Editoriale 8 novembre

 

Pochi giorni fa, il 4 novembre, si è celebrata la ricorrenza “della vittoria” italiana sull’Austria imperiale e sulla Germania, mettendo fine di fatto alla Prima Guerra Mondiale, che aveva drammaticamente cancellato la Belle Époque e pesantemente aggravato le condizioni di vita di decine e decine di milioni di operai, di contadini, artigiani e modesti impiegati in tutta Europa, teatro principale di battaglia, di morte, di indicibili sofferenze. I morti furono oltre 17 milioni su tutti i fronti, i feriti fra militari e civili circa per difetto 20 milioni. Il bilancio della giovane nazione italiana fu di non meno di 680.000 caduti, 1.000.000 di feriti e quasi 450.000 invalidi. Cifre spaventose e ancor oggi non definitive a cui andò ad aggiungersi, proprio fra il 1918 e il 1920, la catastrofe dovuta al diffondersi della Spagnola. Quella Guerra non aveva alcuna ragione per essere scatenata se non quella degli interessi economici e di dominio dei singoli Stati e l’ascesa di un nazionalismo irresponsabile quanto retorico che presto avrebbe prevalso nel nostro Paese, nel Reich tedesco, in Spagna, così come in altre realtà, trasformandosi in pochi anni in feroci dittature, dando vita al fascismo e al nazismo e quindi a distanza di appena un ventennio al Secondo Conflitto su scala planetaria che avrebbe più che quadruplicato le vittime, avrebbe infranto ogni regola, lasciando il cosiddetto Vecchio Continente ridotto ad un surreale scenario di devastazione e macerie. Ma la Germania hitleriana, con la colpevole complicità dell’Italia fascista, si sarebbe macchiata anche di un crimine spaventoso contro l’umanità mai prima concepito. L’Olocausto e la soluzione finale, che avrebbe provocato il terribile genocidio di 17.000.000 esseri umani, di cui 6.000.000 di Ebrei, sterminati nei campi di concentramento e nei forni crematori. Una follia. Una follia però lucida e spietata, vero e proprio trionfo del male assoluto. 

Certamente la guerra ha da sempre accompagnato il millenario cammino dell’uomo con una costante così evidente da tradursi in una più che normale convenzionalità per la maggior parte degli stessi storici e addetti ai lavori di ogni tempo.

Non è nostra intenzione affrontare qui e adesso le ragioni profonde, antropologiche, complessissime quanto originariamente lontane di questa dura evidenza e della sua fenomenologia, ma proprio da quelle macerie, da quella terrificante memoria, l’Europa nel suo complesso è riuscita comunque, pur con tutte le sue insufficienze e contraddizioni, a garantirsi ad oggi oltre settant’anni di pace, escludendo fermamente il ricorso alla guerra per la risoluzione di crisi e contrasti fra i vari Stati nazionali.  Un fatto certo e indiscutibile, anche questo mai accaduto finora per la storia da noi conosciuta. È vero che non sono mancati conflitti su scala regionale, come nel Paese Basco, in Irlanda del Nord, in Bosnia Erzegovina e nei Balcani, ne’ vanno dimenticati il terrorismo e le stragi mafiose, quelle imputabili alla strategia della tensione e a poteri occulti fortemente radicati, ma non così poi particolarmente oscuri. È altrettanto urgente e responsabile però, a partire da questa significativa evidenza, porsi l’obiettivo di una nuova Europa dei diritti e dei cittadini, progressista, giusta e inclusiva, che possa essere punto di riferimento e modello a livello internazionale, lì dove gravi criticità e serissime problematiche stanno assumendo forme endemiche tali da minacciare il futuro stesso dell’intero Pianeta. 

Con al centro queste tematiche si è tenuta giovedì 28 ottobre una conferenza stampa, organizzata da Progetto Editoriale in collaborazione con l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, al Museo della Zecca di Roma per la presentazione della Medaglia 70 Anni di Pace in Europa, che vuole esserne espressione simbolica attraverso l’arte della coniazione. Un modo per ribadire la semplicità e la grande forza di un concetto che rincorre caparbiamente la fragilità di una speranza nel riflesso di un ideale assolutamente non scontato.

Tornando però al 4 novembre c’è una considerazione da fare. In tanti, troppi, hanno negli anni strumentalizzato più o meno rozzamente il commosso cordoglio di popolo che fu tributato al feretro del Milite Ignoto, stazione dopo stazione, lungo il suo viaggio da Aquileia a Roma cento anni fa. Non c’era animosità guerriera fra quella gente ma un immenso dolore che non trovava spiegazioni e fa fatica anche oggi a trovare risposte. 

Dovunque, qui da noi così come in qualsiasi parte d’Europa ci sono disseminati in città e piccoli centri cippi e monumenti ai caduti che sono testimoni silenti di atrocità dimenticate. Quegli stessi nomi scolpiti lo sono altrettanto e questo è davvero molto triste. Ci dovrebbe fare riflettere. 

Gli articoli che seguono provano a fotografare due momenti particolari di quelle lontane, ma così attuali vicende che speriamo rimangano per sempre alle nostre spalle, ma siano allo stesso tempo memoria viva, incancellabile e collettiva.

Francesco Malvasi


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