri Salvini e Bonafede. Questa mattina il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, ha spiegato che Battisti sconterà l’ergastolo senza la possibilità di ottenere benefici e ha aggiunto che le indagini stanno proseguendo per individurare la rete di fiancheggiatori dell’ex terrorista. Battisti, che aveva fatto perdere le sue tracce a dicembre dopo che era stato spiccato nei suoi confronti un ordine di cattura, è stato rintracciato grazie a un intenso lavoro di pedinamenti, geolocalizzazioni, pc e tablet intestati a prestanome sotto controllo. “È stata la tecnologia, una tecnologia molto avanzata, è stata seguita la scia internet, la localizzazione.” hanno confermato il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso e il sostituto pg Antonio Lamanna. Cesare Battisti, nato a Cisterna di Latina il 18 dicembre 1954, delinquente comune radicalizzatosi in carcere e attivo durante gli anni di piombo, evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 dopo essere stato condannato a 12 anni in primo grado per banda armata, è stato condannato in seguito in contumacia per partecipazione a quattro omicidi. Condannato all’ergastolo, con sentenze passate in giudicato, per quattro delitti, due commessi materialmente, due in concorso con altri (concorso materiale in un caso, morale nell’altro, secondo la legislazione d’emergenza degli anni di piombo), oltre che per vari reati legati alla lotta armata e al terrorismo, Battisti ha affermato la propria innocenza per quanto riguarda gli omicidi e ha chiesto l’amnistia per il periodo 1969-1990. Dagli anni ’90 si è dedicato alla letteratura, ottenendo un discreto successo con romanzi noir e d’ispirazione autobiografica. Ha ricevuto asilo fuori dai confini italiani come rifugiato politico e ha trascorso la prima fase della sua latitanza in Messico e in Francia, dove beneficiò a lungo della dottrina Mitterrand, si sposò ed ebbe due figlie, ottenendo la naturalizzazione, poi revocata prima di ottenere il passaporto, poi ha soggiornato in Brasile dal 2004 al 2018. Arrestato nel paese sudamericano nel 2007, Battisti è stato detenuto in carcere a Brasilia fino al 9 giugno 2011. Inizialmente gli fu concesso lo status di rifugiato, poi revocatogli. Il 31 dicembre 2010 il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva annunciò il rifiuto dell’estradizione in Italia e gli concesse il diritto d’asilo e il visto permanente. Su sollecitazione della nuova presidente del Brasile, Dilma Rousseff, della questione fu investito il Tribunale supremo federale brasiliano, che l’8 giugno 2011 negò definitivamente l’estradizione, con la motivazione che avrebbe potuto subire “persecuzioni a causa delle sue idee”. Battisti fu quindi scarcerato, dopo aver scontato la pena per ingresso illegale tramite documenti falsi, rimanendo in libertà fino al 12 marzo 2015, giorno in cui venne nuovamente arrestato dalle autorità brasiliane in seguito all’annullamento del permesso di soggiorno, ma venne rilasciato quasi subito. Nell’ottobre 2017 fu di nuovo tratto in arresto al confine con la Bolivia, ma scarcerato poco dopo. Nuovamente latitante dal dicembre 2018, dopo la revoca dello status di residente permanente e l’ordine di estradizione del presidente Michel Temer, lo scorso 12 gennaio, come sopra detto, è stato arrestato e trasferito in carcere in Italia.
14 gennaio
DALLA STORIA
Berthe Morisot.
(Berthe Morisot ritratta in un dipinto autografo di Edouard Manet. Olio, 1872. Collezione Rouart, Parigi)
Il 14 gennaio 1841 è la data di nascita di un’artista di grande talento Berthe Morisot, unica donna pittrice del gruppo impressionista, costretta a studiare privatamente non potendo essere accettata all’Ecole des Beaux-Art in quanto donna. È sempre irritante e doloroso constatare, nel lungo corso della Storia, l’abiezione del pregiudizio, modalità del pensiero che discrimina e umilia la dignità della persona. Nel caso delle donne, come per tutte le categorie sociali e le minoranze subalterne, l’arroganza maschilista predominante delle forze al potere, nel corso di un intero millennio, ha registrato responsabilità drammatiche per aver falciato, con la violenza, potenzialità e qualità che avrebbero migliorato la razza umana. Pertanto è con vivo piacere tornare alla pittura magnifica di quest’artista che, solo grazie alla casualità di essere nata in un ambiente colto e alla sensibilità di un padre insolitamente attento per quei tempi, poté rendere, attraverso i suoi dipinti, il suo delicato e, nel contempo intenso gusto artistico, ricco di bellezza. Berthe studia, quindi, privatamente nello studio del pittore accademico Joseph Guichard che la presenta a Camille Corot, sotto la cui guida impara a dipingere all’aperto. Nel 1864 è ammessa al Salon e vi partecipa regolarmente fino al 1873.
(La Culla, olio su tela, 1872. Musèe d’Orsay, Parigi)
“Berthe Morisot è l’unica donna a esporre alla prima mostra degli impressionisti dal fotografo Nadar nove opere tra acquerelli, pastelli e oli, tra cui questa, che ottiene i migliori giudizi e viene lodata per il suo fascino e la delicata vena poetica. Viene apprezzato lo sguardo dolce e insieme intenso della giovane mamma, la spontanea naturalezza del gesto con cui muove la culla per accompagnare il sonno della neonata, ma ancor più la perizia tecnica con cui l’artista ha reso la figura della bambina attraverso la lieve trasparenza del velo. La modella è la sorella Edma con la figlioletta Blanche”. (“Gli Impressionisti”, ed. Mondadori).
Nel 1868 il pittore Fantin-Latour le presenta Manet. Si trovano al Louvre, dove lei sta copiando un dipinto di Rubens: Manet le dà numerosi consigli e le chiede di posare per “Il balcone”, il primo degli undici ritratti che le dedicherà. Il 12 dicembre 1874, dopo la morte del padre, sposa Eugene Manet, fratello di Edouard, da cui avrà una figlia, Julie, nata nel 1878. Nello stesso anno partecipa alla prima mostra impressionista. Sarà presente a tutte le edizioni successive, a eccezione di quella del 1879, a causa della maternità. Insieme al marito finanzia l’ultima edizione, quella del 1886 e prende parte attiva alla selezione degli artisti. Successivamente espone con successo dai galleristi Petit e Durand-Ruel, in Francia e negli Stati Uniti. Berthe è una delle personalità si spicco del gruppo impressionista e gli incontri del giovedì a casa sua sono animati da musicisti, pittori e letterati, tra cui Mallarmé, Duret e Zola. Dall’inverno del 1885-1886 anche Renoir frequenta il suo salotto, diventando uno dei suoi migliori amici, tanto che nel 1892, dopo la morte del marito, entra a far parte del consiglio di famiglia e influenza lo stile e la pittura dell’artista. Negli ultimi anni Berthe continua a esporre presso la galleria Boussod e Valadon e a dipingere opere di grande bellezza, fino alla morte, che la coglie a Parigi il 2 marzo 1895, a 54 anni, in seguito a una congestione polmonare.
(Dopo pranzo, olio su tela, 1881. Collezione privata)
Questo dipinto appartiene agli anni della maturità della pittrice, quando riesce ad affrancarsi dalla presenza utile ma ingombrante di Manet. Anche lei, come Mary Cassatt, Marie Bracquemond e le poche altre artiste, deve lottare contro i pregiudizi di chi trova disdicevole per una donna la professione di pittrice, tanto che, sul suo certificato di morte, è identificata come “senza professione”. Non potendo, facilmente, dipingere all’aperto o in luoghi pubblici, come i suoi colleghi uomini, si dedica, prevalentemente, agli interni e alle scene domestiche, temi che sviluppa con notevole perizia tecnica, unendo spesso i colori a olio agli acquerelli per creare effetti di luminosa trasparenza particolarmente efficaci. Nello stesso tempo approfondisce l’analisi interiore dei personaggi, grazie anche all’amicizia con molti letterati, in particolare con Stéphane Mallarmé, abituale frequentatore degli incontri nella sua casa parigina in Rue Villejust. (“Gli Impressionisti, ed. Mondadori).
Mary Titton
11 gennaio
PRIMO PIANO
Fabrizio De André a vent’anni dalla morte vive nelle sue canzoni.
Vent’anni fa, l’11 gennaio del 1999, moriva Fabrizio De André, lasciando un vuoto in parte colmato dalle sue canzoni indimenticabili ed estremamente attuali. Le canzoni, cantate con quella sua voce straordinaria, infatti, sono vere poesie, inserite nelle antologie scolastiche, poesie nate dalla sua eccezionale sensibilità e dalla naturale predisposizione a rielaborare i materiali, sia le canzoni di Brassens come “Il gorilla” sia l’ “Antologia di Spoon River”, l’opera di Edgar Lee Master, da cui ha tratto “Non al denaro non all’amore né al cielo”, un album del 1971 annoverato tra i capolavori assoluti della musica italiana. I testi, storie di emarginati, ribelli, prostitute, gente che “viaggia in direzione ostinata e contraria”, interpretano sentimenti collettivi e hanno un valore universale. La Canzone di Marinella, Via del campo, La ballata dell’amore cieco, La guerra di Piero, Creuza de ma, Amore che vieni amore che vai, Il testamento di Tito, Don Raffaè, Bocca di rosa, Geordie, Girotondo sono solo alcune delle poesie messe in musica da Faber, soprannome che fu dato a Fabrizio De André da Paolo Villaggio, vecchio amico d’infanzia e autore di alcuni dei suoi brani, per la sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l’assonanza con il suo nome. Nato a Genova il 18 febbraio 1940, De André in quasi quarant’anni di attività artistica ha inciso tredici album in studio e insieme a Bruno Lauzi, Gino Paoli, Umberto Bindi e Luigi Tenco ha rinnovato profondamente la musica leggera italiana, diventando uno degli esponenti di spicco della cosiddetta Scuola Genovese. Tra le almeno venti pubblicazioni uscite su di lui in questo ultimo anno vogliamo citare “Faber” di Enzo Gentile, nel quale amici e compagni di una intera esistenza raccontano Fabrizio, a partire da Wim Wenders, che del libro firma la prefazione. Prediligendo il formato della ballata, De André ha proposto inizialmente un repertorio di canzoni che fanno leva prevalentemente sulla sola chitarra e pochi contrappunti, con il passare del tempo ha sempre più preso le distanze dalla canzone d’autore francese di Georges Brassens, suo artista di riferimento, dando vita “a un certo nuovo modo di far poesia in canzone”. Al repertorio asciutto di Volume 1 (1967) si contrappongono le sonorità orchestrali e drammatiche di Tutti morimmo a stento (1968), alla poeticità di La buona novella (1970) seguono Storia di un impiegato (1973), che risente degli stimoli pop e rock dell’epoca, Canzoni (1974), che segna una transizione verso “un suono più variopinto e articolato” rispetto ai dischi precedenti e Rimini (1978), che si rifà al folk-rock americano. Molto diversa è Crêuza de mä (1984) che, ispirandosi alle culture etniche mediterranee, getta un ponte fra musica occidentale e orientale e fa largo uso di strumenti etnici acustici. La Canzone di Marinella (1964), testo in apparenza fiabesco ma ispirato a un fatto di cronaca, gli ha dato il grande successo e la notorietà a livello nazionale tre anni dopo, quando è stato interpretato da Mina. Nel 1966 escono i due singoli La canzone dell’amore perduto (su musica di Georg Philipp Telemann, con La ballata dell’amore cieco sul lato B) e Amore che vieni, amore che vai (abbinata a Geordie sul lato B), i due 45 giri che gli hanno aperto le porte del successo.
8 gennaio
DALLA STORIA
Stephen Hawking.
L’8 gennaio 1942 nasceva a Cambridge Stephen Hawking considerato fra i più autorevoli e conosciuti fisici teorici al mondo. Pur essendo condannato all’immobilità da una grave malattia neurologica, diagnosticatagli già nel 1963, che lo rese tetraplegico e che lo costringeva a comunicare con un sintetizzatore vocale è stato, per oltre trent’anni, titolare della cattedra lucasiana di matematica all’Università di Cambridge (la stessa che fu di Newton) e direttore del Dipartimento di Matematica Applicata e Fisica teorica fino alla morte. Il suo quoziente d’intelligenza, secondo i test standard, era 160, lo stesso che molti biografi attribuiscono ad Albert Einstein e a Isaac Newton. Stephen Hawking è noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e tra i suoi contributi più rilevanti figurano la radiazione di Hawking, la teoria cosmologica sull’inizio senza confini dell’Universo e la termodinamica dei buchi neri. Grazie alla fruttuosa collaborazione con altri scienziati, Hawking ha via via contribuito all’elaborazione ed evoluzione di numerose teorie fisiche e astronomiche quali il multiuniverso, la formazione ed evoluzione galattica e l’inflazione cosmica sempre spiegate con chiarezza e semplicità, tali da raggiungere il grande pubblico attraverso numerosi testi di divulgazione scientifica. Tra questi, forse il più famoso è “Dal Big Bang ai buchi neri”, con il sottotitolo “Breve storia del tempo”, uscito nel 1988.
Il libro, che fin dalla prima edizione ha riscosso un considerevole successo, è stato ristampato negli anni molte altre volte con immutato favore del pubblico. La prefazione, scritta dallo stesso Hawking, introduce le motivazioni che hanno indotto il grande cosmologo ad occuparsi di questa materia coinvolgendo “noi tutti, filosofi, scienziati e gente comune” nell’appassionante discussione intorno ai quesiti escatologici. Interrogativi che l’uomo si pone da sempre sulla sua origine, su come si è formato il mondo e così via e che, attualmente, la Fisica, da scienza retrograda qual era un tempo, grazie alle recenti scoperte, avanza ambiti di ricerca, inimmaginabili solo pochi decenni fa, che avvalorano teorie degne della più azzardata fantascienza. Ma leggiamo direttamente ciò che Hawking scrive nel presentare il libro e nel parlare di sé: “Presi la decisione di cimentarmi in un libro di divulgazione sullo spazio e sul tempo dopo aver tenuto il ciclo delle Loeb lecture a Harvard nel 1982. Esisteva già un numero considerevole di libri sugli inizi dell’universo e sui buchi neri, da quelli ottimi, come “I primi tre minuti” di Steven Weinberg, a quelli pessimi, che lascerò nell’anonimato. Pensavo però che nessuno di essi avesse affrontato veramente i problemi che mi avevano condotto a compiere ricerche nei campi della cosmologia e della teoria quantistica: da dove ebbe origine l’universo? Come e perché ebbe inizio? Avrà mai fine, e in tal caso come? Queste sono le domande che interessano a tutti noi. Ma la scienza moderna è diventata così tecnica che solo un numero piccolissimo di specialisti è in grado di padroneggiare la matematica usata per descriverla. Le idee fondamentali sull’origine e la sorte dell’universo possono però essere espresse senza bisogno di far ricorso alla matematica, in un modo comprensibile anche da chi non abbia una formazione scientifica. Sarà il lettore a giudicare se io sia o no riuscito nel mio intento. Qualcuno mi disse che ogni equazione che avessi incluso nel libro avrebbe dimezzato le vendite. Decisi perciò che non avrei usato alcuna equazione. Alla fine, però, ho fatto un’eccezione per la famosa equazione di Einstein, E=mc². Spero che essa non spaventerà metà dei miei potenziali lettori. A parte la sfortuna di contrarre la mia grave malattia dei motoneuroni, sono stato fortunato sotto quasi ogni altro aspetto. L’aiuto e il sostegno che ho ricevuto da mia moglie, Jane, e dai miei figli, Robert, Lucy e Timmy, mi hanno dato la possibilità di condurre una vita abbastanza normale e di aver successo nella carriera accademica. Un’altra fortuna che ho avuto è stata quella di scegliere fisica teorica, poiché si tratta di una scienza che sta per intero nella mente. La mia invalidità non ha quindi rappresentato uno svantaggio grave. I miei colleghi scientifici mi hanno dato, senza eccezione, moltissimo aiuto. Nella prima fase, “classica”, della mia carriera, i miei principali associati e collaboratori furono Roger Penrose, Robert Geroch, Brandon Carter e George Ellis. Io sono loro riconoscente per l’aiuto che mi hanno dato, e per il lavoro che abbiamo svolto assieme. Questa fase fu compendiata nel libro “The Large Scale Structure of Spacetime”, scritto da Ellis e da me nel 1973. Non consiglierei ai lettori di questo libro di consultare quell’opera per trovarvi ulteriori informazioni: si tratta infatti di un libro altamente tecnico e del tutto illeggibile. Spero, da allora, di avere imparato a scrivere in un modo più comprensibile. Nella seconda fase, “quantistica”, del mio lavoro, dopo il 1974, i miei principali collaboratori sono stati Gary Gibson, Don Page e Jim Hartle. Io ho grandi debiti verso di loro e verso i miei studenti ricercatori, che mi hanno dato molto aiuto, tanto nel senso fisico quanto in quello teorico della parola. Il fatto di dover tenere il passo con i miei studenti mi ha molto stimolato e mi ha impedito, almeno lo spero, di fossilizzarmi. Nella preparazione di questo libro ho avuto un grande aiuto da un mio studente, Brian Whitt. Nel 1985, dopo avere scritto la prima stesura, fui colpito da una polmonite. Dovetti subire una tracheotomia, che mi tolse la capacità di parlare e mi rese quasi impossibile comunicare. Pensavo che non sarei riuscito a terminare questo lavoro. Brian, però, non solo mi aiutò a rivederlo, ma mi convinse a usare un programma di comunicazione chiamato Living Center che mi fu donato da Walt Woltosz, della Words Plus Inc. di Sunnyvale, in California. Con l’aiuto di questo programma sono in grado sia di scrivere libri e articoli sia di parlare con la gente usando un sintetizzatore vocale donatomi dalla Speech Plus, anch’essa di Sunnyvale. Il sintetizzatore e un piccolo personal computer furono montati sulla mia sedia a rotelle da David Mason. Questo sistema ha avuto un’importanza grandissima: in effetti io riesco a comunicare meglio adesso che non prima di perdere la voce. …”. Hawking prosegue poi con i ringraziamenti. Stephen Hawking è morto il 14 marzo 2018, nelle prime ore del mattino, all’età di 76 anni. Il suo corpo è stato cremato e le ceneri sono state interrate nell’Abbazia di Westminster, vicino ai sepolcri di Isaac Newton e Charles Darwin.
(Un buco nero in una rappresentazione artistica della NASA)
Mary Titton
4 gennaio
PRIMO PIANO
Matera sotto la neve: paesaggio cartolina.
In questi giorni il centro sud dell’Italia è stretto in una morsa di gelo, temperature di diversi gradi sotto lo zero e abbondanti nevicate a bassa quota hanno colpito in particolare le regioni adriatiche ed anche la città di Matera, che con i suoi Sassi, dichiarati patrimonio dell’umanità, e la IXa edizione del Presepe vivente, ambientato in uno scenario unico, ha offerto l’immagine suggestiva di una cartolina di Natale. Vista dall’alto, dal balcone di piazza Vittorio, la Capitale europea della Cultura 2019 sembra, infatti, un incantevole presepe. E proprio nei Sassi è stato allestito il Presepe Vivente dal titolo “Il Presepe della Perdonanza – Matera per L’Aquila 2009/2019”, realizzato in chiave teatrale, con la partecipazione di attori che portano in scena diversi aspetti della vita quotidiana della Galilea di duemila anni fa, un percorso itinerante di novanta minuti circa, che si estende dal Centro Storico di Matera al Sasso Barisano. Sono state ricreate le scene dell’Annunciazione, della Visitazione, il Mercato, il Sinedrio, la Corte di Erode, la Natività. I Sassi sono due quartieri, il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano, formati da edifici rupestri costruiti nelle cave naturali della Murgia materana e abitati fin dal Paleolitico, insieme al rione Civita, costruito sullo sperone che separa i due Sassi, costituiscono il centro storico della città di Matera. Nel 1993 sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità UNESCO.
DALLA STORIA
Le Fiabe dei Fratelli Grimm.
“Non è esagerato affermare che l’importanza di queste fiabe è pari quasi a quella della Bibbia”. (W.H. Auden)
(Doppio ritratto dei fratelli Wilhelm (a sinistra) e Jacob Grimm, di Elisabeth Maria Anna Jerichau-Baumann, 1855)
Il 4 gennaio 1785 nasce Jacob Ludwig Grimm. Insieme al fratello Wilhelm Grimm, entrambi linguisti e filologi, sono ricordati come “padri fondatori” della germanistica (hanno collaborato alla compilazione di un dizionario tedesco di 33 volumi che ancora oggi è considerato la fonte più autorevole per l’etimologia dei vocaboli tedeschi). I Grimm, meglio noti come fratelli Grimm, al di fuori della Germania sono conosciuti per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione tedesca. Jacob e Wilhelm Grimm, in realtà, non erano scrittori di libri per bambini, ma studiosi e storici, spinti dalla loro passione per la cultura popolare a trascrivere le fiabe tramandate oralmente in Europa per molti secoli. Nati ad appena un anno di distanza l’uno dall’altro, da bambini erano praticamente inseparabili e rimasero vicini anche da adulti, studiando e lavorando a progetti di ricerca comuni. Dopo aver studiato giurisprudenza, divennero entrambi bibliotecari e dedicarono le loro carriere alla documentazione delle origini della lingua, letteratura e cultura tedesche e registrarono racconti popolari europei che erano stati tramandati oralmente per secoli, pubblicandoli nel 1812 in una raccolta di 156 fiabe intitolata (fiabe del focolare). Negli anni successivi aggiunsero altre storie, pubblicando una seconda edizione nel 1815. Spesso aggiunsero messaggi morali e riferimenti cristiani, arricchendo di particolari alcune storie. La versione definitiva uscì nel 1857, due anni prima della morte di Wilhelm. Le fiabe dei Grimm avevano un precedente nelle “Histoires ou contes du temps passé, avec des moralitès: Contes de ma mère l’Oye” (I racconti di Mamma Oca) di Charles Perrault, pubblicate in Francia nel 1697. Si trattava di otto fiabe, i cui titoli sono immediatamente riconoscibili ancora oggi; tra questi “La Bella addormentata”, “Cappuccetto Rosso”, “Cenerentola”, e “Mamma Oca”, ecc. Perrault, che era avvocato, non le inventò, erano già ben note come parte del folclore europeo, ma riscrivendole in modo avvincente ne fece delle opere letterarie. Le rese più complesse e le arricchì di particolari non presenti nelle versioni originali. Come la prima pubblicazione dei fratelli Grimm, il volume francese era destinato a lettori adulti. Con temi violenti e contenuti sessuali, ma negli anni il libro fu adattato ai bambini. Il lupo di “Cappuccetto Rosso”, da stupratore divenne semplicemente una belva affamata, mentre la “Bella Addormentata” cambiò da madre sessualmente attiva di due figli a vergine. Il libro di Perrault rimase popolare per decenni, con diverse edizioni pubblicate a Parigi, Amsterdam e Londra tra il 1697 e il 1800. L’edizione delle Fiabe dei Grimm del 1909, corredata dalle splendide illustrazione di Arthur Rackham (1867-1939), era un tesoro visivo dell’epoca edoardiana. L’interesse del pubblico per le fiabe si era acceso nei primi anni di regno della regina Vittoria e alla fine dell’Ottocento queste erano ormai radicate nella cultura popolare in un periodo di grandi cambiamenti sociali, provocati dall’industrializzazione e dalla migrazione di massa dalle campagne alle città in espansione, le fiabe offrivano una facile evasione. All’epoca il mercato era saturo di immagini fiabesche, ma nessuna catturava lo spirito delle storie o l’immaginazione popolare, quanto le illustrazioni di Arthur Rackham. Cento suoi disegni al tratto in bianco e nero, espressivi e complessi, comparvero per la prima volta in un’edizione del 1900 delle fiabe, ma l’opera fu riveduta nel 1909 con altre illustrazioni, più dettagliate e 40 nuove raffinate tavole a colori. Le illustrazioni di Rackham, a penna e inchiostro indiano, erano magiche e macabre e raffiguravano la brutalità e la malvagità presenti in molte fiabe con un fascino innocente e una rustica bellezza. Rackham sarebbe poi diventato uno dei più famosi artisti britannici dell’epoca edoardiana.
In molte fiabe, come “L’acqua della vita”, qui riprodotta, figurano pericolose foreste. Per trasmettere un senso di premonizione, Rackham lo illustrava con una dovizia di particolari e sottili tratteggi che le facevano apparire oscure e impenetrabili. Sullo sfondo di questa immagine la silhouette di una figura intrappolata può essere scambiata per il ramo di un albero.
La storia di “Cappuccetto Rosso” risale al X secolo, ma una delle versioni più note è quella dei fratelli Grimm. L’uso che Racham fa del colore attira lo sguardo su Cappuccetto, nascondendo in parte nei dettagli circostanti la vera identità del lupo e contribuendo così alla suspense.
Fonte: “I libri che hanno cambiato la Storia”. Ed. Gribaudo.
Mary Titton
3 gennaio
PRIMO PIANO
Allunaggio storico: La sonda cinese Chang’e-4 è giunta sul lato nascosto della Luna.
Oggi, giovedì 3 gennaio, alle 10:26 ora di Pechino, le 3:26 in Italia, il modulo Chang’e-4, composto da un lander e da un rover, lanciato l’8 dicembre del 2018 dalla China National Space Administration (CNSA), l’Agenzia spaziale cinese, ha toccato la superficie del “lato oscuro” della Luna, che non è mai visibile dalla Terra a causa della rotazione sincrona con il nostro pianeta, e ha inviato sulla Terra le prime foto del “dark side”. Le comunicazioni, ostacolate dalla posizione della sonda che si trova “dietro” la Luna stessa, avvengono tramite il satellite Queqiao, lanciato il 21 maggio scorso e che opera da ponte radio. La Chang’e-4, che porta il nome della dea della luna nella mitologia cinese, effettuerà sei esperimenti elaborati da scienziati cinesi e quattro da team stranieri, tra cui osservazioni astronomiche con la radio a bassa frequenza, analisi del terreno, della composizione minerale e della struttura della superficie lunare, tentativo di far nascere larve di baco da seta in una minibiosfera, contenente anche semi di patata, Arabidopsis e una pianta da fiore, misura della radiazione dei neutroni e degli atomi per studiare l’ambiente del lato nascosto della Luna, molto diverso da quello visibile dalla Terra, già analizzato dalle missioni precedenti, che non riuscirono però mai ad allunare. Nel passato i programmi spaziali di Unione Sovietica e Stati Uniti erano riusciti a fotografare la faccia nascosta della Luna, ma non erano mai allunati, nel 1962 una missione americana senza equipaggio ci aveva provato senza successo. L’Agenzia spaziale cinese non si è limitata a comunicare il successo dell’allunaggio, ma ha pubblicato anche la prima spettacolare immagine del cratere Von Karman dove il rover/lander Chang’e-4 si è adagiato. Il sito dell’allunaggio si trova nel bacino Polo Sud-Aitken, un gigantesco cratere meteoritico con diametro di ben 2.500 km. Questo allunaggio rappresenta un nuovo storico traguardo per l’esplorazione spaziale, è, infatti, la prima volta in assoluto che avviene un atterraggio morbido, senza danni, sul lato oscuro della Luna. Entro il 2020 la Cina invierà la missione Chang’e-5 con l’ambizioso obiettivo di allunare, raccogliere campioni e tornare sulla Terra.
DALLA STORIA
Cinquantun anni fa il chirurgo sudafricano Christian Barnard effettua il primo trapianto di cuore riuscito.
Il 3 gennaio del 1968 il chirurgo sudafricano Christian Barnard trapiantava il cuore di un donatore nel petto del dentista Philip Blaiberg, che sopravvisse per 19 mesi all’operazione. L’intervento (che fu il secondo per Barnard: ma il primo paziente, operato nel ’67, sopravvisse solo 18 giorni) fu seguito da tutto il mondo e fece di Barnard una celebrità. Oggi, rispetto a quel lontano intervento, il livello di perfezione raggiunto dalla chirurgia dei trapianti e della chirurgia in generale ha fatto passi giganteschi (basti pensare alla chirurgia estetica o all’impiego della robotica in grado di intervenire in modo infinitesimale nella rimozione dei tessuti e così via) tanto da ritenere la scienza chirurgica la pratica medica più all’avanguardia. E’ interessante, a distanza di tanto tempo, leggere nei servizi giornalistici del tempo, i commenti e lo stupore del mondo davanti al successo di un trapianto così pericoloso come l’estrazione del cuore dal petto di un uomo per sostituirlo con il cuore di un altro uomo. Un evento straordinario che dava la stura ad una “odissea nella scienza”, così come alcuni amarono definirla accostandola, per intraprendenza, al titolo di un ben noto film di fantascienza che usciva proprio in quell’anno. Il trapianto di Blaiberg scatenò il dibattito attorno alla domanda se un uomo con il cuore di un altro fosse ancora lo stesso uomo. Interpellati, alcuni uomini di pensiero risposero nei modi più disparati. Secondo Giuseppe Ungaretti (intervistato dal settimanale “Epoca”): “Non è possibile che un uomo si stacchi dall’idea che il cuore sia il centro degli affetti, quindi la custodia dei segreti e degli slanci della persona umana”. Eugenio Montale, invece, preferì attenersi al “concetto scientifico di cuore”, mentre per Goffredo Parise si trattò della conferma della “coincidenza, nel mondo moderno, tra uomo e oggetto”. Franco Lombardi, docente di filosofia morale all’Università di Roma, concludeva: “In fondo la personalità, come diceva Aristotele, sta dappertutto e in nessun luogo”. A meno di due mesi dopo l’operazione il settimanale “Epoca” pubblicava un testo scritto da Christian Barnard stesso dal titolo “In una boccia di vetro, il cuore del mio paziente”. E’ molto emozionante leggere questo racconto che descrive i sentimenti dell’autore del trapianto: “Credo che il dottor Philip Blaiberg, il dentista che vive con il cuore del mulatto Clive Haupt, stesse aspettando ansiosamente il mio ritorno dall’Europa. Come tutti sanno, egli si trova all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, isolato in una specie di “appartamento” formato da quattro camere nel Padiglione dei malati che noi chiamiamo “esterni”. Sapevo che Blaiberg voleva vedermi subito e l’incontro, in quella stanza isolata del Groote Schuur, fu veramente commovente. Noi sudafricani non usiamo abbracciarci. L’ho visto fare soltanto in Europa, e specialmente in Italia, ma in quel momento avrei davvero stretto al petto il mio paziente. Il dottor Blaiberg stava meglio di quanto potessi immaginare. … Blaiberg, quindi, tornerà a casa mentre io sarò in America. Non potrà mettersi subito a lavorare, naturalmente. Dovrà riposare a lungo per recuperare completamente le forze. Non so quando potrà tornare alla sua professione o a qualsiasi altra attività cui intenda dedicare il resto della sua vita. So soltanto che per ora non dovrà fare altro che rimettersi in forze. Quello di Blaiberg è un miracolo. Egli lo sa ed è un uomo felice. Ai giornalisti che lo hanno interrogato, attraverso la parete di cristallo che separa la sua piccola stanza dal corridoio sorvegliato dai poliziotti, ha detto sorridendo: “Vivo come un re. Mi lavo, mi rado, faccio colazione, mangio tutto quello che voglio …”. Cosa volete di più da un uomo che era condannato a morire? … Giovedì 15 febbraio, il giorno prima della mia partenza per l’America, sono tornato da lui e gli ho detto; “Dottor Blaiberg, so che lei è un uomo coraggioso e che quindi non si lascerà turbare da questa mia proposta: vuole vedere il suo vecchio cuore?”. Per qualche istante Blaiberg mi guardò sbalordito, poi rispose brevemente: “Sarei proprio contento di vederlo”. “Bene” aggiunsi “tornerò tra poco”. Volevo che nessuno sapesse della promessa fatta al mio paziente e pertanto aspettai che venisse sera. Alle otto scesi nel mio ufficio, nel sotterraneo della Medical School, e prelevai da un armadio la boccia di vetro nella quale avevo riposto il cuore tolto a Blaiberg durante la mia seconda operazione di trapianto. … Blaiberg era seduto sul letto, la schiena appoggiata ai guanciali rialzati. Quando entrai stava finendo di cenare. “Eccolo” dissi semplicemente mostrandogli il recipiente di vetro. Il mio paziente rimase immobile per qualche attimo, poi allontanò il vassoio che aveva dinanzi e tese le mani verso il vaso. Il silenzio era assoluto. Né lui né io riuscimmo a pronunciare altre parole. Blaiberg fissò lo sguardo affascinato su “quella cosa” che fino a poche settimane fa apparteneva al suo corpo. Io non potei fare a meno di riflettere sull’eccezionalità di quel momento: per la prima volta, un uomo poteva guardare il suo cuore, poteva scrutarlo, rigirarselo fra le mani come fosse una cosa estranea. Poi il mio paziente sembrò riprendersi e mi guardò commosso. Blaiberg conosce molte cose di medicina e per i dieci minuti seguenti non fece altro che pormi tutta una serie di domande “tecniche”. Non appariva più commosso o sorpreso. Era soltanto incuriosito. Come per me, quella cosa straordinaria era un avvenimento “accettato”. … Io riportai quel vecchio cuore nel mio ufficio, dove resterà per molti anni. Voglio che sia sempre accanto a me, è un ricordo troppo caro. Poi. Un giorno, lo donerò al museo dell’Università di Città del Capo”.
Mary Titton
Tanti auguri di Buon Anno 2019!
Affidiamo ai versi del grande poeta, Pablo Neruda, i buoni propositi che è d’uopo celebrare a Capodanno, un “rito” espiatorio, purificatore e propiziatorio che, nel chiudere simbolicamente il passato, alimenta, in ciascuno di noi, la speranza, attraverso il rinnovamento, di un avvenire migliore.
Il primo giorno dell’anno
Il primo giorno dell’anno
Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte lo andiamo a ricevere
come se fosse un esploratore
che scende da una stella.
Come il pane, assomiglia al pane di ieri.
Come un anello a tutti gli anelli.
La terra accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline,
lo bagnerà con frecce di trasparente pioggia
e poi, lo avvolgerà nell’ombra.
Eppure,
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire, a sperare.
(Pablo Neruda)
La Redazione