DayByDay 2018

28 dicembre

PRIMO PIANO

È morto lo scrittore israeliano Amos Oz.

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Amos Oz, uno degli scrittori israeliani più celebri e tradotti in tutto il mondo, è morto a 79 anni. Nato a Gerusalemme il 4 maggio del 1939, Oz, autore, in oltre 50 anni di attività, di 18 libri, viveva ad Arad. Nella sua autobiografia “Una storia di amore e di tenebra” Oz ha raccontato, attraverso la storia della sua famiglia, le vicende storiche del nascente Stato di Israele a partire dalla fine del protettorato britannico: la guerra di indipendenza, gli attacchi terroristici dei Fedayyin, la vita nei kibbutz. Per lo scrittore è stato determinante il suicidio della madre, avvenuto quando aveva appena dodici anni. L’elaborazione del dolore si sviluppò ben presto in un contrasto con il padre, un intellettuale vicino alla destra ebraica. Il contrasto padre-figlio portò il ragazzo alla decisione di entrare nel kibbutz Hulda e di cambiare il cognome originario “Klausner” in “Oz”, che in ebraico significa “forza”. Cresciuto nel kibbutz Hulda, studiò filosofia e letteratura all’Università ebraica di Gerusalemme, nel 1960 sposò Nili, (dalla quale ha avuto tre figli) e l’anno successivo, a soli 22 anni, pubblicò i suoi primi lavori. Tra i suoi libri, in cui tende a rappresentare i protagonisti in modo realistico e con lieve tocco ironico e tratta il tema del kibbutz con un tono in un certo senso critico, ricordiamo i famosi “La scatola nera” e “In terra di Israele”. Le sue opere sono state pubblicate in 45 lingue, in 47 Paesi nel mondo e ha ricevuto numerosi premi e onoreficenze, tra cui la Legion d’Onore francese, il Goethe Prize, il Premio Principe delle Asturie, l’Heinrich Heine Prize e l’Israel Prize. Oltre a essere un influente intellettuale, è stato una delle voci critiche più ascoltate in patria e all’estero. L’esperienza sotto le armi, prima con la leva obbligatoria, poi durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nel 1973, l’aveva portato ad essere un attivo fautore del dialogo tra israeliani e palestinesi, di cui aveva anche scritto a lungo. La sua voce si era levata anche negli anni più recenti, in occasione delle guerre in Libano e nella Striscia di Gaza, esortando a intraprendere la strada del dialogo e della moderazione. Oz si è opposto all’attività colonizzatrice sin dall’inizio ed è stato tra i primi a sostenere gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP. Nei suoi discorsi e nei suoi saggi spesso ha attaccato la sinistra antisionista enfatizzando sempre la sua identità sionista. Molti osservatori di destra lo hanno identificato come il portavoce più eloquente della sinistra sionista. Negli anni novanta Oz è uscito dal Partito Laburista e ha aderito al partito Meretz, essendo in ottime relazioni con il leader, Shulamit Aloni. Negli ultimi anni Oz ha descritto il Partito Laburista come un partito che “non esiste più”. Nel 2003, alle elezioni per la sedicesima Knesset, Oz ha partecipato alla campagna elettorale televisiva di Meretz chiedendo al pubblico di votare per Meretz, il partito politico israeliano di sinistra d’ispirazione laica, sionista e socialdemocratica.

DALLA STORIA

Ben-Hur, il vecchio film di William Wyler che rivediamo sempre a Natale.

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In occasione delle festività natalizie è consuetudine nella programmazione della TV riproporre la visione di vecchi film, classici che hanno segnato la storia del cinema. Tra questi Ben-Hur, del 1959 di William Wyler è da considerare tra gli immancabili, il film storico per antonomasia sia per la spettacolarità delle immagini sia per i temi legati alla cristianità, ambientati nello stesso periodo storico in cui visse Gesù. Anche a me, che amo il cinema, piace in questo periodo dell’anno abbandonarmi davanti alla TV e riguardare, magari per la ventesima volta questo vecchio, vecchissimo film. Tratto da un romanzo del XIX secolo scritto da un generale della Guerra civile americana, Lew Wallace, Ben-Hur, del regista William Wyler è la terza e più famosa versione della storia leggendaria di perdono cristiano all’epoca dell’Impero romano. La storia, che ormai tutti conosciamo ma che mi fa piacere riassumere, si svolge a Gerusalemme al tempo di Cristo (il Salvatore compare tre volte nel film, senza che se ne veda il volto). Ben-Hur (Charlton Heston) è un ricco mercante ebreo, legato prima da amicizia con Messala (Stephen Boyd), che diventerà comandante delle legioni romane in giudea. Con un pretesto (alcune tegole cadute accidentalmente) Messala accusa Ben-Hur di attentato al governatore e condanna lui alla schiavitù sulle galee e la madre Miriam (Renata Marini) e la sorella Tirzah (Cathy O’ Donnell) al carcere. Ben-Hur viene poi rimesso in libertà dopo che la nave sulla quale è costretto a remare è coinvolta in una battaglia ed egli ha l’occasione di salvare la vita a un console romano che lo porterà con sé nella capitale. In pena per la sorte della madre e della sorella, Ben-Hur decide però di far ritorno a Gerusalemme dove, credendole morte sfida l’odiato Messala. I due si fronteggiano nella fatidica corsa delle bighe, dove Ben-Hur ottiene vendetta sul suo rivale. Intanto viene a sapere che Tirzah e la madre sono ancora vive ma malate di lebbra e decide, nonostante il pericolo, di far loro visita. Il film è incentrato principalmente sulle sofferenze e sul valore dell’eroe ebreo, ma è pervaso anche da uno spirito di carità che sembra promanare dalla venuta di Cristo e dal suo insegnamento all’umanità della pietà.

image002(Ben-Hur incontra Gesù che lo disseta)

Il film resta indimenticabile per l’avvincente scena ricca di azione e di riferimenti mitologici (la corsa alle bighe costò da sola un milione di dollari e per l’utilizzo di trecentocinquanta attori e più di cinquanta comparse che lo rendono colossale. Nominato per dodici Oscar, stabilì un record vincendoli tutti tranne uno, un evento ripetutosi solo quarant’anni dopo con il film Titanic. Il gigantismo della produzione incoraggiò forse il disprezzo di molti critici che non ebbero parole di lode nei confronti del film. Il suo perdurante successo, ha però ribaltato i giudizi, ed oggi è considerato un apice dei film storici in costume, che costituiscono da soli una parte importante della storia del cinema. Nel 1959 la casa di produzione MGM era in gravi difficoltà economiche. Nonostante i giganteschi investimenti che richiese, il successo di Ben-Hur al botteghino salvò la casa di produzione dalla bancarotta.

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Mary Titton


21 dicembre

Buon-Natale-2018

Nessuno come John Lennon, nel secolo scorso, ha saputo diffondere il suo pensiero di pace con la sua musica magnifica come questo grande artista. Grazie al suo impegno civile, un’intera generazione ha saputo vivere il sogno di un mondo migliore, in cui per un momento abbiamo sperato, in milioni, che si potesse trasformare l’odio, che attanaglia il mondo con la presenza endemica della guerra, in un posto bello in cui vivere, fondato sull’amore, il rispetto e la libertà. Nulla ci è sembrato più adeguato di questo inno che parla di pace, di Lennon, l’ultimo sognatore, un eroe caduto sul campo, che qui proponiamo, per augurare a tutti e, in modo un po’ speciale a chi ci legge con costante fedeltà da molto tempo, i nostri più cari auguri di Buon Natale.


19 dicembre

DALLA STORIA

Ricordando Marcello …

image003-1(Marcello Mastroianni protagonista del poster ufficiale del Festival di Cannes)

Il 19 dicembre di ventidue anni fa moriva a Parigi Marcello Mastroianni. “Adoro Parigi” amava dire “perché qui posso vivere come una persona qualunque”. “La lunga storia di Marcello Mastroianni inizia il 28 settembre 1924 a Fontana Liri, in Ciociaria. Il primo successo è “I soliti ignoti”, nel ’58, con Totò. Nel ’60, Fellini lo sceglie per “La dolce vita”, la consacrazione del suo successo. Lavorerà con grande generosità per tutta la vita al cinema, in teatro con i grandi registi del tempo Visconti, De Sica, Blasetti, Bolognini, Germi, Risi, Petri, Scola, Ferreri, ecc., nei ruoli più disparati “portando la naturalezza a una totale perfezione”. Marcello Mastroinanni è stato tra i protagonisti che hanno fatto grande il cinema italiano portandolo a livelli internazionali, nel decennio compreso tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, quando Roma era definita “La capitale del cinema”. Con il boom economico del secondo dopoguerra, l’Italia divenne una delle maggiori potenze industriali. Lo sviluppo economico superò addirittura quello demografico e ciò migliorò, in modo uniforme, il tenore di vita dell’italiano medio. Questo livello di benessere sgombrò il campo dagli ultimi pensieri nefasti della guerra, rinnovò la fiducia verso il futuro e liberò, nelle persone, il bisogno di spensieratezza e la necessità di distrarsi. Si stava formando un muovo modello sociale più libero e conseguentemente più creativo. Ci fu un rifiorire della cultura, nella moda, nella musica e nel costume ma fu il cinema, la settima arte, una nuova forma espressiva artistica e di grande impatto comunicativo a contrassegnare il secolo in corso. Il cinema italiano, all’epoca, fece scuola in tutto il mondo. Nacquero pellicole indimenticabili che proiettavano sullo schermo la vita reale degli italiani in modo un pò ironico, scanzonato ed ingenuo e in seguito raccontò le trasformazioni ed i cambiamenti della società italiana. Il cinema parlava alla gente per immagini, riproduceva le storie di vita, ne penetrava i pensieri, descriveva le emozioni, ne dipingeva i sogni, le ambizioni, le aspettative: un’arte vivente, colta nel movimento, nell’espressione interpretativa degli attori che trasferivano, dallo schermo, l’intensità o l’emozione e così via di quell’idea, di quel sentimento indicati dal regista: artisti che diventarono essi stessi simboli, mitici eroi, divini. Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Silvana Mangano, Alberto Sordi, Gina Lollobrigida, Sofia Loren, Walter Chiari, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, insieme a molti altri, erano i moderni dei dell’Olimpo dell’industria cinematografica di Cinecittà: immortali  nella storia del cinema. Di Marcello Mastroianni, Dino Risi che lo conosceva bene anche per averlo diretto, disse: “Era l’anima più bella del nostro cinema, l’italiano medio e pulito. Mastroianni era forse quello con cui era più piacevole lavorare: e questo per una ragione semplicissima, non rompeva mai le scatole. Non gli ho mai sentito dire “Questa battuta così non va”. Aveva una grande duttilità e disponibilità. Non parlava: semplicemente, faceva l’attore, vestendo i panni del personaggio con una capacità straordinaria. Mastroianni aveva il pregio di farsi piacere anche i film che non gli piacevano.” Il sodalizio con Federico Fellini, Mastroianni era una sorta di alter ego del regista riminese, ha generato film epici, di grande bellezza estetica e di grande efficacia nel rappresentare il costume italiano degli anni ’60. Fu Giulietta Masina ha suggerire a Fellini “quel giovane ragazzo”, conosciuto in teatro, per il ruolo di Marcello Rubini ne “La dolce vita”. Federico Fellini, di Mastroianni disse: “Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone”. Mentre Suso Cecchi D’Amico di Mastroianni diceva: “È un attore molto dotato, che si è divertito a lavorare. Non ha mai studiato un copione. Ha sempre cercato, per quanto possibile, di non leggerlo neppure. A lui piace andare in giro, si adatta con estrema facilità a qualsiasi ambiente. Non è di quelli che con la testa tra le mani si concentrano per entrare nel personaggio, come De Niro. Mastroianni è un caso piuttosto unico, in questo senso. … Ha un orecchio eccezionale, che lo guida sul palcoscenico e davanti alla macchina da presa. E ancora Claudia Cardinale parlando di Marcello disse: “Era un attore felice, che amava alla follia il suo mestiere, che svolgeva con gioia e buon umore. La sola persona che Mastroianni prendeva sul serio durante le riprese, era il regista. Con gli altri giocava, si divertiva. Era un goliardico. Con quello sguardo scuro e dolce, “l’occhio vellutato” che ha sempre caratterizzato il latin lover, aveva tutto ciò che serve per piacere. E piaceva molto. La sua gentilezza,  quel misto di sensibilità femminile e di forza virile, la sua delicatezza, la sua bellezza e la sua riservatezza parlavano in suo favore”. Marcello Mastroianni non gradiva la definizione di latin lover: “Non sono bello e non lo sono mai stato. Ho una faccia qualsiasi, anonima, anche un po’ da burino”, parlava così di sé, alla giornalista Lietta Tornabuoni e a Enzo Biagi replicava, contro tale definizione: “Ci sono dei geometri che hanno avuto più storie di me”. Di sé diceva anche “Ho troppe qualità per essere un dilettante e non ne ho abbastanza per essere un professionista”. Mettendosi a nudo in un’intervista ad Oriana Fallaci, Mastroianni minimizzava così la sua indiscussa bravura: “Io ho avuto tanta fortuna solo fortuna. La fortuna che a Luchino Visconti servisse un giovanotto rozzo come me. La fortuna che la sua compagnia fosse la più importante e allineasse attori come Ruggero Ruggeri, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Vittorio Gassman. La fortuna che Gassman se ne andasse e io prendessi il suo posto. La fortuna che mi offrissero il cinema, infine, grazie a questo nasino che detesto”. Una modestia impareggiabile. A smentirlo c’è stato il pubblico e la critica. In quarant’anni di attività ha recitato in centosettanta film meritandosi: “tre premi come miglior interprete a Cannes, due Golden Globe, due Bafta, svariati David di Donatello, due Coppe Volpi e un Leone d’oro alla carriera ed è arrivato, da fuoriclasse, per ben tre volte agli Oscar. Mastroianni spiccava anche per umiltà, merce rara, particolarmente in un ambiente lavorativo dove la visibilità e il successo possono dare alla testa. Era una persona lieve, sensibile, molto ironica, con un’aria sottilmente maliziosa e ludica ma “mai superficiale”, come puntualizza la figlia Barbara. E come avrebbe potuto; si è detto che in certi film sembrava essere in grado di poter lavorare soltanto con l’espressione dello sguardo, è stato inimitabile nei capolavori felliniani come la “Dolce vita” e “Otto e mezzo”, perfetto nel registro comico de “I soliti ignoti” o “Divorzio all’italiana”, malinconico e drammatico in “Una giornata particolare” e così via. “Il mestiere dell’attore io lo vivo come un gioco meraviglioso. Recitare è quasi meglio che fare l’amore perché è inebriante assumere sembianze, atteggiamenti e psicologie di qualcun altro. È quello che fanno i bambini. È il gioco più antico. È il primo gioco che inventiamo quando facciamo finta di essere tu il poliziotto, io il gangster. Io mi nascondo lì, tu fai così. E uno ci crede”.

image002-1(A Roma, in via Veneto negli anni della “Dolce vita”)

Mary Titton


18 dicembre

DALLA STORIA

Ermete Trismegisto e la filosofia ermetica.

image003(Ermete Trismegisto in un intarsio nel pavimento del Duomo di Siena)

Letteralmente Ermete Trismegisto significa “Ermes il tre volte grandissimo”. Con questo nome si assimila Ermete, dio greco del logos e della comunicazione, a Thot, dio egizio e delle lettere, dei numeri e della geometria. Essendo costume degli egizi iterare l’aggettivo “grande” davanti al nome delle divinità, Ermete era quindi appunto indicato come il “grandissimo” per tre volte (tris-megisto). Questo “Ermete tre volte grande” era sacerdote e iniziato in Egitto e la sua esatta biografia si perde nel buio della storia. Egli viene considerato l’autore della letteratura ermetica, un insieme di scritti iniziatici e filosofici, incentrati sulla creazione dell’uomo e sulle condizioni della sua liberazione attraverso la conoscenza, che circolarono nel mondo greco-romano, nei primi secoli d.C. Essi vennero raccolti nel Corpus Hermeticum, un trattato diffuso poi in Europa da Marsilio Ficino. All’epoca di Trismegisto, in Egitto, i sacerdoti erano ritenuti i mediatori tra il mondo sensibile e la divinità ed erano in grado di rivelare la verità della realtà esoterica. Così ne parla Thorwald Dethlefsen ne “Il destino come scelta”, ed. Mediterranee: “L’esoterismo è antico come l’uomo. C’è sempre stato e ci sarà sempre. Esso custodisce da sempre la somma del sapere accessibile all’uomo su questo universo. Le sue dottrine sono indipendenti dall’epoca, non sono mai state corrette, mai modernizzate, non invecchiano mai. La nostra scienza moderna non comprende che tutto il sapere è sempre presente. Essa anzi vive nell’illusione che attraverso ogni nuova scoperta sia possibile avvicinarsi di poco alla verità e che per arrivare a sapere “tutto” sia quindi soltanto una questione di tempo. In base all’esoterismo ci si comporta in modo esattamente opposto. Il sapere è sempre presente, è il singolo che deve crescere, evolversi fino ad essere in grado di prenderne coscienza”. Pico della Mirandola, Hieronymus Bosch, Pietro Bruegel, John Milton, Giordano Bruno, Isaac Newton e ancora, William Blake, Aldous Huxley e Jim Morrison (questi ultimi due, richiamandosi a Blake, pensavano che se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito), sono alcuni esempi di personalità che hanno coltivato la visione ermetica del mondo. “Se paragoniamo la realtà a un cerchio, la scienza divide il cerchio, partendo dalla periferia, in molti segmenti, in discipline specifiche (medicina, fisica, chimica, biologia, ecc). Studiando tutti questi campi specifici, si spera di poterci incontrare una volta al centro del cerchio. Questa mèta però purtroppo diviene sempre più irraggiungibile e lontana, dato che l’estrema specializzazione rende sempre più difficile la comprensione interdisciplinare. Il lavoro esoterico non comincia alla periferia, ma al centro del cerchio. L’esoterismo indaga le leggi universali, e una volta che le abbiamo conosciute, non dobbiamo fare altro che proiettarle sui diversi segmenti del cerchio, sulle diverse sezioni speciali. Un simile sapere è superiore a quello dello specialista, in quanto ha riferimento con tutti gli altri campi ed è in grado di collocare adeguatamente nell’ambito della realtà ogni campo specialistico. Il pensiero esoterico segue un principio di base, la cui formulazione linguistica risale a Ermete Trismegisto che grazie a lui viene anche chiamata “filosofia ermetica”. Egli scrisse la quintessenza di ogni sapienza in quindici tesi su una tavola di smeraldo verde orientale. La tavola, che da molto tempo è andata perduta, è passata alla storia col nome di “Tabula Smaragdina”. Il testo di questa tavola di smeraldo è il seguente:

1° Vero è senza menzogna, sicuro e più certo di qualunque altra cosa.

2° Ciò che è in basso, è uguale a ciò che è in alto; e ciò che è in alto, è uguale a ciò che è in basso, per compiere le opere meravigliose dell’unica cosa.

3° E tutte le cose sono uguali in quanto create dall’unico Dio, nel pensiero dell’unica cosa. Quindi tutte le cose sono nate da quest’unica cosa, per imitazione.

4° Il padre di questa cosa è il sole, la madre la luna.

5° La nutrice di questa cosa è la terra.

6° Il vento l’ha portata nel suo ventre.

7° In quest’unica cosa si troverà il padre di ogni perfezione del mondo.

8° La forza di quest’unica cosa è perfettamente raccolta quando sulla terra va dispersa.

9° Tu devi dividere la terra dal fuoco, il sottile sullo spesso, dolcemente, e con grande sapienza.

10° Sale dalla terra verso il cielo, e di nuovo discende sulla terra, e riceve la forza delle cose superiori e inferiori.

11° Tu quindi avrai la magnificenza di tutto il mondo. Perciò ogni incomprensione fuggirà via da te. Quest’unica cosa è la forza più forte di tutte le forze, perché supererà tutte le cose sottili e penetrerà tutte le cose solide.

12° In questo modo si crea il mondo.

13° Per questo ci saranno meravigliose imitazioni, che sono qui descritte.

14° Io quindi sono chiamato Ermete Trismegisto, io che possiedo le tre parti della saggezza di tutto il mondo.

15° A quello che ho detto dell’opera dei soli non manca nulla, è perfetta.

Le dottrine esoteriche sono accessibili a tutti in forma cifrata, ma chi non è preparato non può individuarle. La massa non riconosce il valore dei simboli e li ritiene di conseguenza sciocchezze inutili. “Se l’uomo moderno, attraverso un accurato studio, si prendesse la pena di penetrare sempre più in profondità nel linguaggio e nel simbolismo ermetici”, sostiene Dethlefsen, “potrebbe sperimentare e vivere personalmente l’importanza di questo testo. La tesi n° 2: “Ciò che è in basso è uguale a ciò che è in alto; e ciò che è in alto è uguale a ciò che in basso, per compiere le meraviglie dell’unica cosa”, spesso abbreviata in: “come in alto, così in basso” o: “come sopra, così sotto” indica che ovunque nell’universo, sopra e sotto, “in cielo e in terra”, nel macrocosmo come nel microcosmo, a ogni livello di manifestazione, regnano le medesime leggi. Noi, per esempio, nell’ambito delle nostre percezioni possiamo individuare sempre soltanto sezioni di un continuum, vediamo soltanto le frequenze che si trovano nei limiti di un determinato campo. Per esempio, oggi sappiamo, che un blocco di ferro consiste quasi unicamente in spazi intermedi, circondati dalle particelle atomiche. Le distanze tra le particelle solide corrispondono infatti, in proporzione, alle distanze tra i pianeti del nostro sistema solare. Anche se queste cose le sappiamo, guardando un blocco di ferro facciamo veramente fatica a immaginare che questa massa sia composta più di “spazi vuoti” che di corpuscoli solidi. Il virus come organismo a sé stante è troppo piccolo perché possiamo farcene un’idea; allo stesso modo la distanza di dieci anni luce è troppo grande per la nostra immaginazione. La nostra conoscenza è impostata sempre su dimensioni “medie”, adatte a noi uomini. Tutto ciò che è al di sopra e al di sotto di questa dimensione è per noi inagibile, o lo è soltanto con l’aiuto di tecniche. A questo punto la chiave geniale “come sopra, così, sotto” ci aiuta ad andare avanti. Infatti queste parole ci consentono di limitare le nostre ricerche e osservazioni al campo a noi accessibile, per poi trasferire per analogia le esperienze fatte ad altri piani a noi non agibili. Questo pensiero analogico consente all’uomo di imparare a capire, senza limitazione alcuna, l’intero universo.”

Mary Titton


17 dicembre

PRIMO PIANO

Palermo: a Palazzo Abatellis la mostra di Antonello da Messina.

Antonello da Messina Portrait of a Man Oil on panel, 12-14 x 9-5/8 in (31x 24.5 cm) Museo della Fondazione Culturale Mandralisca, Cefalu (Palermo)(Ritratto d’ignoto marinaio, datato tra il 1465 e il 1476, cMuseo Mandralisca, Cefalù)

Dal 14 dicembre fino al 10 febbraio 2019 sono riunite per la prima volta a Palermo, nella galleria di Palazzo Abatellis che già ospita l’Annunciata, altre celebri opere di Antonello da Messina, in un inedito percorso espositivo inserito nel cartellone di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018. Sono quattordici capolavori distribuiti in sei sale, provenienti da tutt’Italia: Pavia, Bergamo, Messina, gli Uffizi di Firenze, Siracusa, Reggio Calabria e Sibiu, in Romania. “Restituiscono al visitatore il mondo del pittore fin dalle sue origini – afferma l’assessore regionale ai beni culturali Sebastiano Tusa – ripercorrendo le tappe della formazione del pittore, presumibilmente a Napoli e dunque all’interno del crogiolo culturale del vasto bacino del Mediterraneo di cui fu parte la Sicilia stessa. Con geniale sintesi, da queste ed altre suggestioni, Antonello elaborò la sua cifra certa e inconfondibile, divenendo uno dei protagonisti di respiro internazionale nel panorama artistico già al suo tempo.” Sono concentrate nella prima sala la “Crocifissione”, la “Madonna con il bambino benedicente e un francescano in adorazione”con sul retro “Cristo in pietà”, opere di devozione privata, nelle quali Antonello era specializzato. Sempre nella prima sala due opere su tavole di noce provenienti dal Museo Civico di Reggio Calabria: “Visita dei tre angeli ad Abramo” e “San Girolamo Penitente”. La rassegna continua, nella seconda sala, con “Ritratto d’uomo”, una piccola tavola di noce che incarna gli aspetti peculiari della pittura antonelliana: luce, resa emotiva e indagine psicologica. L’uomo è ritratto su uno sfondo scuro, a mezzo busto, vestito con un abito rosso, con lo sguardo rivolto verso l’osservatore. “Antonello da Messina fu il primo artista capace di cogliere l’intima essenza di un uomo – spiega Villa – attraverso il suo sguardo, il suo sorriso, attraverso gli elementi espressivi più potenti, è riuscito a dipingere proprio la nostra anima”. Nella terza sala appare, tra gli altri, il ritratto più celebre di Antonello: “L’Annunciazione”, un’opera eccellente, ma sfortunata, perché, dopo aver subito le conseguenze del terremoto del 1693, venne ulteriormente danneggiata dall’incuria e dall’umidità e fu poi restaurata da Luigi Cavenaghi, che la trasportò su tela e colmò vaste lacune. “Davanti a un opera come questa qualsiasi essere umano può commuoversi – commenta Schmidt – Antonello dipinge un’emozione, qualcosa di non raffigurabile, qualcosa di interno.” Nella penultima e quinta sala c’è il “Ritratto di ignoto marinaio”, che, secondo Schmidt, “ha un sorriso molto, ma molto più enigmatico della Gioconda”, un olio su tavola custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. A conclusione della rassegna: “La Madonna con il bambino”, un olio su tavola di quercia proveniente dall’Accademia Carrara di Bergamo. “Il nostro secolo ha adorato i ritratti di Antonello da Messina – spiega Giovanni Carlo Federico Villa – la pittura italiana si è riconosciuta tutta in quegli sguardi, ci siamo tutti identificati nella concretezza di un pittore che ha dato forza e carattere ai volti. Più di Leonardo? Ben più di Leonardo!”


DALLA STORIA

Cesária Évora, “La diva a piedi nudi” che cantava con l’anima.

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“La diva a piedi nudi”, così soprannominata per la sua abitudine di esibirsi scalza, moriva il 17 dicembre 2011, nell’isola di Sao Vicente, a Capo Verde. In quest’isola dell’arcipelago della Repubblica di Capo Verde, nell’oceano Atlantico al largo del Senegal, Cesaria Evora, era nata il 27 agosto 1941. “Cizie”, per gli amici, diventerà la cantante più importante a livello internazionale e un’interprete appassionata e sensibile della morna, la musica tradizionale del suo Paese. La morna è considerata la musica nazionale di Capo Verde così come il fado è per il Portogallo, il tango per l’Argentina, la rumba per Cuba, e così via. Capo Verde è uno stato insulare dell’Africa occidentale che prende il nome dalla penisola di Capo Verde, il punto più occidentale dell’Africa continentale ed è costituito da etnie africane ed europee come Italiani, Portoghesi, Spagnoli, Inglesi che durante i secoli si sono integrate vicendevolmente creando la popolazione creola di Capo Verde. Da questa commistione di popoli e culture diverse è nato un genere musicale autoctono, quello per eccellenza è appunto la morna, una forma di canzone malinconica e lirica, perlopiù cantata in creolo capoverdiano che unisce le percussioni dell’Africa occidentale con il fado portoghese, la musica brasiliana con i canti di mare britannici, accompagnata da strumenti quali il cavaquinho, il clarinetto, l’accordion, il violino, il piano e la chitarra. Oltre ai temi universali, come l’amore, nella morna, vengono trattati argomenti come la partenza, il ritorno, la saudade, l’amore per la propria terra e per il mare. All’inizio del XX secolo il poeta Eugenio Tavares introdusse il lirismo e l’esplorazione dei sentimenti tipica del romanticismo ancora oggi in uso. La morna, spesso, ricorda il blues, un suono che proviene dall’anima ferita dei neri d’America, scaturito dal dolore insopportabile della schiavitù subita e lenito, innalzato da una musica struggente e spirituale; una condizione condivisa dal popolo capoverdiano con i neri d’oltreoceano quando, nei secoli scorsi, Capo Verde era la base perfetta per lo scalo delle navi negriere in viaggio tra l’Europa e l’America per il commercio degli schiavi. La saudade, anch’essa incorporata nella morna, parla di uno stato d’animo questa volta vicino al sentire dei portoghesi davanti all’Oceano, una forma di malinconia, un sentimento affine alla nostalgia, alla solitudine: “una specie di ricordo nostalgico, affettivo, di un bene speciale che è assente, accompagnato da un desiderio di riviverlo o di possederlo. In molti casi una dimensione quasi mistica, come accettazione del passato e fede nel futuro. Un’espressione usata per esprimere la “malinconia per qualcosa che non si è vissuto” o “nostalgia del futuro”. Un termine intraducibile in altre lingue perché appartiene a quella particolare condizione. Noi potremmo dire la stessa cosa per la “napolitudine”, “pucundria”, in napoletano, per intenderci. Per questi motivi ascoltare Cesaria Evora rimanda alla musica sentimentale di Billie Holiday e al fado di Amalia Rodriguez, due artiste tra le più grandi di sempre. Cesaria Evora perfezionò il suo talento tanto da diventare una stella della musica internazionale. All’età di sedici anni conobbe un marinaio capoverdiano che le insegnò gli stili tradizionali della musica di Capo Verde, la coladera e la morna. Cominciò a cantare nei bar e negli hotel. Con l’aiuto di musicisti locali, la sua bravura le fece guadagnare il soprannome di “Regina della morna”, famosa a Capo Verde, ma relativamente sconosciuta all’estero. Molte delle più belle canzoni nei suoi  primi album le deve a uno zio musicista e autore di canzoni che usava lo pseudonimo di B. Leza (un gioco di parole su beleza, ossia “bellezza”). Poi, un esule musicista capoverdiano, che viveva in Portogallo le procurò alcuni inviti in quel Paese dove Cesaria diede una serie di concerti. In seguito José Da Silva, un francese di origine capoverdiana, la persuase ad andare a Parigi, dove registrò un nuovo album: “La diva aux pieds nus (La diva a piedi nudi) nel 1988. La canzone “Sodade” (saudade, in capoverdiano diventa sodade) segnò l’inizio della sua fama internazionale. All’età di 47 anni Cesaria Evora è una star internazionale acclamata da un vasto pubblico di ammiratori sempre più numerosi e dai più grandi artisti che accorrono ai suoi concerti a Parigi, a New York, in Francia, Svizzera, Belgio, Germania, Hong Kong, Italia, Canada, Senegal, Costa d’Avorio e Inghilterra. Famosi sono i suoi duetti con il grande musicista brasiliano Caetano Veloso. Nel 2011, ritiratasi per motivi di salute, muore all’età di settant’anni, nella sua isola di Capo Verde. 

Mary Titton


16 dicembre

PRIMO PIANO

“Stille Nacht” compie 200 anni.

Stille_Nacht_Jubilaeumskarte(Joseph Mohr e Franz Xaver Gruber)

Compie quest’anno 200 anni il canto natalizio più famoso del mondo, “Stille Nacht, heilige Nacht”, tradotto in più di 300 lingue e dialetti. La famosa canzone natalizia è stata, infatti, eseguita per la prima volta la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo. Le parole furono scritte nel 1816 dal prete salisburghese Joseph Mohr, allora assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr, nel Lungau, regione di Salisburgo, la musica fu composta due anni dopo da Franz Xaver Gruber, originario dell’Alta Austria, allora maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf. Il brano, scritto per due voci soliste, coro e chitarra, venne eseguito la notte del 24 dai suoi due autori, da Mohr che cantava la parte del tenore e accompagnava con la chitarra Gruber che intonava la parte del basso. Secondo la leggenda il ricorso alla chitarra fu dovuto al fatto che l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e la riparazione era impossibile in tempi brevi. Il territorio non era stato risparmiato dalle recenti guerre napoleoniche, devastazioni e miseria erano ovunque e i versi del giovane sacerdote volevano essere di conforto e speranza per la popolazione stremata. Lo spartito fu raccolto da Carl Mauracher, fabbricante di organi della Zillertal, che lo portò con sè in Tirolo, dove durante il Natale molti artigiani si mettevano in viaggio per vendere nei paesi vicini i loro prodotti. Da allora portarono con sè anche le note di “Stille Nacht”, in particolare le famiglie Strasser e Rainer fecero conoscere la melodia di Gruber in Europa e poi in tutto il mondo. Il canto natalizio, dichiarato nel 2011 patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO, in italiano è noto con il titolo “Astro del Ciel”, che non è una traduzione del testo tedesco, ma un testo originale scritto dal prete bergamasco Angelo Meli (1901-1970). Nel 2018, anno del bicentenario, la ricorrenza è celebrata in Austria con una serie di eventi, tra cui una mostra regionale articolata in 13 località – tutte quelle legate ai luoghi dove furono scritti i versi, dove fu composta la musica, dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto -, l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto e un musical, la cui prima si terrà il 24 dicembre 2018 nell sala dei concerti del Festival di Salisburgo.

14 dicembre

PRIMO PIANO

Antonio Megalizzi, il ventottenne giornalista italiano della radio universitaria Europhonica, rimasto gravemente ferito martedì sera a Strasburgo nell’assalto al mercatino di Natale, non ce l’ha fatta. Il ferimento mortale del giovane reporter è stato raccontato così a Repubblica da Caterina e Clara Rita, due amiche che si trovavano con lui, martedì sera. “Stavamo camminando tutti e tre insieme a pochi passi dalla cattedrale di Notre Dame, quando ho sentito dei colpi secchi. Mi sono girata. Ho visto un uomo che sparava, era vicino a noi. Si era appoggiato al muro e ci aveva puntato la pistola alla testa. Le persone fuggivano. Anche noi abbiamo cominciato a scappare e ci siamo rifugiate in un bar. Solamente allora Clara ed io ci siamo accorte che Antonio non c’era più, probabilmente era caduto e l’avevamo perso.” Le condizioni di Megalizzi erano da subito sembrate disperate. Raggiunto alla testa da una pallottola, era inoperabile poiché il proiettile, sparato da un paio di metri di distanza da Cherif Chekatt, lo aveva colpito alla base del collo, a pochi millimetri dal midollo spinale. Le speranze di poterlo salvare si erano affievolite nelle ultime ore. Gli specialisti delle strutture di Neurochirurgia dell’ospedale Molinette e di Rianimazione dell’ospedale Cto “Città della Salute” di Torino avevano offerto una consulenza per la valutazione del quadro clinico di Megalizzi. Purtroppo è stato tutto inutile. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito “una inaccettabile tragedia” la morte del giovane e ha espresso la sua “profonda tristezza”, dicendo: “Sono particolarmente vicino al dolore della famiglia, della fidanzata e degli amici del giovane reporter italiano vittima dell’odio criminale e del fanatismo propugnato dal sedicente Stato islamico.” Nel 2015 Megalizzi aveva pubblicato “Cielo d’acciaio”, il racconto di un missile che programmato come arma di morte si chiede perché distruggere, espressione della visione aperta, libera, anti-militarista del giovane giornalista.


12 dicembre

PRIMO PIANO

Morto “Sigaro” della Banda Bassotti.

È morto ieri, martedì 11 dicembre, Angelo Conti, detto “Sigaro”, chitarrista e frontman della Banda Bassotti, gruppo musicale molto conosciuto a Roma. Conti si è spento a 62 anni nella sua abitazione dopo una breve malattia, ne ha dato notizia la stessa Banda Bassotti, che ha postato sulla propria pagina facebook la foto del chitarrista, accompagnata dalla scritta: “Chi lotta non sarà mai schiavo”. La Banda Bassotti, che prende il nome dal celebre trio di ladri di Paperino di Carl Barks, è stata una delle storiche formazioni romane di ska punk, conosciuta per le sue canzoni antifasciste e politicamente impegnate.  La Banda nasce nel 1981 nei cantieri romani, dove un gruppo di ragazzi organizza iniziative di solidarietà nei confronti di popoli oppressi come quello palestinese, quello nicaraguense o quello salvadoregno con la costruzione di scuole e alloggi. Nel 1987 i ragazzi decidono di formare, all’interno di questa “Brigata di Lavoro”, una band musicale che si ispiri ai grandi gruppi punk rock e ska socialmente impegnati, in primis i Clash e i The Specials. In tutti i loro album, sempre socialmente impegnati, sono presenti i temi della classe operaia e delle sue lotte sociali, da cui nascono “Figli della stessa rabbia”, e più tardi, nel 1994 il mini CD “Bella Ciao”, che fu suonato insieme ai pezzi precedenti in Salvador in occasione delle prime elezioni libere. Negli ultimi anni il gruppo romano ha suonato in Venezuela appoggiando Chavez, in Messico, a Buenos Aires, Cuba, Parigi, Praga, Madrid, Berlino e in molte altre città europee. Per il suo impegno politico i concerti della band sono stati più volte oggetto di aggressioni di matrice neofascista, tra cui quella avvenuta il 28 giugno 2007 al termine di un concerto nei pressi di Villa Ada a Roma, dove un nutrito gruppo di giovani di estrema destra fece irruzione tra la folla inneggiando al duce e ferendo con bastoni e armi da taglio due spettatori. Angelo Conti era molto conosciuto a Roma e non solo, la sua musica e i suoi ideali lo avevano messo in contatto con i principali movimenti italiani e stranieri, con la Banda suonava spesso nei centri sociali, alternando il lavoro di operaio con quello di musicista. Sigaro in un’intervista di qualche anno fa aveva spiegato: “Le nostre canzoni raccontano la realtà che viviamo e che cerchiamo di cantare insieme al mondo di cui facciamo parte. Continuiamo a lavorare in cantiere, siamo gli sfruttati. Siamo un gruppo di lavoratori comunisti che cercano di raccontare come si combatte l’ipocrisia e l’ingiustizia. Siamo anziani, è vero. Il nostro spirito però resta giovane.”

DALLA STORIA

La strage di Piazza Fontana. La “madre di tutte le stragi”.

image003(I funerali delle vittime)

La data del 12 dicembre 1969 è drammaticamente legata all’esplosione della bomba nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano che uccise 17 persone e ne ferì 88. Questa strage non fu la più atroce tra quelle che hanno insanguinato l’Italia negli anni successivi ma, essendo la prima in tempo di democrazia, ammutolì gli italiani per la ferocia e ne sfregiò la coscienza al punto che si può parlare di un prima e di un dopo piazza Fontana. Il documentario televisivo “Blu notte”, di Carlo Lucarelli e che qui viene riportato attraverso la scrittura, è di particolare interesse perché ricostruisce attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e i commenti dello scrittore Giorgio Boatti, intervistato nel programma, il contesto storico dell’epoca e l’atmosfera che permeava quel tragico giorno, “freddo e piovoso, a ridosso del Natale”. Il 1969 era un anno particolare, un anno in rapidissima evoluzione: da poco si erano conosciute le lotte sociali, le lotte operaie, l’organizzazione sindacale, il gusto della conflittualità e del confronto, il gusto di veder rispettati i diritti sul posto di lavoro e nella scuola. Il cambiamento provocava anche molti scontri e violenti conflitti tra le parti in una forma, si potrebbe dire, fisiologica nel processo di trasformazione nominato “autunno caldo”. Nelle sale cinematografiche si proiettava “Easy Rider”, di Dennis Hopper, “Un uomo da marciapiede”, interpretato da Dustin Hoffman e, tra i dischi più venduti c’era una canzone provocatoriamente sensuale, “Je t’aime moi non plus”, che era stata proibita dalla Magistratura. A teatro c’era Dario Fo con “Mistero Buffo” che, insieme a Franca Rame, stava organizzando il controfestival di Sanremo. Un Paese che si scrollava di dosso un vestito molto stretto di autoritarismo pervasivo nella scuola, nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni dello Stato. Le questure erano rette da una prevalenza di uomini che provenivano da una cultura formata sotto il passato regime, il regime fascista, una struttura ancora autoritaria nel modo di pensare. Il ’68 e il ’69 sono gli anni in cui si contestava la pesantezza retorica di un passato che andava superato e innovato attraverso idee democratiche e libertarie, nel rispetto della persona. Si stava affermando uno spirito comunitario e consolidando una presa di coscienza critica e partecipativa in difesa del diritto all’uguaglianza, del rispetto del diverso e della parità di genere. Stava nascendo un’Italia giovane, vitale, curiosa che irrompeva in nuovi spazi di democrazia, che amava il divertimento, sperimentare, viaggiare, la cultura, il tempo libero e tutta una serie di sfide in cui c’era un intreccio tra stati sociali diversi di conoscenza reciproca. Come disse, in seguito, l’attore Daniele Biacchessi, in un suo spettacolo teatrale: “Italiani felici, immortali, allegri, innocenti”. Un’Italia che stava fiorendo, sbocciando a una reale democrazia. Questo “sbocciare” conosce improvvisamente il “gelo” di quella strage, l’innocenza che animava lo spirito del popolo italiano viene, di colpo, violentato dalla barbarie, sleale ed infida, di chi sa di colpire al cuore. La strage di piazza Fontana viene indicata come la “madre di tutte le stragi”; da lì in poi porterà a un periodo di “terrore” a quella che, da allora, verrà definita la “strategia della tensione”. Non dunque un “atto” dimostrativo”, ma una ben precisa pianificazione terroristica, per bloccare l’avanzata delle sinistre, neutralizzare le contestazioni e i dissensi, stabilizzare la posizione dell’Italia all’interno dell’Alleanza Atlantica; spostare, in senso autoritario, l’asse della politica, magari con un colpo di Stato. La Strategia della tensione è “una diramazione di un più ampio disegno della guerra non ortodossa contro l’insurrezione comunista, contro i disegni rivoluzionari ai quali si doveva rispondere con mezzi controrivoluzionari, ignari di ogni regola. “In Italia, essa ha significato cercar di far collassare la democrazia italiana per riplasmarla creando un nuovo panorama attraverso il terrore colpendo innocenti”. Quegli innocenti subirono una morte atroce. Il prefetto Achille Serra, allora giovane funzionario appena arrivato a Milano, giunto sul posto, intervistato, commentò che mai avrebbe potuto togliere da davanti agli occhi le immagini dei morti e dei feriti: gente divisa in due, un uomo metà corpo e metà liquido, braccia e gambe saltate nei posti più impensabili, addirittura una gamba al 2° piano. La bomba, che doveva scioccare e terrorizzare la coscienza collettiva, conteneva sette chili di tritolo ed esplose in un pomeriggio di venerdì, alle 16.37, nella sala centrale della banca affollata di gente. Quel giorno a Milano c’era il mercato che riuniva allevatori, agricoltori, commercianti di mangime di tutta la provincia di Milano che stavano completando, in banca, transizioni, contrattazioni, le ultime incombenze. In banca c’era anche un bambino di dieci anni che fortunatamente i medici riuscirono a salvare, ma perse una gamba. Le indagini si succedettero negli anni con imputazioni a carico, in un primo tempo, di anarchici (Giuseppe Pinelli, interrogato per tre giorni in Questura, innocente, alla fine “volò” giù dalla finestra). In seguito vennero indagati neofascisti, servizi deviati e alla fine, gli imputati furono condannati per strage ma in certi casi vennero assolti o usufruirono di prescrizioni evitando di scontare ogni pena. Contemporaneamente quel giorno scoppiarono altre bombe, provocando a Roma 16 feriti alla Banca Nazionale, in via San Basilio, e all’Altare della Patria. L’Italia entrava in una nuova fase storica, quella dei cosiddetti “anni di piombo”, nel succedersi delle stragi e dei misteri italiani. In quasi cinquant’anni di processi, la verità sulla strage di piazza Fontana non è emersa e i colpevoli non si conoscono. La stessa cosa vale anche per le altre stragi, altri delitti e fatti criminali di matrice politica e non che si sono succeduti in seguito.

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Mary Titton


11 dicembre

PRIMO PIANO

Strasburgo: attentato nei mercatini di Natale, 3 morti e 13 feriti.

Intorno alle 20:00 di martedì 11 dicembre, il terrore è tornato in Francia, nei mercatini di Natale di Strasburgo, cuore dell’Europa e sede del Parlamento europeo: un uomo, identificato poi nel 29enne Chérif Chekatt, nato a Strasburgo, ma di origine marocchina, già segnalato con il “fichè S” per radicalizzazione, ha sparato sui passanti in rue Orfèvres, uccidendo 2 persone e ferendone 13, di cui 6 in maniera grave. Si è appreso, poi, che versa in gravi condizioni anche un giovane giornalista radiofonico italiano, Antonio Megalizzi, trentino, colpito da un proiettile alla testa. Nel panico generale il killer è fuggito a piedi e si è barricato nel vicino quartiere di Neudorf, dove per ore la polizia lo ha braccato, poi, dopo uno scontro con le forze dell’ordine, in cui sarebbe rimasto ferito ad un braccio, è riuscito a scappare in taxi ed è ancora in fuga. L’Europarlamento, a pochi km di distanza, impegnato nella sessione plenaria, è stato blindato, gli eurodeputati, tra cui alcuni italiani, hanno ricevuto l’ordine di rimanere all’interno dell’edificio e solo dopo molte ore sono stati accompagnati dalla polizia ai loro alberghi. Le persone e anche molti politici italiani, durante quei minuti di terrore, sono rimasti bloccati all’interno dei ristoranti e dei pub della zona, mentre il Comune di Strasburgo ha invitato i cittadini a restare chiusi in casa, confermando la sparatoria nel centro della città. L’attentatore, nato il 4 febbraio 1989 nel quartiere di Koenigshoffen di Strasburgo, era già stato condannato 20 volte per reati minori: nel 2011 aveva scontato due anni in Germania per furto con scasso, era poi stato schedato come elemento “radicalizzato“, come conferma la Prefettura locale, spiegando che il suo dossier era segnato con la “S” che indica, appunto, i radicalizzati islamici pericolosi. Conosciuto anche dalle autorità svizzere, era riuscito ad evitare un arresto già la mattina prima dell’attacco, quando la gendarmeria aveva fatto una perquisizione a casa sua. Il ministro Castaner, inviato immediatamente a Strasburgo per seguire da vicino gli eventi, ha annunciato di aver elevato il livello di allerta, dicendo che sono stati rafforzati i controlli alle frontiere e ai mercatini di Natale di tutto il Paese. 


10 dicembre

DALLA STORIA

Emily Dickinson. Figura imponente della letteratura americana, la poetessa spaziava dall’arte dei sentimenti delle piccole cose ai grandi temi dell’anima.

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(Il famoso dagherrotipo che, a tutt’oggi, resta l’unica immagine certa di Emily Dickinson, a parte il ritratto di Otis Bullard, del 1840)

Emily Elizabeth Dickinson è considerata una delle poetesse più sensibili di tutti i tempi e una delle più rappresentative del XIX secolo. Nacque il 10 dicembre 1830 ad Amherst, una cittadina del Massachusetts, da una famiglia borghese di tradizioni puritane, i Dickinson, che erano conosciuti per il sostegno fornito alle istituzioni scolastiche locali. Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson, era uno dei fondatori dell’Amherst College, mentre suo padre ricopriva la funzione di legale e tesoriere dell’Istituto, oltre a importanti incarichi presso il Tribunale Generale del Massachusetts, il Senato dello Stato e la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. I suoi studi non furono regolari: durante gli anni delle scuole superiori decise, di sua spontanea volontà, di allontanarsi dal College Femminile di Mount Holyoke onde evitare di professarsi pubblicamente cristiana. Ebbe poche amicizie e visse la maggior parte della propria vita ad Amherst, nella casa dove era nata e dove morì per nefrite il 15 maggio 1886, all’età di 55 anni. La giovane poetessa amava la natura, ma era costantemente ossessionata dalla morte, vestiva solo di bianco in segno di purezza. Si innamorò di un pastore protestante, a cui dedicò molte sue opere, ma il suo rimase un amore platonico. Gran parte delle sue opere coglie non solo i piccoli momenti di vita quotidiana, ma anche i temi e le battaglie più importanti che coinvolgevano il resto della società: più della metà delle sue poesie fu scritta durante gli anni della Guerra di secessione americana. Quando aveva venticinque anni decise, dopo un breve viaggio a Washington, di estraniarsi dal mondo e si rinchiuse nella propria camera al piano superiore della casa paterna, anche a causa del sopravvenire di disturbi nervosi e di una fastidiosa malattia agli occhi e non uscì di lì neanche il giorno della morte dei suoi genitori. Credeva che con la fantasia si riuscisse a ottenere tutto e interpretava la solitudine e il rapporto con sé stessa come mezzi per la felicità. Prima della sua morte vennero pubblicati solo sette testi, al momento della morte, la sorella scoprì nella camera di Emily 1775 poesie scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo contenuti tutti in un raccoglitore. Alcune caratteristiche della sua poesia (le digressioni enfatiche, l’uso poco convenzionale delle maiuscole, le lineette telegrafiche, i ritmi salmodianti, le rime asimmetriche, le voci multiple e le elaborate metafore), all’epoca ritenute inusuali, sono ora molto apprezzate dalla critica e considerate aspetti particolari e inconfondibili del suo stile. Il suo amore per la natura, per la neve, gli alberi, l’acqua, gli uccelli, è presente in molte sue poesie, altro tema ricorrente è la morte, come in “Tie the Strings to my Life, My Lord” (“Annoda i lacci alla mia vita, Signore”):

Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,

Poi, sarò pronta ad andare!

Solo un’occhiata ai Cavalli

In fretta! Potrà bastare!

Addio alla Vita che ho vissuto

E al Mondo che ho conosciuto

E Bacia le Colline, per me, basta una volta

Ora – sono pronta ad andare

Un altro esempio della sua lirica è:

Se potrò impedire a un cuore di spezzarsi

Se potrò impedire a un Cuore di spezzarsi

Non avrò vissuto invano

Se potrò alleviare il Dolore di una Vita

O lenire una Pena

O aiutare un Pettirosso caduto

A rientrare nel suo nido

Non avrò vissuto invano.

image001(Emily Elizabeth, Austin and Lavoinia Dickinson in un dipinto di Otis Allen Bullard, circa 1840 che ritrae i tre fratelli da piccoli e che la poetessa conservava nella sua camera da letto. Oggi, la casa in cui visse quasi interamente in clausura e dove morì, è diventata un museo, meta costante di visitatori)

Mary Titton


9 dicembre

PRIMO PIANO

Già visibile in cielo la cometa di Natale.

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La cometa di Natale è già visibile a occhio nudo. Si chiama 46P/Wirtanen e con la sua chioma verde è possibile già vederla nel cielo dai luoghi più bui e lontani dalle luci delle città. E’ la cometa che ci accompagnerà fino all’inizio di gennaio e che per questo è già stata ribattezzata “cometa di Natale 2018”. La 46P/Wirtanen si può ammirare anche in Italia, nelle prime ore della serata, vicino alla costellazione di Eridano. Nei prossimi giorni sarà sempre più vicina alla Terra e sarà ancor più visibile, raggiungendo il massimo dello splendore fra il 12 e il 16 dicembre. La potremo scorgere nel cielo proprio vicino alle Pleiadi, le famose sette stelle della costellazione del Toro, a circa 20 gradi sull’orizzonte, guardando a sud-est. La sua luminosità, in aumento in questi giorni, la renderà visibile pure agli osservatori meno esperti e sarà tale da illuminare i nostri cieli per tutto il periodo delle feste natalizie e probabilmente fino all’Epifania. Le caratteristiche di questa favolosa cometa sono due: il colore verde e la mancanza della coda, in realtà la coda è presente, ma per uno sfortunato allineamento con la Terra sarà nascosta, trovandosi dietro il nucleo. Il cielo del mese di dicembre 2018 ci riserva anche il noto fenomeno della SUPERLUNA, che sarà visibile il giorno 22, con maggiore intensità alle 17:49. Sarà visibile anche il pianeta Venere, il grande protagonista del cielo nella seconda metà del mese, che ci accompagnerà sempre più luminoso fino a 4 ore prima dell’alba.

Auguri Giorgio!


8 dicembre

PRIMO PIANO

Ancona: a Corinaldo panico nella discoteca Lanterna azzurra, 6 morti.

Ansa Corinaldo-2(Foto ANSA)

Sei persone sono morte travolte dalla calca durante un fuggi fuggi generale nella discoteca “Lanterna azzurra” a Madonna del Piano di Corinaldo, provocato, secondo alcune testimonianze, dall’uso di uno spray urticante. Le vittime sono cinque minorenni: due ragazze di 14 anni di Senigallia, un ragazzo di 16 anni di Ancona, un ragazzo e una ragazza di 15 anni di Fano e la madre di una ragazzina di 11 anni, che era lì insieme al marito per accompagnare la figlia, anche loro di Senigallia. I feriti sono 120, tutti con traumi e lesioni da schiacciamento, sette sono in pericolo di vita, in coma farmacologico. Nel locale c’erano almeno un migliaio di persone, arrivate per ascoltare un concerto di Sfera Ebbasta, trapper popolare tra i giovanissimi, che dopo la tragedia ha espresso su Instagram il suo cordoglio: “Sono addolorato” ha scritto, defindendo “pericoloso e stupido usare lo spray”. La tragedia si è verificata all’1:00 di notte nella discoteca, affollata anche per la festa organizzata da cinque Istituti superiori di Senigallia e promossa nei giorni precedenti via social. L’inchiesta si sta muovendo in due direzioni: da un lato s’indaga su chi ha spruzzato lo spray al peperoncino; dall’altro sul sovraffollamento e sulle misure di sicurezza della discoteca. Secondo i primi accertamenti pare che siano stati venduti più di 1000 biglietti, mentre la capienza della discoteca è di circa 800 posti. Alcuni dei feriti, ricoverati all’ospedale di Torrette, hanno raccontato di avere sentito un odore acre e di essersi precipitati verso una delle porte di emergenza. Il locale, secondo una prima ricostruzione, ha 3 uscite di sicurezza: una di queste dà su un ponticello che attraversa un piccolo fossato e collega la discoteca al piazzale del parcheggio. La tragedia è avvenuta in quel punto: quando i ragazzi sono usciti di corsa dal locale, decine di loro si sono accalcati per passare sul ponticello, provocando il cedimento di una balaustra. I primi ragazzi sono così finiti nel fossato, un metro sotto il ponticello, e sono stati schiacciati da tutti gli altri. “C’era un’uscita di sicurezza con scale che hanno ai lati delle ringhiere e delle siepi: stiamo verificando perché hanno ceduto alla pressione dei ragazzi, che sono caduti per circa 1 metro e mezzo”, ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, Cristian Carrozza, che con gli specialisti del Ros sta operando alla ricerca di elementi utili a ricostruire quanto è accaduto. Il Questore di Ancona ha detto a Rainews24: “Hanno ceduto i parapetti che si trovavano all’uscita. Le persone sono cadute e sono state schiacciate dalla folla.” Il locale è stato sequestrato. Il premier Conte, recatosi sul posto, addolorato e commosso ha voluto far sentire la sua vicnanza alle famiglie nel dolore, ma ha anche detto: “La magistratura compierà accertamenti, ma al Governo spetta il compito di capire e subito le prime ragioni, a caldo, per prevenire e fare in modo che non accada più. Non voglio sostituirmi alla magistratura, ma rivolgere un accorato appello a tutti coloro che gestiscono locali pubblici: devono assolutamente adottare tutte le cautele con grande senso di reposponsabilità per prevenire tragedie del genere.” Anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha commentato i fatti di Corinaldo parlando di “una tragedia che lascia impietriti … Non si può morire così!”


7 dicembre

DALLA STORIA

7 dicembre 1968: la Contestazione alla Scala.

“La sera del 7 dicembre 1968 un gruppo di due-trecento manifestanti, sulla spinta dell’eccidio di Avola, si presentano di fronte al teatro La Scala di Milano. Solo pochi giorni prima, il 2 dicembre, ad Avola, in Sicilia, la polizia spara sui braccianti che chiedono il rinnovo del contratto, con un aumento del salario del 10% e nuove regole nell’organizzazione del lavoro che gli agrari si rifiutano di concedere. I numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi dagli agenti uccidono due braccianti: Giuseppe Scibilia di 47 anni e Angelo Sigona di 28 e feriscono gravemente molti altri. Nonostante la sera stessa il telegiornale releghi la notizia in secondo piano, così come molti giornali il giorno successivo, l’eccidio di Avola provoca un’ondata di indignazione che coinvolge tutta la penisola. Gli operai di molte fabbriche del nord proclamano lo sciopero in solidarietà con le vittime e altrettanto fanno i lavoratori siciliani di tutte le categorie. Anche gli studenti, universitari e medi, si sentono direttamente colpiti da quanto è accaduto e organizzano cortei in numerose città.

image005(Il corteo di protesta dei braccianti di Avola)

A Milano, il 7 dicembre, si festeggia il patrono della città e come prevede la tradizione è il giorno d’inaugurazione della stagione lirica del teatro. Viene rappresentato il “Don Carlos” di Giuseppe Verdi ma, sempre secondo la tradizione, l’importanza della serata risiede, più che in quello artistico, nel suo significato mondano. È presente infatti un numero elevato di rappresentanti di primo piano del mondo della politica, dell’imprenditoria e della cultura. La vera particolarità della serata, a differenza degli anni precedenti, risiede però nella presenza davanti al teatro dei manifestanti. Sono in gran parte studenti che hanno partecipato all’occupazione dell’Università Statale, ma vi sono anche studenti dell’Università Cattolica, studenti medi, alcuni operai, un gruppetto di anarchici e singoli appartenenti a formazioni della sinistra extraparlamentare. Vogliono contestare i rappresentanti del potere ed evidenziare la contraddizione tra l’esibizione di ricchezza (abiti vistosi, pellicce, gioielli) e le difficoltà economiche in cui si trova una parete rilevante della popolazione; vogliono anche sfruttare il palcoscenico che i media mettono involontariamente a loro disposizione.

image002(L’interno del teatro La Scala)

Di fronte a loro, nella piazza del teatro e nelle vie limitrofe, è schierato un numero rilevante di poliziotti e carabinieri, circa 2.500, incaricati di tenere i manifestanti a distanza dall’ingresso del teatro. La contestazione non si prefigge però l’obiettivo di giungere a uno scontro violento con le forze dell’ordine o di entrare nel teatro. I manifestanti si limitano infatti a gridare slogan (fanno la loro apparizione “Borghesi, ancora pochi mesi” e “Lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”) e a lanciare uova e vernice contro le pellicce e i vestiti da sera degli invitati all’inaugurazione. Al tempo stesso, per stemperare la tensione ed evitare lo scontro Mario Capanna, uno dei leader del movimento studentesco di Milano, inizia a rivolgersi al megafono agli agenti schierati. Cerca di spiegare le ragioni del movimento studentesco e di far capire che la scuola è solo per i ricchi. Soprattutto esprime solidarietà ai poliziotti e ai carabinieri, che in gran parte provengono da famiglie povere del sud e impossibilitati a proseguire gli studi, non hanno potuto far altro che lasciare la propria terra per trovare un lavoro. Gli agenti e gli studenti che si mobilitano, dice Capanna, stanno dalla stessa parte, mentre il comune nemico sono proprio quelli che si trovano dentro la Scala. Il giorno successivo i giornali danno grande risalto all’accaduto. Il “Corriere della sera” parla di “gazzarra davanti alla Scala” e di “tentativi sediziosi dei dimostranti”. Anche la magistratura reagisce alla contestazione e denuncia Capanna e altri due manifestanti per istigazione di militari alla disubbidienza e all’insubordinazione”. (Alessio Gagliardi da “Le voci del ‘68”. Editori Riuniti).

image003   (Mario Capanna, al megafono, si rivolge agli agenti schierati davanti alla Scala)

Mary Titton


5 dicembre

PRIMO PIANO

Al Quirinale il Presepe ambientato nei Sassi di Matera.

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Il Presepe della Basilicata, realizzato dall’artista Franco Artese, sarà ospitato nella sala D’Ercole del Quirinale dal 12 dicembre al 5 gennaio 2019. L’opera, che si estende su un’area di 40 metri quadrati con un’altezza di circa 6 metri, è realizzata in polistirene, pietra, legno e ferro e ha al suo interno circa 120 personaggi in terracotta. Come spiega l’Apt della Basilicata,“ Il presepe di Artese, è il racconto della nascita di Gesù nel contesto dei Sassi di Matera, un paesaggio straordinario, che Pasolini scelse per il suo “Vangelo”, affermando di aver ritrovato qui “i volti e i luoghi intatti che in Palestina erano andati perduti. Un’opera capace di raccontare, insieme al mistero della nascita, la storia, la cultura e il paesaggio di una Terra ricca di naturale spiritualità, millenario crocevia di popoli e tradizioni, che oggi si offre ai visitatori per sorprenderli in un viaggio senza tempo fra chiese rupestri, abbazie, santuari, cattedrali, borghi, in cui rivive la storia dell’umanità intera. Sulla scena si vedranno “quadri” che rappresentano diversi momenti della vita quotidiana, in un ambiente semplice e laborioso, che attinge a immagini tratte da riti e tradizioni della civiltà rurale lucana.” L’allestimento in una delle sale storiche del Palazzo del Quirinale, chiarisce ancora l’Azienda di promozione turistica della Basilicata, “ha suggerito la creazione di una scena avulsa dal contesto abituale ma piuttosto simbolica di un fondamentale e costantemente auspicato legame tra la comunità lucana e lo Stato, proponendo il ricordo di un importante evento per la Basilicata, la visita del presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, fatta su sollecitazione dell’amico Giustino Fortunato e di altri parlamentari lucani, nel settembre del 1902”. Lo scenario dei Sassi di Matera, formati da edifici rupestri costruiti nelle cave naturali della Murgia materana e abitati fin dal Paleolitico, dichiarati nel 1993 patrimonio dell’umanità UNESCO, è particolarmente suggestivo e Franco Artese, l’artista originario di Grassano, che da 40 anni realizza i suoi lavori quasi sempre nella cornice degli antichi rioni di tufo, lo ha scelto ancora una volta per il presepe monumentale al Quirinale, dopo averlo proposto nel 2012 in piazza San Pietro, con l’augurio “che sia un anticipo del grande evento che nel 2019 vedrà proprio Matera alla ribalta internazionale come capitale europea della cultura”.  

DALLA STORIA

Il mondo esterno come specchio. (Chi modifica se stesso, modifica il mondo).

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La vera rivoluzione è cambiare se stessi.

“So bene che questo modo di considerare risulta inizialmente molto insolito, tuttavia l’abitudine a certe affermazioni non deve necessariamente essere considerata il criterio della loro esattezza. Il cosiddetto mondo esterno è in realtà uno specchio in cui ognuno vive se stesso. Non potrà mai vedere qualcosa di diverso da se stesso, in quanto dalla realtà generale vera, oggettiva, uguale per tutti, filtra solo quello per cui ha personalmente un’affinità. Chi non è consapevole di questo fatto, finisce per commettere errori di comportamento. Quando la mattina mi guardo allo specchio e in questo specchio vedo un viso che mi guarda in modo poco amichevole, posso strapazzare per bene questo viso per la sua poca cordialità. Il viso nello specchio non si lascia per questo impressionare, anzi invia altrettanti insulti. In questo modo è facile arrabbiarsi sempre di più finché non si comincia a colpire il viso incriminato e lo specchio va in frantumi. Nessuno però si comporterà in questo modo con lo specchio del bagno, perché siamo ben consapevoli della sua funzione di specchio. Tuttavia quasi tutti gli uomini si comportano nella vita quotidiana nel modo esterno, contro i vicini o i parenti indisponenti, contro le ingiustizie dei superiori, contro la società e altro ancora. Tutti in realtà combattono soltanto contro se stessi. Per questo ovunque ci sono sempre e soltanto dei perdenti, mai dei vincitori, perché contro chi si potrà mai vincere in una battaglia allo specchio? La legge di risonanza e dello specchio vale naturalmente sia in senso positivo che negativo. Se nelle nostre considerazioni citiamo quasi esclusivamente esempi negativi, è perché è qui che si produce il dolore umano. Gli aspetti positivi della vita vengono facilmente accettati da tutti. Se l’uomo si rende, conto della funzione di specchio del mondo che lo circonda, si procura una inaspettata fonte di informazione. Anche se nello specchio si può vedere sempre e soltanto se stessi, noi usiamo lo specchio perché può mostrarci parti di noi stessi che senza il suo aiuto non potremmo mai scorgere. Allo stesso modo, l’osservazione del proprio mondo esterno e degli eventi coi quali si viene confrontati è uno dei metodi migliori per conoscere se stessi, perché tutto quello che nel mondo esterno disturba indica semplicemente che non si è conciliati in se stessi col principio analogo. Questo l’uomo se lo sente dire poco volentieri. Tuttavia il fatto che uno si irrita per l’avarizia dell’altro, indica con certezza che è avaro anche lui. Altrimenti la cosa non potrebbe disturbarlo. Se è generoso, che gli importa dell’avarizia degli altri? Potrebbe prenderne semplicemente atto, senza irritarcisi e senza sentirsi disturbato. Alla semplice osservazione, le cose sono così come sono. L’erba è verde: naturalmente potrebbe anche essere rossa, però è verde e questo fatto avrà un suo significato. Il verde dell’erba non disturba nessuno, perché non suscita nell’uomo alcuna problematica. Il fatto che al mondo esista la guerra è una realtà come il verde del prato. La guerra però eccita gli animi; e così si comincia a lottare per la pace. Si “lotta” per tutto: per la pace, la giustizia, la salute, l’umanità. Sarebbe molto più semplice e concreto voler stabilire la pace per se stessa. Questa è una delle chiavi più potenti in mano a chi sa usarla. Ognuno è in grado di modificare e configurare il mondo in base alle proprie idee, senza combattere e senza esercitare la forza. L’uomo deve solo modificare se stesso, ed ecco che tutto il mondo si modifica con lui. Se vedo allo specchio quel viso scortese, non ho che da sorriderne, e lui con certezza risponderà al sorriso! Tutti vogliono sempre modificare il mondo, ma nessuno applica i mezzi capaci di farlo con successo. Chi modifica la propria affinità, riceve un programma nuovo, vede un mondo diverso. Ogni persona vive nel suo “mondo”. Di questi mondi ce n’è tanti quanti sono gli uomini. Tutti questi mondi sono solo parziali aspetti del mondo reale, che segue leggi ferree e non si fa influenzare dalle pretese umane e di cambiamento. Il mondo esterno è la più fidata fonte di informazione sulla propria personale situazione, quella nella quale ci si trova. Se l’uomo impara a chiedersi il senso di tutto ciò che gli capita, non solo imparerà a conoscere meglio se stesso e i propri problemi, ma scoprirà anche le possibilità di cambiamento. Ogni volta che gli capita qualcosa dovrebbe chiedersi subito: “Perché questo succede proprio a me, proprio adesso?”. Finché non ci si abitua a queste domande, sarà difficile darsi una risposta. Anche qui però è l’esercizio che fa il maestro, e presto si impara a individuare il senso degli eventi e a porli in rapporto con se stessi. La psicopatologia conosce il fenomeno per cui specie gli schizofrenici tendono erroneamente a riferire a se stessi tutto ciò che accade al mondo. Questo polo negativo ha un suo polo positivo: tutto ciò che avviene ha un valore per chi lo vive. Più consapevole diviene l’uomo, più impara a dare un ordine alle cose, a chiedersi quali informazioni esse possono fornire. Di importanza fondamentale è restare in armonia con tutto ciò che è. Se questo non riesce, se ne cerchi il motivo in se stessi. L’uomo è il microcosmo e di conseguenza un’immagine esatta del macrocosmo. Tutto ciò che percepisco all’esterno, lo ritrovo anche in me. Se dentro di me sono in armonia coi diversi aspetti della realtà, anche i loro rappresentanti nel mondo esterno non possono turbarmi. Se avviene qualcosa che per me è sgradevole, devo considerarlo una sollecitazione e considerare dentro di me anche questo aspetto. Tutte le persone cattive e gli eventi sgradevoli sono in realtà solo messaggeri, mezzi per rendere visibile l’invisibile. Chi capisce questo ed è disponibile ad assumersi personalmente la responsabilità del proprio destino, perde ogni paura del caso che lo minaccia. L’occupazione principale del nostro tempo è la prevenzione e l’assicurazione contro le eventualità del destino. I sistemi assicurativi hanno lo scopo di impedire o modificare gli attacchi del destino attraverso misure esterne. Dietro a tutte queste precauzioni si cela la paura. Solo quando l’uomo è disponibile a porsi responsabilmente di fronte al proprio destino, perderà la paura. Non si può essere uccisi per errore, diventar ricchi per errore. Entrambe le cose possono verificarsi solo quando si è maturi  per esse e si possiede la corrispondente affinità. Gli uomini tendono alla ricchezza e trascurano di maturare in vista di questa ricchezza. Chi ha interessi esoterici cerca in tutto il mondo il guru giusto e i sistemi migliori, e dimentica che è il guru stesso ad andare da chi è maturo. Basta aver veramente bisogno di una cosa, e la si avrà. Molti l’avranno già sperimentato spesso nelle piccole cose. A un certo punto nella vita si viene improvvisamente confrontati con un tema la cui esistenza fino a quel momento non si era tenuta in nessuna considerazione. Per esempio si fa la conoscenza di uno specialista della “vita amorosa delle formiche”. Ci si stupisce che esistano persone che si interessano a un tema così particolare, poi da altre persone ci viene regalato “per caso” un libro proprio su questo tema. In una rivista ci capita di leggere un articolo sullo stesso argomento e si scopre anche che un buon conoscente, che si frequenta da anni, si occupa anche lui di questo tema, ma non ne aveva mai parlato prima. Dietro a questa “catena di casi”, che i più avranno in qualche modo già sperimentato, non si nasconde altro che la legge di affinità, o di risonanza. In questo modo si ottiene con sicurezza quel libro, quella informazione, quel contatto di cui si ha bisogno, se veramente se ne ha bisogno e si è maturi per quell’incontro. Senza questa necessaria maturità tutte le nostre ricerche nel mondo esterno non  serviranno a niente. Chi modifica se stesso, modifica il mondo. Il questo mondo non c’è niente da migliorare. Molto invece c’è da migliorare in se stessi. La via esoterica (la ricerca interiore) è una via di continua trasformazione, di nobilitazione del piombo a oro. Il saggio è in armonia con tutti i piani dell’essere e vive quindi nel migliore di tutti i mondi possibili. Egli vede la realtà e riconosce che tutto ciò che è, è buono. Non cerca più la felicità, perché l’ha trovata in se stesso”.

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FONTE: “Il destino come scelta”, di Thorwald Dethlefsen. Edizioni Mediterranee.

Mary Titton


4 dicembre

PRIMO PIANO

Scoperto test per diagnosticare in pochi minuti i tumori.

La firma molecolare comune a molte forme di tumore è scritta nel Dna che le cellule tumorali liberano nell’organismo quando muoiono. Secondo quanto emerge dallo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications da un gruppo dell’Università australiana del Queensland, coordinato da Matt Trau, la sua identificazione renderà la diagnosi precoce più rapida. Il Dna dei tumori può infatti essere trovato in pochi minuti sia nel sangue sia negli altri tessuti prelevati con una biopsia tradizionale, grazie a nanoparticelle d’oro. I ricercatori hanno analizzato, in particolare, alcuni gruppi molecolari che, come etichette, indicano quali geni nelle cellule sono accesi e quali spenti, hanno così notato che, rispetto alle cellule sane, in quelle tumorali queste etichette sono concentrate in punti specifici e che tumori diversi, come quelli di seno, prostata, colon-retto, linfomi hanno tratti comuni. Per identificare questa firma molecolare dei tumori, gli studiosi hanno messo a punto una tecnica basata su nanoparticelle d’oro che cambiano colore quando si legano al Dna tumorale. Il test, sperimentato su circa 200 Dna, ha identificato quello tumorale con un’accuratezza del 90%. “È un interessante lavoro di genetica molecolare dei tumori, che conferma come il Dna si comporti in modo diverso in cellule sane e tumorali”, ha detto all’ANSA Marco Pierotti, direttore del laboratorio test genetici e ricerca e sviluppo diagnostica di Cogentech. Il risultato, ha aggiunto, “apre interessanti prospettive diagnostiche, ma ha ancora un limite: la sensibilità è ancora insufficiente a scovare tumori di piccole dimensioni, che sono in una fase iniziale.”

DALLA STORIA

Cavallo Pazzo, l’ultimo Sioux.
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Hoka Hey! È un buon giorno per morire! (Grido di guerra di Cavallo Pazzo).

Se Toro Seduto fu lo stratega e il diplomatico più abile che mai abbiano avuto i Sioux, il più valoroso fra i loro guerrieri fu certamente Cavallo Pazzo. Appena quattordicenne uccise in uno scontro due nemici indiani “Gros-Ventre”, a ventun anni guidò i giovani Oglala prima contro il capitano Fetterman, poi contro lo schieramento del capitano Powell, e nella battaglia di Little Bighorn, già uomo-guida riconosciuto dai Sioux e secondo in autorità solo a Toro Seduto, condusse i suoi guerrieri all’ultima grande vittoria indiana. In seguito, nel 1877, a Fort Robinson (Nebraska), dove si era arreso impegnandosi a tutelare la sua gente, preferì essere ucciso piuttosto che venir deportato e rinchiuso in una prigione della Florida, a Dry Tortugas. Il suo corpo fu sotterrato di notte, in un luogo segreto, così come lui stesso avrebbe voluto. Idealmente, quella data segnò la fine della guerra tra gli indiani e i bianchi nelle Grandi Pianure della cosiddetta epopea del Far West. “Nel 1804, quando la spedizione guidata dagli esploratori Lewis e Clark attraversò per la prima volta l’intero continente nordamericano dall’oceano Atlantico al Pacifico, sul territorio che oggi chiamiamo Stati Uniti viveva un milione di indigeni e galoppavano liberi almeno 50 milioni di bisonti. Alla fine del secolo, quando il West fu vinto dagli emigrati europei, erano rimasti 1000 bisonti e 237.000 indiani. In 90 anni erano morti, in guerra o di malattia, il 75 percento degli indiani e il 100 percento dei bisonti, che erano alla base della loro civiltà e della loro esistenza. Con questi dati storici lo scrittore e giornalista, Vittorio Zucconi introduce un appassionante romanzo, “Gli spiriti non dimenticano”, dedicato alla storia di Cavallo Pazzo della cui figura, l’autore confessa di esserne stato affascinato fino a provare una forma di ossessione che lo spinse a conoscerne la storia, attraverso tutta la documentazione reperibile e a voler ripercorrere i luoghi di combattimento del Grande Capo indiano. Nella prefazione, Zucconi continua: … “Fra le parentesi di questo doppio genocidio umano e animale sta la storia di una guerra, di un popolo e di un uomo: la storia dell’invasione europea del Nordamerica, dello sterminio dei Sioux delle Grandi Praterie del Nord e del capo guerriero che sacrificò la vita per difendere il diritto della sua gente a vivere come aveva sempre vissuto, sulla propria terra: Tashunka Uitho, Cavallo Pazzo, o Crazy Horse, come lo chiamavano i bianchi”. Di lui sappiamo che nacque sul fiume Cheyenne “nell’anno in cui la tribù catturò cento cavalli”, corrispondente al 1840-41. Che aveva i capelli insolitamente ricci e chiari per un indiano. Che sua madre, Coperta Sonante era figlia di un guerriero illustre, Bisonte Nero. Che era di carattere schivo e odiava le fotografie, tanto che, a differenza di altri capi indiani, di lui non esistono immagini sicure. Infine che faceva parte degli Oglala, una delle sette tribù dei Sioux, che in realtà non si chiamavano così ma Lakota: Sioux, cioè “Mezzi Serpenti” era un epiteto spregiativo coniato da indiani rivali. (Nino Gorio, sul sito “farwest.it”). “… Cavallo Pazzo era addirittura una figura di dimensioni sovraumane tra la sua gente, un guerriero mistico, un leader spirituale che i Sioux tutti, e i suoi Oglala, in particolare, venerano oggi come un messia segreto, come un profeta, come uno spirito che ancora vive e vola sulla prateria del Nord e sulla desolata miseria degli indiani di oggi. … “Dipinti prima come “ombre rosse”, come primitivi urlanti e assetati del sangue dei pionieri, e poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialista dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. … I Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, gli Aràpaho, gli Apaches, i Comanches, i Seminole e tutte le cinquecento nazioni indigene che popolavano il Nordamerica prima dell’arrivo di Colombo non erano né santi, né poeti, né ecologisti antelitteram, ma erano semplicemente uomini”. (Zucconi). Un ufficiale dello Stato maggiore del generale Crook, il capitano John G. Bourke, ci ha lasciato questa descrizione di Cavallo Pazzo: “Mi trovai di fronte ad un uomo di aspetto giovanile, non poteva avere più di trent’anni, alto circa un metro e settantacinque, con una cicatrice sul volto. L’espressione era di tranquilla dignità, ma severa, tenace e piuttosto melanconica. Si comportava con rigidità, come chi sia rassegnato al proprio triste destino ma voglia combattere sino allo stremo delle sue forze. Quando parlava con l’interprete Frank Gruoard, il suo volto si illuminava di simpatia, ma con gli altri era triste e riservato. Gli indiani lo stimavano moltissimo per il coraggio e la generosità, in quanto era per lui un punto d’onore non possedere nulla oltre alle armi per combattere. Non ho mai sentito un indiano pronunziare il suo nome senza ammirazione e rispetto”. A Cavallo Pazzo è dedicato il Crazy Horse Memorial, in South Dakota, alle Black Hill, “Colline Nere”; proprio l’invasione di quelle colline aveva provocato la “grande guerra” del 1876-77, costata la vita a Cavallo Pazzo. Nel 1776 gli indiani Lakota conquistarono, agli Cheyenne, questo territorio, che divenne fondamentale nella loro cultura. Quando gli Americani di origine europea scoprirono l’oro nel 1874, a seguito della spedizione di George Armstrong Custer, i primi minatori invasero la zona alla ricerca dell’oro; il governo americano quindi spostò gli indiani, contro il loro volere, in altre riserve nel Dakota del sud ovest. A quella catena appartiene il monte Rushmore, sul quale furono scolpiti, nella roccia viva, i ritratti di quattro presidenti degli Stati Uniti. Una scultura, ancora più grandiosa, rimodellata ad immagine del mitico capo degli Oglala, la più alta al mondo, 180 metri, 10 volte più grande delle teste presidenziali, si innalza, su quelle colline, da sempre considerate sacre dagli indiani, a testimonianza del valoroso guerriero, uomo-simbolo dell’orgoglio indiano.

image002 (La grande scultura dedicata a Cavallo Pazzo)

Mary Titton


3 dicembre

PRIMO PIANO

Rifiuti e riciclo: Italia virtuosa nella Ue.

La notizia è quasi una sorpresa, date le problematiche inerenti il ritiro e lo smaltimento dei rifiuti in alcune nostre città nonché quelle delle discariche abusive e dei traffici illeciti. L’Italia, nel campo del riciclo è pari o superiore agli altri grandi paesi europei (Germania, Francia e Gran Bretagna), tranne che per gli investimenti. Il dato è emerso lunedì a Roma, alla presentazione in Senato dei primi risultati della Piattaforma italiana per l’economia circolare, network di 75 fra istituzioni e aziende, nato nel maggio scorso e guidato dall’Enea. Il presidente della Piattaforma, Roberto Morabito, ha spiegato che il nostro paese è migliore di Francia e Germania nel consumo di materiali riciclati, pari al Regno Unito e migliore di Francia nella capacità di riciclare i rifiuti solidi urbani; fra i primi in Europa per valore aggiunto nell’economia circolare e brevetti; soprattutto primo per numero di occupati nel settore. Gli indici di riciclo di tutte le tipologie di rifiuti sono sopra la media europea, salvo che per i rifiuti elettrici ed elettronici (Raee). L’Italia è invece veramente lontana da Germania, Gran Bretagna e Francia negli investimenti sull’economia circolare. Il nostro paese secondo Morabito “ottiene tanto investendo davvero poco”. Secondo la Piattaforma, al settore manca una normativa che lo sostenga. “Manca la legge sull’end of waste”, ha spiegato Morabito, riferendosi alla norma che dovrebbe indicare come si possono utilizzare i materiali riciclati e quando diventano ‘materia prima seconda’. Inoltre, ha aggiunto, “molti sussidi ad attività green sono compensati da sussidi dannosi all’ambiente”.


2 dicembre

PRIMO PIANO

Cern: fermo per 2 anni l’acceleratore che scoprì la “Particella di Dio”.

Al Cern di Ginevra l’acceleratore di particelle Lhc (Large hadron collider) si ferma per due anni per consentire i lavori di aggiornamento. Il gigantesco “frullatore di materia” che nel 2012 ha permesso di scoprire l’esistenza del Bosone di Higgs, l’elemento meglio noto come “Particella di Dio”, teorizzato nel 1964 dal fisico Peter Higgs, tornerà operativo nel 2021. In realtà l’Lhc per circa un altro mese lavorerà su collisioni di atomi di piombo per studiare uno stadio primordiale della materia, che si ritiene sia esistito subito dopo il Big bang, poi sarà fermo per i prossimi 2 anni. Tra il 2015 e il 2018 l’Lhc ha registrato circa 16 milioni di collisioni tra protoni con oltre 300 petabyte (300 milioni di gigabyte) archiviati nel data center del Cern. “Negli ultimi anni – ha osservato il direttore generale del Cern, Fabiola Gianotti – il lavoro delle collaborazioni scientifiche che conducono gli esperimenti dell’Lhc ha consentito un enorme progresso nella nostra comprensione delle proprietà del bosone di Higgs e del Modello Standard,” la teoria di riferimento della fisica delle particelle. “Queste conoscenze – ha aggiunto – sono fondamentali, perché il bosone di Higgs è una particella molto speciale, unica nella nostra ricerca di nuova fisica.” In particolare i fisici stanno analizzando il modo in cui il bosone si trasforma in altre particelle, per verificare le previsioni del Modello standard, ovvero la teoria che cerca di capire come sia nata e di cosa sia fatta la materia e come i suoi costituenti interagiscano tra loro. Durante la pausa, denominata Long Shutdown 2, l’acceleratore e i rilevatori saranno rinforzati e aggiornati con nuove ottiche ad alta luminosità, per aumentare la concentrazione del fascio nei punti di collisione e consentire all’Lhc di produrre molti più dati, inoltre sarà anticipato, in parte, il futuro progetto High Luminosity LHC (Hi Lumi), che inizierà a raccogliere dati dopo il 2025. “Durante questi due anni di stop – precisa Mirko Pojer del Cern – si modificherà uno degli elementi di protezione dei potenti magneti di Lhc, intervento grazie al quale il campo magnetico potrà essere aumentato e con esso l’energia della macchina.” Tutti gli esperimenti aggiorneranno parti importanti dei loro rivelatori: “L’esperimento Lhcb verrà sostituito quasi interamente, migliorando le prestazioni nella velocità di acquisizione dei dati; anche Alice aggiornerà la tecnologia dei suoi rilevatori di tracciamento per aumentarne la velocità di lettura.


1 dicembre

PRIMO PIANO

Un’analisi del sangue per diagnosticare la depressione.

Tra 5 anni sarà possibile dignosticare la depressione in modo preciso con un esame del sangue, che servirà a svelare chi è più a rischio di manifestare la malattia e a personalizzare la diagnosi e le cure. Il nuovo test del sangue che permette di scoprire la malattia è stato ideato da Dario Aspesi e Graziano Pinna, due ricercatori italiani della University of Illinois di Chicago, il cui lavoro è stato pubblicato su Expert Reviews of Proteomics ed è stao presentato dal professor Pinna a Dallas in occasione della XIII conferenza dei ricercatori italiani nel mondo. “Anzitutto – spiega Pinna – vengono misurati i livelli ematici di molecole che vengono prodotte nel nostro cervello, ma che sono anche presenti nel sangue e alterate dallo stress, come i neurosteroidi. Analizzate, queste molecole possono indicare in modo oggettivo eventuali disturbi legati all’umore e quindi malattie psichiatriche come la depressione e il disordine da stress post-traumatico (Ptsd). Il test servirà anche per individuare chi tra i pazienti potrà avere benefici usando certi farmaci e chi altri. In questo modo ogni cura sarà personalizzata e avrà maggior possibilità di riuscita.”Attualmente i disturbi psichiatrici sono diagnosticati con questionari e sulla base dei sintomi del paziente: secondo il ricercatore sardo disporre di un test basato su molteplici marcatori che tracci la ‘biofirma’ di ciascun paziente sarebbe rivoluzionario sia in ambito diagnostico, sia terapeutico e “potrebbe anche aiutare a individuare sottopopolazioni diverse di pazienti, organizzare trial clinici più mirati e sviluppare farmaci di precisione”.


30 novembre

PRIMO PIANO

Stati Uniti: È morto George Bush padre.

È deceduto venerdì poco dopo le 10:00 di sera, all’età di 94 anni, l’ex presidente degli USA George Bush, che da anni soffriva del morbo di Parkinson ed era costretto su una sedia a rotelle. Il 41° presidente degli Stati Uniti, comunemente chiamato George H. W. Bush o George Bush senior per distinguerlo dal figlio George W. Bush, anch’egli presidente dal 2001 al 2009, prima di candidarsi alla Casa Bianca, ricoprì altre importanti posizioni politiche tra le file del Partito Repubblicano, fu membro della Camera dei rappresentanti e direttore della CIA. Dopo l’attacco di Pearl Harbor nel 1941, il diciottenne Bush rimandò gli studi universitari e divenne il più giovane aviatore nella storia della United States Navy. Rimase arruolato fino alla fine della seconda guerra mondiale, poi si iscrisse all’Università di Yale, dove si laureò nel 1948, in seguito si trasferì con la famiglia nel Texas occidentale per entrare nel business del petrolio, diventando milionario all’età di quarant’anni. Fu alla Casa Bianca dal 1989 al 1993, nel periodo della fine della Guerra fredda, ed esercitò il suo mandato presidenziale soprattutto in politica estera: nel 1989 cadde il Muro di Berlino e due anni dopo l’Unione Sovietica si sciolse definitivamente. Forte sostenitore dell’intervento in Iraq dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, il suo nome è legato alla prima Guerra del Golfo, che ebbe inizio il 16 gennaio 1991, dopo l’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la creazione di una forza multinazionale di una vastità senza precedenti, comprendente, oltre i Paesi NATO, alcuni Stati arabi e l’URSS. L’esercito multinazionale si attenne strettamente al mandato ONU e liberò il Kuwait, lasciando comunque al potere il dittatore iracheno Saddam Hussein. In politica interna, Bush senior non mantenne la promessa della famosa dichiarazione “read my lips: no new taxes” (leggete le mie labbra: nessuna nuova tassa) e per questo perse le elezioni presidenziali del novembre 1992, vinte dal democratico Bill Clinton. Donald Trump, da Buenos Aires, dove si trova per il G20, insieme alla first lady Melania su Twitter ha ricordato così George Bush: “Con giudizio, buon senso e impassibile leadership Bush ha guidato il nostro Paese e il mondo verso una pacifica e vittoriosa fine della Guerra fredda. Il suo esempio continuerà a ispirare gli americani a perseguire le cause più giuste”. L’ex presidente Barack Obama, pochi minuti dopo l’annuncio della morte di Bush, ha scritto su Twitter: “L’America ha perso un patriota e un umile servitore.”    

DALLA STORIA

“Blade Runner”, di Ridley Scott, 1982.

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In occasione dell’anniversario di nascita del grande Ridley Scott, nato il 30 novembre 1937, regista inglese tra i più interessanti e importanti nel panorama internazionale del cinema degli ultimi decenni, ricordiamo oggi uno dei suoi capolavori: il film di fantascienza “Blade Runner”, precursore del genere cyberpunk, diversamente indicato come uno dei più sorprendenti film distopici: nella fattispecie, al centro dell’azione si pone l’incontro dell’uomo con l’intelligenza artificiale autocosciente. Il film del 1982 è ancora oggi di grande impatto visivo e il tema trattato è di grande attualità, visto che la realtà della robotica si sta effettivamente realizzando. Blade Runner è uno dei film di fantascienza dalla regia perfetta contrassegnata da un’ambientazione memorabile. Ridley Scott, in effetti, è celebre per la sua cura ossessiva delle immagini e, nella sua carriera, ha ricevuto molti premi tra cui la nomination all’Oscar come miglior regista per “Thelma & Louise”, “Il Gladiatore” e “Black Hawk Down”; film bellissimi che rivelano la sua versatilità nel trattare tanti generi diversi: dalla commedia al thriller drammatico, dai film di guerra a quelli storici d’azione o al road-movie. Ma veniamo a “Blade Runner”. “Scritto nel 1968 da Philip K. Dick, “Il cacciatore di androidi” ha impiegato quattordici anni per arrivare al grande schermo, a cui ne vanno aggiunti altri dieci prima che la versione cinematografica mozzafiato di Ridley Scott venisse riconosciuta come un capolavoro della cinematografia. Il film, costato ventotto milioni di dollari, non è stato bene accolto dal pubblico alla sua prima uscita; solo nel 1982, quando è uscita la nuova versione, critica e pubblico lo hanno approvato incondizionatamente. Interi libri sono stati dedicati alla storia del film, di per sé una produzione difficile, alla quale vanno aggiunti i problemi che pare siano nati sul set. La troupe aveva addirittura creato delle T-shirt per esprimere la sua contrarietà ai rigidi orari imposti per le riprese e, soprattutto, Harrison Ford e Ridley Scott non andavano d’accordo. L’attore ha rilasciato pochi commenti dopo l’uscita, limitandosi ad affermare che era stato il film più difficile a cui avesse mai lavorato. Ma che film! La Los Angeles del 2019 proposta da Scott, cupa e illuminata dai neon, con le sue strade barocche e le piogge acide. È stata spesso copiata ma mai eguagliata. È in questo mondo che il cacciatore di taglie Rick Deckard (Ford) si aggira alla ricerca di “replicanti”, androidi ribelli sfuggiti al controllo del loro fabbricante, prendendosi anche una cotta per uno dei robot (Sean Young).

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Ricco di simbolismi, Blade Runner ha fatto parlare molto di sé nel corso degli anni; alcuni ammiratori sostengono che il film parla implicitamente di religione, citando il replicante Roy Batty (Rutger Hauer) che si trafigge una mano con un chiodo per rappresentare la crocifissione e vedendo in Tyrell (Joe Turkell), l’inventore dei replicanti, una figura divina. Il film sottolinea la disumanità del mondo rappresentato, una società oppressiva in cui i criteri morali risultano sconvolti. Forse il film non avrebbe avuto lo stesso impatto se fosse stato realizzato da un altro regista (prima di Scott erano stati contattati Adrian Lyne, Michael Apted, Robert Mulligan, mentre Martin Scorsese pareva interessato al romanzo già nel 1969). Quanto al ruolo principale, fra i nomi dei candidati comparivano quello di Christopher Walken e Dustin Hoffman. L’incredibile accostamento di fantascienza da XXI secolo e film noir anni Quaranta crea una stupefacente distopia mentre Ford, l’uomo mandato a “terminare” (cioè eliminare) gli androidi venuti sulla terra in cerca del loro creatore, mostra un disincanto che si accorda perfettamente alla trama del film. Una delle ragioni per cui Blade Runner è divenuto un vero e proprio cult è l’esistenza di più di una versione del film: quella del 1992 ha delle scene in più e omette la narrazione fuori campo di Ford come pure il finale rassicurante imposto dalla produzione. C’è poi il dibattito ancora aperto sul fatto che anche Deckard possa essere anch’egli un replicante. Qualunque sia la risposta, Blade Runner rimane uno dei film di fantascienza (fantacoscienza) più inquietanti, affascinanti e meglio diretti”. (Joanna Berry, da “I grandi capolavori del cinema). 

Il famoso monologo del replicante Roy Batty, uno dei più intensi della storia del cinema, entrato nel linguaggio corrente col significato di “ ho visto cose a cui è difficile credere”, ha modificato i criteri che venivano usati nella fantascienza (sia cinematografica sia letteraria) per distinguere fra umani e androidi, spostando la distinzione dal semplice piano fisico a quello cognitivo. Nel film, Roy Batty è un androide costruito, con data di scadenza, per svolgere attività pericolose e faticose al posto dell’uomo come fare la guerra. Si può ipotizzare che quando parla di “navi da combattimento in fiamme” stia rievocando una battaglia (probabilmente molto cruenta) combattuta presso “Betelgeuse”, di conseguenza le “porte di Tannhauser” sarebbero altresì un luogo immaginario dello spazio. Roy sta ricordando la sua partecipazione ad eventi più grandi di lui e si rammarica per il fatto che quelle e tutte le sue memorie svaniranno insieme a lui, sentimenti quanto mai umani in tali circostanze, che mostrano ancora una volta la grande capacità degli androidi di “replicare” il comportamento umano dei loro creatori, inclusa la paura di morire.

Mary Titton


29 novembre

PRIMO PIANO

Caso Regeni: “La Camera sospende i rapporti con il parlamento egiziano.”

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Lo ha comunicato il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha detto al Tg1: “Con grande rammarico annuncio ufficialmente che la Camera dei deputati sospenderà ogni tipo di relazione diplomatica con il Parlamento egiziano, fino a quando non ci sarà una svolta vera nelle indagini e un processo che sia risolutivo.” Fico ha aggiunto: “A settembre sono andato al Cairo e avevo detto, sia al Presidente al-Sisi sia al presidente del Parlamento egiziano, che eravamo in una situazione di stallo. Avevo avuto delle rassicurazioni ma ad oggi non è arrivata nessuna svolta.” I presidenti dei gruppi parlamentari hanno espresso il sostegno unanime all’iniziativa. L’intervento del Presidente della Camera fa seguito all’accelerazione dell’inchiesta da parte dei magistrati italiani, che la prossima settimana iscriveranno nel registro degli indagati 7 agenti dei servizi segreti egiziani nell’ambito dell’indagine della Procura di Roma sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore friulano trovato morto il 4 febbraio del 2016 in Egitto, sulla strada che collega il Cairo con Alessandria. Nei loro confronti i pm contestano il reato di sequestro di persona. Dalle indagini tecniche sui tabulati telefonici che il Procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco hanno affidato alla squadra investigativa di Ros e Sco è emerso che i 7 agenti segreti del Cairo hanno monitorato i contatti, le frequentazioni e i movimenti di Giulio Regeni almeno fino al 25 gennaio di due anni fa. Gli esiti di questi approfondimenti erano stati portati a conoscenza delle autorità egiziane da almeno un anno così come i nomi degli agenti che gli inquirenti romani intendono mettere sotto indagine. In una nota la famiglia del ricercatore friulano esprime gratitudine per il lavoro prezioso ed incessante della procura e degli investigatori di Roma che ha portato ad accertare l’identità di alcuni dei responsabili del sequestro, delle torture e della morte di Giulio e ringrazia il Presidente Fico, aggiungendo: “Oggi l’avvocato Alessandra Ballerini ha incontrato i procuratori Pignatone e Colaiocco per un aggiornamento sullo stato delle indagini. La nostra legale ha inoltre incontrato il Presidente della Camera Fico che fin dal primo momento ha dimostrato salda e concreta vicinanza alla nostra battaglia per ottenere verità e giustizia.”

DALLA STORIA

29 novembre 2016: muore all’Avana Fidel Castro.

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Guantanamera.

Con la scomparsa di Fidel Castro è venuto indubbiamente meno uno degli ultimi protagonisti del secolo scorso, ma potremmo dire anche che il ‘900 per quello che è stato e ha rappresentato si è chiuso definitivamente, sfumando in questo nostro nuovo tempo la sua ultima proiezione di drammatica e straordinaria memoria. La biografia del “leader maximo” è su internet e su tutti i giornali, la sua storia, le sue gesta, la sua lunghissima vicenda politica. Per tanti, almeno fino ai primi anni ’80, è stato una speranza e un riferimento irrinunciabile della lotta antimperialista a livello mondiale. Intere generazioni che hanno vissuto il mito ed il fascino della rivoluzione cubana per quello che ha oggettivamente rappresentato, così come per la sua immediata idealizzazione nella sua indomita contrapposizione allo strapotere nordamericano. Per altri invece Castro è stato semplicemente un dittatore caraibico, autoritario, retorico e narcisista. Pensiamo che verosimilmente le cose non siano proprio così e che valga la pena di individuare alcune chiavi di più attenta indagine e lettura. Fidel Castro veniva da una famiglia di proprietari terrieri benestanti di origine spagnola. Si era formato alla scuola dei Gesuiti con buoni studi in legge all’università dell’Avana e una formazione politica nazional liberale che aveva in Jose’ Marti la sua stella polare. Indipendenza e libertà nel segno dei grandi rivoluzionari latino americani del XIX secolo, primo fra tutti Simon Bolivar. Al colpo di stato di Fulgenzio Batista, organizzato dalla CIA, segue l’anno dopo nel 1953 l’improvvisato e sanguinoso assalto alla caserma Moncada che ne fa un pericoloso capo rivoluzionario aprendogli le porte del carcere e poi dell’esilio. Ed è proprio a Città del Messico che il giovane Fidel si avvicina al marxismo incontrando un suo coetaneo altrettanto idealista e ribelle, Ernesto Che Guevara. I “barbudos” che a bordo del Granma ritornano a Cuba per fare la rivoluzione, daranno vita fino alla vittoria nel 1959 con l’entrata all’Avana, ad un’impresa che fece scalpore per temerarietà ed eroismo, tanto da creare il mito.

 

image001(Che Guevara e Fidel Castro)

A quel punto bisognava governare e né le nazionalizzazioni, né l’entusiastico appoggio popolare potevano bastare. Probabilmente contraddizioni e diverse idee sulla gestione del governo così come del potere, erano in essere all’interno del gruppo dirigente già sulla Sierra, ma i tempi erano brevi e bisognava far fronte alla pesante reazione Usa che sfocerà ancor prima dell’embargo totale nel fallito tentativo di invasione alla Baia dei Porci. Il mondo era diviso in blocchi contrapposti in una logica di “guerra fredda” spietata e pericolosa, né tantomeno gli Stati Uniti potevano tollerare uno stato socialista in quello che hanno sempre considerato il “giardino di casa” facendo sempre il buono e cattivo tempo. L’America Latina di allora era in condizioni pietose, dove le oligarchie permettevano ogni possibile saccheggio alle grandi multinazionali e ogni forma di sfruttamento, fino allo stato di schiavitù e alla morte, era consentito. Per chi avesse voglia di documentarsi meglio consigliamo un film reportage del 1968 di Fernando Solans e Octavio Getino, L’ora dei Forni. Da vedere per capire. È in questo contesto quindi che nasce il filo doppio fra Cuba e l’allora Unione Sovietica, che si protrarrà per decenni, trasformando il sogno alternativo  in un regime progressivamente sempre più burocratico e oppressivo. Intanto due dei grandi parimenti protagonisti di quella incredibile stagione non c’erano più, il comandante Camilo Cienfuegos morto in un controverso incidente aereo a fine ottobre di quello stesso 1959 e Che Guevara trucidato nel 1967 in Bolivia dai Rangers delle squadre speciali che gli davano la caccia. Si avvicinava così il lungo autunno del “comandante supremo”, adorato in casa dal suo popolo e odiato dalle comunità degli esuli a Miami e in Florida. Nel frattempo in Europa era il ’68 e proprio quell’estate a migliaia giovani e meno giovani si spostarono a Cuba dal vecchio Continente a tagliare le canne da zucchero, decisi a dare il loro personale contributo per la difesa della rivoluzione del piccolo Davide caraibico. Poi fra generali golpisti in Brasile, Pinochet in Cile e le mostruosità di Videla e la sua giunta di macellai in Argentina, tutto il Sud America fu avvolto da una interminabile notte di paura, di violenza e di prevaricazione. Altro che Fidel Castro e Cuba. La successiva disgregazione dell’URSS e la persistenza dell’embargo americano hanno contribuito non poco a rendere difficilissime le condizioni di vita sull’isola accelerando protesta e dissenso, violazioni dei diritti e coercizione delle libertà più elementari in una malintesa, coacerva “sindrome di accerchiamento”. Quanto di buono fatto nel campo dell’istruzione  e della sanità veniva di fatto vanificato, anche se l’orgoglio nazionale e la volontà di differenziarsi dal modello capitalistico non sembra a tutt’oggi essere venuto meno. Le recenti dichiarazioni pubbliche dell’attuale vicepresidente Miguel Diaz-Canel, che il 19 aprile 2018 ha preso il posto di Raul Castro, si sono concentrate sul bisogno di continuità e sulla lotta contro l’imperialismo, incarnato ora dal nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo le aperture di Barack Obama e la storica stretta di mano con Raul Castro (quest’ultimo succeduto a sua volta a Fidel nel 2006 quando dovette subire un intervento per rimozione di una massa tumorale all’intestino). Ci auguriamo che questo nuovo corso della politica di Cuba possa far riacquisire libertà e democrazia pur nella sua differenza peculiare di modello non allineato e da terza via, che potrebbe ancora una volta essere da stimolo e rinnovata speranza per tutto il Continente. Un Continente comunque in movimento nella sua continua ricerca di identità, di sviluppo e di giustizia sociale.

 Francesco Malvasi


28 novembre

PRIMO PIANO

La sonda InSight è arrivata su Marte.

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Dopo un viaggio di oltre 6 mesi, guidato dalla “bussolà italiana”, lo space tracker costruito da Leonardo a Campi Bisenzio, il 26 novembre, alle 20:53 ora italiana, la sonda InSight della Nasa ha toccato con successo il suolo di Marte, dopo avere completato la sua pericolosa discesa verso la superficie del Pianeta Rosso. Sulla Terra la conferma del lieto finale è arrivata, però, solo alle 21:01, perché alla velocità della luce qualsiasi segnale inviato o ricevuto da Insight impiega otto minuti per coprire i 146 milioni di km che separano Marte dalla Terra. I ricercatori della NASA hanno vissuto con apprensione, e qualcuno probabilmente anche con angoscia, i 7 minuti della sequenza di ammartaggio, in cui il lander ha compiuto una complicata serie di manovre senza che dalla Terra fosse possibile intervenire, poi un applauso con la storica standing ovation ha accompagnato il segnale al centro di controllo dell’Ente spaziale statunitense. A 11 km dal suolo e a 2.000 km/h di velocità, la sonda ha aperto il suo grande paracadute e ha lasciato cadere al suolo lo scudo termico; una volta raggiunti i 215 Km/h, a meno di 60 secondi dall’ammartaggio, ha abbandonato il paracadute, ha aperto le sue tre zampe e ha acceso i retrorazzi che l’hanno depositata dolcemente sul pianeta. Ora lo sonda, una volta dispiegati i pannelli solari, fotograferà i dintorni per permettere ai ricercatori di trovare la posizione ideale per posizionare il sismometro SEIS. Il luogo scelto per l’ammartaggio, la piatta Elysium Planitia, vicino all’Equatore, a 600 km di distanza da Curiosity, è un’area geologicamente attiva, in cui le ultime colate risalgono a qualche milione di anno fa, è uno dei luoghi più sicuri dove atterrare, ideale per l’alimentazione dei pannelli fotovoltaici della sonda. Qualche minuto dopo l’ammartaggio, la sonda ha inviato al centro di controllo della Nasa una prima immagine della superficie di Marte. Una sonda penetrerà fino a cinque metri sotto la superficie (finora solo Curiosity aveva bucato la roccia per appena qualche centimetro) per misurare la temperatura interna e un sismografo rileverà i terremoti, le vibrazioni causate dagli impatti di asteroidi e dalle attività sulla superficie, come le tempeste e altri fenomeni amosferici. InSight tra qualche giorno sarà completamente operativa e inizierà una delicata serie di esperimenti volti, oltre che a indicare una possibile fonte di calore, a rilevare i terremoti e a saperne di più sulla formazione dei pianeti rocciosi del Sistema solare, compreso il nostro. Missione riucita, che prepara il nostro futuro possibile sbarco sul Pianeta Rosso!


27 novembre

PRIMO PIANO

Cina: “Creati i primi esseri umani con Dna modificato.”

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Il ricercatore cinese He Jiankui, di Shenzhen, ha dichiarato di aver creato i primi esseri umani geneticamente modificati e di aver alterato, durante i trattamenti di fertilità, gli embrioni di sette coppie: una gravidanza è giunta a termine. Il suo obiettivo, ha ammesso, non era quello di curare o prevenire una malattia ereditaria, ma di provare a conferire una capacità di resistere alle possibili future infezioni da HIV, il virus dell’AIDS. Ha detto che i genitori coinvolti hanno rifiutato di essere identificati o intervistati e non ha voluto dire dove vivono o dove è stato svolto il lavoro. L’esperimento è descritto in un documento della Southern University of Science and Technology della città cinese di Shenzhen: il gruppo di ricerca diretto da Jiankui He, a cui avrebbe partecipato anche un collega ststunitense, ha parlato di ricadute scientifiche dalla portata “incalcolabile” e degne del premio Nobel per la cura delle malattie ereditarie. In un documento, nel quale chiedono al Comitato etico dell’Università l’autorizzazione a condurre su embrioni umani l’esperimento nel quale si altera il Dna con la tecnica di modificazione genetica della Crispr, usata su un embrione umano nel 2015, i ricercatori sottolineano che “alla luce della crescente competizione internazionale relativa alle applicazioni della tecnologia dell’editing del Dna” il loro risultato “andrà oltre rispetto a quello che nel 2010 ha portato al Nobel la tecnica della fecondazione in vitro”. Nel documento si legge inoltre che la ricerca pionieristica nel campo della medicina “porterà all’alba di cure dal valore incalcolabile contro le più importanti malattie ereditarie”. Così due bambine cinesi, Lulu e Nana, nomi di fantasia per proteggere la loro privacy, sono nate qualche settimana fa con il Dna alterato con la tecnica di “chirurgia genetica” nota come Crispr, per introdurre nel corredo un gene che le rende più resistenti a una serie di malattie tra cui l’Hiv, da cui è affetto il padre. Per una delle due, però, la modifica del Dna non sarebbe riuscita. La decisione di voler utilizzare comunque questo embrione, ha detto George Church, dell’Università di Harvard, suggerisce che “l’obiettivo principale dei ricercatori era sperimentare la tecnica di diting del Dna piuttosto che evitare la malattia”. Il genetista Kiran Musunuru, dell’Università della Pennsylvania, ha rilevato che per la bambina nata da questo embrione non ci sarebbe stato “davvero quasi nulla da guadagnare in termini di protezione contro l’Hiv” e sarebbe inoltre stata “esposta a tanti altri rischi attualmente sconosciuti per la sicurezza”. L’esperimento è destinato a scatenare infiniti dibattiti e polemiche sia dal punto di vista scientifico che dal punto di vista etico, molti scienziati pensano che sia troppo pericoloso e alcuni hanno denunciato il tentativo cinese come sperimentazione umana.

DALLA STORIA

Edward Bach: Padre della floriterapia, la medicina che cura l’anima.
“… alla base di ogni malattia c’è uno stato d’animo negativo …”. (Edward Bach).

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Ricorre oggi l’anniversario della morte di Edward Bach (1886-1936), il medico e scrittore gallese famoso per le sue ricerche in campo batteriologico, scopritore di vaccini e di nosodi omeopatici ma, soprattutto, per il metodo floreale che tuttora porta il suo nome: “I 38 Fiori di Bach”. Alla base della floriterapia di Bach c’è il principio secondo il quale, nella cura di una persona, devono essere prese in considerazione le sue emozioni e la sua personalità, le quali determinerebbero il sintomo manifesto nel fisico: il singolo fiore, trattato opportunamente in rimedio floreale, libera la sua energia avviando il processo di trasformazione dell’emozione negativa in una positiva con una conseguente scomparsa del sintomo fisico, essendo quest’ultimo ritenuto il disturbo finale di un disagio originatosi a un altro livello, molto più profondo. Egli, infatti, sosteneva che: “La scienza degli ultimi due millenni ha considerato la malattia come un agente materiale che può essere eliminato solo da mezzi materiali: diversamente la malattia del corpo, come la conosciamo noi, è un risultato, un prodotto terminale, uno stadio finale di qualcosa di molto più profondo”. Questa visione della malattia che si discosta dallo sguardo meccanicistico dei sistemi di cura occidentali, si avvicina a una comprensione olistica dell’uomo, ossia comprensiva di tutte le sue componenti, nella consapevolezza che esse interagiscono e si influenzano fra loro. Bach riteneva che l’anima, o l’Io superiore, è la nostra parte immortale, il nostro legame con l’universo. Questa istanza, che è in noi, conosce il nostro piano di vita, ed è anche il nostro “medico interiore”. La seconda istanza, la personalità, insieme con il corpo organico, il corpo emotivo e il corpo mentale, costituisce la parte mortale dell’uomo e nei rapporti quotidiani viene percepita come carattere del prossimo. Nella situazione ideale il piano di vita dell’Io superiore si attua attraverso la personalità e, questo porta con sé fortuna, gioia e salute: la condizione essenziale è che esista un buon legame tra la personalità e l’anima, o Io superiore. Tuttavia accade spesso che il legame tra l’Io superiore e la personalità sia limitato e distorto in seguito alla mancata osservanza di varie leggi spirituali; in tal modo gli impulsi dell’Io superiore arrivano distorti al livello della personalità e vengono vissuti in modo disarmonico. Così la mitezza di tramuta in impazienza, il coraggio in paura, e così via. Con l’assunzione dei concentrati di fiori, questo legame viene ristabilito. L’azione dei suoi concentrati di fiori viene così descritta da Bach: “Certi fiori, cespugli e alberi non coltivati di ordine superiore hanno, grazie alla forza delle loro vibrazioni, la capacità di aumentare le nostre e di aprire i canali di comunicazione col nostro Io spirituale; di inondare la nostra personalità con le virtù di cui abbiamo bisogno e di purificare con ciò le carenze caratteriali che sono all’origine delle nostre sofferenze”. Egli scoprì 38 schemi umani di reazione, con i loro aspetti negativi e, in senso positivo, le corrispondenti piante di ordine superiore. Nei suoi scritti Bach usa il concetto di “natura umana” per definire questi schemi di comportamento archetipici. Così come ogni individuo possiede “in senso archetipico” due gambe e un naso, ha anche a disposizione certe possibilità predeterminate di reazione emotiva. In tutte le epoche gli uomini sono stati impazienti, hanno avvertito sensi di colpa e provato sentimenti di odio, rassegnazione o invidia. Questo repertorio emotivo è a disposizione dell’umanità sul piano collettivo e viene usato dalla natura umana nelle situazioni opportune. Nei miti e nelle favole, nei proverbi e nella grande poesia di tutti i popoli si descrive la lotta con questi stati d’animo negativi archetipici. Esisteva un tempo e continuerà a esistere finché esisterà l’uomo, perché la natura umana non cambia. La paura della tubercolosi negli anni ‘30 non era dissimile dall’attuale paura dell’AIDS. I fiori possono aiutare, con la loro azione armonizzante a raggiungere una maggiore maturità e quindi maggiore stabilità psichica, ma non rendono “immuni agli influssi esterni”. Se qualcuno riuscisse a raggiungere questo scopo, non gli resterebbe più nulla da imparare e, a quel punto, sarebbe oltre la sfera della realtà umana.

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Mary Titton


26 novembre

PRIMO PIANO

Addio a Bernardo Bertolucci.

bertolucci brando(Bernardo Bertolucci e Marlon Brando sul set di “Ultimo tango a Parigi)

È morto a 77 anni nella sua casa di Roma il regista Bernardo Bertolucci. Regista, sceneggiatore e produttore, è stato tra i cineasti italiani più rappresentativi e conosciuti a livello internazionale, autore di capolavori come “Ultimo tango a Parigi”, “Il tè nel deserto”, “Novecento”, “L’ultimo imperatore”. Proprio questo film ottenne nel 1988 9 Oscar, tra cui quello per miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura non originale. Nel 2007 gli fu conferito il Leone d’oro alla carriera alla 64a Mostra di Venezia e nel 2011 la Palma d’oro onoraria al 64° Festival di Cannes. L’ultimo film da lui diretto è stato “Io e te” del 2012, tratto dal romanzo di Nicolò Ammaniti. Nato a Parma il 16 marzo 1941, fu dal padre, il poeta Attilio, iniziato alla poesia e nel 1962 vinse il Premio Viareggio con la prima raccolta “In cerca del mistero”. Nello stesso anno Bernardo debuttava come regista con “La commare secca” tratta da un racconto di Pasolini, conquistandosi due anni più tardi, con “Prima della rivoluzione”, la fama di miglior autore di una nuova generazione di registi in cui l’ispirazione creativa andava di pari passo con l’impegno civile. Dopo anni di sperimentazione, scrisse insieme a Dario Argento per Sergio Leone “C’era una volta il west” e nel 1970 realizzò due capolavori: “Strategia del ragno” e “Il conformista” dal racconto dell’amico Alberto Moravia. La grande notorietà per Bertolucci arrivò nel 1972 con “Ultimo tango a Parigi”, con Marlon Brando e Maria Schneider, Jean-Pierre Léaud e Massimo Girotti, dove i protagonisti sono esseri alla deriva e il sesso è visto come unica risposta possibile al conformismo del mondo circostante. Il film, dopo la sua prima proiezione a New York, in Italia venne ritirato dalla Cassazione il 29 gennaio 1976 e il regista fu condannato per offesa al comune senso del pudore, colpa per la quale venne privato, per cinque anni, dei diritti civili, fra cui il diritto di voto. Dopo diversi processi d’appello, la pellicola venne dissequestrata nel 1987. Bertolucci incrementò poi la sua notorietà con le opere successive, da “Novecento” (1976), epico affresco delle lotte contadine emiliane dai primi anni del secolo alla Seconda guerra mondiale, che si avvale di un prestigioso cast internazionale (da Robert De Niro a Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda a un cast di noti attori italiani come Stefania Sandrelli, Alida Valli, Laura Betti, Romolo Valli e Francesca Bertini), a “La luna”, ambientato a Roma e in Emilia-Romagna, in cui affronta lo scabroso tema della droga e dell’incesto, fino a “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981), con Ugo Tognazzi. Negli anni ottanta Bertolucci gira soprattutto all’estero straordinari  kolossal: nel 1987 dirige in Cina “L’ultimo imperatore”, un grande successo internazionale che si aggiudica ben nove premi Oscar. Nel 1990 gira in Marocco il film “Il tè nel deserto”, tratto da un romanzo di Paul Bowles, mentre nel 1993 è la volta del “Piccolo Buddha”con Keanu Reeves, ambientato in Nepal e negli Stati Uniti. In seguito il regista torna a girare in Italia riprendendo le predilette tematiche intimiste con risultati alterni di critica e di pubblico, a partire da “Io ballo da sola” (1996), per proseguire con “L’assedio” (1998) e “The Dreamers – I sognatori” (2003), che ripercorre una vicenda di passioni politiche e rivoluzioni sessuali di una coppia di fratelli nella Parigi del 1968. Nel 2012 gira la trasposizione cinematografica del romanzo “Io e te” di Niccolò Ammaniti, intitolata appunto “Io e te.” Benigni, commosso, lo ha definito “l’ultimo imperatore del cinema italiano”.

DALLA STORIA

26 novembre 1864: Alice Liddell riceve il manoscritto di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” dall’autore, Lewis Carroll, che a dedicato alla bambina, sua musa ispiratrice.

image004(Un’illustrazione dalla prima edizione del libro)

Il 21 novembre 1864 Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, dove Charles (Carolus in latino) diventa Carroll e Luttwidge (Ludovicus in latino) diventa Lewis, matematico e scrittore britannico, inviava il manoscritto di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” ad Alice Liddell. Quest’ultima, nata il 4 maggio 1852, aveva appena dieci anni quando Carroll portò, nell’estate del 1862, lei e le sorelle Lorina ed Edith in quella memorabile gita in barca durante la quale inventò la famosa storia. Alice ne fu incantata da pregare Carroll di mettere il racconto per iscritto. Gli ci volle più di un anno per scrivere nella sua calligrafia minuta e ordinata le novanta pagine e per illustrarlo con trentasette disegni di suo pugno ed infine inviarlo ad Alice con la dedica “a una cara bambina, in ricordo di un giorno d’estate”. Quest’unico manoscritto, illustrato dall’autore e intitolato “Alice’s Adventures Under Ground”, è ora uno dei più grandi tesori della British Library. Vedendo il manoscritto alcuni amici lo incitarono a pubblicarlo e Carroll acconsentì, ampliando la vicenda, aggiungendo storielle e cambiando il titolo in “Alice’s Adventures in Wonderland”. Per le illustrazioni scelse appunto John Tenniel, un vignettista del periodo Punch. Benché Tenniel avesse avuto dallo scrittore istruzioni precise e i suoi schizzi a cui ispirarsi, le abili immagini con cui seppe catturare lo spirito fantastico del racconto sono frutto del suo stile unico. Da allora un’infinità di illustratori si è cimentata con la storia ma finora forse nessuno è riuscito a conquistare l’immaginazione o l’attaccamento del pubblico con la stessa efficacia di quella prima edizione. Dalla prima uscita nel 1865, “Alice nel Paese delle Meraviglie” non è mai stato fuori commercio e ancora oggi conserva intatta la sua popolarità. Il libro è infatti uno dei capolavori senza tempo, considerato una pietra angolare della letteratura del nonsense, ricco di significati nascosti e giochi di parole di cui in tanti si sono cimentati nell’interpretazione. Carroll era un matematico e un logico di talento avvezzo al linguaggio simbolico dei numeri e, in questa chiave, ci racconta l’incantevole storia di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Il libro per bambini, in realtà, non è una storia per bambini! Sembra che l’autore ci voglia avvicinare allo sguardo dei bambini davanti alla scoperta del mondo: un posto pieno di meraviglie, lontano dai preconcetti o dalle convenzioni degli adulti responsabili del dolore che, in esso, si trova. Mentre insegue il Bianco Coniglio Alice, finisce in una tana profonda e come per incanto si ritrova in un mondo capovolto, dalla dimensione onirica e dove le regole della fisica sono relative: prima diventa piccolissima, poi gigantesca in modo che le braccia le escono dalle finestre e così via in una lunga serie di esperienze ed incontri paradossali. 

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Verrebbe da dire che questa fantasmagorica storia, così allegorica, metaforica e satirica, rimandi a una Divina Commedia dantesca con al centro Alice in un mondo terreno e ultraterreno, o a mille mondi paralleli diversi l’uno d’altro e allo stesso tempo immanenti, come si sperimenta nell’infanzia, mentre si coglie il suggerimento dell’autore agli adulti ad abbandonare le certezze, a volte, pretestuose. “Diamine, certe volte ho creduto fino a sei cose impossibili prima di colazione!” esclama, nel libro, il personaggio La Regina. I protagonisti del racconto, originali ed emblematici, racchiudono, ciascuno, verità mitologiche che Carroll e i disegni di Tenniel rappresentano con particolare suggestione. Ad esempio uno dei personaggi più popolari del libro, il bruco appare nell’atto di fumare la pipa su un fungo. Lo scrittore disegnò una sua versione dell’animale nel manoscritto: una sorta di illusione ottica, per cui le spire ripiegate formano il corpo di un mistico seduto. In sintonia con il suo strano aspetto, il bruco parla in modo oscuro e continua a porre alla bambina la domanda esistenziale “Chi sei” con voce languida e sonnacchiosa. Così come la scena Il Tè di Matti, in cui il Cappellaio e la lepre di Marzo tempestano Alice di indovinelli. Oppure i dialoghi “enigmatici” del Gatto del Chesire; “Come fai a sapere che sono matta?”, domandò Alice. “Devi esserlo”, rispose il Gatto del Cheshire “altrimenti non saresti venuta qui.”

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Il genio dell’autore traspare anche nell’uso inventivo della tipografia. La storia della coda del topo è un gioco di parole multiplo: oltre a usare l’assonanza tra “tail”, coda, e “tale”, storia, è composta sulla pagina a formare una coda ed è una tail rhyme, una poesia in cui i versi in rima sono seguiti da una “coda” più breve, non in rima.

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Carroll dedicò ad Alice Liddell, la “vera” Alice (una bambina bruna, diversa dal personaggio biondo, dagli occhi sgranati dei disegni nel libro o nella successiva filmografia, la più famosa quella di Walt Disney) anche il successivo racconto “Attraverso lo specchio”, includendo una poesia “Al di sotto di un cielo terso un battello”, in cui le prime lettere di ogni verso formano per intero il suo nome. La Liddell conservò il manoscritto  di “Alice’s Adventure Under Ground” fino al 1928, quando fu costretta a venderlo per pagare le tasse di successione.

Mary Titton


25 novembre

PRIMO PIANO

Giornata contro la violenza sulle donne: nel 2018 32 femminicidi.

Il 25 novembre si celebra la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, indetta dall’Onu per sensibilizzare su un fenomeno tutt’altro che sradicato, anche nelle società più sviluppate. Questa data fu scelta in ricordo del brutale assassinio, nel 1960, delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos per oltre 30 anni.  Il 25 novembre 1960 le sorelle Mirabal, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare. Condotte in una piantagione di canna da zucchero, furono uccise a bastonate e poi gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente. In tutto il mondo il 25 novembre è celebrato con l’arancione, tanto che si parla anche di Orange Day, ma soprattutto in Italia il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne sono le scarpette rosse, lasciate abbandonate su tante piazze del nostro Paese per sensibilizzare l’opinione pubblica. Questo simbolo, lanciato dall’artista messicana Elina Chauvet attraverso una sua installazione, nominata appunto Zapatos Rojas, è diventato presto uno dei modi più popolari per denunciare i femminicidi. Secondo la polizia sono stati 32 i femminicidi registrati in Italia nei primi nove mesi del 2018. L’Associazione Di.Re (Donne in rete contro la violenza) traccia l’identikit dell’aggressore medio: il 65% è italiano. Secondo gli ultimi dati Istat le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza nel 2017 sono state oltre 49mila, di cui oltre 29mila hanno cominciato un percorso di uscita dalla violenza. Nel 27% dei casi si tratta di straniere, il 63,7% ha figli, nella maggioranza dei casi minorenni. Sabato, coordinate da “Non Una di Meno” in migliaia hanno sfilato a Roma e dallo spezzone più giovane del corteo si sono alzati centosei palloncini rosa per ricordare le donne morte nel corso del 2018 a causa delle violenze subite da uomini, soprattutto da mariti e fidanzati. Molte le atre iniziative: alcuni calciatori di Serie A sono scesi in campo con il volto segnato, numerosi Comuni hanno illuminato di arancione le facciate dei Municipi come segnale di solidarietà, cinque panchine rosse sono state collocate nelle sedi Rai per promuovere e sostenere lo spirito che alimenta in tutto il mondo il 25 novembre. Per il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, è unfenomeno tragicamente alto” e la denuncia dei casi di violenza e abusi è “ancora troppo reticente. Vanno superate discriminazioni, pregiudizi e stereotipi sui ruoli e sulle attitudini basati sull’appartenenza di genere, iniziando da infanzia e mondo della scuola.”


24 novembre

PRIMO PIANO

Parigi: esplode la protesta dei gilet gialli agli Champs-Elysees.

Secondo i dati forniti dal ministro dell’Interno, Christophe Castaner, 81mila persone stanno manifestando in tutta la Francia nell’ambito della mobilitazione dei gilet gialli, che bloccano strade e infrastrutture energetiche. A Parigi 8mila manifestanti, 5mila dei quali sugli Champs Elysees, protestano contro l’aumento dei prezzi del carburante, deciso dal governo Macron. Si fanno chiamare “Les gilets jaunes”, “I gilet gialli”, perché durante le loro proteste indossano i giubbetti retroriflettenti, obbligatori per gli automobilisti quando scendono dall’auto lungo strade e autostrade. Alcuni gruppi di gilet gialli hanno anche costruito delle barricate sugli Champs Elysees, utilizzando gli arredi delle terrazze dei caffè, pezzi di pavimentazione e barriere di cantiere, ma le barricate non hanno tenuto a lungo, come dimostrano le immagini sui siti francesi, con mucchi di sedie dei caffè rovesciate. La polizia ha lanciato lacrimogeni e usato gli idranti contro i dimostranti che tentavano di marciare verso Place de la Concorde e verso l’Eliseo intonando la Marsigliese e urlando slogan come “Macron dimettiti” e “La Francia in collera”. Le autorità, per evitare i disordini e le vittime del primo weekend di proteste (un morto e 409 feriti), hanno dispiegato in tutta la Francia forze dell’ordine ingenti, anche per fronteggiare infiltrazioni di estremisti nelle manifestazioni. Nella capitale si temono disordini e scontri: un grande cordone di sicurezza è stato realizzato con transenne intorno all’Eliseo, a Place de la Concorde, all’Assemblea nazionale e all’Hotel Matignon. Come ha scritto ieri il quotidiano Le Figaro, il movimento è nato già a fine maggio in seguito a una petizione online di Priscillia Ludosky, una venditrice di cosmetici di 32 anni abitante a Savigny-le-Temple, che chiedeva su Change.org l’abbassamento del prezzo dei carburanti riscuotendo un vero successo, le prime sollecitazioni su Facebook a scendere in piazza risalirebbero, invece, al 10 ottobre scorso. La protesta è guidata da otto abitanti dell’Île-de-France, cinque uomini e tre donne tra i 27 ei 35 anni, che secondo la polizia francese sarebbero persone “con un profilo piuttosto neutrale, che non rivelano alcun impegno militante e nessun legame noto con i gruppi a rischio. Amici su Facebook da molto tempo, i vertici del movimento avrebbero in comune la passione dei raduni automobilistici.” Il motivo della protesta è il nuovo aumento dei carburanti (dall’inizio della presidenza Macron il prezzo della benzina è aumentato già del 23%), che entrerà in vigore a partire dal primo gennaio prossimo per volere dell’Eliseo, che prosegue nel sostenere scelte ecologiste favorendo l’uso di auto ibride o elettriche contro gli inquinanti, ma a scapito di un ceto medio basso, che non può permettersele. La protesta dei gilet gialli, se trova nel caro-carburante la sua causa scatenante, è, in realtà, il risultato di un malessere sempre più diffuso tra i ceti medio bassi delle città, costretti a trasferirsi in campagna, a coltivare la terra, a causa degli aumenti delle tasse, degli affitti, della benzina e in generale del costo della vita.


23 novembre

PRIMO PIANO

“Chi ha paura del disegno?”

È questo il titolo della mostra della Collezione Ramo, comprendente più di 100 opere su carta del Novecento italiano, che saranno esposte dal 23 novembre 2018 al 24 febbraio 2019 nella Sala degli Archivi del Museo del Novecento a Milano. Il titolo scelto dalla curatrice Irina Zucca Alessandrelli è volutamente provocatorio, ironizza, infatti, sulla mancanza di una cultura del disegno e si propone di presentarlo in questa mostra sotto una luce completamente inaspettata, sia per la scelta delle opere dal grande impatto visivo, sia per l’allestimento al di fuori delle modalità tradizionali. Il Museo del Novecento costituisce la sede ideale per ospitare “Chi ha paura del disegno?” poiché offre al visitatore la possibilità di un confronto diretto con le opere della sua collezione permanente, i cui autori in gran parte coincidono con quelli della Collezione Ramo. La Collezione, una delle maggiori raccolte private di opere su carta del XX secolo, iniziata alcuni anni fa dall’imprenditore milanese Giuseppe Rabolini, ripercorre le tappe del disegno nella storia dell’arte italiana del primo Novecento e segue le tracce su carta dei maggiori protagonisti delle avanguardie storiche fino ai primi anni Novanta. Di 110 di artisti sono documentate le diverse fasi stilistiche con le più disparate tecniche su carta (acquerelli, collage, tempere, matite) per un totale di oltre 500 opere. L’esposizione, allestita con video di Virgilio Villoresi, intende riscoprire alcuni capitoli della storia dell’arte, con tagli tematici trasversali e opere mai esposte prima, da Boccioni a Paolini, passando per Cagnaccio, Fontana, Melotti, Rama, Mauri, Castellani, Agnetti, Gnoli, Mondino, Pascali, Salvo e molti altri di cui non si conosce quasi la produzione su carta. Il pubblico potrà apprezzare inediti e grandi capolavori che offrono una nuova lettura di artisti conosciuti soprattutto per la produzione su tela come Cagnaccio di San Pietro, Tancredi, Gnoli, Burri, o per la scultura come Wildt, Marini, Consagra. Di alcuni artisti sono esposte opere degli anni giovanili o la produzione tarda, che svela aspetti interessanti e inediti. Sono presenti anche le opere di artisti come Rho, Munari o quelle su carta di autori noti per le installazioni con materiali poveri come Merz, Kounellis, Anselmo e Calzolari. Lo scopo della mostra è di testimoniare la grande importanza dell’arte italiana del secolo scorso e, nello stesso tempo, di promuovere una cultura del disegno dal valore autonomo, al pari della pittura e della scultura.

1598_depero_elevetet_1929_restaurato-590x463(Fortunato Depero – Elevetet, 1930)

DALLA STORIA

Il terremoto dell’Irpinia: una tragedia immane. 

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Una domenica di 38 fa, il 23 novembre 1980, una forte scossa di terremoto della durata di circa 90 secondi, con un ipocentro di circa 30 km di profondità, colpì un’area di 17.000 km², che si estendeva dall’Irpinia al Vulture, posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza. I comuni più duramente colpiti (decimo grado della scala Mercalli) furono quelli di Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto e Santomenna, ma gli effetti si estesero a tutta l’area centro meridionale della penisola e anche a Napoli, dove molti edifici lesionati e vecchie abitazioni in tufo subirono gravi danni: a Poggioreale crollò un palazzo in via Stadera, probabilmente a causa di difetti di costruzione, causando 52 morti. Alcuni Comuni vicini all’epicentro – tra i quali Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Conza della Campania, Laviamo, Muro Lucano – furono quasi rasi al suolo, altri gravemente danneggiati. Crolli e devastazioni avvennero anche in altre province campane e nel potentino, come a Balvano, dove il crollo della chiesa di S. Maria Assunta causò la morte di 77 persone, di cui 66 bambini e adolescenti che stavano partecipando alla messa. Una immane Tragedia! Anche a Potenza la scossa fu avvertita in maniera fortissima, trasformando una tranquilla, tiepida domenica di novembre in un incubo: la gente fuggì urlando dove poteva, dirigendosi in lunghe file di macchine verso le campagne, dove molti vennero ospitati da parenti e amici o dormirono anche nei giorni seguenti e per molto tempo in posti di fortuna. Di tornare a casa neanche a parlarne, perché le scosse erano continue, alcune anche di forte intensità, le scuole rimasero chiuse per circa due mesi e in pochi attimi la vita fu sconvolta. Per molte ore la città e le zone colpite furono completamente isolate, non si poteva comunicare con i familiari e gli amici in apprensione, perché in quegli anni non esistevano i cellulari, tanto meno gli smartphone, mentre solo radio e televisione trasmettevano di continuo immagini di cumuli di macerie e bollettini più gravi di quelli di una guerra. A Potenza, purtroppo ci furono due vittime, una coppia di fidanzati, che, corsi fuori dal cinema, furono colpiti dai pezzi di un cornicione staccatosi dal Palazzo della Prefettura e crollò un palazzo nella zona dei giardini di Montereale, ma il resto degli edifici restò in piedi, pur riportando gravi lesioni. A chi arrivava in città dall’autostrada, Potenza, posta su un’altura, mostrava un aspetto spettrale, senza vita. Ore, giorni e mesi terribili, con la preoccupazione del domani, mentre continuamente si avvertiva (orribile e indescrivibile sensazione!) il tremito sotto i piedi e il vuoto nella testa, senza tregua, non riuscendo quasi a dormire. Allora non c’era ancora la Protezione civile, che proprio in seguito a tale drammatico evento cominciò a prendere forma fino ad essere istituzionalizzata con la legge 225 del 1992, ma solerte e diciamo pure eroica fu l’opera dei volontari che scavarono anche a mani nude per estrarre le persone dalle macerie. Sicuramente di conforto fu l’arrivo a Potenza, nei giorni immediatamente successivi al sisma, di papa Giovanni Paolo II, che atterrò in elicottero sul piazzale dell’Ospedale San Carlo, dove erano ricoverati i feriti, che visitò per far sentire loro il suo affetto e la sua vicinanza. Anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia e, di ritorno dall’Irpinia, denunciò con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi, che sarebbero arrivati in tutte le zone colpite solo dopo cinque giorni. Lapidario il suo monito ancora di grande impatto ed attualità: “Il miglior modo di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi.” Quello dell’80 è stato uno dei più terribili terremoti della storia d’Italia e il più grave degli ultimi 50 anni, per certi versi simile a quello che recentemente ha colpito il centro Italia, ma oggi, a 38 anni di distanza, nonostante i ritardi, gli sprechi e le inchieste, l’Irpinia non conserva se non in minima parte le tracce di quel disastro, così come pure la Basilicata, dove è stato ricostruito il 90% circa delle abitazioni private (con “punte” del 100% a Balvano, nel Potentino, uno dei centri più colpiti dal sisma con 77 vittime) con un finanziamento complessivo di circa 4.840 miliardi di lire (circa 2,5 miliardi di euro). Sono state realizzate anche nuove infrastrutture e aree industriali, come gli stabilimenti della Ferrero di Balvano e Sant’Angelo dei Lombardi, la Fiat a Melfi e decine di piccole imprese di imprenditori locali.

image002-2(Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini abbraccia commosso i terremotati)


22 novembre

PRIMO PIANO

Kenya: rapita una volontaria italiana.

Una ventitreenne milanese, Silvia Romano, volontaria per una Onlus marchigiana, è stata rapita in Kenya da uomini armati durante un attacco nel quale sono rimaste ferite cinque persone. L’assalto è avvenuto intorno alle 20:00 di ieri nella località di Chakama, nel sud-est del Paese, circa 80 chilometri a ovest di Malindi. Silvia Romano si era laureata a febbraio con una tesi sulla tratta di esseri umani a livello internazionale e, subito dopo la triennale, aveva deciso di misurarsi con il mondo del lavoro e della cooperazione internazionale, infatti si trovava in quell’area con la Onlus Africa Milele, che ha sede a Fano e si occupa di progetti per l’infanzia. Il suo ultimo post su Facebook del 17 novembre la ritrae sorridente in un villaggio, alle spalle di una capanna di legno, con degli abiti tipici africani, sul post aveva scritto: “Si sopravvive di ciò che si riceve ma si vive di ciò che si dona”. La Presidente della Onlus Lilian Sora ha detto: “A quanto ci hanno raccontato le persone che abitano nel villaggio sono arrivati quattro-cinque individui armati che hanno lanciato un petardo, facendo sollevare la sabbia e hanno sparato più volte. Poi sono andati, a colpo sicuro, nella casa dove era la nostra volontaria, probabilmente perché lì sapevano che c’era una italiana, anche se non so spiegarmi il motivo di quello che è successo. In quel momento era da sola, perché altri erano partiti e altri ancora arriveranno nei prossimi giorni.” La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per sequestro di persona a scopo di terrorismo. Nella zona ci sono stati altri rapimenti di stranieri da parte di fondamentalisti islamici con base in Somalia. Secondo “Repubblica” sarebbero state arrestate 14 persone coinvolte nel sequestro, nessuna delle quali farebbe parte del commando di rapitori, ma protrebbe aver avuto contatti con loro o esserne complice. Sembra non convincere l’ipotesi che il sequestro sia opera degli Al Shabaab, gli integralisti islamici somali che seminano da anni il terrore in Somalia e in Kenya, facendo centinai di morti e in passato hanno rapito degli occidentali. Gli investigatori sono cauti, pensano si tratti di criminalità comune, ma tutte le piste vengono battute, le ricerche si concentrano nella vicina foresta, utilizzata anche dai terroristi di Al Shabaab come nascondiglio.

DALLA STORIA

22 novembre 1963: John F. Kennedy viene assassinato a Dallas!

Quel giorno, il “New York Times” scriveva: “La perdita personale è profonda e schiacciante, la perdita per la nazione e per il mondo è storica e travolgente. John F. Kennedy era un uomo di intelletto e uomo d’azione; rappresentava la vitalità e l’energia, l’intelligenza e l’entusiasmo, il coraggio e le speranze di questi Stati Uniti della metà del XX secolo”.

“… Ma credo che il nostro tempo esiga inventiva, immaginazione, rinnovamento e decisione. Io chiedo a ciascuno di essere uno dei pionieri di questa nuova frontiera”. (JFK)

image001(Il feretro di Kennedy avvolto nella bandiera americana. Le solenni esequie si svolsero il 25 novembre e alla processione presero parte anche de Gaulle e il vice di Chruščëv, Mikoyan, nonché i rappresentanti di ben altre novanta nazioni)

Il 22 novembre 1963 Kennedy veniva assassinato a Dallas. Il 25 novembre le spoglie di JFK vennero seppellite nel cimitero di Arlington, dopo una cerimonia solenne. Jackie, ormai vedova Kennedy, prima di lasciare la casa Bianca, dove era stata la first lady per quasi tre anni, scrisse una lettera di ringraziamento a Chruščëv per le condoglianze personali e del popolo sovietico che questi le aveva porto: “Caro signor Primo Ministro, desidero ringraziarla per aver inviato il signor Mikoyan a rappresentarla ai funerali di mio marito. Mi è apparso molto addolorato e questo mi ha commossa. … Ora, in una delle ultime sere che trascorrerò alla Casa Bianca, in una delle ultime lettere che scriverò su questa carta intestata, voglio scriverle il mio messaggio. Lo invio solo perché so quanto mio marito aveva a cuore la pace, e quanto considerava importanti i suoi rapporti con lei. … Il pericolo che assillava mio marito è che la guerra potesse essere incominciata non tanto dai grandi, bensì dai piccoli uomini. Mentre i grandi uomini conoscono la necessità dell’autocontrollo, i piccoli uomini a volte sono mossi dalla paura e dall’orgoglio. Mi auguro che in futuro i grandi uomini possano continuare a far sì che i piccoli uomini siedano a discutere prima di cominciare a combattersi.” … (M.R. Beschloss, Guerra Fredda … op.cit., pag. 694). L’assassinio di Kennedy, avvenuto in diretta nel modo che tutti conosciamo, sconvolse la coscienza collettiva, fu come un’esplosione deflagrante e inaspettata per la mentalità ancora innocente e idealista dell’epoca. Il mondo si sentì tradito dal suo assassinio. Come ha raccontato lo storico Arthur M. Schlesinger, sembrò “di aver perso qualcosa di vitale, cioè la visione dell’America come repubblica umana, razionale, democratica, che collabora con gli altri paesi e le istituzioni internazionali per promuovere la democrazia, i diritti umani, la pace”. “Kennedy era morto giusto nell’anno in cui si stavano realizzando le illusioni da lui stesso create. Insieme a suo fratello Robert, nell’estate del 1963 si era messo a capo della crociata per la giustizia razziale. Fu il primo presidente a dichiarare i diritti razziali: “un principio morale … antico quanto le scritture … e chiaro quanto la costituzione americana”. Una frase che aveva saputo toccare le corde profonde del popolo americano e di noi europei. Nelle case dei contadini italiani la sua fotografia, ritagliata dai giornali, figurava accanto a quella di Giovanni XXIII. Furono loro i due santi di quel tempo. Papa Roncalli è salito agli onori degli altari. Kennedy, a suo modo, è ancora venerato come taumaturgo. Perché aveva guarito il mondo dal pessimismo. Un idealista senza illusioni. Pratico, ma che sapeva suggerire agli uomini, a tutti gli uomini, la cosa giusta per migliorare l’America e il mondo. Quel ragazzo con il ciuffo, bello, aristocratico, forte, coraggioso, realista, pieno di energia, capace di tenere fede alla parola e agli impegni, aveva solo 43 anni quando assunse l’incarico, ma sussurrava l’entusiasmo dei vent’anni. Era stato il più giovane presidente americano della storia, il primo nato nel ventesimo secolo, il primo cattolico, il primo così vicino a noi europei”. (Carlo Rossella). La dinamica del suo assassinio, con il relativo corredo di fatali concatenazioni, non è mai stata accettata come completamente ammissibile dal grande pubblico, e non solo, per il semplice fatto che è difficile rassegnarsi alla plausibilità di un attentato organizzato e condotto a termine da un singolo, insignificante individuo contro uno degli uomini più potenti e potenzialmente protetti del globo. Lee Harvey Oswald, incriminato per l’assassinio di JFK, non potè mai essere giudicato perché il 24 novembre venne a sua volta ucciso da Jack Rubinstein, detto Ruby. La tesi del complotto, già avanzata da più parti e avvalorata da quanti fra i presenti al passaggio del corteo presidenziale riferivano di aver udito i colpi provenienti da direzioni diverse, avrebbe acquisito così nuovo vigore. Era una tesi che la commissione d’inchiesta, presieduta da Earl Warren, allora presidente della Corte suprema degli Stati Uniti, respinse nel settembre del 1964, dopo molti mesi di indagine e ben ventisette volumi di descrizioni del lavoro svolto. Neanche le indagini condotte a più riprese nei decenni successivi sarebbero mai riuscite a dimostrare che i colpi di fucile esplosi contro Kennedy provenivano da direzioni diverse e avvalorarono perciò la tesi del complotto. Il mistero sulla morte di JFK è l’ultimo dei segreti che John avrebbe conservato insieme ai segreti che riguardavano la sua vita privata e la sua salute.

image002-1( J.F. Kennedy a Dallas, in Texas, prima di essere colpito)


Mary Titton


21 novembre

PRIMO PIANO

La Commissione Ue boccia la Manovra dell’Italia.

La Commissione europea ha definitivamente rigettato il documento programmatico di bilancio del governo italiano per il 2019, primo atto verso l’apertura nelle prossime settimane di una procedura d’infrazione per l’Italia. Nel suo rapporto sul debito italiano scrive: “La nostra analisi suggerisce che il criterio del debito deve essere considerato non rispettato. Concludiamo che l’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito è quindi giustificata.” Bruxelles rigetta, dunque, definitivamente il documento programmatico di bilancio del governo per il 2019 in considerazione della “violazione particolarmente grave” delle regole di bilancio, un passo che non è altro che “la conseguenza logica e inevitabile della decisione presa dalle autorità italiane”, sostiene il commissario Ue Pierre Moscovici, che aggiunge: “Negli ultimi mesi c’è stato un autentico impegno di dialogo della Commissione, abbiamo incontrato Giovanni Tria più volte di quanto possa ricordare ma le nostre domande, i nostri dubbi permangono. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta a queste domande. Da dove proviene questa crescita aggiuntiva? Chi pagherà il costo di questa maggiore spesa? Noi continuiamo a credere che questo bilancio abbia dei rischi. Stiamo prendendo le nostre responsabilità nell’interesse dei cittadini italiani e nella zona euro”. Non la pensano così il premier Conte e i due vice Salvini e Di Maio, che ribadiscono l’intenzione di non cambiare il provvedimento, pur restando aperti al confronto con la Ue e dichiarandosi pronti a fornire una dettagliata spiegazione degli obiettivi e dei parametri contenuti nella legge di bilancio. Il premier Conte si dice convinto della solidità dell’impianto della manovra ed è disposto a parlarne sabato sera con Juncker. Il presidente del Consiglio aggiunge anche che “l’UE parla del debito del 2017, quindi quello del precedente governo” e che riferirà domani alle 17:00 in aula alla Camera sulla bocciatura della Manovra. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, commentando la bocciatura da parte della Commissione europea, garantisce il calo del debito, restando convinto che “il bilancio programmatico italiano assicuri il totale controllo dei nostri conti pubblici nei limiti della moderata politica espansiva resa necessaria dal rallentamento dell’economia europea e garantisca in ogni caso anche l’obiettivo della riduzione del rapporto debito-Pil più volte ribadito dal Governo”. L’Italia aveva inviato lo scorso 13 novembre un nuovo piano di bilancio, confermando però l’intenzione di mantenere inalterati saldi e deficit al 2,4, cosa che la UE non approva perché, come sostiene il vicepresidente Valdis Dombrovskis, “In una situazione di debito molto alto, l’Italia sta essenzialmente pianificando una spesa aggiuntiva significativa, invece della necessaria prudenza di bilancio”. L’allusione è certamente al reddito di cittadinanza e alle pensioni quota 100 con la revisione della legge Fornero, misure che la Ue reputa non in linea con la politica di austerità che cerca d’imporre all’Italia anche con la denuncia di violazione del Patto di stabilità e minacce di procedure d’infrazione. La guerra è aperta.


20 novembre

PRIMO PIANO

“I diritti dei più piccoli”.

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Ricorre oggi la giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, celebrata ogni anno nella data, in cui, il 20 novembre 1989, la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia venne approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Oggi 194 Stati aderiscono alla Convenzione, ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176, ma non dagli USA. In occasione della ricorrenza l’Onu sottolinea come sia fondamentale rimettere al centro i diritti dei bambini con una campagna volta a impegnare i governi al rispetto di questi “diritti che non sono negoziabili.” Nel mondo sono 262 milioni i bambini che si vedono negato il diritto allo studio, 650mln le ragazze sotto i 18 anni alle quali è stato impedito di andare a scuola, perché costrette al matrimonio, e 5,5 mln i bambini morti prima dei 5 anni per cause che potevano essere evitaie. Come sottolinea anche Save The Children, “Nel mondo tanti, troppi bambini continuano a morire ogni giorno perché non hanno cibo, acqua o cure mediche. E sono tantissimi quelli che non possono andare a scuola perché vivono in zone di guerra o perché sono costretti ad andare a lavorare, così come milioni di bambine e ragazze diventano adulte troppo presto perchè costrette a sposare uomini spesso più grandi di loro”. Secondo l’Organizzazione, circa 5,4 milioni di bambini, ogni anno, muoiono prima di aver compiuto il quinto anno di età a causa di malattie facilmente curabili o per cause legate alla malnutrizione. Le condizioni di vita dei bambini sono particolarmente gravi nelle zone di guerra, dove attualmente vivono 350 milioni di minori, che nella vita quotidiana incontrano spesso ostacoli enormi circa l’accesso al cibo, all’acqua pulita o alle cure mediche. Soltanto in Yemen, a più di tre anni e mezzo dall’escalation delle violenze, più di 5 milioni di bambini stanno soffrendo la carenza di cibo, 1 minore su 2 nel Paese soffre di malnutrizione cronica e più di 400.000 sotto i 5 anni sono affetti da malnutrizione acuta grave. In Siria, allo stesso modo, più di 13 milioni di persone hanno ancora bisogno di assistenza umanitaria e quasi 2.400 bambini con meno di 5 anni rischiano di morire per malnutrizione entro fine anno. Anche nei Paesi Ocse sono circa 30 milioni i bambini e ragazzi in povertà relativa grave, una piaga che tocca anche l’Italia, dove 1,2 milioni di bambini e adolescenti vivono in condizioni di povertà assoluta. Nei Paesi ad alto reddito a queste situazioni si aggiungono gli atti di bullismo e le molestie sessuali per non parlare dei minori non accompagnati di cui, una volta sbarcati, si perdono le tracce. I diritti dei bambini, purtroppo, sono ancora violati in troppe parti del mondo!


19 novembre

PRIMO PIANO

Pompei: “Ritrovamento eccezionale e unico”.

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Così il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Massimo Osanna, definisce la scoperta di un grande affresco venato di erotismo, rinvenuto sulla parete di una piccola camera da letto in una domus affacciata sul lato orientale di via del Vesuvio, una parallela della ormai famosa Via dei Balconi. La casa si trova nello scavo della Regio V, la zona della città vesuviana oggetto di un vasto intervento di ricerca, che continua a regalare, ormai da cinque mesi, sorprese ininterrotte. La scena, sensuale e conturbante, ritrae il mito di Leda e il cigno: l’accoppiamento tra Giove, trasformatosi in cigno, e Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta. Secondo il mito, Zeus, innamorato di Leda, si trasformò in un cigno per accoppiarsi con lei sulle rive del fiume Eurota. Nella stessa notte la bella regina giacque anche con il marito Tindaro. Dopo queste unioni, da due uova giganti nacquero i Dioscuri Castore e Polluce e Elena e Clitennestra. L’archeologo sottolinea che “la fattura è di altissima qualità”, affidata a mani abilissime, mentre il modello di riferimento, particolarmente colto, sembra sia la Leda di Timòteo, famoso scultore greco del IV secolo a. C. L’affresco, prezioso e sensuale, è spettacolare. I colori sono vividi e intatti: lo sfondo rosso, la gamma dei rosa dell’incarnato della regina, la gradazione dei bianchi e celesti del cigno sono sopravvissuti alla furia dell’eruzione; le figure, concepite con una sensualità esplicita, hanno fattezze eccezionali: Leda, con lo sguardo rivolto all’osservatore, appare quasi del tutto nuda, appena coperta da un drappo d’oro, che solleva con una delle sue morbide braccia, quasi a voler proteggere il Cigno dallo sguardo di chi entra. L’affresco si trova all’interno, appena oltrepassato il grande atrio della casa, certamente opulenta, piena di meraviglie e di decori di grande impatto. Purtroppo non si conosce il nome del proprietario di questa ricca domus, secondo Osanna l’ipotesi più probabile è quella di “un ricco commerciante, forse anche un ex liberto ansioso di elevare il suo status sociale con il riferimento a miti della cultura più alta”. Proprio per esigenze di sicurezza del sito, gli altri ambienti di questa ricca dimora non potranno essere riportati alla luce e per proteggere i due splendidi affreschi, il ritratto di Leda e un Priapo ritrovato l’estate scorsa nell’entrata della stessa domus, sarà valutata l’ipotesi di rimuoverli e spostarli in un luogo sicuro, dove possano essere ammirati dai visitatori.

DALLA STORIA

Donne coraggiose.
La giornalista Maria Grazia Cutuli viene barbaramente uccisa in Afghanistan.
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Catanese di nascita, Maria Grazia Cutuli lavorava per il Corriere della Sera, a Milano quando a 39 anni, il 19 novembre 2001, fu uccisa a colpi di kalashnikov in un agguato in Afghanistan, lungo la strada tra Jalalabad e Kabul. La giovane giornalista aveva lunghi capelli rossi, un fisico minuto, un carattere determinato e tenace ma, soprattutto, aveva le idee chiare su quello che voleva fare: stare nelle cosiddette “trincee del dolore” per testimoniare di prima mano, attraverso i suoi articoli coraggiosi i fatti e il dolore tragico delle popolazioni, in particolare quello dei bambini vittime degli orrori della guerra.  Ne scriveva con puntigliosa professionalità, svolgendo bene il suo lavoro di giornalista, con rigore e passione, per amore della verità, una “leonessa”: “apparteneva a quelle persone la cui stanchezza si trasforma in fuoco”, così l’aveva ricordata una collega del giornale all’indomani della tragedia. Il giorno prima del suo assassinio, il Corriere della Sera aveva pubblicato un suo reportage, uno scoop, su un deposito di gas nervino in una base abbandonata dai terroristi di Al Qaeda, l’ultimo di una lunga serie di articoli che Maria Grazia aveva scritto da una delle zone più turbolente del momento sia per il Corriere della Sera sia per altri giornali per cui aveva lavorato in passato. La giornalista si era laureata all’Università di Catania con una tesi su “Spazio e potere”, di Michel Foucault con il massimo dei voti e aveva esordito nella sua Catania, in un primo momento scrivendo di teatro per la Sicilia, poi lavorando in video conducendo il telegiornale dell’emittente locale Telecolor. Nel 1987, il salto a Milano, alla Mondadori: prima il periodico Centocose, quindi il settimanale Epoca. Per Epoca, Maria Grazia scrive dalla Bosnia, dal Congo, dalla Sierra Leone e dalla Cambogia. Quando la testata chiude, segue un corso di peacekeeping alla Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa, per poi trascorrere da volontaria un periodo in Ruanda con l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani. Nel 1997 ritorna alla sua professione di giornalista con il Corriere della Sera che le offre un contratto a termine alla redazione Esteri e, nel 1999, la assume definitivamente. Due anni più tardi, la tragica morte insieme all’inviato del quotidiano El Mundo Julio Fuentes, il report australiano Harry Burton, l’operatore afghano Azizullah Haidari entrambi della Reuters, tra le montagne dell’Afghanistan. Per far luce sul tragico episodio vennero istituiti due processi, uno in Italia e l’altro in Afghanistan, che hanno portato alla pena capitale tre persone. La prima delle condanne è stata eseguita a Kabul l’8 ottobre 2007: in quella occasione la famiglia di Maria Grazia ha ribadito la propria contrarietà (la madre diede lezione opponendosi alla condanna a morte dei killer dicendo “Inutile, non ci restituisce nostra figlia”). In ricordo di Maria Grazia, nel 2008, è stata istituita la “Fondazione Maria Grazia Cutuli”, un’Organizzazione non lucrativa di Utilità sociale” che persegue finalità di solidarietà sociale come la promozione e il sostegno di progetti nel campo dell’istruzione e della formazione della professione del giornalismo con l’obiettivo di favorire la lettura della stampa e dei quotidiani e dei loro protagonisti, di stimolare la ricerca e il conseguimento di un’effettiva libertà di stampa e della completezza dell’informazione, di aiutare i giovani che vogliono intraprendere la professione giornalistica, di aiutare le donne che incontrino difficoltà nell’accesso o nello svolgimento di questa professione, di creare le condizioni per una maggiore sicurezza dei giornalisti e degli operatori della comunicazione che svolgano la loro attività in zone di guerra o di guerriglia, in aree instabili politicamente o sottoposte ad attacchi terroristici, in territori colpiti da gravi calamità naturali. Fra le sue principali attività organizza il Premio internazionale di giornalismo Maria Grazia Cutuli e il Corso di perfezionamento per giornalisti in aree di crisi. A partire dal 2009 la Fondazione si è impegnata nel campo degli aiuti umanitari per la ricostruzione di aree di crisi con il progetto di una scuola elementare ad Herat in Afghanistan inaugurata il 4 aprile 2011; “Un segno tangibile”, ama ripetere il fratello Mario “dell’amore di Maria Grazia per quei paesaggi, per quei cieli, per quella gente, per quei bambini”.

image002(La scuola Maria Grazia Cutuli a Herat)

Mary Titton


18 novembre

PRIMO PIANO

“Il grido dei poveri.”

La Giornata Mondiale dei poveri è stata istituita da Papa Francesco il 21 novembre 2016, a conclusione del Giubileo straordinario della misericordia con la Lettera apostolica “Misericordia et misera”. Quest’anno, dopo l’Angelus in Piazza San Pietro, il Papa ha partecipato con circa 3.000 indigenti al pranzo allestito nell’Aula Nervi e animato dai giovani della Banda del Santuario di Pompei. Contemporaneamente altri bisognosi sono stati ospitati nelle mense delle parrocchie di Roma e in quelle delle diverse realtà assistenziali e associazioni di volontariato che hanno aderito all’iniziativa. Simile pranzo conviviale si è ripetuto in migliaia di diocesi italiane che, in occasione di questa giornata, hanno deciso di aprire le loro porte ai poveri. Prima, nell’omelia in Piazza San Pietro, di fronte a 6mila indigenti, accompagnati dai volontari e da esponenti delle varie realtà caritative che li assistono, Francesco ha invitato ad ascoltare “il grido dei poveri” e ha spiegato che il grido dei poveri è quello “dei tanti Lazzaro che piangono, mentre pochi epuloni banchettano con quanto per giustizia spetta a tutti. L’ingiustizia è la radice perversa della povertà.” Bergoglio ha chiesto di ascoltare questo grido, che è quello “strozzato di bambini che non possono venire alla luce, di piccoli che patiscono la fame, di ragazzi abituati al fragore delle bombe anziché agli allegri schiamazzi dei giochi, il grido di anziani scartati e lasciati soli, il grido di chi si trova ad affrontare le tempeste della vita senza una presenza amica. È il grido di chi deve fuggire, lasciando la casa e la terra senza la certezza di un approdo. È il grido di intere popolazioni, private pure delle ingenti risorse naturali di cui dispongono.” Davanti a questi scenari, il Papa ci chiede di non restare inerti e rassegnati, ma di “rispondere con una nuova visione della vita e della società”. È, dunque, un appello a contribuire in modo efficace al cambiamento della storia generando e promuovendo vero sviluppo e solidarietà, perseguendo il bene comune, ripensando i nostri stili di vita e rimettendo al centro le relazioni fondate sul riconoscimento della dignità umana.


17 novembre

PRIMO PIANO

Topolino compie 90 anni.

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Topolino, il famoso topo antropomorfo che veste pantaloni rossi, grandi scarpe gialle e guanti bianchi, fu creato nel 1928 da Walt Disney, che, ispirato da un topino curioso che faceva capolino ogni giorno nel suo ufficio presso il Laugh-O-Gram Studio, a Kansas City, lo disegnò e gli diede il simpatico nome di Mickey Mouse. Nel 1928 Walt Disney era un giovane regista alle prime armi, che aveva perso i diritti del suo primo personaggio di successo, Oswald il coniglio fortunato, e l’intero staff del proprio studio di Hollywood; ebbe allora l’idea di creare un nuovo personaggio, Mickey Mouse, che realizzò con l’unico collaboratore rimastogli, Ub Iwerks. Per settimane, lavorando di notte in un garage, in gran segreto Disney e il suo braccio destro Iwerks, che disegnò fino a 700 animazioni al giorno, prepararono in tutta fretta il primo film di Mickey Mouse. Il debutto cinematografico del personaggio avvenne il 18 novembre 1928 nel cortometraggio “Steamboat Willie”, che riscosse un notevole successo grazie anche alla presenza di trovate visive e sonore perfettamente fuse tra loro. Ispirato a una comica di Buster Keaton, durava 7 minuti e accanto a Mickey Mouse comparivano anche Minnie, la storica fidanzata e il suo grande nemico Pietro Gambadilegno. Il successo fu clamoroso e destinato a durare nel tempo: da allora il personaggio è apparso in oltre 135 cortometraggi ed è diventato così popolare che l’attore-regista più famoso del mondo, Charlie Chaplin, nel 1931 volle che un cortometraggio di Topolino accompagnasse tutte le proiezioni del suo ultimo film, “Luci della città”. Nei fumetti Mickey Mouse debuttò sui quotidiani due anni dopo, il 13 gennaio 1930, con la storia “Topolino nell’isola misteriosa”, in cui Mickey Mouse vive avventure scanzonate e il personaggio è sempre pronto al divertimento come un monello qualsiasi. Le storie sono ambientate in campagna, in una città senza nome e ogni striscia culmina con una battuta o con uno spiritoso colpo di scena. Quando il 5 maggio del 1930 fa il suo esordio, con la storia “Topolino e la valle della morte”, Floyd Gottfredson, il nuovo disegnatore cambia il carattere del personaggio, trasformandolo da monello scansafatiche a cittadino modello e detective infallibile e perspicace; la seconda storia è già un’autentica avventura a sfondo giallo e le seguenti sono prevalentemente avventurose, senza rinunciare alla gag. In 90 anni Topolino ha seguito le mode ed ha vissuto, come una persona reale, gli eventi più importanti: dai gangster dell’America anni ’30 all’età del Jazz, dalla Seconda guerra mondiale alla guerra fredda, dall’incubo atomico alla conquista dello spazio. I fumetti di Topolino esordirono in Italia il 30 marzo 1930 sul n.13 del settimanale torinese “Illustrazione del Popolo”, dove fu pubblicata la prima striscia disegnata da Ub Iwerks e intitolata “Le avventure di Topolino nella giungla”. Dopo altre pubblicazioni, il 31 dicembre 1932 uscì il primo numero del settimanale a fumetti dedicato al personaggio, intitolato “Topolino”, edito dalla casa Editrice Nerbini; nel 1935, poi, la testata fu acquisita da Mondadori, che la pubblica ancora oggi. Di fronte al successo della sua creatura, destinata a diventare l’icona della Walt Disney Company e della cultura popolare mondiale, Walt Disney amava ripetere: “Spero che non ci si dimentichi mai di una cosa: tutto è cominciato con un topo”.

16 novembre

PRIMO PIANO

Centrafrica: ancora violenze e morti.

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Forze ribelli ex Seleka hanno attaccato un gruppo di rifugiati, quasi tutti cristiani, nella cattedrale della Diocesi di Alindao, nel sud del Paese, a meno di 100 chilometri dalla Repubblica democratica del Congo. Notizie ufficiali parlano di 42 morti, quelle noufficiali di oltre 100: lo fa sapere la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Nell’attacco, che si sarebbe verificato ieri, molte case sono state saccheggiate e bruciate e sarebbero stati uccisi anche due sacerdoti. L’attentato sarebbe stato compiuto dalle forze ribelli a maggioranza musulmana, ex Seleka del generale Ali Darassa, di etnia peul, in risposta all’uccisione di un musulmano da parte delle milizie rivali Anti-balaka, avvenuta il 14 novembre. I miliziani hanno dato l’assalto ad un centro di rifugiati diocesano che ospita oltre 25mila sfollati, non solo cristiani, ma anche musulmani. La Chiesa centrafricana, infatti, soprattutto dopo la visita di papa Francesco che il 29 novembre 2015 aveva inaugurato il Giubileo della Misericordia proprio presso la Cattedrale della capitale Bangui, continua a promuovere la concordia fra le fazioni in lotta. Il sacerdote ucciso è padre Blaise Mada, “un uomo mite, un uomo di preghiera e un uomo che amava la Chiesa, un uomo buono”, come lo desrive il vicario generale, che ha anche detto: “Umanamente siamo tristi, ma spiritualmente siamo forti. Perché questo attacco non può far tacere la Chiesa. No, mai … La Chiesa ha questa forza di andare avanti. Nella persecuzione. Quindi noi che siamo vivi, continuiamo questa missione per parlare della pace, condannare le violenze e chiedere a tutti di convertirsi.” L’assalto ha fatto seguito ai raid delle scorse settimane nel Nord, nell’area di Batangafo, non lontano dalla frontiera con il Ciad, che avevano provocato oltre molti morti circa 10mila sfollati. Su questi raid presso almeno tre campi per sfollati interni che ospitavano migliaia di persone, c’è la testimonianza della Ong umanitaria Medici senza frontiere (Msf), che ha visto arrivare tantissimi feriti nell’ospedale dove opera, prprio a Batangafo.


15 novembre

PRIMO PIANO

Usa: La carovana dei migranti è arrivata al confine.

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Continua la marcia della carovana dei migranti che hanno attraversato tutto il Centro America per raggiungere gli Stati Uniti. In 400 sono arrivati al confine tra Stati Uniti e Messico: prima un’ottantina appartenenti alla comunità Lgbtq, in fuga da discriminazioni e violenze, poi il resto. È la testa della carovana di migranti partita dall’Honduras e da settimane in marcia verso il sogno americano. E’un’avanguardia di disperati che ha fatto oltre 4.300 km fino a Tijuana, al confine con la California, non distante da San Diego. Sono riusciti a staccare il grosso del gruppo, ancora a migliaia di chilometri di distanza, perché hanno raggiunto la frontiera sud degli Usa usando nell’ultimo tratto treni o autobus. Molti i gesti di solidarietà della popolazione locale, ma ci sono stati anche momenti di tensione, proprio sulla spiaggia dove finisce il muro voluto da Trump. La maggior parte vengono dall’Honduras, uno dei Paesi più violenti del mondo: la prima ondata è partita da San Pedro Sula, Honduras, il 12 ottobre scorso, seguita da una seconda carovana due settimane più tardi e poi da migliaia di persone. Altri due gruppi di migranti provenienti dal Salvador hanno attraversato il confine messicano, entrando nello Stato del Chiapas. La carovana nasce come movimento spontaneo e comunica attraverso messaggi su WhatsApp, dove circola l’informazione sul dove e quando incontrarsi. Migliaia di migranti, l’85% provenienti dall’Honduras e il restante da Salvador, Guatemala e Nicaragua, hanno raggiunto Città del Messico; qui si è creato un “ponte umanitario” per accoglierli e soccorrerli da parte delle autorità locali, delle organizzazioni nazionali e internazionali e della Commissione per i diritti umani della capitale (CDHDF), che hanno adibito lo spazio della cosiddetta Ciudad Deportiva a campo di accoglienza per circa 4000 persone, tra cui trecento bambini. La maggior parte di loro ha deciso di continuare il cammino, con tappe alle città di Querétaro e Guadalajara, per proseguire poi fino al confine nord e arrivare alla frontiera di Tijuana, con gli Stati Uniti. I rischi di questa nuova modalità di affrontare il viaggio sono un aumento della militarizzazione delle frontiere, come ha minacciato Trump, e le deportazioni di massa. Intanto, gli Stati Uniti annunciano la chiusura della frontiera in due punti: San Isidro e Otay. Sono oltre 7.000 i soldati schierati dal Pentagono tra California, Arizona e Texas a sostegno degli agenti federali che vigilano sulle frontiere. Una “emergenza nazionale” per affrontare la quale il presidente americano, durante la campagna elettorale per le midterm, ha detto di essere pronto a inviare fino a 15.000 soldati, più che in Afghanistan.

DALLA STORIA

Claus Schenk von Stauffenberg, il nobile attentatore di Hitler.
“Dobbiamo dimostrare al mondo che non eravamo tutti come lui”. (Claus Stauffenberg).

Claus von Stauffenberg era lacerato dalla scissione tedesca tra fedeltà alla patria e fedeltà all’umanità, e ciò può aiutare a capire la difficoltà di una resistenza armata e organizzata in Germania. Ma certo non soltanto nella Germania del Terzo Reich si presentava il fondamentale dilemma, mascherato in tante forme, tra fedeltà all’universale e fedeltà al proprio compito immediato, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità, come ha detto Max Weber, diagnostico ancora insuperato delle contraddizioni fra i sistemi di valori entro i quali si muove la nostra civiltà. Per von Stauffenberg, contro la maggioranza silente di quell’oscuro periodo storico della Germania di Hitler, davanti ai delitti del nazismo, fu imperativo disobbedire.

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Claus Schenk von Stauffenberg fu arrestato e fucilato alla schiena, assieme agli altri congiurati, per l’attentato del 20 luglio 1944 (noto anche come Operazione Valchiria) contro Adolf Hitler. Lo scopo dell’attentato era quello di eliminare Hitler e, attraverso un colpo di Stato, instaurare un nuovo governo che avesse il compito di negoziare una pace separata con gli Alleati, allo scopo di evitare la disfatta militare e l’invasione della Germania. L’attentato fu pianificato sfruttando la possibilità che offriva il piano Valchiria, ossia la mobilitazione della milizia territoriale in caso di colpo di Stato o insurrezione interna, opportunamente modificato dal colonnello von Stauffenberg. L’ufficiale tedesco era nato in Baviera, il 15 novembre 1907 e proveniva da un’aristocratica famiglia cattolica. Suo padre era il conte Alfred Schenk von Stauffenberg e sua madre era la contessa Karoline von Uxkull. Tra i suoi antenati poteva vantare il feldmaresciallo conte August Neidhardt von Gneisenau. Questi, assieme a Gerhard von Scharnhorst e Carl von Clausewitz, intraprese una radicale opera di rinnovamento di tutto il sistema militare prussiano dopo la sconfitta contro Napoleone Bonaparte alla battaglia di Jena, avendo anche il ruolo fondamentale nella creazione dello stato maggiore prussiano, la prima istituzione del genere al mondo. All’età di 19 anni, il conte von Stauffenberg si arruolò volontario nel reggimento nel quale aveva prestato servizio suo zio, il conte Nikolaus von Uxkull: il 17° Cavalleria di Bamberga. Dopo la prima guerra mondiale, l’esercito tedesco era stato drasticamente ridotto nelle dimensioni e gli aspiranti ufficiali dovevano prima prestare servizio nella truppa. Divenne, dopo quattro anni, tenete. Inizialmente, pur non condividendone alcuni aspetti, aderì al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei lavoratori, per poi rigettare la propria fede nel Governo Hitler davanti all’abiezione delle persecuzioni e quando divenne evidente la sua politica fallimentare che avrebbe portato alla rovina l’intero popolo della Germania. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, prestò servizio come ufficiale e in seguito, trasferito al comando supremo di Berlino, prese parte alla campagna di Francia e all’Operazione Barbarossa, il progetto nazista di attaccare la Russia Stalinista. Col grado di tenente colonnello fu inviato in Tunisia come ufficiale di Stato maggiore dove, durante un attacco aereo della Royal Air Force, venne ferito gravemente. Ebbe salva la vita grazie all’intevento del famoso chirurgo Ernst Ferdinand Sauerbruch ma perse la mano destra, l’occhio sinistro e due dita della mano sinistra. Per spirito di fedeltà alla patria, continuò a prestare servizio nell’esercito fino a quando si rese conto che Hitler stava portando il proprio paese verso la distruzione. “E’ tempo di fare qualcosa. Ma chi esita ad agire deve aver chiaro in coscienza che passerà alla storia come traditore; e se omette del tutto di agire, sarebbe un traditore di fronte alla propria coscienza”. “Claus von Stauffenberg”, così lo descrive Marco Innocenti, in un articolo sull’attentato del 20 luglio a Hitler pubblicato sul Sole 24Ore: “37 anni, eroe di guerra, pluridecorato, brillante ufficiale di Stato maggiore: un uomo colto, raffinato, amante della poesia e della musica, fervente cattolico, idealista, poliglotta, ostile alla mentalità conservatrice degli alti gradi dell’esercito. Ha combattuto in Polonia, in Francia, sul fronte russo, in Tunisia: ha perso l’occhio sinistro e la mano destra. L’opposizione a Hitler è nata alla vista delle atrocità commesse dai nazisti. Il disgusto è diventato ribellione, e la ribellione cospirazione. La coscienza ha il sopravvento sull’obbedienza. Nel settembre del ’43 entra nel complotto che altri ufficiali stanno portando avanti da tempo, per una “questione di onore” ma senza fortuna. Alla moglie Nina, madre dei loro quattro figli, dice:” Sento di dover fare qualcosa per salvare la Germania”. Non sopporta la vergogna di sentirsi tedesco. È un uomo alto, eretto, l’occhio sinistro coperto da una benda nera, una figura piena di fascino e di fierezza. Assume la leadership della congiura, da uomo pronto ad arrivare al limite. E il limite è l’uccisione del Fuhrer, il “caporale boemo”, come lo chiamano gli ufficiali aristocratici che si stanno organizzando per eliminarlo”. L’attentato fu fissato per il 20 luglio 1944 e si sarebbe realizzato nella sede del quartier generale di Hitler, la cosiddetta tana del lupo, a Rastenburg. Alcune circostanze resero, però, più difficile l’attuazione del piano originale. Per il forte caldo, infatti, la riunione si svolse in un edificio in legno, con le finestre aperte, e non nel bunker dove l’esplosione, non potendosi sfogare all’esterno, sarebbe stata enormemente più devastante. Inoltre, Stauffenberg aveva predisposto originariamente due bombe, ma, nella fretta, a causa dell’anticipazione della riunione di 30 minuti, riuscì ad armare solo una. Infine, il tavolo della riunione, costruito in solido legno di quercia, attutì ulteriormente la forza d’urto dell’esplosione. La bomba, contenuta all’interno di una valigetta, fu posizionata vicino a Hitler dallo stesso Stauffenberg ma venne successivamente spostata da Heinz Brandt qualche metro più lontano, facendo fallire l’attentato. Immediatamente dopo lo scoppio, Stauffenberg, come pianificato, fece ritorno a Berlino, per assumere il comando militare dell’operazione in Bendlerstrasse, per condurre da quella sede il colpo di Stato. Il tentativo di eliminare Hitler, l’ultimo di una lunga serie, fallisce. Il Fuhrer sopravvisse quasi incolume all’esplosione. È sorprendente come Hitler sia scampato ai numerosi attentati. “Su Adolf Hitler circola una specie di leggenda che lo ritrae come un uomo immortale, un uomo capace di sfuggire alla morte. Archiviato nei libri di storia come “mito di incolumità”, i commilitoni scherzavano “Quando c’è Hitler possiamo stare tranquilli”, come a dire non può succederci nulla”. “Il complotto è soffocato in un bagno di sangue. La vendetta di Hitler è feroce.” Stauffenberg e alcuni congiurati sono fucilati la sera stessa, alla luce dei fari dei camion. Molti uomini che incarnano il meglio della Germania sono condannati a morte e impiccati a ganci di macellaio”. Su ordine di Hitler, tutti i membri delle famiglie dei colpevoli dovevano essere eliminati. Questo portò all’arresto, alla deportazione e uccisione di molti innocenti, che avevano la disgrazia di condividere il nome, anche senza essere parenti, dei congiurati. La moglie di Stauffenber, Nina, e i suoi quattro figli (la donna era incinta della quinta figlia) furono arrestati dalle SS. I quattro figli furono messi sotto falso nome in un orfanotrofio in Bassa Sassonia. “Dobbiamo essere crudeli, aveva detto Hitler anni prima. Dobbiamo compiere efferatezze senza rimorsi di coscienza”. “Ora, la strada dove Stauffenberg quella sera gridò “Viva la Sacra Germania” mentre il plotone d’esecuzione faceva fuoco, si chiama Stauffenbergstrasse. Il conseguente fallimento del colpo di Stato portò all’arresto di circa 5000 persone, molte delle quali furono successivamente giustiziate o internate dei lager. Lo storico Ian Kershaw, in merito al numero totale delle vittime, scrive di circa 200 persone “Passate dalle mani del boia”.

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Mary Titton


14 novembre

PRIMO PIANO

Brexit: accordo May – Ue.

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Il Consiglio dei ministri del governo britannico, convocato per discutere la bozza di accordo con l’Unione Europea sulla Brexit, ha dato il proprio benestare: lo ha annunciato, dopo una riunione di oltre cinque ore con i suoi ministri, la premier, Theresa May, precisando che non è stata una decisione “leggera” e definendo il testo come il migliore possibile “nell’interesse nazionale”. Secondo May, la bozza consentirà a Londra di “recuperare il controllo”, mentre l’alternativa sarebbe stata “tornare alla casella numero 1”. Il testo di 585 pagine, se approvato dal Parlamento, dovrebbe entrare in vigore il 30 marzo 2019 e prevede l’uscita del Regno Unito non solo dall’Unione Europea, ma anche dall’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica) e protocolli per Irlanda/Nord Irlanda, Gibilterra e le basi aeree a Cipro. Fra i punti e gli articoli più salienti la bozza stabilisce per la Mobilità procedure per l’entrata e il soggiorno temporaneo per scopi commerciali in aree ben definite: nel dettaglio l’articolo 14 sancisce che i cittadini della Ue e del Regno Unito potranno uscire ed entrare nelle due aree con il passaporto o con la carta d’identità; dopo 5 anni dalla fine del periodo di transizione, le carte di identità potranno essere rifiutate se non rispetteranno gli standard di identificazione biometrica. Se i familiari dei cittadini della Ue e della Gran Bretagna sono cittadini di Paesi terzi, sarà necessario da subito per loro il passaporto valido. Per la Sicurezza è indicata cooperazione stretta e reciproca in materia di giustizia penale, con l’obiettivo di fornire dei mezzi efficaci per la prevenzione, le indagini, la scoperta e il giudizio dei reati penali, inoltre sono previste procedure rapide ed efficaci per l’estradizione di persone sospettate o condannate. Per la Cooperazione tematica sono stabilite la promozione di sicurezza e stabilità nel cyberspazio e la cooperazione antiterrorismo e immigrazione clandestina. Gli articoli 135 e seguenti precisano le modalità di partecipazione della Gran Bretagna al bilancio Ue per gli anni 2019 e 2020. L’articolo 149 stabilisce le modalità di restituzione da parte della Bce del capitale versato dalla Bank of England. Inoltre il Regno Unito onorerà gli impegni contratti con la Ue per i Fondi per i migranti dall’Africa e per i rifugiati in Turchia. Per le controversie l’articolo 164 prevede la creazione di un Comitato congiunto, copresieduto da Ue e Regno Unito. La bozza di accordo sulla Brexit contiene molte concessioni di Londra all’Unione Europea: tra i temi più complessi quello politicamente più rilevante riguarda il confine tra Irlanda del Nord e Irlanda, che diventerebbe la frontiera di terra tra il Regno Unito e l’Unione europea, che non potrebbe più restare “aperta”. L’accordo ha già suscitato molte contrarietà tra i conservatori più radicali sulla Brexit come Boris Johnson e Jacob Rees-Moog e si temono ulteriori defezioni dei ministri, dopo l’ultima del ministro dei Trasporti Jo Johnson, fratello di Boris, la settimana scorsa. May rischia di uscire sconfitta dal voto in Parlamento, dove oggi non ha assolutamente i numeri. La Camera dei Comuni di Londra potrebbe fissare la ratifica dell’accordo già per il prossimo 6 dicembre, ma per May si tratterà di un’impresa quasi impossibile.

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A Raffaella, se tu ci sei il mondo è più bello. Mary

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13 novembre

PRIMO PIANO

 

A Palermo la Conferenza sulla Libia.

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Si è conclusa a Palermo un’importante Conferenza internazionale sulla Libia, organizzata dall’Italia con l’obiettivo di fare passi avanti nella stabilizzazione e unificazione di quel Paese, che continua a essere diviso in due: la parte ovest, sotto il controllo del governo riconosciuto internazionalmente dall’ONU e appoggiato dall’Italia, e quella est, dove a governare sono le forze fedeli al generale Khalifa Haftar, sostenuto da Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti e appoggiato in maniera sempre più esplicita dalla Francia. Dopo una notte di trattative, il premier italiano Giuseppe Conte è riuscito a riunire in un mini-vertice i due rivali libici, il capo del governo di unità nazionale Al Sarraj e l’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar. Secondo quanto riferito da alcune fonti, “la riunione è stata molto cordiale, in un clima collaborativo e positivo tra tutti i presenti” e si è conclusa con una stretta di mano fra Al Sarraj e l’uomo forte della Cirenaica, che però non ha partecipato alla plenaria ed è ripartito subito per Bengasi, dichiarando al microfono di una televisione libica a Palermo: “Siamo in guerra. Siamo sempre in stato di guerra e il Paese ha bisogno di controllare le proprie frontiere.” e sottolineando che “la migrazione illegale viene da tutte le parti”e il fenomeno favorisce l’ingresso di miliziani e terroristi islamici. La Conferenza, a cui hanno partecipato le delegazioni di 38 paesi, è stata disertata dalla Turchia, indispettita per non essere stata invitata al mini-summit tra il generale della Cirenaica e il capo del governo di Tripoli Fayez Al Sarraj. L’ONU ha definito la Conferenza sulla Libia “un successo” e “una pietra miliare” verso una “Conferenza nazionale” da tenere in Libia agli inizi del 2019, anche se il summit si è concluso senza un documento finale da cui ripartire in vista della Conferenza allargata auspicata dalle Nazioni Unite per le prime settimane del prossimo anno. L’inviato Onu per la Libia, Ghassam Salamè, ha ringraziato l’Italia e il presidente del Consiglio Conte, ricordando che in Libia ci sono 700mila migranti irregolari, di cui migliaia sono nei centri di detenzione. Il programma dell’ONU per il futuro della Libia prevede un progetto per la sicurezza di Tripoli, riforme economiche per lo sviluppo del Paese e una road map per il suo cammino istituzionale.


12 novembre

PRIMO PIANO

Addio a Stan Lee, l’uomo che rivoluzionò i fumetti.

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È morto a 95 anni, a Los Angeles Stan Lee, il fumettista, editore e produttore di cinema e tv americano. Nato a New York il 28 dicembre 1922, è stato a lungo presidente e direttore editoriale della Marvel Comics, per la quale ha sceneggiato moltissime storie. Conosciuto anche come The Man e The Smilin’, Stan Lee, il cui vero nome era Stanley Martin Lieber, ha introdotto per la prima volta, insieme con diversi artisti e co-creatori, in special modo Jack Kirby e Steve Ditko, personaggi di natura complessa all’interno dei comic books supereroistici. Il suo successo permise alla Marvel di trasformarsi da piccola casa editrice in una grande azienda di stampo multimediale. Durante gli anni sessanta, Lee fu sceneggiatore, supervisore e direttore artistico per la maggior parte delle serie Marvel, gestì le pagine della posta, scrisse un redazionale mensile intitolato “Stan’s Soapbox” e innumerevoli articoli promozionali, firmandoli sempre con il suo caratteristico “Excelsior!” (che è anche il motto dello Stato di New York). Per mantenere il suo pressante carico di lavoro rispettando le scadenze, usò un sistema adottato in precedenza da vari studi fumettistici, che grazie al successo da lui ottenuto, oggi è conosciuto come Marvel method o Marvel style: normalmente Lee preparava, invece di una sceneggiatura completa, una sintesi schematica della storia, sulla cui base il disegnatore tracciava la composizione e la successione delle vignette; dopo che erano pronte le tavole, Lee scriveva i testi delle didascalie e delle nuvolette e controllava il lettering e la colorazione. In effetti il disegnatore era anche co-sceneggiatore o, per essere più precisi, contribuiva alla stesura della trama, provvedendo a un primo abbozzo che Lee elaborava. Lee ha creato supereroi come l’Uomo Ragno, Spider-Man, Hulk, Thor, Iron Man, i Fantastici 4, Black Panther, Avengers e X-Men. È stato anche protagonista di camei (brevi apparizioni) in quasi tutte le produzioni cinematografiche e televisive dedicate ai supereroi Marvel, che ha contribuito a ideare, a partire da “Processo all’incredibile Hulk” del 1989, in cui compare come presidente della giuria, a “I Fantastici 4” del 2005, in cui recita il suo primo vero ruolo nella parte di Willy Lumpkin, il postino gentile del supergruppo, a “Avengers: Age of Ultron” (2015), in cui è un veterano della Seconda guerra mondiale che partecipa alla festa degli Avengers e si ubriaca bevendo un liquore invecchiato mille anni, offertogli da Thor. Appare anche in film di altre produzioni: nel ruolo di se stesso nell’episodio “Papà incacchiato” de “I Simpson” e nell’episodio “Sposato con il Blob della venticinquesima stagione”, dove interpreta il celebrante del matrimonio tra l’Uomo Fumetti e la mangaka Kumiko Nakamura. Lee ha dichiarato: “Amo recitare in questi cameo. Infatti sono molto arrabbiato per il fatto che non ci siano state particine per me in Batman Begins o Superman Returns.” Nel 2016 definì il cameo in “Deadpool” come il suo preferito, ma poi cambiò idea a favore di quello in “Avengers: Age of Ultron”.


11 novembre

PRIMO PIANO

Il cohousing: Il condominio solidale.

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Il cohousing è un nuovo modo di abitare e di invecchiare insieme in un condominio o in un appartamento in città e costituisce un antidoto alla solitudine. La relazione e l’aiuto reciproco sono alla base di questo fenomeno ancora di nicchia ma in crescita, che in Italia non ha attualmente un riconoscimento e un censimento ufficiali. Questa idea di abitare è nata nel Nord Europa cinquant’anni fa, quando una madre sola con due figli pubblicò un annuncio per condividere un appartamento con altre donne nella sua situazione. In Italia ci sono le esperienze delle famiglie del cohousing San Giorgio a Ferrara, delle Case Franche e dei residenti di Ecosol, tutte realtà accomunate dal desiderio di vincere la sokitudine, quella dei bambini e quella degli anziani, dalla necssità di affrontare insieme la vita, concedendosi anche beni che altrimenti nessuno di loro, da solo, potrebbe permettersi. La relazione è al centro anche dell’esperienza della Casa di Giorgio a Roma, cohousing di anziani nato grazie alla Comunità di Sant’Egidio. Matthieu Lietaert, politologo dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, autore del saggio “Cohousing e condomini solidali” nel 2010 ha iniziato un progetto di cohousing a Bruxelles, con 30 adulti e 15 bambini. “È intergenerazionale – spiega – dai 6 mesi ai 70 anni, però il 60% degli abitanti ha 40 anni.” Dice ancora: “Quando ero piccolo giravo per le strade senza problemi, oggi la gente ha paura di lasciare fuori a giocare i bambini. Ci sono poi molti anziani che cercano soluzioni per non vivere da soli. Come fare per mantenere la privacy ma beneficiare dell’aiuto di un gruppo, anche economico? La gente pensa ci siano molti problemi, noi qui ci confrontiamo con idee, riunioni, non sempre facili. Ognuno è libero di dire quello che vuole dire, c’è sempre un grande rispetto.” Matthieu vive in un cohousing di tipo danese, con una sala comune di circa 120 metri quadri, polivalente: i mobili possono essere chiusi o aperti se c’è una festa, c’è una cucina che permette di cucinare per 40-50 persone. La condivisione dei pasti è uno dei momenti tipici del cohousing. C’è anche una sala per i bambini, che all’occorrenza si trasforma in una sala ospiti, con bagno e cucina. Ci sono pannelli solari, un posto per lavorare la legna, per i lavori manuali, il parcheggio per le bici, la lavanderia, un giardino di 300 metri quadri. In Europa la diffusione del cohousing è diversificata in base ai paesi, ma mancano stime accurate. In Danimarca esistono circa 600 comunità cohousing, in Svezia, nel 2007, si contavano circa 50 casi di cohousing, nei Paesi Bassi un centinaio. In Belgio e Regno Unito i casi di cohousing sono meno di una decina. In Italia vi sono solo pochi casi realizzati. Venerdì pomeriggio a Savona c’è stata l’inaugurazione del nuovo spazio comune di Casa Demiranda, un condominio solidale, in corso Ricci 36, in cui l’esperienza della coabitazione assume tante forme diverse tra loro, come diversi sono gli inquilini che lo abitano. È già attivo il cohousing, una casa in cui ci sono due camere con due servizi separati, ma con la zona giorno in comune.


10 novembre

DALLA STORIA

La frontiera è aperta … 29 anni fa il crollo del muro di Berlino.

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In seguito a un malinteso, a sorpresa, il 9 novembre 1989, Gunter Schabowsky, funzionario del Partito di Unità Socialista di Germania (SED) della Repubblica Democratica Tedesca, annuncia in conferenza stampa la modifica, con effetto “immediato”, delle “norme per i viaggi all’estero”. In realtà le nuove regole che consentivano le visite in Germania e a Berlino Ovest sarebbero dovute entrare in vigore nei giorni successivi, ma la notte stessa una folla di persone scese in strada si arrampicò sul muro e lo superò, dando inzio allo smantellamento del Muro stesso, principale simbolo della Guerra fredda tra le due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre, dunque, si aprirono i varchi di controllo del Muro, il giorno dopo ai posti di polizia si formarono lunghe file per poter passare a Belino ovest e nelle settimane successive molte parti del muro furono portate via dalle persone, che festeggiavano la ritrovata libertà di poter passare da una parte all’altra della città e della Germania intera, senza il pericolo di essere arrestate o uccise. Per 28 anni questa barriera di cemento armato, lunga 155 km, divise la capitale tedesca in due parti: la Berlino Est, controllata dall’Unione Sovietica e la Berlino Ovest, zona di occupazione americana, britannica e francese. La costruzione del Muro iniziò nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 per bloccare il flusso di cittadini che da est migravano verso ovest, in cerca di condizioni di vita migliori. Inizialmente costituito da pali e filo spinato, negli anni successivi il Muro fu ampliato e reso sempre più invalicabile. Due lunghe file di blocchi di cemento armato prefabbricati, alti 3 metri correvano parallele lungo il confine, controllate da torrette e posti di blocco, nel mezzo c’era una lingua di terra, nota come “la striscia della morte”, presidiata da cecchini. Si stima che oltre duecento persone siano state uccise dalle guardie mentre provavano a fuggire verso Berlino Ovest. In cinquemila circa riuscirono a varcare il confine, utilizzando diversi stratagemmi tra cui bagagliai con il doppio fondo e tunnel scavati al di sotto del Muro, la cui caduta segnò la fine della Guerra fredda e aprì la strada alla riunificazione, formalmente conclusa il 3 ottobre 1990, della Germania dell’Est con quella dell’Ovest, sotto la sovranità della Repubblica Federale. A quasi trent’anni dalla sua caduta sono ancora tanti i luoghi in cui possiamo vederne i resti. La capitale tedesca conserva ancora vari tratti in cui il Muro è stato mantenuto intatto, o quasi. Bernauer Straße, la strada di confine tra i distretti di Wedding e Mitte, è oggi, forse, il luogo più emblematico della storia del Muro. Nel centro commemorativo di Bernauer Straße il Muro è stato preservato con il terreno intorno, in modo da mantenere non solo la parte interna (Hinterlandmauer) ed esterna (Betonmauer) del Muro, ma anche la cosiddetta “striscia della morte”, dove si trovavano originariamente i mezzi di controllo, le torri e i soldati di frontiera. Il centro di documentazione, a solo pochi passi dal memoriale, offre numerose informazioni sulla costruzione del Muro, sulla vita di coloro che da un giorno all’altro si trovarono divisi dai propri familiari e sulle persone che trovarono la morte nel tentativo di raggiungere l’altro lato della città.


9 novembre

PRIMO PIANO

Germania: 80 anni fa la la Notte dei Cristalli.

Il 9 novembre 1938 in Germania, Austria e Cecoslovacchia ci fu la Kristallnacht, Notte dei cristalli, un evento che segnò l’inizio della fase più violenta della persecuzione antisemita da parte del nazismo. “Notte dei cristalli” è una locuzione di scherno, per il richiamo alle vetrine distrutte, che fu fatta circolare da parte nazionalsocialista e si diffuse poi nella storiografia. Anche l’obbligo imposto alle comunità ebraiche di rimborsare il controvalore economico dei danni fa parte dello stesso atteggiamento di beffa nei confronti dei cittadini ebrei. Il pogrom fu ordinato dagli ufficiali del partito nazista, dai membri delle SA e dalla Gioventù hitleriana su istigazione di Joseph Goebbels, uno dei più importanti gerarchi nazisti. Da una ricerca di alcuni storici tedeschi risulta che il numero degli ebrei uccisi nel pogrom fu di circa 400, mentre le persone che trovarono la morte quella notte e negli avvenimenti dei giorni seguenti furono 1500. In ventiquattro ore vennero devastate migliaia di sinagoghe, negozi, uffici e abitazioni di ebrei, circa 30 000 ebrei furono deportati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen e si verificarono anche casi di stupro. Il regime di Hitler disse che si era trattato di un’esplosione spontanea di collera popolare, dopo che a Parigi un ebreo tedesco diciassettenne, Herschel Grynszpan, aveva attentato, con successo, alla vita del terzo segretario dell’ambasciata del Reich in Francia, Ernst von Rath. In realtà, il regista e l’organizzatore delle violenze fu Reinhard Heydrich, il numero due di Heinrich Himmler, alla guida delle Ss e degli apparati di sicurezza e di polizia. Il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, descrive con compiacimento, nel suo diario, la vera dinamica dell’operazione: la polizia ricevette l’ordine di non intervenire e i vigili del fuoco badavano soltanto che il fuoco non attaccasse anche edifici di ariani. Del resto tutto ciò era perfettamente in linea con quanto Hitler aveva illustrato nel suo Mein Kampf, un delirio antisemita che non risparmiò alcuna famiglia ebrea. Le premesse giuridiche di tale inasprimento della politica razziale erano state poste già il 15 settembre 1935 con l’approvazione, da parte del Reichstag, delle cosiddette “leggi di Norimberga”, che privavano gli ebrei, in quanto ritenuti appartenenti a una razza inferiore, della cittadinanza germanica e dei diritti politici riservati ai soli Reichsbürger, cioè agli ariani tedeschi, forti del privilegio di sangue. In quello stesso autunno del ’38 ebbero inizio le deportazioni di massa: era iniziata la shoah. “Mi mancano le parole per descrivere la notte del pogrom”. Questa la frase pronunciata, nella grande sinagoga berlinese di Rykestrasse, dalla cancelliera Angela Merkel, che, nella ricorrenza del Novemberpogrom, affiancata dal presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, ha commemorato i morti della Notte dei Cristalli, affermando che i valori democratici non vanno dati per scontati e che “ la maggioranza debba restare vigile”.


8 novembre

PRIMO PIANO

Il “Codice Voynic” e il suo mistero.

Voynich_Manuscript_(32)(Illustrazione floreale)

Schiere di studiosi, linguisti, filologi e criptologi, persino esperti della Nasa e un software di intelligenza artificiale hanno cercato di risolvere il mistero impenetrabile del “Codice di Voynich”, senza riuscirci. L’opera è un manoscritto di circa 200 pagine molto antico, senza titolo, autore, data, ed è conosciuto come il “Codice Voynic” dal nome dell’antiquario inglese di origini polacche, Wilfrid Voynich, che lo scoprì in Italia in un collegio di gesuiti a Frascati, nel 1912. Voynich rinvenne, all’interno del libro, una lettera di Johannes Marcus Marci (1595-1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia, con la quale egli inviava questo libro a Roma presso l’amico poligrafo Athanasius Kircher perché lo decifrasse. Voynich stesso affermò che lo scritto conteneva minuscole annotazioni in greco antico e datò il volume al XIII secolo. Nella lettera, recante l’intestazione “Praga, 19 agosto 1665”, Marci affermava di aver ereditato il manoscritto medievale da un suo amico (che in seguito le ricerche riveleranno essere un non meglio noto alchimista di nome Georg Baresch) e che il suo precedente proprietario, l’imperatore Rodolfo II, l’aveva acquistato per 600 ducati credendolo opera di Ruggero Bacone. Le analisi al radiocarbonio collocano, con quasi totale certezza, la datazione dell’opera tra il 1404 e il 1438, anche se l’impossibilità di analizzare l’inchiostro lascia spazio a ulteriori ipotesi circa il momento in cui sia stato scritto e disegnato. Redatto con un sistema di scrittura che non è stato ancora decifrato, l’idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto. Il Codice contiene anche molte enigmatiche illustrazioni ad acquerello, che rappresentano animali e piante sconosciute, sfere celesti e donne nude, talora impegnate in attività incomprensibili. I disegni sono stati usati nel tempo per creare un’ipotetica suddivisione del manoscritto in sezioni: botanica, astrologia, biologia, farmacologia; a partire dal foglio 103 compaiono solo piccole stelle a sinistra delle righe, forse una specie di indice. Del manoscritto, conservato dal 1969 presso la Biblioteca Beinecke dell’Università di Yale (Stati Uniti), esistono oggi copie anastatiche disponibili online e il 7 novembre è uscita un’edizione a cura di Bompiani con la riproduzione a colori di ogni pagina dell’originale. Il Voynich è stato definito dal docente di filosofia medievale dell’università di Yale, Robert Brumbaugh, “il libro più misterioso del mondo”.

449px-Voynich_Manuscript_(147)(Figure femminili)

DALLA STORIA

Cicerone: la I oratio in Catilinam.

image001(Cicerone denuncia Catilina. Cicerone pronuncia in Senato la prima Catilinaria. Affresco di Cesare Maccari, 1880. Roma, Palazzo Madama, Sala Maccari)

“Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” “Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?” Così l’8 novembre del 63 a.C. Cicerone, al fine di produrre un crescendo emotivo che culminerà nella peroratio finale, apre ex abrupto il suo discorso in Senato con una apostrofe rivolta a Catilina, che viene incalzato mediante l’utilizzo di ben sette frasi interrogative che culminano con l’esclamazione divenuta proberbiale “O tempora! O mores!”. La scelta del luogo non fu casuale, Cicerone convocò infatti il Senato nel Tempio di Giove Statore sul Palatino perché era in una posizione riparata e poteva garantire una migliore difesa in caso di attacchi improvvisi, mentre in città venivano posizionati presidi armati per evitare lo scoppio di disordini. Le “Orationes in Catilinam” sono quattro discorsi pronunciati da Cicerone contro Catilina in seguito alla scoperta e alla repressione della congiura da lui organizzata. Catilina era un militare e senatore romano, rappresentante della vecchia nobilitas arricchitasi durante la dittatura sillana e poi via via indebolitasi, descritto dagli storici contemporanei e da Cicerone, tutti a lui ostili, come un uomo malvagio e depravato, che. si era candidato più volte alla carica di console per poi instaurare una dittatura, ma gli optimates, l’oligarchia senatoria, mobilitarono le loro clientele a favore di Cicerone, che vinse e venne eletto. Così, la notte del 7 novembre, Catilina e i congiurati, dopo essersi incontrati presso la casa del senatore M. Porcio Leca, ordirono una congiura che prevedeva anche l’uccisione dello stesso Cicerone. Dunque, la mattina dell’8 novembre, Cicerone, ormai consapevole di ciò che stava per accadere, fece trovare l’ingresso della sua casa sbarrato e in Senato lanciò una violenta invettiva contro il suo avversario. Catilina si presentò alla seduta del Senato, ma nessuno dei senatori rispose al suo saluto e si sedette accanto a lui. Cicerone nella sua orazione insiste sulla compattezza del gruppo e sull’isolamento del traditore dello Stato: “ Sei entrato or ora in Senato. Chi fra tutta questa folla, fra tanti amici e familiari tuoi ti ha degnato di un saluto? … E di più: il fatto che al tuo arrivo tutti codesti scanni sono rimasti vuoti e che, appena hai preso posto, tutti i consolari, che più volte furono da te destinati alla strage, hanno completamente abbandonato codesto settore con qual animo mai credi tu di doverlo sopportare?” Cicerone afferma, poi, che già da tempo sarebbe stato necessario mandare a morte Catilina, come successe a uomini meno colpevoli di lui come Tiberio Gracco, Spurio Melio, Gaio Gracco, Marco Fulvio, Gaio Servilio e Lucio Saturnino ma, nonostante il decreto del Senatus Consultum ultimum del 21 ottobre, non ordina la sua morte perché molti l’avrebbero giudicato un tiranno, autore di un gesto crudele: “Tu sarai finalmente mandato a morte solo quando non si potrà trovare più nessuno tanto malvagio, tanto scellerato, tanto a te somigliante che in ciò non riconosca apertamente un atto di giustizia. Ma finché vi sarà uno solo che osi difenderti, tu vivrai così come ora vivi, stretto d’ogni parte da numerose e fide milizie mie, perché tu non sia in grado di muovere un passo contro lo Stato.” Il console conosce tutti i progetti dei congiurati, elenca infatti tutti i misfatti di Catilina: la sua disgustosa vita privata, le attività omicide sotto il governo di Silla, i suoi debiti, le malversazioni compiute durante il governo della provincia d’Africa, l’accusa di corruzione in un processo per concussione, ma soprattutto il suo progetto di assalto armato a Roma, con la complicità di Gaio Manlio. Quando Catilina chiede di riferire al Senato: “ Fanne proposta al Senato”, Cicerone non cade nel tranello, sapendo che seduti vi sono anche amici del traditore ed indecisi, gli intima, invece, di uscire dalla città e partire per l’esilio: “Esci da Roma, Catilina, libera la repubblica dall’ansia e, se questa è la parola che attendi da me, parti per l’esilio.” Cicerone non decreta però l’esilio, poiché solo il giudizio popolare può deliberare tale pena, ma consiglia a Catilina di allontanarsi dalla città: “Non te lo impongo, ma se chiedi il mio parere, te lo consiglio.” Secondo il console, numerosi sono coloro che difendono o sottovalutano l’azione di Catilina e nel Senato siedono molti dei congiurati, per tale ragione Cicerone non lo condanna a morte, nonostante il decreto del Senato Consulto. L’oratore, con una prima prosopopea, immagina che la patria rimproveri Catilina per le crudeltà commesse, invitandolo ad andarsene da una città che non lo vuole più. “Orbene, te odia e teme la patria, che è madre comune di tutti noi, e già da tempo è convinta che nient’altro tu volga in mente che il suo assassinio e tu di lei non rispetterai l’autorità, non t’inchinerai al giudizio, non paventerai la forza?” Con la seconda prosopopea dà poi voce alla patria, da cui immagina di essere rimproverato per la sua scelta di non condannare a morte Catilina; il console si giustifica dicendo che l’arrivo di Catilina al campo di Manlio renderà palesi tutti i suoi propositi parricidi, così la radice stessa e il germe di tutti i mali verranno distrutti, perché partirebbero anche tutti i suoi complici. L’orazione si chiude con una preghiera a Giove Statore, la divinità a cui si affidava la salvezza della patria. Questa orazione rappresenta il momento più alto dell’ oratoria politica ciceroniana, in quanto Cicerone dimostra di saper adattare il proprio stile alla situazione in cui si trova, apostrofando Catilina come se lui, il console, avesse già in mano le prove della congiura e, abbandonando la concinnitas, usa uno stile caratterizzato da frasi interrogative brevi e incalzanti, tese a generare un intenso pathos nell’ascoltatore dell’epoca e nel lettore di oggi.


7 novembre

PRIMO PIANO

USA: Elezioni di mediotermine.

Nelle elezioni di Midterm i democratici, dopo otto anni, hanno riconquistato la Camera raggiungendo la quota di 220 seggi, necessari a ottenere il controllo di questo ramo del Parlamento, mentre i repubblicani con 199 seggi si rafforzano al Senato. “Un enorme successo questa sera. Grazie a tutti”, ha twittato il presidente Usa Donald Trump commentando l’esito delle elezioni, nonostante la sconfitta alla Camera. Da parte sua, la leader dei progressisti alla Camera, Nancy Pelosi, che l’anno scorso aveva evocato l’impeachment per il ministro della Giustizia, ha esclamato felice: “Un nuovo giorno negli Usa!”. La riscossa dei democratici, anche se non “l’onda blu” che lo staff di Donald Trump temeva, c’è stata grazie al voto popolare (+9%) e grazie a diversi volti nuovi: donne e esponenti di minoranze. Sono state elette 107 donne, un record. La democratica Ayanna Pressley, già prima donna di colore nel consiglio comunale di Boston, entra nella storia come prima donna afroamericana eletta alla Camera dei Rappresentanti in Massachusetts. In Michigan la democratica Rashida Tlaib, figlia di immigrati dalla Palestina, diventa la prima donna musulmana ad essere eletta al Congresso americano, nel suo distretto per la Camera. Conquista il seggio a New York, nel Bronx, anche Alexandria Ocasio Cortez, dopo aver vinto a 28 anni le primarie con un’agenda radicale e un seguito popolare straordinario, soprattutto tra i giovani. L’ex presidente Barack Obama invita i democratici a ripartire da questo risultato: “Il nostro lavoro ora va avanti. Il cambiamento non può arrivare da una sola elezione, ma questo è un punto di partenza … Spero che si torni ai valori dell’onestà, della decenza, del compromesso e che si torni a un Paese non diviso dalle sue differenze ma legato da un comune credo.” Intanto Trump festeggia e si autocita: “Quest’uomo ha della magia”.

DALLA STORIA

Non solo fantacoscienza.

Può l’intelligenza artificiale acquisire il libero arbitrio?

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“L’Intelligenza Artificiale si rivelerà come la cosa migliore o peggiore mai successa all’umanità”. (Stephen Hawking)
Con l’avanzare della conoscenza informatica e tecnologica l’umanità sta assumendo sempre più rapidamente livelli di conoscenza e consapevolezza assimilabili alle grandi scoperte astronomiche ai tempi di Platone, Tolomeo, Copernico, Galileo, Newton. Via via si dischiudono ipotesi, suffragate da dimostrazioni scientifiche empiriche sostenute da fisici, astronomi, scienziati di comprovato spessore, il cui impatto sull’uomo comune è senz’altro stupefacente e sconvolgente. Tali ipotesi avveniristiche si potrebbero paragonare alle scoperte scientifiche dei primi anni del Novecento quando, in un solo secolo, la storia dell’umanità ebbe un’accelerazione inimmaginabile per le generazioni precedenti. In termini di coscienza non si potrebbe dire altrettanto. Elon Musk, uno degli imprenditori più influenti e innovativi nella storia della tecnologia, commenta: “Ci sono stati solo circa una mezza dozzina di eventi veramente importanti nei quattro miliardi di anni di storia della vita sulla Terra: vita monocellulare, vita pluricellulare, differenziazione in piante e animali, spostamento degli animali dall’acqua alla terraferma, e l’avvento dei mammiferi e della coscienza. Il prossimo grande momento sarà quando la vita diventerà multiplanetaria, un’avventura senza precedenti che aumenterà notevolmente la ricchezza e la diversità della nostra coscienza collettiva.” Ci si lancia in progetti megagalattici quando l’uomo ancora non sa interrogarsi su chi in realtà egli sia, quale sia la sua vera natura. Si avvale di una tecnologia avveniristica senza considerare l’ipotesi che questa possa sfuggirgli di mano, cosa probabile a giudicare dal suo comportamento immaturo e irresponsabile verso le attuali problematiche di carattere economico, politico e sociale. Come possiamo affrontare l’avvento dell’intelligenza artificiale, il cui perfezionamento sta assumendo traguardi inquietanti perché si ritiene sia in grado si replicare la propria autopercezione e con essa la facoltà del libero arbitrio, prerogativa esclusiva, fino ad oggi, della categoria umana? Può la coscienza essere riprodotta da modelli matematici? Per il cosmologo svedese Max Tegmark sembra di sì. “Tutte le strutture che esistono matematicamente esistono anche fisicamente. La teoria del tutto priva di parametri liberi, suggerisce che in quelle strutture abbastanza complesse da contenere autocoscienti, queste strutture autocoscienti percepiranno sé stesse come esistenti in un mondo fisico reale”. Queste frasi sono tratte dal suo libro “L’Universo Matematico”, ed. Bollati Boringhieri. Max Tegmark è uno dei principali fisici teorici del nostro tempo, professore presso il Massachusetts Institute of Technology. Nel suo libro non descrive un viaggio nella matematica ma un viaggio nella natura, nell’uomo, avvalendosi dei principi matematici che ne permettono la comprensione. Per lo studioso, infatti, il mondo reale coincide con la matematica. Tegmark ha sviluppato l’esperimento mentale del suicidio quantistico, a partire dalle precedenti ipotesi di Hans Moravec e Bruno Marchall e ha messo a punto un’argomentazione matematica a sostegno dell’ipotesi speculativa del Multiuniverso. Ha avanzato critiche all’ipotesi di Roger Penrose e Stuart Hameroff, secondo i quali la coscienza sarebbe una proprietà emergente dovuta agli effetti quantistici all’interno dei neuroni o microtuboli. Nell’ambito delle ricerche, almeno in queste di carattere meccanicistico, ce ne sono alcune dai risultati davvero spiazzanti, se così si può dire, perché se fossero vere ci sarebbe veramente da ridere. Un noto astronomo statunitense Richard Terrile, appartenente al gruppo di scienziati che ha studiato immagini e dati inviati dalle sonde Voyager, scopritore di numerosi satelliti naturali dei giganti gassosi del sistema solare esterno, all’attivo due lauree, in Fisica e Astronomia, conseguite presso l’università di New York, con un dottorato in Scienze Planetarie presso il Californian Institure of Ttechnoly, con a disposizione il telescopio di cinque metri di Monte Palomar, un suo maestro fu Tobìas C. Owen, in una trasmissione televisiva su Science Channel, il pluriaccreditato studioso ha sconvolto tutti dicendo senza perifrasi: “Una misteriosa civiltà aliena, (i nostri io futuri) ci tiene intrappolati in una sorta di prigionia digitale. Ogni cosa che facciamo, la coscienza, i ricordi, i sentimenti, sono il prodotto di un codice di calcolo elaborato da una serie di computer sotto la supervisione di una civiltà “postuma” avanzata, con una grande potenza informatica che potrebbe avere deciso di simulare l’universo dei propri antenati”. Imperturbabile ha proseguito: “Il mondo attorno a noi è finto. Viene creato a mano a mano che ne abbiamo bisogno. Un po’ come dire che l’America non esiste fino a quando non decidiamo di andare fisicamente a visitarla”. Come dire che finchè non si decide a priori una cosa essa non si rivela. “Le particelle di cui siamo fatti”,  prosegue Terrile “possono essere scomposte in particelle sempre più piccole, fino a quando a un certo punto arriviamo a una particella che non si può scomporre in alcun modo. È la materia base per formare tutta la materia che conosciamo. Non vi ricorda niente?”, chiede divertito Terrile. “Non vi ricorda il pixel che compone la schermatura di un videogioco?”. Come “I Sim” che è un videogioco di vita, di simulazione, (da cui prende il nome) in cui i videogiocatori possono veramente vivere una doppia vita virtuale. Il gioco ha una grafica mista 2D e 3D e permette l’uso di una grandissima quantità di contenuti personalizzati: oggetti, carte da parati, elementi architettonici, funzioni e nuovi ambienti. Nel 2002 è diventato il gioco più venduto della storia, con un pubblico misto di giocatori maschi e femmine. “Presto”, prosegue Terrile “non ci sarà più nessun ostacolo tecnico alla costruzione di macchine con una coscienza, i videogiochi stanno diventando sempre più sofisticati e in futuro saremo in grado di inserire al loro interno simulazioni di entità coscienti, i giochi diventeranno indistinguibili dalla realtà”. Se le menti simulate sono molte di più di quelle organiche, le possibilità che la nostra sia tra quelle vere cominciano a diminuire. Se in futuro ci saranno più individui digitali negli ambienti simulati di quanti ce ne siano oggi, chi ci dice che non facciamo già parte di quella realtà? Anche le cose che consideriamo continue, come il tempo, l’energia, lo spazio e il volume, sono finite. Se è così, il nostro universo è al tempo stesso computabile e finito, e queste proprietà gli consentono di essere simulato” e continua: “Se non viviamo in una simulazione, allora siamo in una circostanza straordinariamente improbabile”. Per citare Einstein: “La cosa più incomprensibile dell’universo è che esso sia comprensibile”. In altre parole, l’universo è così immenso e complesso che sembra impensabile poter racchiudere il suo funzionamento in semplici equazioni; eppure è quello che stiamo facendo. Insomma l’idea che viviamo tutti in una “matrix” non è nuova. Nel 2003, il filosofo Nick Bostrom suggerì che una civiltà “postuma” avanzata, con una grande potenza informatica, potrebbe aver deciso di simulare l’universo dei propri antenati. Bostrom, dunque, e altri scrittori insistono sul fatto che ci siano ragioni empiriche per le quali l’ipotesi di simulazione possa essere valida. A sua volta, Silas Beane, fisico nucleare presso l’Università di Washington, amplia questa idea affermando che i “simulatori” che controllano il nostro universo possono essere, essi stessi, simulazioni, qualcosa come un sogno dentro un sogno”. Un’altra idea che sta prendendo forza è quella degli ologrammi. A fine aprile 2015, un gruppo di scienziati annunciò di essere riusciti a dimostrare il “principio olografico”, una congettura sulle teorie della gravità quantistica proposta nel 1993 da Gerard’t Hooft. L’idea postula che l’universo non abbia uno spazio tridimensionale, ma che abbia una struttura bidimensionale simile ad un ologramma, la cui proiezione si riflette in un orizzonte cosmico immensamente vasto. Per contro, tra gli scienziati c’è chi asserisce: “è molto arrogante pensare di essere quello che un giorno sarà simulato e non ci sono prove a sostegno della vita simulata” come ha rilasciato, in una intervista, la fisica teorica Lisa Randall dell’Università di Harvard specializzata in fisica delle particelle e cosmologia. Ma … se davvero fossimo all’interno di una vita simulata, chi avrebbe creato gli ipotetici simulatori?

image003(Musk con il Presidente Obama alla rampa di lancio del Falcon 9, Cape Canaveral Air Force Station, 2010)

Mary Titton


6 novembre

PRIMO PIANO

Appello del marito di Asia Bibi all’Italia.

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Il marito di Asia Bibi, la donna cristiana assolta dalla Corte suprema dal reato di blasfemia, ma ancora in carcere a causa di un ricorso degli estremisti islamici, ha lanciato un accorato appello all’Italia: “Aiutateci a far uscire dal Pakistan me e la mia famiglia perché siamo in pericolo.” Ashiq Masih ha rivolto la sua richiesta di aiuto all’Italia in un videomessaggio inviato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. L’assoluzione di Asia Bibi ha provocato dure proteste e diversi giorni di disordini in Pakistan: i fondamentalisti islamici insistono nel chiedere la pena capitale per la donna e hanno presentato un ricorso contro la decisione della Corte suprema. Il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha dichiarato che “si sta cooperando con altri Paesi occidentali con discrezione per evitare problemi in loco alla famiglia”. La vicenda della donna risale al 14 giugno 2009, quando Asia Naurīn Bibi, una contadina pakistana di fede cattolica, in seguito a un diverbio con le lavoratrici di religione musulmana, viene denunciata alle autorità con l’accusa che durante la discussione avrebbe offeso Maometto. Picchiata, chiusa in uno stanzino, stuprata e infine arrestata pochi giorni dopo nel villaggio di Ittanwalai, nonostante contro di lei non ci sia nessuna prova, viene condotta nel carcere di Sheikhupura. Nel 2010 un tribunale la condanna a morte per blasfemia, ma il processo si basa essenzialmente su testimonianze, in particolare su quella dello stesso uomo che l’aveva denunciata, Qari Mohammad Salam, imam della moschea locale. Nel dicembre 2011 una delegazione della Masihi Foundation (Mf), ONG che si occupa dell’assistenza legale e materiale di Asia Bibi, ha visitato la donna in carcere: le sue condizioni di igiene personale erano terribili e il suo stato di salute, sia fisico che psichico, è apparso critico. Secondo Haroon Barkat Masih, direttore internazionale di Mf, Asia Bibi ha comunque espresso parole di perdono nei confronti dei suoi accusatori, ma ha sempre negato le accuse e ha replicato di essere perseguitata e discriminata a causa del suo credo religioso. Il 31 ottobre del 2018 è stata assolta dalla Corte suprema, che ne ha ordinato la scarcerazione immediata: è la prima volta che detta Corte accoglie una richiesta di assoluzione. In seguito a proteste degli islamisti, è stata confermata però la carcerazione, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma il governo ha accettato che la pubblica accusa, rappresentata da un procuratore fondamentalista, possa presentare ricorso contro l’assoluzione. Tecnicamente non è stata ancora liberata perché il carcere non ha ricevuto i documenti necessari dalla Corte suprema, ma in seguito alle proteste il governo di Imran Khan ha raggiunto un accordo con i capi dei gruppi islamisti, che prevede il divieto per Asia Bibi di lasciare il paese e la non opposizione del governo alla richiesta di revisione dell’assoluzione, presentata alla stessa Corte suprema. La sentenza non piace al partito radicale Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp) che rappresenta i musulmani sunniti, il suo leader, Khadim Hussain Rizvi, ha addirittura invocato la morte per il presidente della Corte Suprema, Nisar, e gli altri due colleghi che hanno emesso la sentenza: Asif Saeed Khosa e Mazhar Alam Khan Miankhel. Il partito, inoltre, ha chiesto le dimissioni del primo ministro, Imran Khan, e ha esortato i suoi appartenenti a scendere in piazza. Oltre a Islamad, manifestazioni si sono tenute a Karachi e Peshawar. Molti degli assolti da blasfemia in Pakistan vengono in seguito assassinati dagli estremisti musulmani, così come chi li ha sostenuti. Il marito della donna e il suo avvocato, Saif ul-Malook, musulmano anti-fondamentalista, entrambi minacciati di morte, sono stati costretti a fuggire dal Pakistan.


5 novembre

PRIMO PIANO

A Firenze maxi murales di Nelson Mandela.

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A Firenze, in un quartiere di antica tradizione popolare e operaia, in piazza Leopoldo, uno dei più noti esponenti della street art, Jorit Agoch, sta creando in questi giorni, sulla facciata laterale di un palazzo di edilizia residenziale pubblica, “Il Condominio dei Diritti”. L’iniziativa è promossa dall’associazione Mandela Forum nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Nelson Mandela, primo presidente sudafricano a essere eletto con suffragio universale e primo non bianco a ricoprire tale carica. Il murales, di circa 126 metri quadrati, vuole ricordare l’importanza della battaglia per i diritti dei neri, a cui Mandela, attivista per i diritti civili e leader del movimento anti-apartheid, dedicò l’intera vita. Jorit, nato a Napoli da madre olandese e padre italiano, concentra la propria arte sulla raffigurazione realistica del volto umano. Si è confrontato più volte con grandi ritratti di personaggi che hanno lasciato un segno nella storia, come Che Guevara, Sandro Pertini, Diego Maradona, Ilaria Cucchi. Tutti i volti disegnati da Jorit sono “marchiati” con due strisce rosse sulle guance, che rimandano a rituali magici/curativi africani di iniziazione e fanno parte della sua personale “Human Tribe”. “Sono consapevole che le persone avrebbero bisogno di molte altre cose, i miei murales non sono certo la soluzione ai problemi delle periferie, ma comunque io cerco di fare quello che posso”, spiega Jorit, circondato dalla curiosità delle persone del quartiere, che si fermano ad osservare il giovane artista alle prese con le sue bombolette spray. Jorit aggiunge poi: “Credo che la Street art sia stata davvero una rivoluzione prima di tutto perchè è gratuita, tutti quanti la possono vedere senza pagare il biglietto. E dopo Bansky è stata accettata. Per quanto mi riguarda cerco sempre di accostare le mie opere a un messaggio, in modo da aggiungere qualcosa oltre alla parte estetica.” Agoch ha subito accettato la proposta di Massimo Gramigni & company, che gli hanno chiesto di realizzare il volto di Mandela alto quanto un palazzo. “Un personaggio così prima o poi avrei cercato di farlo comunque – dice – e quindi sono stato ben felice di venire a Firenze, dove mi serviranno almeno dieci giorni per finire il lavoro, se il tempo mi aiuta, lavorando otto ore al giorno.”


4 novembre

PRIMO PIANO

100 anni fa la fine della “Grande Guerra”.

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La data che segnò la fine della Prima Guerra Mondiale è stata commemorata in Europa a Londra, a Strasburgo, a Roma: con una cerimonia all’Altare della Patria il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato il sacrificio dei soldati caduti al fronte. Mentre il Capo dello Stato deponeva una corona d’alloro al Sacello del Milite Ignoto, le Frecce Tricolori solcavano il cielo grigio con i tradizionali colori verde bianco e rosso della bandiera italiana. Il 4 novembre 1918, alle ore 15:00, tutte le operazioni di guerra cessarono e fu proclamata la fine della “Grande Guerra”, come è stata chiamata la Prima Guerra Mondiale. Armando Diaz emanò un bollettino che celebrava, non senza retorica, la vittoria sui “uno dei più potenti eserciti del mondo”. La guerra si concluse definitivamente l’11 novembre 1918 quando la Germania, ultimo degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l’armistizio imposto dagli Alleati. Il 18 gennaio 1919 si aprì la conferenza di pace di Parigi, incaricata di pervenire alla stipula dei definitivi trattati di pace. Fu una guerra totale e crudele che cambiò la geografia dell’Europa, ma lasciò aperte questioni, che portarono il vecchio continente, dopo venti anni, alla Seconda Guerra Mondiale. Fu una guerra di trincea, fatta di massacri inutili e decimazioni, di eroismi e patimenti infiniti, con l’uso di armi di distruzione di massa come i gas, ma anche di mazze ferrate nei feroci combattimenti corpo a corpo. L’Italia entrò nel conflitto il 24 maggio del 1915, dopo essere passata nei mesi precedenti dall’alleanza con l’impero asburgico alla neutralità. La decisione di dichiarare guerra alla Serbia senza consultare l’Italia aveva di fatto rotto la Triplice Alleanza. Inoltre la rivendicazione dell’italianità di Trento e Trieste fecero pendere il piatto della bilancia a favore dell’intervento. Il nostro Paese pagò un tributo tra i più alti in Europa con oltre 650mila soldati morti in combattimento e un altro milione feriti. Centinaia di migliaia di civili morirono nelle zone di guerra per i bombardamenti, la fame e gli stenti. Dopo la disfatta di Caporetto, nel novembre 1917, l’Italia trovò però la forza di reagire, trincerandosi prima sul Piave, fiume sacro della Patria, per poi lanciare la controffensiva del giugno del 1918 con in testa i ragazzi del 1899, appena diciottenni. L’Italia uscì stremata da quella terribile guerra, ma trovò finalmente, con il tricolore piantato a Trento e Trieste il 4 novembre 1918, la sua identità di Stato unitario.

DALLA STORIA

4 novembre 1966: l’Arno straripa, Firenze è sott’acqua.

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Alle prime ore del 4 novembre 1966, in seguito a un’eccezionale ondata di pioggia, il fiume Arno straripa, investendo il suo intero bacino e invadendo Firenze. I dati ufficiali parleranno di 35 morti (la metà a Firenze città), 190 millimetri di pioggia caduti in meno di ventiquattr’ore; 4 metri e 92 centimetri il punto più alto raggiunto dalla piena; milioni di libri e documenti perduti o danneggiati, come 14.000 opere d’arte. In seguito all’appello lanciato a tutto il mondo, migliaia di giovani volontari italiani e stranieri, ricordati come “gli angeli del fango”, confluiranno a Firenze per collaborare agli aiuti. Il settimanale “Epoca” dedicò un numero speciale con un toccante reportage fotografico, a cui seguirono articoli e una duratura attenzione nei confronti del difficile recupero e restauro delle opere d’arte raggiunte dal fango. Al di là del cordoglio per le vittime, infatti, l’alluvione impressionò il mondo per i danni inferti a uno dei patrimoni artistici più preziosi dell’umanità. Ecco la cronaca di quel famigerato giorno nell’articolo di Guido Gerosa, giornalista del noto settimanale mondadoriano, pubblicato sul n° 842 del 13 novembre 1966: “Questa è la cronaca delle ventiquattr’ore più terribili nella storia di Firenze di tutti i tempi. È la vita della città nel suo giorno più tragico: quello in cui il mondo temette, di ora in ora, di apprendere che l’universo di Giotto e di Dante, i capolavori di Masaccio e il “bel San Giovanni” erano spariti come in un’apocalisse biblica, inghiottiti dalle acque. È il racconto di un lungo, pauroso brivido; persino mentre lo si scrive vien da tremare. Sono le cinque e mezzo di venerdì 4 novembre. Da alcuni giorni la pioggia si rovescia senza interruzione sulla città. Il Nettuno di piazza della Signoria, maestoso Dio del mare, domina in mezzo a un lago di desolazione. Ponte Vecchio, che ha resistito nei secoli a tutte le bufere, ora sembra sospeso sull’Arno per miracolo, le ossature sconnesse sono lì che traballano e paiono predire sventura. Le acque del fiume si sono ingrossate incredibilmente e corrono rombanti quasi al livello dei Lungarni Archibugieri e Acciaioli. Grigio e sinistro d’aspetto, l’Arno sta superando dovunque le spallette di protezione.

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Franco Nencini, un giornalista della “Nazione”, che a quell’ora sta lasciando la redazione dopo il lavoro della notte, fissa preoccupato il fiume nel buio fitto e all’improvviso si accorge che l’ondata sta crescendo e precipita sulla strada. Le sirene della polizia, dei vigili del fuoco, delle ambulanze risuonano nella notte e si confondono col fischio del vento e gli scrosci della pioggia. Sono passate da poco le sei quando l’Arno si avventa mugghiando per le vie di Firenze, schianta e distrugge tutto quanto trova sul suo passaggio, uccide e devasta. (…) Anche agli Uffizi si stanno vivendo momenti angosciosi. Nelle sale adibite ai restauri si trovano opere preziose: due Cristi del ‘200, quadri di Domenico di Michelino, Neri de’ Picci, Lorenzo di Niccolò e di numerosi artisti fiorentini del ‘300, una Incoronazione della Vergine del Botticelli. (…) Un fiume di mota serpeggia lungo i portici, si sta facendo strada impetuosamente nei locali e fra un istante i preziosi quadri galleggeranno sui flutti, saranno trascinati per le strade, finiranno a fracassarsi contro qualche parapetto o qualche spuntone d’asta. Ma ecco che dalle porte scardinate si avventano di corsa negli Uffizi una decina di persone: sono il sovrintendente alle gallerie Ugo Procacci, la direttrice degli Uffizi Beccherucci, due assessori del comune, Umberto Baldini della Sovrintendenza, i custodi Vittorio Bertelli e Gianfranco Fusi, il portiere Massi, l’operaio Pasquale Tanzi. Non c’è un minuto da perdere. Gli occhi di tutti sono fissi sul sovrintendente e la direttrice. Esprimono una domanda, quasi un’implorazione: “Quali quadri dobbiamo salvare per primi? Anche nella febbre della catastrofe bisogna avere la lucidità sufficiente a compiere una scelta: poiché l’acqua preme e si rischia, per salvare un artista minore, di lasciar inabissare un genio. Senza esitare, il sovrintendente indica: “Salvate questo! Quello!”. Una scena simile non si è mai vista. L’acqua è salita a oltre un metro, i soccorritori la sentono alla cintola, devono buttarsi in mezzo alla mota a guado, a nuoto. Si tolgono i calzoni, si avvolgono attorno al corpo delle coperte e si gettano al salvataggio di quanto il mondo ha di più bello, di quanto significa Firenze e civiltà. (…) “Dobbiamo fare lo stesso con gli altri depositi”, grida il sovrintendente Procacci. (…) “Bisogna correre. Quanti siamo?”. Si contano: sono una dozzina. A essi si uniranno, nel corso della giornata, quattro studenti volontari. (…) A questi sedici uomini, il 4 novembre 1966, il mondo, tutto il mondo, deve il salvataggio di una parte preziosa del patrimonio artistico di Firenze”.

image001Mary Titton


3 novembre

PRIMO PIANO

Nordest in ginocchio.

In Veneto abbondanti precipitazioni e raffiche di vento fino a 180 km orari hanno devastato valli e strade, abbattuto alberi secolari per centinaia di migliaia di metri cubi, piegato in due tralicci come se fossero stati dei fuscelli leggeri: 100 mila ettari di bosco non ci sono più e ci sono frane ovunque. “Una situazione apocalittica” ha detto il capo della Protezione civile Angelo Borelli, secondo il quale il maltempo ha atterrato 14 milioni di alberi nel solo Nordest. Secondo il governatore Luca Zaia, che accompagnava Borelli, sono ancora 8 le frazioni isolate ai piedi delle Dolomiti, un centinaio di persone sono state evacuate, ma la situazione è drammatica. Particolarmente colpita è stata la provincia di Belluno, dove ancora 23 strade sono chiuse e la corrente manca in oltre 9mila utenze. A Gosaldo, ad esempio, si sta protraendo il black-out elettrico perché i due gruppi elettrogeni presenti non sono sufficienti a coprire il fabbisogno, a Belluno i generatori si fermano a causa dell’esaurirsi del carburante. Interi boschi della Val Visdende, del Cansiglio, dell’Agordino, del Feltrino sono stati rasi al suolo. In Val di Fiemme (Trentino Alto Adige) e in Val Saisera (in provincia di Udine) la pioggia e il vento hanno distrutto anche le foreste di abeti rossi, conosciuti come “abeti di risonanaza”, dai quali Antonio Stradivari, il famoso liutaio di Cremona, ricavava il legno per realizzare i suoi straordinari violini. Non esistono più. Erano alberi che avevano tra i 150 e i 250 anni. Dicono gli esperti che ci vorrà almeno un secolo per tornare alla normalità. È stata una vera devastazione, secondo quanto racconta Fabio Ognibeni, che da molti anni sceglie in queste zone gli alberi dai quali ricava il legno destinato alla produzione di violini, arpe e altri strumenti musicali. Ognibeni ha spiegato che non vedrà mai più la foresta in cui è cresciuto perché per una sua ricostruzione saranno necessarie centinaia di anni. Si parla di una quantità di legno davvero impressionante, corrispondente a 700mila metri cubi. I problemi non si verificheranno immediatamente, perché, come spiega Ognibeni, c’è una riserva di legno in magazzino sufficiente per qualche anno, i disagi si verificheranno a partire dal 2020, quando finiranno le scorte. Gli abitanti di queste valli, coraggiosi e tenaci, si sono messi subito all’opera per riparare i danni, coadiuvati da oltre 3mila volontari, organizzati in squadre formate e coordinate dalla Protezione Civile comunale, che hanno pulito da fango, rami e foglie vie e cunette del capoluogo, da Borgo Piave al Nevegal, da Col da Ren alle Ronce, da Col Fiorito a Salce.


2 novembre

DALLA STORIA

Il culto dei morti.

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Rapìan gli amici una favilla al Sole a Illuminar la sotteranea notte…

Sono endecasillabi del celeberrimo carme “Dei Sepolcri”, in cui Ugo Foscolo, pur avendo una concezione materialistica e meccanicistica dell’Universo, si fa portavoce di una religione per così dire laica e afferma il valore della tomba come fonte del ricordo e tramite tra i vivi e i morti, fino a celebrare poi le urne dei grandi, quelle della chiesa di Santa Croce a Firenze, che costituiscono la memoria storica di un popolo, di una nazione e sono i pilastri di una civiltà.

image003(La Tomba di Dante nella chiesa Santa Croce di Firenze)

Per il poeta “l’urne confortate”, le tombe e il loro culto sono importanti per coltivare il legame di continuità, anche dopo la morte, nel ricordo dei propri cari, in un rapporto d’affetti immutati, in una “corrispondenza d’amorosi sensi”.

Non vive ei forse anche sotterra, quando

gli sarà muta l’armonia del giorno,

se può destarla con soavi cure

nella mente de ‘suoi? Celeste è questa

corrispondenza d’amorosi sensi,

celeste dote è negli umani; e spesso

per lei si vive con l’amico estinto

e l’estinto con noi, se pia la terra

che lo raccolse infante e lo nutriva,

nel suo grembo materno ultimo asilo

porgendo, sacre le reliquie renda

dall’insultar de’ nembi e dal profano

piede del vulgo, e sebi un sasso il nome,

e di fiori odorata arbore amica

le ceneri di molli ombre consoli.

L’uomo si è da sempre interrogato di fronte a quel passo estremo, misterioso, si è sempre chiesto che sia “questo morir, questo supremo/Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno/Ad ogni usata, amante compagnia”, per dirla con il Leopardi. Poeti, scrittori, filosofi hanno cercato di sollevare il velo e non conta se fossero credenti o meno, perché anche i credenti devono fare i conti con la scomparsa dalla terra di persone a cui erano uniti da legami profondi. Gesù si è commosso davanti al dolore di Marta e Maria e ha pianto sulla tomba di Lazzaro. Per tutti resta il ricordo indelebile delle persone care, del loro sorriso, delle loro parole, dei loro gesti incancellabili, illuminato, per chi ha fede, dalle parole di sant’Agostino:

Qui si è ormai assorbiti dall’incanto di Dio,

dalle sue espressioni di infinita bontà e dai riflessi della sua sconfinata bellezza.

Le cose di un tempo sono così piccole e fuggevoli

al confronto. Mi è rimasto l’affetto per te:

una tenerezza che non ho mai conosciuto.

Sono felice di averti incontrato nel tempo,

anche se tutto era allora così fugace e limitato.

Ora l’amore che mi stringe profondamente a te,

è gioia pura e senza tramonto.

Mentre io vivo nella serena ed esaltante attesa del tuo arrivo tra noi,

tu pensami così!

Nelle tue battaglie,

nei tuoi momenti di sconforto e di solitudine,

pensa a questa meravigliosa casa,

dove non esiste la morte, dove ci disseteremo insieme,

nel trasporto più intenso alla fonte inesauribile dell’amore.

image002Monumento funerario di Ugo Foscolo (particolare)

Mary Titton


1 novembre

PRIMO PIANO

Lutto nel mondo del teatro: è morto Carlo Giuffrè.

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Carlo Giuffrè, fratello di Aldo, con cui ha avuto un sodalizio artistico di successo, è morto oggi, 1° novembre, all’età di 89 anni. Nato a Napoli il 3 dicembre 1928, diplomatosi all’Accademia nazionale di arte drammatica, debuttò sul palcoscenico nel 1947 con il fratello Aldo, morto nel 2010. Due anni dopo i due attori hanno cominciato a lavorare con Eduardo De Filippo, mettendo in scena commedie come “ Le voci di dentro”, “Napoli milionaria!”, “Non ti pago” e la celeberrima “Natale in casa Cupiello”. Numerose sono state le sue interpretazioni nel cinema e nelle fiction televisive, fra queste ultime ricordiamo “Tom Jones (1960) e “I Giacobini” (1962), diretto da Edmo Fenoglio. Nell’ultima fase dalla Commedia all’italiana ha interpretato personaggi come Vincenzo Maccaluso in “La ragazza con la pistola” (1968), Silver Boy in “Basta guardarla” (1971), il marito cornuto in “La signora è stata violentata!” (1973) e l’instancabile amante in “La signora gioca bene a scopa?” (1974). Nel 2007, in occasione della consegna del tributo alla carriera assegnatogli dal “Premio ETI – Gli olimpici del teatro”, è stato insignito del titolo di Grande Ufficiale dal Presidente della Repubblica e ha portato in scena un altro grande classico del teatro di Eduardo, “Il sindaco del rione Sanità”, successivamente ha interpretato in teatro “Questi fantasmi!”, ancora di Eduardo. I suoi ultimi lavori sono stati, a teatro,  “La lista di Schindler” nella stagione 2014/2015 e al cinema nel 2016 in “Se mi lasci non vale”di Vincenzo Salemme. Disse in una intervista di qualche anno fa: “Se non ci fosse stato il teatro, non avrei saputo fare altro. Il teatro è tutta la mia vita. Pensate che a casa barcollo, m’ingobbisco, mi annoio, ma in teatro ritrovo il passo. È un’altra storia. In scena si guarisce. E poi sapete che vi dico: gli attori vivono più a lungo, perché vivendo anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro.”


31 ottobre

DALLA STORIA

31 ottobre 2011: La Terra raggiunge il traguardo di sette miliardi di persone.

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Il 31 ottobre 2011 una bambina nata a Manila fu scelta dalle Nazioni Unite per rappresentare simbolicamente la persona numero 7 miliardi sulla Terra. Per contrassegnare questa pietra miliare, il 31 ottobre fu dichiarato “giornata dei sette miliardi”, ma poiché all’epoca un miliardo di persone soffrivano la fame si riaccese il dibattito sulla possibilità della Terra di sostenere un simile numero di abitanti. Prima del XVII secolo la popolazione aumentava molto lentamente, ma dopo il 1850 iniziò a espandersi con rapidità. Lo sviluppo fu dovuto in parte a una riduzione del numero di bambini morti durante l’infanzia ma, man mano che le nuove tecniche agricole incrementavano la produzione di alimenti, diminuirono anche i tassi di mortalità complessivi. L’aumento dell’industrializzazione e i progressi della medicina migliorarono la salute pubblica e il tenore di vita. Nel 1927 la popolazione mondiale aveva ormai raggiunto i due miliardi. All’inizio del XX secolo l’incremento demografico era massimo nell’Occidente industrializzato, ma le cose cominciarono a cambiare. La metà del secolo vide molti Paesi europei andare incontro a una riduzione dei tassi di natalità, mentre la popolazione ne registrava una decisa crescita nelle zone relativamente sottosviluppate di Asia, Africa e America del Sud per via di una natalità molto più elevata. Nel 1987 nacque la persona numero 5 miliardi, e nel 1999 quella numero 6 miliardi. Ci erano voluti 123 anni perché la popolazione mondiale passasse da 1 a 2 miliardi, ma appena 12 anni per compiere il salto da 6 a 7 miliardi. Nel corso del XX secolo molti Paesi importavano grandi quantità di cibo che non riuscivano a produrre da soli, per soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita. La Gran Bretagna, per esempio, importava ogni anno 55 milioni di tonnellate di alimenti. All’inizio degli anni Quaranta il Messico importava metà del suo frumento, e la popolazione si espandeva rapidamente. Il paese richiese assistenza tecnica agli Stati Uniti per aumentare la produzione di grano. Nel 1944, con il sostegno finanziario della Fondazione Rockfeller, un gruppo di scienziati americani, fra cui il biochimico Norman Borlaug, cominciò  a studiare metodi per sviluppare varietà di frumento ad alto rendimento che fossero in grado di resistere alle malattie e avessero un’altezza modesta per ridurre i danni causati dal vento. L’attività portata avanti in Messico ebbe una riuscita incredibile: nel 1956 il Paese era ormai del tutto autosufficiente e non importava più né frumento né mais. Questo successo lanciò quella che fu chiamata “rivoluzione verde”: la diffusione, negli anni Sessanta e Settanta, di nuove tecnologie moderne che aumentarono drasticamente la produzione di alimenti in tutto il mondo. La rivoluzione verde avvantaggiò Paesi come Filippine, Bangladesh, Sri Lanka, Cina, Indonesia, Kenya, Iran, Thailandia e Turchia. Gli scienziati indiani, in particolare, avevano seguito l’operato di Borlaug e dei suoi colleghi. Alla metà degli anni Sessanta l’India era stata colpita da due siccità consecutive, che avevano costretto il Paese a importare dagli Stati Uniti grandi quantità di generi alimentari. Nel 1964 sia l’India sia il Pakistan cominciarono a importare dal Messico varietà semi-nane di frumento, e i risultati delle sperimentazioni furono promettenti: nella primavera del 1966 il raccolto fu maggiore di tutti quelli mai prodotti nell’Asia meridionale, pur essendo stato un anno di siccità. Nel 1960 all’Istituto internazionale di ricerche sul riso nelle Filippine fu messo a punto un nuovo riso cosiddetto miracoloso, chiamato IR-8. Con un ciclo di crescita molto abbreviato, il nuovo prodotto trasformò in maniera spettacolare la vita degli agricoltori. In Paesi come il Vietnam si potevano ora avere ogni anno due raccolti completi del nuovo riso, mentre la varietà tradizionale che aveva sostituito poteva produrne uno solo. Innovazioni sbalorditive come questa nelle scienze agricole consentirono ai Paesi cronicamente poveri, in particolare in Asia, di nutrirsi e di soddisfare le esigenze della loro popolazione in crescita. La rivoluzione verde non arrivò senza polemiche, soprattutto perché comportava l’adozione di pesticidi chimici. Negli anni Quaranta fu introdotto l’insetticida DDT (dicloro-difenil-tricoloretano) per tenere sotto controllo varie malattie, fra cui la malaria trasmessa dalle zanzare, con un unico trattamento. Tuttavia, nel 1962 la biologa americana Rachel Carson evidenziò i pericoli del DDT nel suo libro pioneristico “Primavera silenziosa”, in cui affermava che l’insetticida poteva provocare il cancro, oltre a essere dannoso per l’ambiente.

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“Primavera silenziosa” causò la proibizione del DDT negli Stati Uniti e la preoccupazione che suscitò condusse alla creazione dell’Ente per la protezione ambientale (Epa), un organismo indipendente per la salvaguardia dell’ambiente. Inoltre, la rivoluzione verde andò incontro a enormi difficoltà in molti Paesi africani, dove si registravano carenza di impianti di irrigazione, precipitazioni inattendibili, prezzi elevati dei fertilizzanti e mancanza di accesso al credito per l’acquisto di nuove varietà di sementi. Negli anni Novanta le colture geneticamente modificate (OGM) furono accolte con entusiasmo e considerate uno strumento della seconda rivoluzione verde, ma anche queste si rivelarono controverse. Le colture OGM sono alimenti prodotti da organismi a cui è stato modificato il DNA mediante l’ingegneria genetica. Furono introdotte negli Stati Uniti nel 1994, quando l’Ente americano per gli alimenti e i farmaci (Fda) approvò la vendita del pomodoro Flavr Savr. Questo pomodoro a maturazione ritardata aveva una conservabilità più lunga rispetto a quelli convenzionali, ma alcuni esperimenti sulle patate sembravano indicare che i prodotti OGM fossero tossici per i ratti. Quasi tutti i governi dell’Unione Europea (Ue) proibirono l’uso delle colture OGM, mentre i sostenitori degli OGM affermavano che senza intervento genetico il mondo fosse destinato a morire di fame. I difensori degli OGM, in particolare Stati Uniti, Brasile, Canada, Argentina e Australia, ritenevano che tali organismi avessero la potenzialità di combattere le malattie e la fame. In Europa, Africa e Asia l’atteggiamento era più cauto, con preoccupazioni per i pesticidi e i possibili danni alla salute. Malgrado l’opposizione, la tecnologia OGM è ancora in fase di sviluppo. Si ritiene che siecentosettantamila bambini muoiano ogni anno per mancanza di vitamina A, una carenza che favorisce malattie come la malaria e il morbillo e può provocare cecità. I progressi nell’affrontare queste carenze hanno condotto, per esempio, alla creazione del Golden Rice, in cui al riso comune viene aggiunta vitamina A. Mentre si rendevano necessarie colture nuove, e più resistenti, per nutrire una popolazione mondiale in costante crescita, le città hanno inghiottito vasti tratti di terreni coltivabili e aree rurali. All’inizio del XXI secolo la Cina è andata incontro a un aumento rapido dello sviluppo urbano, che ha comportato la perdita di un gran numero di piccole aziende agricole del Paese. Storicamente, le persone sono state attratte verso le città per le occasioni di lavoro e di vita sociale. Nel 1800 nelle città inglesi viveva un britannico su quattro, nel 1900 la cifra era salita a tre su quattro. Molti si spostavano dalle zone rurali alle città, ma altri si trasferivano anche da un Paese all’altro per cercare rifugio e una vita migliore. La popolazione urbana nel 2014 comprendeva il 54% della popolazione mondiale, in aumento rispetto al 34% del 1960. Nel 2014 l’Onu prevedeva che nel 2050 nelle città vivranno due terzi degli abitanti del mondo. Tuttavia, la mancanza di abitazioni a prezzi accessibili causa l’aumento dei senzatetto: nell’Africa sub-sahariana il 70% degli abitanti delle città vive in baraccopoli. Nelle principali città del mondo, la cattiva salute e la criminalità sono problemi, così come l’enorme disparità fra ricchi e poveri. Urbanizzazione e sviluppo hanno sottoposto l’ambiente a sempre maggiori sollecitazioni. Con il crescere della popolazione mondiale, è divenuta una sfida internazionale migliorare il tenore di vita senza distruggere l’ambiente. Secondo gli scienziati, l’attività umana è colpevole del cambiamento climatico o “riscaldamento del pianeta”. Dopo la rivoluzione industriale del XIX secolo, le temperature mondiali hanno continuato a crescere, e il 2011-2015 è stato il periodo quinquennale più caldo mai registrato. Alcune cause del cambiamento sono dovute a fenomeni naturali, ma all’inizio degli anni Settanta l’ascesa dell’ambientalismo sollevò dubbi riguardo ai benefici delle attività umane per il pianeta. Le nazioni in via di sviluppo venivano invitate a ridurre le emissioni di anidride carbonica, che si ritiene influiscano sul clima.

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Nel 2015 l’India stava aprendo una miniera al mese per far uscire rapidamente dalla povertà i suoi 1,3 miliardi di abitanti. I Paesi sviluppati, che da parte loro avevano contribuito al cambiamento climatico,  hanno provocato nuove tensioni invitando le nazioni in via di sviluppo a smettere di sfruttare le loro risorse naturali allo scopo di migliorare il benessere della popolazione. Gli scienziati hanno avvertito che se le emissioni di gas serra continueranno ad aumentare, l’umanità oltrepasserà la soglia oltre la quale il cambiamento diventerà catastrofico e irreversibile. Anche il livello dei mari sta aumentando, erodendo le zone costiere e cancellando piccole isole del Pacifico meridionale. Le modalità delle precipitazioni stanno cambiando, causando gravi siccità in Africa, e molte specie animali sono a rischio di estinzione. La minaccia del cambiamento climatico è ora ritenuta tanto grave che, nel 2015, si sono riunite a Parigi autorità di tutto il mondo per concordare la riduzione dell’accumulo di gas serra. Con frenetici negoziati, i Paesi in via di sviluppo hanno chiesto alle nazioni più ricche di offrire loro un contributo finanziario per consentire di adattarsi agli effetti del cambiamento climatico, come l’aumento di frequenza di inondazioni e siccità. In tutto, 196 Paesi hanno adottato il primo accordo mondiale sul clima, universale e giuridicamente vincolante, per limitare il riscaldamento del pianeta al livello relativamente non pericoloso di 2° C. Negli anni Settanta i movimenti ecologisti prevedevano che alla metà degli anni Ottanta centinaia di milioni di persone sarebbero morte di fame. La terribile predizione non si è avverata, ma col numero sbalorditivo di sette miliardi di persone sul pianeta vi è un inevitabile dissesto delle risorse naturali. L’eccesso di pesca, in particolare in Indonesia e in Cina, ha ridotto rapidamente le scorte ittiche in tutto il mondo, e la domanda di acqua potrebbe presto superare l’offerta. Nel 2015 l’Onu ha previsto che entro il 2025 1,8 miliardi di persone vivranno in Paesi o regioni con scarsità assoluta di acqua. Il carbone, che alimenta l’industria e la produzione, è sempre più richiesto, ma prima o poi si esaurirà. L’Onu stima che nel 2050 la popolazione mondiale sarà di 9.7 miliardi e che nel 2100 abiteranno la Terra 11,2 miliardi di persone. La dinamica della popolazione sta cambiando da elevata mortalità ed elevata fertilità a bassa mortalità e bassa fertilità, con una popolazione mondiale sempre più anziana, che sarà difficile mantenere. La rapida crescita demografica va a esacerbare problemi come il cambiamento climatico, incertezze nell’approvvigionamento di cibo e acqua, povertà, indebitamento e malattie”.

Un diverso comportamento, più etico e rispettoso del nostro pianeta, un organismo vivente che ci ospita, attuato da politiche più responsabili e lungimiranti di quelle degli attuali governi, è sicuramente la riposta più adeguata e doverosa che questo incombente problema richiede; un’emergenza da affrontare adesso.

Fonte: “Il libro della Storia”. Ed. Gribaudo.

Mary Titton


30 ottobre

PRIMO PIANO

Napoli: a Castel dell’Ovo la mostra sui De Filippo.

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Si è aperta a Napoli, in uno dei luoghi simbolo della città, Castel dell’Ovo, la mostra “I De Filippo, il mestiere in scena”, voluta dalla famiglia De Filippo e promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Napoli. Fino al prossimo 24 marzo 2019, i visitatori potranno ammirare bozzetti, materiali originali, lettere, copioni, oggetti, fondali e costumi di scena di una dinastia che, come ricorda il sindaco de Magistris, “ha dato lustro alla tradizione teatrale napoletana e alla sua lingua, una famiglia che ha vissuto il teatro come sorgente di arricchimento collettivo”. Titina (1898-1963), Eduardo (1900-1984) e Peppino (1903-1980) sono tre figli d’arte, nati a Napoli tra fine Ottocento e primi Novecento dalla relazione tra Eduardo Scarpetta (1853-1925), il più importante attore e autore del teatro napoletano dell’epoca, con Luisa De Filippo (1878-1944), nipote di sua moglie Rosa. La mostra parte dalla Sala delle Carceri, dove su uno schermo di nove metri, curato dall’Istituto Luce-Cinecittà con la regia di Roland Sejko, vengono proiettate le vicende della famiglia tra guerra e dopoguerra. Nella successiva Sala Sirena il tema è la poesia, con i contributi di 16 importanti attori – da Toni Servillo a Luca Zingaretti, da Isa Danieli a Lina Sastri, da Silvio Orlando a Vincenzo Salemme e Gianfelice Imparato – che interpretano le opere di Eduardo, mentre i testi scorrono su pannelli. Si arriva poi alla sezione del cinema (i fratelli esordirono nel 1932 con “Tre uomini in frac” di Mario Bonnard), con una miscellanea dei film più popolari e un riconoscimento di Eduardo al cinema “arte vera come il teatro”. Nello spazio centrale, la Sala Italia, ci sono dodici “isole teatrali” dedicate a Eduardo con numerosi materiali originali, in un allestimento appassionante curato da Bruno Garofalo, l’ultimo scenografo del Maestro. Si possono ammirare, tra gli altri, le sedie di “Le voci di dentro”, il balconcino con la caffettiera di “Questi fantasmi”, il presepe di Luca Cupiello e le annotazioni e i disegni per la messa in scena. Nelle sale superiori il percorso prosegue con altre importanti sezioni che nascono da un’attenta ricerca di materiali provenienti da archivi pubblici e privati, completando i vari ritratti, non solo dal punto di vista professionale, ma anche umano. Una sezione è rivolta all’impegno civile, alle amicizie, allo sforzo per far rinascere il Teatro San Ferdinando nel Dopoguerra, al rapporto con Pulcinella, ma anche all’attualità delle commedie di Eduardo, rappresentate e tradotte in oltre 40 paesi. Infine una sezione è dedicata a tutti i membri della famiglia: Eduardo, Vincenzo e Mario Scarpetta, i fratelli Titina e Peppino, e la nuova generazione con Luigi De Filippo (1930-2018, figlio di Peppino e Adele Carloni) e Luca (1948-2015, figlio di Eduardo ed Enrichetta Thea Prandi). La mostra si propone come un dialogo continuo tra i De Filippo ed il pubblico, nel rispetto del quale questa grande famiglia ha sempre lavorato e donato ogni giorno il suo mestiere, la sua arte. Perché come scriveva Eduardo: “Puoi fare teatro se tu sei teatro perché il teatro nasce dal teatro…l’albero è uno, e i frutti sono pochi”.


29 ottobre

PRIMO PIANO

Eccezionale ondata di maltempo in Italia: 7 morti.

Un vortice ciclonico di straordinaria violenza con forte vento e bombe d’acqua sta flagellando l’Italia da nord a sud, causando smottamenti, frane, caduta di alberi, mareggiate e creando problemi alla circolazione stradale e ai trsporti, con ritardi per i treni sulla linea dell’alta velocità da Bologna verso Nord. ll presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha firmato la dichiarazione dello stato di mobilitazione del Servizio nazionale della protezione civile, in tutta Italia i Vigili del fuoco hanno eseguito cinquemila interventi, di cui 3500 per alberi caduti o pericolanti. Purtroppo l’ondata di maltempo ha provocato anche 7 vittime: due persone hanno perso la vita sulla via Casilina, nel Comune di Castrocielo, in provincia di Frosinone, dove una quercia è crollata su una Smart in transito, uccidendo un imprenditore e il suo collaboratore che erano a bordo della vettura. Le vittime, un 37enne un 38enne di Arce, sono rimaste incastrate nell’abitacolo e per loro non c’è stato nulla da fare. Moltissimi inoltre i danni in tutta la provincia di Frosinone e in provincia di Latina: a Terracina una tromba d’aria ha devastato il centro storico, causando il crollo di diversi pini secolari, uno di questi si è abbattuto su un’auto, uccidendo una delle due persone che si trovavano a bordo, la seconda per fortuna ha riportato solo alcune lesioni, mentre in un primo momento si era sparsa la voce che fosse deceduta in ospedale. In seguito alla tromba d’aria circa cento persone hanno dovuto abbandonare le loro case, l’Appia e la Pontina, vie d’accesso a Terracina, sono rimaste bloccate. Un giovane di 21 anni della provincia di Caserta, poi, è morto schiacciato da un albero che gli è caduto addosso mentre camminava in via Claudio, nel quartiere Fuorigrotta di Napoli. Ancora un morto ad Albisola, nel Savonese, e uno a Feltre, nel Bellunese, infine un vigile del fuoco volontario è morto a San Martino in Badia, in provincia di Bolzano, travolto da un albero caduto per il forte vento. Sono stati tutti sospesi i collegamenti tra Ischia e la terraferma e sono stati evacuati gli scavi di Pompei. A Venezia si è verificato il fenomeno dell’acqua alta e a Roma, dove le scuole rimarranno chiuse anche martedì 30 ottobre, sono caduti molti alberi. Come abbiamo segnalato in altri articoli, questi fenomeni improvvisi e violenti si registrano semre più di frequente per le alterazioni del clima, dovute secondo gli studiosi all’aumento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e al surriscaldamento globale prodotto dalle attività umane, i cui fenonmeni estremi, ovvero siccità e alluvioni, come previsto, si stanno già verificando.  

DALLA STORIA

Il “Martedì nero” del  29 ottobre 1929. Crolla la Borsa di New York. Inizia la Grande Depressione del sistema bancario.

image002(La Borsa di New York a Wall Street il 29 ottobre 1929)

Nell’ottobre del 1929, nell’arco di sei disperati giorni, i titoli alla Borsa di New York precipitarono. La contrazione ebbe inizio il 23 ottobre, quando le azioni dell’azienda automobilistica General Motors furono vendute in perdita e i prezzi cominciarono a scendere. Si diffuse il panico, e il giorno dopo, il cosiddetto “Giovedì nero”, il mercato crollò. Dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano velocemente recuperato e le fabbriche impegnate in forniture per lo sforzo bellico passarono a produrre beni di consumo come automobili e radio. Lo sviluppo delle nuove tecnologie e la produzione in serie fecero crescere l’economia del 50%; l’epoca di prosperità e consumismo che ne derivò fu chiamata “i ruggenti anni Venti”. Giornali e riviste traboccavano di storie di persone che diventavano ricche da un giorno all’altro col mercato azionario e migliaia di americani comuni acquistarono azioni, aumentandone la domanda e gonfiandone il valore. Fra il 1920 e il 1929 il numero di azionisti salì da 4 a 20 milioni. Verso la fine del 1929 vi erano segni di preoccupazione per l’economia americana: la disoccupazione era in crescita, la produzione di acciaio declinava, l’edilizia rallentava, le vendite di automobili erano calate. Ancora fiduciosi nella possibilità di fare fortuna, alcuni continuarono a investire nel mercato azionario. Ma quando, nell’ottobre del 1929, i prezzi delle azioni cominciarono a scendere, si diffuse il panico. Il crollo susseguente innescò una recessione mondiale chiamata Grande Depressione. Negli Stati Uniti le fabbriche chiusero e i lavoratori furono licenziati. Nella primavera del 1933 il settore agricolo era sull’orlo della catastrofe: il 25% dei contadini era senza lavoro e molti persero perfino le proprie aziende agricole. I disoccupati passarono da 1,5 milioni del 1929 ai 2,8 milioni del 1933, ossia il 24,75% della forza lavoro, una tendenza riscontrata in tutto il mondo. In gran Bretagna la disoccupazione salì a 2,5 milioni, il 25% della forza lavoro, colpendo in particolare l’industria pesante come la cantieristica navale.

image001(Disoccupati in fila)

Anche la Germania soffrì notevolmente, poiché la sua economia postbellica era sostenuta da prestiti americani che il Paese non era in grado di ripagare. Il crollo contribuì a portare alla Casa Bianca nel 1932 il democratico Franklin D. Roosevelt. La sua politica, chiamata New Deal (nuovo corso), introdusse un programma di assistenza sociale ai poveri e di spesa pubblica per enormi progetti governativi che crearono nuovi posti di lavoro. La Grande Depressione segnò la fine del boom postbellico americano. In Europa molti guardarono ai partiti di destra, come il Partito nazionalsocialista di Hitler in Germania, da cui veniva la promessa di ricostruire l’economia. In molti Paesi, però, la ripresa giunse solo con l’aumento dell’occupazione causato dalla Seconda guerra mondiale”.

Fonte: “Il libro della Storia”: Ed. Gribaudo.

Mary Titton


28 ottobre

PRIMO PIANO

Formula 1: Hamilton vince per la quinta volta il Mondiale.

A Città del Messico Lewis Hamilton, quarto al traguardo, ha conquistato il mondiale piloti per la quinta volta. Il pilota britannico ha superato così Alain Prost e Sebastian Vettel, fermi a quattro, ed ha eguagliato Juan Manuel Fangio, leggenda degli anni ’50. Il pilota della Mercedes è inoltre a meno due da Michael Schumacher, che detiene il record assoluto con sette titoli. Quinto posto per l’altra Mercedes di Valtteri Bottas, mentre Daniel Ricciardo, autore della pole, è costretto al ritiro a 10 giri dalla fine per un problema alla sua Red Bull. Max Verstappen vince invece il Gp del Messico davanti alle due Ferrari, quella di Sebastian Vettel, che chiude secondo con una bella gara all’inseguimento, e quella di Kimi Raikkonen. Alla partenaza Ricciardo spreca la splendida pole di sabato e scivola in terza posizione, mentre scattano le Mercedes, con Hamilton che si accoda a Verstappen. Vettel, al termine del primo giro, riconquista la quarta posizione davanti al finlandese, mentre Raikkonen è sesto e Fernando Alonso è costretto al ritiro. Il tedesco della Ferrari per i pit stop degli altri conquista la prima posizione e ritarda il cambio gomme fino al 18° giro. A 20 giri dalla partenza, Verstappen si ritrova al primo posto, poi Hamilton, Ricciardo, Vettel, Bottas e Raikkonen. Le posizioni dei big restano invariate fino al 34° giro, quando Vettel riesce a superare Ricciardo e sale virtualmente sul gradino più basso del podio, lanciandosi all’inseguimento di Hamiton. Al 39° giro, il pilota della Ferrari si prende anche la seconda posizione ai danni di Hamilton, superato al 47° giro da Ricciardo. Secondo pit-stop per Vettel e Verstappen, mentre Raikkonen sorpassa Bottas e si porta in quarta posizione. Si ferma anche Hamilton, che al rientro dai box scivola al sesto posto. A venti giri dal termine, le Red Bull sono avanti, seguite dalle Ferrari e dalle Mercedes. A dieci giri dalla fine, colpo di scena: esce del fumo dalla Red Bull di Ricciardo, che è costretto al ritiro. La Ferrari di Vettel passa al secondo posto, seguita da quella di Raikkonen. Così i due ferraristi sono sul podio con Verstappen, arrivato primo, ma non basta al pilota della Ferrari per contendere il titolo mondiale a Hamilton.


26 ottobre

DALLA STORIA

Trilussa: il poeta tra favola e satira.

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Trilussa, anagramma del cognome di Carlo Alberto Camillo Salustri, era nato a Roma il 26 ottobre 1871. Il poeta è particolarmente noto per i sonetti e le favole in dialetto romanesco. Le sue poesie, intrise di una satira sottile, attraversano cinquant’anni di cronaca romana e italiana, dall’età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli del dopoguerra, prendendo a bersaglio con un linguaggio arguto la corruzione dei politici, il fanatismo dei gerarchi, gli intrallazzi dei potenti. Anche durante la dittatura fascista, giocando sull’ambivalenza della favola, così come aveva fatto Fedro molti secoli addietro, riuscì a far risuonare libera la sua voce in versi sempre più finemente allusivi. Le sue composizioni meritano di essere lette tutte per la loro piacevolezza e saggezza come, ad esempio, quella che segue:

LA STATISTICA

Sai ched’ e’ la statistica? È ‘na cosa

che serve pe’ fa’ un conto in generale

de la gente che nasce, che sta male,

che more, che va in carcere e che sposa.

 

Ma pe’ me la statistica curiosa

e’ dove c’entra la percentuale,

pe’ via che, li’, la media è sempre eguale

puro co’ la persona bisognosa.

 

Me spiego: da li conti che se fanno

seconno le statistiche d’adesso

risurta che te tocca un pollo all’ anno:

 

e, se nun entra ne le spese tue,

t’entra ne la statistica lo stesso

perche’ c’e’ un antro che ne magna due.

 

 Er Porco e er Somaro

Una matina un povero Somaro

Ner vede un Porco amico annà ar macello,

Sbottò in un pianto e disse: – Addio, fratello,

Nun ce vedremo più nun c’è riparo!

 

– Bisogna esse’ filosofo,bisogna:

– Je disse er Porco – via nun fa’ lo scemo,

Chè forse un giorno ce ritroveremo

In quarche mortatella de Bologna!

 

Er grillo zoppo

Ormai me reggo su ‘na cianca sola.

– diceva un Grillo – Quella che me manca

m’arimase attaccata a la cappiola.

Quanno m’accorsi d’esse priggioniero

col laccio ar piede, in mano a un regazzino,

nun c’ebbi che un pensiero:

de rivolà in giardino.

Er dolore fu granne … ma la stilla

de sangue che sortì da la ferita

brillò ner sole come una favilla.

E forse un giorno Iddio benedirà

ogni goccia de sangue ch’è servita

pe’ scrive la parola Libbertà!

“La scelta del pollo va inserita nel contesto storico, in quanto ai tempi di Trilussa mangiare pollo era considerata “una cosa da ricchi”, ma anche se oggi in Italia la situazione è diversa il significato del ragionamento umoristico non cambia. Quindi sebbene facendo la media sulla popolazione potesse risultare che ogni persona mangia un pollo (quindi abbia un certo benessere) nella realtà potrebbero essere in molti a non poterselo permettere e il dato sarebbe influenzato dal consumo della fascia di popolazione più ricca. Con questa poesia Trilussa anticipa un tema che è diventato attuale con la diffusione statistica per fini di promozione politica, economica e non solo. Spesso il numero statistico, magari privo di informazioni dettagliate, può essere interpretato in modi diversi a seconda dei dati correlati. Così la media è un dato poco significativo o addirittura fuorviante se non si sa esattamente su quale base è calcolata e con quale criteri è definita: e questa imprecisione, a volte, può essere voluta, con lo scopo intenzionale di ingannare. Casi del genere hanno portato con il tempo a modificare sull’uso di dati statistici, ad esempio per misurare il reddito medio di una certa nazione, che può risultare elevato grazie alla presenza di pochi individui multimiliardari a fronte di una massa di persone sotto la soglia di povertà”. (Wikipedia) Trilussa fu il terzo grande poeta dialettale romano comparso sulla scena dall’Ottocento in poi: se Belli con il suo realismo espressivo prese a piene mani la lingua degli stati più popolari per farla confluire in brevi icastici sonetti, invece Pascarella propose la lingua del popolano dell’Italia Unita, che aspira alla cultura e al ceto borghese, inserita in un respiro narrativo più ampio. Infine Trilussa ideò un linguaggio ancora più prossimo all’italiano, nel tentativo di portare il vernacolo del Belli verso l’alto. Trilussa alla Roma popolana sostituì quella borghese, alla satira storica l’umorismo della cronaca quotidiana. In particolare Trilussa ha la capacità di evidenziare attraverso meschinità e debolezze tipiche delle persone attraverso metafore efficaci e graffianti, spesso basate su episodi che hanno come protagonisti animali domestici. È questo il caso del noto sonetto “Er cane moralista” in cui all’iniziale comportamento censorio e critico verso comportamenti riprovevoli, segue un finale in cui l’accomodamento e il reciproco interesse richiamano situazioni non rare nei comportamenti umani:

ER CANE MORALISTA

Più che de prescia er Gatto

agguantò la bistecca de filetto

che fumava in un piatto

e scappò, come un furmine, sur tetto

Lì se fermò, posò la refurtiva

e la guardò contento e soddisfatto.

Però s’accorse che nun era solo,

perché er Cagnolo der padrone stesso

vista la scena, j’era corso appresso

e lo stava a guardà’ da un muricciolo

A un certo punto, infatti, arzò la testa

e disse ar Micio: Quanto me dispiace

Chi se pensava mai ch’eri capace

d’un’azzionaccia indegna come questa?

Nun sai che nun bisogna

approfittasse de la robba artrui?

Hai fregato er padrone! Propio lui

che te tiè drento casa! Che vergogna!

Nun sai che la bistecca ch’hai rubbato

peserà mezzo chilo a ditte poco?

Pare quasi impossibile ch’er coco

nun te ciabbia acchiappato!

Chi t’ha visto? Nessuno

E er padrone?Nemmeno …

Alloradicearmeno

famo metà per uno!

(Trilussa, 1871-1950)

Il Presidente della repubblica Luigi Einaudi nominò Trilussa senatore a vita il 1° dicembre 1950, venti giorni prima che morisse (si legge in uno dei primi numeri di “Epoca” dedicato, nel 1950, alla notizia del suo decesso, che il poeta, già da tempo malato e presago della fine imminente, con immutata ironia, avesse commentato: “M’hanno nominato senatore a morte”; resta il fatto che Trilussa, benché settantanovenne al momento del trapasso, si ostinava con civetteria d’altri tempi a dichiarare di averne 73). Morì il 21 dicembre; lo stesso giorno di Giuseppe Gioachino Belli, grande poeta romanesco e di Giovanni Boccaccio. Era alto quasi due metri, come testimoniano le foto a corredo della notizia della sua morte pubblicate dal settimanale mondadoriano “Epoca” nel 1950.

image001(Trilussa, primo da destra, in compagnia dello scultore Nicola D’Antino e del pittore Francesco Paolo Michetti)

Mary Titton


25 ottobre

DALLA STORIA

25 ottobre 1881: nasce Pablo Picasso considerato uno dei più grandi artisti del Novecento, uno dei più influenti e rivoluzionari pittori di tutta la storia dell’arte.

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Pablo Picasso è senza dubbio il più famoso esponente dell’arte moderna, un artista innovatore e poliedrico che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte mondiale per essere stato il fondatore, insieme a Georges Braque, del cubismo. L’ispirazione che diede a Picasso l’idea di dipingere a più dimensioni la realtà, contrariamente ai suoi predecessori, fu quando l’opera di Cèzanne divenne nota e fu studiata, in seguito alla grande mostra retrospettiva organizzata a Parigi dopo la sua morte nel 1906. Picasso era figlio di un maestro di disegno ed era stato una specie di ragazzo prodigio alla scuola d’arte di Barcellona. A diciannove anni si era recato a Parigi dove aveva dipinto soggetti che sarebbero stati graditi agli espressionisti: mendicanti, reietti, vagabondi e artisti di circo equestre. Ma non era soddisfatto, e prese a studiare l’arte primitiva sulla quale Gauguin e forse anche Matisse avevano attirato l’attenzione. Si può immaginare ciò che apprese: imparò come sia possibile costruire l’immagine di un volto o d’un oggetto con pochi semplicissimi elementi, il che era qualcosa di diverso dalla semplificazione dell’impressione visiva praticata dagli artisti precedenti. Essi avevano ridotto le forme della natura a uno schema piatto. Ma forse c’era modo di evitarlo, di costruire il quadro con oggetti semplici pur mantenendogli solidità e profondità. Fu questo problema che riportò Picasso a Cèzanne. In una delle sue lettere a un giovane pittore, Cèzanne l’aveva consigliato di guardare la natura in termini di sfere, coni e cilindri. Forse voleva dire che era necessario tenere sempre in mente queste forme di solidi fondamentali nell’organizzare i quadri. Ma Picasso e i suoi amici decisero di accettare il consiglio alla lettera. Si suppone che ragionassero più o meno così: “Abbiamo rinunciato da tempo alla pretesa di rappresentare le cose come appaiono all’occhio. Era un fuoco fatuo che era inutile inseguire. Non vogliamo fissare sulla tela l’immaginaria impressione d’un attimo fuggente. Seguiamo l’esempio di Cèzanne e costruiamo il quadro con i nostri motivi, il più solidamente e durevolmente possibile. Perché non essere coerenti e non accettare il fatto che la nostra vera meta è piuttosto costruire qualcosa che copiare? Se pensiamo a un oggetto, poniamo, un violino, esso non appare agli occhi della mente così come lo vedremmo con i nostri occhi corporei. Infatti noi possiamo pensare ai suoi vari aspetti nel medesimo istante. Alcuni di essi si stagliano così chiaramente che sentiamo di poterli toccare e maneggiare; altri sono in qualche modo in ombra. Eppure questo strano miscuglio di immagini rappresenta meglio il violino “vero” di qualunque istantanea o meticolosa pittura”.

image003(Violino e grappoli d’uva, 1912 – www.settemuse.it)

È noto che gli artisti di tutte le epoche hanno tentato di risolvere a loro modo il paradosso essenziale della pittura, che è la rappresentazione della profondità su una superficie. Il cubismo rappresentò un tentativo di non avallare questo paradosso. Ma piuttosto di volgerlo alla ricerca di nuovi effetti. Picasso non pretese mai che il cubismo potesse sostituire tutti gli altri mezzi di rappresentazione del mondo visibile. Al contrario egli amava mutare i suoi metodi tornando, di quando in quando, dagli esperimenti più arditi alle varie forme tradizionali. Forse era la sua sorprendente maestria nel disegno, il suo virtuosismo tecnico a infondere in Picasso una nostalgia della semplicità, dell’assenza di complicazioni. Doveva dargli una particolare soddisfazione buttare a mare tutta la sua abilità e intelligenza facendo con le sue mani qualcosa che ricordava i lavori dei contadini e dei fanciulli. Picasso stesso negava di fare esperimenti. Diceva che non creava, trovava. Rideva di quanti vogliono capire la sua “arte”. “Tutti vogliono capire l’arte. Perché non tentar di capire il canto di un uccello?”. Nessun quadro può essere pienamente “spiegato” a parole. La situazione che porta Picasso alle sue “scoperte” è tipica dell’arte moderna. Per l’artista ogni soggetto non è se non un pretesto per studiare l’equilibrio del colore e del disegno. Un maestro come Cézanne non dovette nemmeno proclamare questa verità. I cubisti ripresero il cammino al punto in cui Cézanne si era fermato. Da allora, un sempre maggior stuolo d’artisti accettò per scontato che l’importante nell’arte è la scoperta di nuove soluzioni dei problemi cosiddetti “formali”. Per tali artisti la “forma” è sempre più importante del “soggetto”. Nel 1973, quando Picasso si spense all’età di novantadue anni, era ancora maestro d’invenzioni.

image001-2(Pablo Picasso, Chioccia con i pulcini)

image002-2(Pablo Picasso, Galletto)

Due diversi modi di Picasso di disegnare il tema da rappresentare. Nel primo disegno in alto c’è un’incantevole chioccia in mezzo ai suoi lanugginosi pulcini. Certo, nessuno potrebbe riscontare pecche in questa incantevole rappresentazione somigliante alla realtà. Però, nel disegnare un gallo, Picasso non si accontenta di renderne semplicemente l’aspetto: vuole esprime l’aggressività, la boria e la stupidaggine. In altre parole, ricorre alla caricatura. Ma che caricatura persuasiva ne ha ricavato!”.

Fonte: “La storia dell’arte raccontata” da E. H. Gombrich, ed. Einaudi

Mary Titton


24 ottobre

PRIMO PIANO

I Puffi “ puffano” 60 anni.

characters_smurf_020-300x300I Puffi (in francese Les Schtroumpfs) sono dei personaggi immaginari dei fumetti ideati nel 1958 dal belga Peyo, che hanno esordito nella serie a fumetti John e Solfamì (Johan et Pirlouit); grazie al successo ottenuto, divennero protagonisti nel 1959 di una serie a loro dedicata a opera dello stesso autore in collaborazione con il giornalista belga Yvan Delporte. Sono stati protagonisti negli anni sessanta e ottanta di alcune serie di cortometraggi a disegni animati e, nel 1975, di un primo lungometraggio, “Il flauto a sei Puffi”, al quale ne sono seguiti altri negli anni 2010/3/4/5. Il loro particolare linguaggio è stato oggetto, nel settembre 1979, di un saggio di Umberto Eco, “Schtroumpf und Drang”, dedicato alla semantica della lingua dei Puffi. “Noi Puffi siam così …” Tre generazioni di bambini sono cresciute con questo motivetto, sigla tormentone dei cartoni animati dei buffi folletti blu, nati dal disegno creativo del belga Pierre Culliford in arte Peyo e diventati fenomeno popolare negli anni ’80 grazie alla serie tv (ancora oggi replicata) di Hanna & Barbera. L’autore cominciò a scrivere alcune storie con loro protagonisti e creò anche altri personaggi antagonisti, come il crudele mago Gargamella e il suo gatto arancione, Birba. La trama dei racconti è l’eterna lotta tra bene e male in un microcosmo medioevale di fantasia: i buoni devono salvarsi dalle grinfie dei cattivi, primo fra tutti Gargamella. Protagonisti assoluti sono i Puffi, ciascuno diverso dall’altro per attitudine e mestiere, a cominciare dal Grande Puffo, l’unico vestito di rosso, il più anziano, il più saggio, poi c’è l’imbranato Tontolone, l’intelligente e sapientone Quattrocchi, il bellissimo Vanesio e Puffetta, dai lunghi capelli neri, inizialmente finta puffa femmina creata da Gargamella per spiare gli acerrimi nemici, divenuta poi bionda dopo che il Grande Puffo la trasformò in una vera Puffa. Secondo quanto si legge nel numero 1.354 de Le Journal de Spirou, in totale i Puffi sarebbero 99 più il Grande Puffo, successivamente se ne aggiunsero altri 5 (tra cui Baby Puffo), arrivando così a 105. Secondo Cristina D’Avena, sono alti “due mele o poco più”. In realtà c’è chi fa notare che si tratterebbe di un’erronea interpretazione del detto francese “haut comme trois pommes”, per indicare le persone basse. E’ lo stesso Gargamella inoltre a descriverli alti come tre mele, non si sa se col cappello bianco, ispirato, pare, al berretto di Frigia introdotto nel regno persiano dal VI a II sec. a.C, o senza. Rispetto a Gargamela appaiono molto piccoli, se vengono paragonati invece alla natura circostante la loro dimensione è molto variabile, a seconda della fantasia di Peyo.


23 ottobre

PRIMO PIANO

Compie 100 anni l’ ultimo testimone dell’eccidio di Cefalonia.

Compie 100 anni Bruno Bertoldi, unico testimone ancora in vita dell’eccidio di Cefalonia, nel quale dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 persero la vita, per mano dell’esercito tedesco, oltre 8.000 soldati italiani. Nato nel 1918 e cresciuto a Carzano (Trento) in quello che all’epoca era Tirolo austriaco, Bertoldi fu arruolato nel 1937 a Bolzano come comandante dell’autodrappello della divisione Acqui. Sbarcato prima in Albania e poi militare di stanza a Cefalonia, sopravvisse miracolosamente all’eccidio. Il militare austriaco chiamato a fucilarlo era infatti un optante sudtirolese che già in un’occasione gli aveva risparmiato la vita e gli consentì di fuggire. Rifugiatosi presso una famiglia greca, al termine della strage, Bertoldi si consegnò alla Wehrmacht per evitare rappresaglie sul villaggio nel quale si era nascosto. Rifiutandosi di arruolarsi nell’esercito tedesco, fu caricato su un treno diretto in Polonia con destinazione finale Minsk in Ucraina. In quel paese Bertoldi lavorò per sei mesi come meccanico prima di essere consegnato all’Armata Rossa dai partigiani, con i quali si era rifiutato di combattere, pur appoggiandone la causa, quando le sorti della guerra volsero a favore dei russi e i tedeschi furono costretti a ritirarsi. Finito nelle mani dell’Armata Rossa, Bertoldi fu caricato su un treno merci dal quale però riuscì a fuggire, sopravvivendo per l’ennesima volta alla morte. L’ex militare camminò quindi per due mesi attraverso la steppa gelata fino ad arrivare al lager di Tambov, nella Russia sud occidentale, da dove venne poi trasferito in Turkestan, dove per sei mesi venne impiegato nella raccolta del cotone in un gulag. Nell’ottobre del 1945 fu caricato nuovamente su un treno che lo trasportò per 17.000 km fino a Vienna e da lì in Valsugana, dove riabbracciò finalmente la madre. Nel 2013 Bertoldi testimoniò al Tribunale di Roma nell’ambito del processo contro Alfred Stork, ex caporale dei Gebirgsjäger, all’epoca 90enne, accusato dell’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani” sull’isola di Cefalonia. L’eccidio di Cefalonia fu compiuto da reparti dell’esercito tedesco a danno dei soldati italiani presenti su quell’ isola alla data dell’8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio di Cassibile che sanciva la cessazione delle ostilità tra l’Italia e gli anglo-americani. In massima parte i soldati presenti facevano parte della divisione Acqui, ma c’erano anche finanzieri, carabinieri ed elementi della Regia Marina. Analoghi avvenimenti si verificarono a Corfù che ospitava un presidio della stessa divisione Acqui. La guarnigione italiana di stanza nell’isola greca si oppose al tentativo tedesco di disarmo, combattendo sul campo per vari giorni con pesanti perdite, fino alla resa incondizionata, alla quale fecero seguito massacri e rappresaglie, nonostante la cessazione di ogni resistenza. I superstiti furono quasi tutti deportati verso il continente su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate, con gravissime perdite umane.


22 ottobre

PRIMO PIANO

Su Marte nell’acqua c’è ossigeno sufficiente a consentire la vita.

480px-Mars_interior(La struttura interna del pianeta, ricostruzione artistica a cura della NASA)

Una ricerca del California Institute of Technology (Caltech), pubblicata sulla rivista Nature Geoscience, rivela che c’è ossigeno sufficiente per ospitare la vita nell’acqua salata del lago scoperto nel sottosuolo di Marte dal radar italiano Marsis. I calcoli fatti dal gruppo di Vlada Stamenković indicano che l’ossigeno potrebbe sostenere la vita di microrganismi e animali più complessi, come spugne, confermando i dati raccolti dagli studiosi italiani. Non solo dunque batteri capaci di vivere in condizioni estreme: la presenza di ossigeno nell’acqua di Marte amplia la gamma delle possibili forme di vita che il pianeta rosso potrebbe ospitare. L’astrobiologa Daniela Billi, dell’università di Roma Tor Vergata, commenta così la scoperta: “I requisiti per l’abitabilità delle brine su Marte si arricchiscono ora della possibile presenza di ossigeno, indispensabile però alle sole forme di vita che lo utilizzano per la respirazione. Questa possibilità amplia i possibili metabolismi presenti su Marte.” Finora si ritenevano impossibili forme di vita in grado di respirare ossigeno su Marte, perché l’atmosfera del pianeta è poverissima di questo gas e si pensava che sul pianeta rosso potessero vivere soltanto microrganismi simili ai batteri, chiamati metanogeni, che sulla Terra vivono in ambiente privi di ossigeno e utilizzano l’idrogeno molecolare anziché l’ossigeno come fonte di energia. Adesso, invece, lo scenario è cambiato completamente: sul pianeta rosso aumenta la probabilità che ci siano le condizioni per ospitare microrganismi il cui metabolismo è basato sull’ossigeno, perché trovano il gas disciolto nell’acqua salata. Secondo lo studio, inoltre, le concentrazioni di ossigeno sono particolarmente elevate nel sottosuolo delle regioni polari. “Non sappiamo – concludono gli autori – se Marte abbia mai ospitato la vita”, ma i risultati a cui sono pervenuti estendono la possibilità di cercarla, indicando che le forme di vita basate sull’ossigeno su Marte potrebbero essere possibili, a differenza di quanto immaginato finora. Questo estende anche l’opportunità per la caccia alla vita su altri pianeti e lune, che ospitino sacche di acqua salata o oceani sotterranei, come Encelado, la luna di Saturno.


21 ottobre

PRIMO PIANO

Afghanistan: sangue sulle prime elezioni parlamentari.

In Afghanistan una raffica di attentati ha funestato le elezioni parlamentari. In serata i primi parziali conteggi parlano di almeno 50 morti e oltre 150 feriti, ma il bilancio è destinato ad aggravarsi. Secondo il ministro degli Interni Wais Barmak, gli attacchi in tutto il Paese sono stati 192, i Taliban ne rivendicano oltre trecento: è stata una giornata di guerra aperta. All’ingresso dell’ospedale di Emergency nel giorno del voto le barelle vanno e vengono, quasi senza sosta. Gli infermieri corrono a soccorrere i feriti di Kabul e il logista Marco Puntin avverte: “Ne stanno arrivando altri da Tagab e da Ghazni, prepariamoci”. Chi ha solo un graffio o magari ha subito uno choc torna a casa sulle sue gambe, per gli altri c’è il ricovero, anche se in giornate campali come questa lo spazio non basta mai. Nella sola mattinata all’ospedale fondato da Gino Strada sono accolte 48 persone, per un bambino è troppo tardi. In tutto l’Afghanistan i pronto soccorso sono sommersi: i Taliban hanno organizzato attacchi ai seggi per far fallire l’appuntamento elettorale. A Kabul la popolazione è andata a votare confidando nella protezione dell’“anello d’acciaio” dei checkpoint di polizia che circondano il centro della città. “Non avevo sentito di queste minacce dei Taliban”, ammette dal suo lettino in ospedale Abdullah Ghashtalay, 62enne impiegato al ministero delle Miniere, ferito al collo e sulla fronte da una bomba nel seggio della scuola femminile Deh Kaypak. “Ero in fila, verso le 11, aspettavo il mio turno per votare, quando ho sentito un boato e mi sono trovato a terra. Mi dispiace non poter sostenere il mio candidato, sono convinto che potrà fare qualcosa di buono per l’Afghanistan”. Fra attacchi con bombe e l’assalto di un integralista suicida che si è fatto esplodere nel seggio di Sar-e-Kotal, uccidendo 15 persone, il prezzo pagato per la democrazia da parte degli abitanti della capitale è stato altissimo. E altrettanto è stato nella provincia meridionale di Kandahar, dove il voto è stato rinviato di una settimana a causa dell’attentato di giovedì, nel quale sono morti il capo della polizia e quello dell’intelligence. La stampa locale pubblica cartine che raccontano una giornata da incubo: attentati nelle province di Kunduz, Laghman, Paktika, Paktia, Badakhshan, Zabul, Logar, Kunar, Baghlan e Farah. In molti distretti i Taliban hanno preso d’assalto i seggi, mettendo in fuga il personale e distruggendo schede e urne, mentre su diverse città si abbattevano razzi e bombe di mortaio.


20 ottobre

PRIMO PIANO

Mondiale di volley femminile: argento alle azzurre.

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La finale femminile di volley, che si è giocata a Yokohama in Giappone, si è chiusa con un argento, comunque splendido, per le ragazze azzurre sconfitte 3-2 dalla Serbia, campione d’Europa in carica e argento olimpico a Rio. Il Mondiale, il primo della sua storia, è della Serbia, per le azzurre solo tantissimi rimpianti. La finale lunghissima si è chiusa al tie break con l’Italia arrivata, fiaccata dai 10 set delle ultime ventiquattr’ore, a giocarsi il mondiale all’ultimo punto. Decisivo, sul 9-8 serbo nell’ultima partita uno spaventoso muro di Mihajlovic su Egonu. È proprio la schiacciatrice, più di Boskovic, l’atleta che ha determinato la vittoria serba. Un errore di Sylla, servita malissimo all’ultimo punto e costretta a una sorta di gancio irregolare per rimandare il pallone di là, ha chiuso il match. Tantissimi rimpianti per le azzurre, incapaci di dare continuità a un primo set formidabile. La squadra si è sfilacciata e danneggiata da sola: l’hanno messa in difficoltà le tante battute flottanti e soprattutto le due atlete centrali serbe Rasic e Veljkovic: 10 muri a 7, nella partita che conta l’Italia si è fatta battere proprio nel suo fondamentale più efficace. Azzurre brave lo stesso, ma è Rasic ad alzare il trofeo. A distanza di sedici anni dall’oro conquistato nello storico mondiale del 2002 a Berlino contro gli Usa, l’Italia è tornata comunque a ottenere una medaglia in una rassegna iridata e lo ha fatto con una squadra giovanissima e praticamente autoprodotta, 9 delle azzurre si sono formate nel Club Italia: Fahr, Nwakalor, Pietrini, Lubian, Chirichella, Egonu, Danesi, Malinov e Ortolani. Mazzanti ha guidato il gruppo alla perfezione. Bravissima Egonu, che però ha sbagliato un paio di palloni negli ultimi due parziali, mentre la serba Boskovic ha trascinato le sue compagne alla vittoria.

19 ottobre

PRIMO PIANO

Roma: ritrovati a Villa Hüffer alcuni dipinti di Giacomo Balla

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Dopo 100 anni sono stati ritrovati a Roma, in via Milano, al piano terra di Villa Hüffer, edificio di proprietà della Banca d’Italia, sul muro della hall di un locale jazz degli anni Venti i dipinti di Giacomo Balla: l’ingresso è stato interamente dipinto a tempera dall’artista per il Bal Tic Tac, il primo cabaret, locale da ballo in stile futurista, dove si suonava l’“infuocato” jazz tanto amato dagli esponenti dell’avanguardia italiana. Il celebre Bal Tic Tac fu inaugurato da Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo e fu decorato e dipinto dal maestro futurista, che per quegli ambienti progettò ogni dettaglio, dal palco per l’orchestra fino ai mobili e alle lampade. Sotto strati di pitture, carte da parati, controsoffittature di epoca successiva sono emersi circa 80 metri quadrati di pitture di Giacomo Balla (1871-1958), parte di un’opera futurista notissima agli storici, ma che fino a ieri si credeva distrutta e dispersa. Nelle pitture a tempera prevalgono i colori giallo, rosso, blu, marrone, che sono rimasti incredibilmente integri. Non resta nulla dei danzatori e delle danzatrici di cui parlano le cronache del tempo, composte unicamente da linee che descrivevano i contorni delle figure con tratto continuo. Come ricordava Elica, la figlia dell’artista, in quell’impresa – per la quale Giacomo fu pagato 4.000 lire – Balla fu affiancato, in qualità di assistente, dall’artista Luigi Verderame, il quale a sua volta ricordava che il maestro la sera dell’inaugurazione si presentò indossando una futuristica cravatta di sua invenzione, “di celluloide trasparente con dentro una lampadina accesa”. Le decorazioni, il cui restauro è già in corso, saranno lasciate nella loro posizione originale, assicurano da Bankitalia e in un prossimo futuro saranno accessibili al pubblico: i locali del ritrovamento diventeranno parte del Museo per l’educazione finanziaria della Banca d’Italia, la cui apertura è prevista per la fine del 2021. E nello stesso tempo, sempre con l’aiuto di Bankitalia, si punta a riaprire anche la Casa Balla di Via Oslavia, dove l’artista visse dal 1929 al 1958, anno della sua morte e che le sue due figlie Luce ed Elica, che del lavoro del padre furono preziose collaboratrici, lasciarono ai nipoti alla fine degli anni Novanta.

DALLA STORIA

19 ottobre 1812: Napoleone I di Francia si ritira dalle porte di Mosca.

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“Farò di tutti i popoli d’Europa un solo popolo, e di Parigi la capitale del mondo. (Napoleone Bonaparte).

Napoleone aveva coltivato una sensazione di invincibilità francese. Con la “Dichiarazione di coscrizione” del 1793, tutti gli uomini francesi erano in arruolamento permanente per il servizio militare. Una costrizione obbligatoria che aveva creato un esercito di dimensioni senza precedenti e il convincimento per la Francia di essere imbattibile; ciò rese ancora più traumatica la sua sconfitta definitiva. Dei 450.000 uomini che Napoleone aveva guidato contro la Russia nel 1812, ne sopravvissero a malapena 40.000. Napoleone si era spinto troppo oltre; a Lipsia, in Germania, nel 1813, in inferiorità numerica in rapporto di tre a uno rispetto alle truppe di Austria, Prussia, Russia e Svezia, subì la prima sconfitta importante. A Waterloo le sue truppe si erano in parte reintegrate e il rapporto era meno di due a uno, ma la genialità militare di Napoleone non riuscì a ristabilire l’equilibrio e la sua ambizione imperiale naufragò nel fango di Waterloo. La sconfitta di Napoleone a Waterloo, il 18 giugno 1815, segnò il suo rovesciamento definitivo da imperatore dei francesi, ponendo fine a 23 anni di guerre europee. Fu uno scontro epico, combattuto su un terreno inzuppato di pioggia, in cui 118.000 soldati britannici, olandesi e prussiani alla fine prevalsero su un esercito francese di 73.000 uomini, radunati frettolosamente da Napoleone. Le guerre di Francia, iniziate nel 1792, erano state condotte per esportare i principi rivoluzionari negli Stati vicini e per difendere la Francia dai suoi nemici ma, di fatto, con Napoleone divennero guerre di conquista. “Durante le guerre rivoluzionarie la Francia aveva creato repubbliche sorelle nell’Italia settentrionale e nei Paese Bassi; con Napoleone molte di queste furono trasformate in monarchie, i cui sovrani provenivano dalla famiglia dell’imperatore. Alcuni Stati della Germania furono sottratti alla Prussia, andando a formare uno Stato fantoccio dei francesi, mentre dopo otto secoli fu abolito il Sacro Romano Impero. Dal 1807 gran parte della Polonia passò sotto il dominio francese con la creazione del Granducato di Varsavia. Questi Stati venivano trasformati secondo i criteri francesi: si riduceva il potere clericale, si aboliva la servitù della gleba e si eliminavano i privilegi aristocratici, provocando tuttavia inevitabili risentimenti. Le conquiste di Napoleone furono l’esito non solo di genialità militare, ma anche del notevole incremento di soldati nelle armate francesi. La coscrizione obbligatoria, introdotta nel 1793, fece crescere l’esercito da 160.000  uomini a 1,5 milioni. Solo la Gran Bretagna, protetta dal canale della Manica, evitò la sconfitta, e la sua posizione di principale potenza marittima mondiale fu messa in evidenza nel 1805 dalla vittoria di Trafalgar, al largo della Spagna meridionale. Ma la forza navale da sola non bastava per battere Napoleone. Il ruolo più significativo della Gran Bretagna fu di finanziare le alleanze sempre mutevoli che andavano ad affrontare i francesi. Per tutta risposta, Napoleone impose il blocco continentale, che proibiva i commerci fra l’Europa e la Gran Bretagna. Tuttavia Portogallo e Russia continuarono a commerciare con i britannici, provocando invasioni napoleoniche rispettivamente nel 1807 e nel 1812. La resistenza al dominio napoleonico aumentava; gli spagnoli avviarono una brutale guerriglia che prosciugò le risorse francesi e giunse a essere definita da Napoleone “l’ulcera spagnola”’.

Le vaste conquiste di Napoleone crearono l’impero europeo più grande dai tempi di Carlo Magno. Le sue illimitate mire espansionistiche, però, lo portarono troppo lontano; il ritmo delle sue conquiste, diventato insostenibile, ne provocò la definitiva sconfitta. Mandato in esilio a Sant’Elena nel 1815, nell’Atlantico meridionale, dopo sei anni morì.

 
image003-1 (“L’incoronazione di Napoleone”. Opera di Jacques-Louis David)

Fonte: “Il libro della Storia”. Ed. Gribaudo.


 18 ottobre

PRIMO PIANO

Il Rapporto della Caritas italiana sulla povertà.

Il Rapporto 2018 della Caritas su povertà e politiche di contrasto denuncia, riprendendo i dati Istat, che il numero dei poveri assoluti “continua ad aumentare e supera i 5 milioni.” Il disagio è esteso a più soggetti, soprattutto tra i giovani. Tra gli individui in povertà assoluta i minorenni sono 1 milione 208mila (il 12,1% del totale) e i giovani nella fascia 18-34 anni 1 milione 112mila (il 10,4%): “oggi quasi un povero su due è minore o giovane”. Nel 2017 197.332 persone si sono rivolte ad un centro Caritas, il 42,2% di nazionalità italiana. Le storie di povertà intercettate nei Centri di ascolto “risultano più complesse, croniche e multidimensionali”, il 42,6% delle persone incontrate da Caritas nel 2017 sono nuovi utenti, ma “è in aumento la quota, piuttosto alta, di chi vive situazioni di fragilità da 5 e più anni (22,6%)”. Nelle regioni del Nord e del Centro le persone prese in carico sono per lo più straniere (rispettivamente il 64,5% e il 63,4%), mentre nel Mezzogiorno le storie intercettate sono in maggioranza di italiani (67,6%). In termini di genere il 2017 segna il sorpasso dell’utenza maschile su quella femminile, dovuto alle trasformazioni delle dinamiche migratorie. L’istruzione continua ad essere tra i fattori che più influiscono sulla condizione di povertà. Uno dei temi centrali del Rapporto è quello “della povertà educativa, un fenomeno principalmente ereditario nel nostro Paese, che a sua volta favorisce la trasmissione intergenerazionale della povertà economica”. Afferma il direttore di Caritas Italiana, don Francesco Soddu: “I dati nazionali dei centri di ascolto, oltre a confermare una forte correlazione tra livelli di istruzione e povertà economica, dimostrano anche una associazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà”. L’Italia ha fatto dei passi in avanti ma, si colloca ancora “al penultimo posto in Europa per presenza di laureati, solo prima della Romania”. Il 14% dei ragazzi in Italia abbandona precocemente gli studi e l’Italia nella classifica europea si colloca al quarto posto (dopo Malta, Spagna e Romania). La povertà, inoltre, non è solo mancanza di reddito o lavoro, è anche “isolamento, fragilità, paura del futuro”. Tra gli altri elementi da evidenziare c’è l’incremento delle persone senza dimora e delle storie connotate da un minor capitale relazionale (famiglie uni-personali). Un “esercito di poveri”, dunque, che “non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’allarmante cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni”.

DALLA STORIA

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8 ottobre 1978: muore a L’Avana Ramón Mercader, l’assassino di Lev Trockij.

Jaime Ramón Mercader del Río Hernández, l’assassino di Trockij, divenne un agente segreto spagnolo, naturalizzato sovietico, che operò nel NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) nell’URSS durante il governo di Iosif Stalin. Mercader era nato a  Barcellona, nel 1913 ma trascorse gran parte della sua gioventù in Francia, con la madre dopo la separazione dal padre catalano. Fin da giovane Mercader cooperò con le organizzazioni di sinistra spagnole fin verso la metà degli anni Trenta. Venne anche imprigionato per attività politica e fu scarcerato nel 1936, quando in Spagna salì al potere un governo di sinistra. Nel frattempo, sua madre divenne agente segreto sovietico e lui la seguì a Mosca dove venne soprannominato dai suoi superiori “Gnome”. Incaricato dal NKVD, il 20 agosto 1940, ferì a morte il sessantunenne Lev Trockij nella sua villa fortezza di Coyocán, un sobborgo di Città del Messico. Lì, il fondatore dell’Armata Rossa, aveva ottenuto asilo politico da parte del post-rivoluzionario governo del presidente Lázaro Cárdenas, grazie all’intercessione di Diego Rivera (il grande pittore muralista, marito di Frida Khalo). I due artisti, tesserati nel Partito Comunista Messicano, da cui furono espulsi senza troppi complimenti quando si opposero alla linea stalinista dominante, preferendo la corrente di pensiero di Trockij e passando al servizio della Quarta Internazionale, gli offrirono asilo politico nella propria dimora, la famosa Casa blu a Coyacán.

image006(Diego Rivera, particolare affresco, 1934)

image003(Lev Trockij, dipinto da Frida Khalo)

Trockij arrivò in Messico nel 1937, dopo quasi un decennio di esilio. La maggior parte dei Paesi si rifiutava di accoglierlo, temendo una reazione da parte dell’URSS. Per questo e per sfuggire costantemente dai sicari di Stalin fu costretto a viaggiare senza tregua da un posto all’altro. Trockij era stato espulso dal partito nel 1927 e dall’Unione Sovietica nel 1929, a causa delle sue idee politiche contrapposte a quelle di Stalin, ma restava ancora una spina nel fianco del regime del leader sovietico, soprattutto attraverso i suoi scritti. Poco tempo prima del suo assassinio, nel maggio del 1940, il politico-rivoluzionario era appena sfuggito all’assalto organizzato dal celebre pittore David Alfaro Siqueiros, di tendenza staliniana. Poi, nell’agosto dello stesso anno Mercader gli piantò in testa la piccozza da ghiaccio che nascondeva nell’impermeabile sottobraccio, dalla parte della paletta. Trockij conosceva il suo assassino come Franc Jacson, un seguace canadese che si era spacciato delle sue idee politiche. Agli inquirenti l’agente segreto dichiarò di essere Jacques Mornard, belga; solo alla fine della sua condanna a vent’anni sarà identificato come l’agente dei servizi segreti staliniani Ramón Mercader. Il 6 maggio 1960 venne rilasciato dal carcere dopo diverse richieste di grazia. Si trasferì così a L’Avana dove fu accolto da Fidel Castro, che si era appena avvicinato all’Urss. Nel 1961 si recò in Unione Sovietica dove in precedenza il governo staliniano lo aveva insignito con la medaglia d’Eroe dell’Unione Sovietica, una delle più alte onorificenze della nazione. L’onorificenza gli fu successivamente revocata nel 1963 per ordine di Chruščёv.

Mary Titton


17 ottobre

PRIMO PIANO

Crimea: sparatoria in un college, 18 morti e 50 feriti.

L’attentato è avvenuto all’Istituto politecnico di Kerch, città strategica dove Putin nello scorso maggio aveva inaugurato un nuovo, immenso ponte. Secondo il governatore della Crimea, Sergej Aksenov, il responsabile è uno studente di 18 anni, che frequentava il quarto anno dell’Istituto e poi si è tolto la vita. “Il sospetto assalitore si è sparato. Il suo corpo è stato trovato in biblioteca al secondo piano”, ha riferito Aksyonov in tv. Il bilancio provvisorio è di 18 morti, compreso l’attentatore, e 50 feriti. Le vittime sono per lo più adolescenti. Dopo l’attacco, funzionari locali hanno dichiarato lo stato di emergenza nella penisola del Mar Nero, che è stata annessa dall’Ucraina nel 2014 e hanno anche rafforzato la sicurezza sul ponte di 19 km che collega la penisola con la Russia. Diverse le ricostruzioni dell’attacco date dalle autorità russe: i funzionari russi in un primo momento hanno parlato di un’esplosione di gas, poi di un ordigno esplosivo che ha squarciato la mensa del college all’ora di pranzo in un presunto “attacco terroristico”. I testimoni, tuttavia, hanno riferito che almeno alcune delle vittime erano state uccise in un attacco da uno o più uomini armati. Secondo l’ultima versione ufficiale l’attentatore è uno solo, uno studente, identificato come il 18enne Vladislav Roslyakov, che è entrato a scuola ed ha iniziato a sparare con un fucile. Il Comitato investigativo russo ha spiegato che l’attacco è stato ripreso dalle telecamere di sicurezza in cui si vede il 18enne entrare nel college con un fucile e sparare agli studenti. Il Comitato ha detto che tutte le vittime sono morte per ferite da arma da fuoco, in contrasto con precedenti dichiarazioni di altri funzionari che hanno parlato di un’esplosione. Agghiaccianti le testimonianze dei sopravvissuti: “C’erano cadaveri di ragazzini ovunque”, ha raccontato a Russia Today uno studente ancora terrorizzato. “Prima abbiamo sentito un’esplosione, poi il rumore di spari. Siamo riusciti a fuggire saltando giù dalla finestre”, ha detto un altro. Da fonti vicine al ragazzo emerge una sua “forte ostilità” verso la scuola e un “desiderio di vendetta nei confronti degli insegnanti”. Intanto, mentre la gente di Kerch continua a lasciare fiori rossi in memoria degli studenti che hanno perso la vita, il Comitato della Crimea per i diritti del bambino si chiede come sia possibile concedere il porto d’armi ad un ragazzo di 18 anni, che, come in altri casi avvenuti ngli USA, spinto da un odio feroce verso la scuola che frequentava, ha compiuto una srage. Alcuni chiedono il rafforzamento delle misure di sicurezza nelle scuole, proprio come negli Stati Uniti.​


16 ottobre

PRIMO PIANO

Alcol: primo fattore di rischio in Europa.

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L’alcol, insieme al fumo e all’ipertensione, rappresenta il primo fattore di rischio per la salute in Europa. Lo dice un articolato Rapporto di ricerca, “Indagine sull’Alcolismo in Italia. Tre percorsi di ricerca”, realizzato nell’ambito delle attività previste dall’Osservatorio permanente Eurispes-Enpam su “Salute, previdenza e legalità”. L’indagine ha coinvolto giovani studenti, adolescenti, cittadini e medici. Il fenomeno è stato osservato attraverso tre diverse indagini campionarie, ciascuna delle quali disegna un quadro completo di come siano cambiate e stiano cambiando le abitudini “del bere” in Italia, di quanto sia diffuso e radicato il fenomeno tra i giovani, di come si sia modificata l’immagine del consumatore, anche e soprattutto come conseguenza dei messaggi trasmessi dai media. Dal 2008 al 2017 in Italia sono stati 435mila i morti per malattie correlate all’alcol e per incidenti, omicidi e suicidi ad esso dovuti. Si tratta di un fenomeno in ascesa: si beve ovunque, a qualunque ora, sempre più lontano dai pasti. Oltre 6 italiani su 10 mettono l’alcol in relazione alla convivialità, al relax, al piacere e alla spensieratezza (63,4%); solo un quarto, al contrario, lo associa a concetti negativi, come la fuga dai problemi, la perdita di controllo e il pericolo (25,6%). Uno degli aspetti più importanti è il rapporto tra alcol e guida: il 40% degli intervistati maggiorenni, a cui si aggiunge un decimo dei giovanissimi, ammette di essersi messo alla guida dopo aver bevuto in modo eccessivo. I giovani italiani iniziano a bere sempre più presto: oltre la metà dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni ha bevuto il primo bicchiere tra gli 11 e i 14 anni (52,8%), la maggioranza degli adolescenti tra gli 11 e i 19 anni beve alcolici: oltre la metà lo fa “qualche volta” (51,6%), l’8,2% “spesso”. L’indagine rivela che la bevanda alcolica più consumata dai giovanissimi è la birra, seguitada vino, shottini e superalcolici. Il consumo è sempre più extracasalingo, indipendente dal pasto e legato a momenti di divertimento e allo “sballo”: il 28,6% beve al pub, il 21,4% in discoteca, solo due su dieci bevono a tavola. Il drink alcolico – osservano gli esperti – è diventato una sorta di “rito di passaggio sociale”, che caratterizza la fine dell’infanzia. E il tradizionale divario tra i due sessi risulta oggi assai più contenuto rispetto al passato. Un terzo degli intervistati ha ammesso di aver giocato con gli amici a chi beve di più (33,1%) e un’identica percentuale rivela di aver visto un amico o un conoscente farsi un selfie mentre beveva. L’indagine fa emergere poi un aspetto sconcertante: oltre la metà dei minori ha acquistato alcolici (54,4%), nonostante la legge italiana lo vieti e obblighi il venditore a chiedere un documento d’identità. Di questi oltre un quinto dichiara che non gli è stato mai chiesto il documento al momento dell’acquisto (21,7%). Più di 8 italiani su 10 ritengono che lo Stato abbia fatto poco per contrastare il fenomeno dell’alcolismo (84,1%), il 60% si dice favorevole ad una regolamentazione del consumo, mentre gli altri sono contrari.


15 ottobre

PRIMO PIANO

Baviera: boom dei Verdi.

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Le elezioni in Baviera hanno provocato il previsto terremoto politico locale, che rischia di propagarsi a Berlino: i cristiano-sociali di Horst Seehofer perdono la maggioranza assoluta, crollando al 37,3%, i socialdemocratici preipitano al 9,5%, mentre trionfano i Verdi, che con il 17,8 % diventano la seconda forza del Land. Nel sud della Germania avanza poi l’ultradestra, con l’ingresso nel parlamento regionale di Alternative fuer Deutschland, che conquista il 10,7%, ma non ottiene i risultati clamorosi che sperava. I Verdi, da partito ecologista di minoranza hanno completato la loro trasformazione in partito popolare, capace di prospettare soluzioni in tema di immigrazione, Europa e austerità e di convincere l’elettorato conservatore moderato che un tempo votava a occhi chiusi per la Csu. I Grünen sono stati così i veri vincitori del voto e con il 17,8% sono diventati la seconda forza in Parlamento, in un Land dove storicamente avevano sempre fatto fatica. Il segretario generale dell’Spd Lars Klingbeil vede nei risultati delle urne bavaresi un “chiaro segnale” che pesa fortemente sulla Grosse Koalition. L’analisi degli sconfitti (anche i socialdemocratici hanno dimezzato i loro consensi) è che a incidere sul collasso dei grandi partiti siano state le liti a Berlino, provocate da Seehofer, che ha mandato in crisi il governo due volte in pochi mesi. I risultati delle elezioni bavaresi sanciscono la fine della maggioranza assoluta dei cristianosociali nel loro Land: il 37,2% significa meno dieci punti rispetto a cinque anni fa. Una valanga di elettori persi che potrebbe trascinare con sé il leader del partito e ministro dell’Interno, Horst Seehofer. I dati riportati questa mattina dalle prime pagine dei giornali tedeschi mostrano come i partiti tradizionali, dal centrodestra al centrosinistra, siano chiaramente perdenti. Molti elettori li hanno abbandonati, scegliendo i Verdi o l’ultradestra. In gioco c’è la stabilità del governo di Angela Merkel: fra due settimane si vota in Assia, dove potrebbe essere deciso il futuro della cancelliera.


14 ottobre

PRIMO PIANO

Paolo VI e Romero santi.

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Papa Paolo VI e l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero sono stati canonizzati insieme questa mattina in piazza san Pietro da papa Francesco, nel corso del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Il Santo Padre, stringendo il pastorale di Paolo VI e indossando il cingolo macchiato dal sangue del martire Oscar Arnulfo Romero il giorno dell’uccisione, è entrato in piazza San Pietro, dove erano presenti 70mila fedeli, e ha raggiunto il sagrato, dove avevano già preso posto i 267 padri sinodali concelebranti e le delegazioni ufficiali, tra cui quella italiana guidata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quella spagnola guidata dalla Regina Madre Sofia, i presidenti di EL Salvador, del Cile e di Panama e il ministro degli Esteri francese. Papa Francesco, pronunciando la formula di canonizzazione, ha reso onore a San Paolo VI dicendo: “Paolo VI ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri. Anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente …” Poi ha continuato: “È bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia monsignor Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli.” Due santi scomodi, che proprio da parte degli apparati e della gerarchia della Chiesa sono stati vittime di critiche e calunnie. Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini (1897-1978), il Pontefice bresciano di Concesio che ha guidato la Chiesa universale dal 1963 al 1978, fu il grande timoniere del Concilio Vaticano II, che portò a compimento, il Papa della Populorum progressio, il Papa della Chiesa “samaritana”, tanto vicina alla “Chiesa in uscita” di Bergoglio, ma anche della travagliata fase che visse la Chiesa nel dopo Concilio e del dramma del rapimento e dell’uccisione dell’amico Aldo Moro, fu il successore di Pietro che, dopo 9 secoli dallo scisma, abbracciò il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora I e visitò la Terra Santa poco dopo l’elezione al soglio pontificio. E’ stato un papa prima criticato, poi contestato e infine semplicemente dimenticato, bollato con definizioni graffianti: “il Papa del dubbio”, “Amleto”, “Paolo Mesto”. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, a causa del suo impegno nel denunciare le violenze della dittatura militare del suo paese, la sera del 24 marzo 1980 fu ucciso da un cecchino degli squadroni della morte, mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale, dove aveva scelto di risiedere. Fu colpito sull’altare mentre consacrava l’ostia, morì qualche minuto più tardi, all’età di 63 anni. La vigilia, in un’omelia in cattedrale, monsignor Romero aveva chiesto ai militari di non uccidere, anche se questo avesse significato disobbedire agli ordini. Il Paese era in preda a una terribile guerra civile, che avrebbe fatto 80mila mila morti su quattro milioni di abitanti, sotto la repressione di una destra sanguinaria che finanziava gli “squadroni della morte” per assassinare gli oppositori. Romero era un pastore che aveva a cuore il suo popolo, e, vedendo l’amara condizione dei salvadoregni, la miseria dei contadini, si schierò per la giustizia, per una migliore distribuzione delle ricchezze, denunciando l’orrore delle torture, degli omicidi, delle detenzioni illegali, dei massacri nei villaggi e chiedendo con fermezza il rispetto delle leggi. Pur sapendo di essere in pericolo, decise di essere “voce dei senza voce”, di rimanere con il suo popolo. La sua popolarità crescente, in El Salvador e in tutta l’America latina, e la vicinanza del suo popolo, suscitarono l’opposizione del governo del Paese, una delle più sanguinarie dittature di estrema destra e anche di parte dell’episcopato conservatore, che lo definì “eterodosso, insano di mente, malato psichico in forma grave …”, sostenendo inoltre che “era un uomo pericoloso che andava fermato”. “Il martirio di monsignor Romero – ha detto Papa Francesco concludendo a braccio il discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador in Vaticano nell’ottobre 2015 – non fu solo nel momento della sua morte, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Lapidato con la pietra più dura: la lingua”. Per il suo popolo è stato da subito santo.


13 ottobre

PRIMO PIANO

Anche in Italia nuova chirurgia laser per il tumore alla prostata.

Durante il Congresso nazionale di Riccione gli esperti della Società Italiana di Urologia (Siu) hanno annunciato che anche in Italia, in alcuni centri specializzati, sta per arrivare la chirurgia focale per il tumore alla prostata in stadio iniziale. “La chirurgia focale – spiega Giuseppe Morgia, responsabile scientifico della SIU e direttore del Dipartimento di Urologia del Policlinico di Catania – è la prima terapia fotodinamica conservativa e mininvasiva che impiega un laser non termico a bassa potenza in grado di necrotizzare (ovvero di uccidere) le cellule tumorali, preservando il tessuto sano circostante, tramite un processo di fotoattivazione. Grazie alla capacità del laser di attuare in tempi rapidissimi una occlusione vascolare è possibile asportare tumori di piccole dimensioni entro il raggio d’azione di 5mm dalle fibre ottiche stesse. La metodica è dunque “selettiva”, idonea in pazienti con malattia allo stadio iniziale, candidati a una chirurgia conservativa, che non richiede cioè l’asportazione dell’intera ghiandola prostatica (chirurgia radicale) e rispondenti ad altri parametri prognostici favorevoli.” Oltre all’asportazione immediata del tumore, la metodica è in grado di ridurre in modo significativo il successivo sviluppo di tumori di stadio superiore. “Il farmaco utilizzato – spiega Vincenzo Mirone, responsabile della comunicazione Siu e ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli – viene attivato solo nella parte della prostata illuminata dal Laser e questo permette di risparmiare completamente la funzionalità minzionale ed erettile. È un nuovo modo di approcciarsi al tumore della prostata. Tuttavia la scelta del paziente è fondamentale, il tumore non deve essere presente in entrambi i lobi e non deve essere aggressivo“. “Questa tecnica -precisa Walter Artibani, segretario generale della Siu e direttore della cattedra di Urologia all’Università di Verona – offre al paziente sensibili vantaggi, quali la durata limitata dell’intervento che richiede all’incirca 1 ora e mezza in regime ambulatoriale, la diminuzione fino all’assenza quasi totale di effetti collaterali, il rapido recupero post-operatorio e della funzionalità prostatica e sessuale, l’efficacia del trattamento scientificamente dimostrata.”


12 ottobre

PRIMO PIANO

Svolta nel caso Cucchi.

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Crollano 9 anni di silenzi e depistaggi: una denuncia potrebbe cambiare il corso del processo che vede imputati cinque carabinieri per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009. Durante una delle udienze, il pm Giovanni Musarò ha reso nota un’attività integrativa di indagine dopo che uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, in una denuncia ha ricostruito i fatti di quella notte e ha “chiamato in causa” due dei militari imputati per il pestaggio. Di fatto è un’ammissione di responsabilità sua e dei suoi colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro imputati di omicidio preterintenzionale. Nel corso delle sue deposizioni Tedesco avrebbe parlato anche di una nota di servizio da lui scritta su quanto accaduto e poi inviata alla stazione Appia dei carabinieri, ma che successivamente sarebbe sparita. Oltre ai cinque già sotto processo, altri due carabinieri sono indagati nell’ambito degli accertamenti sui presunti atti falsificati seguiti alla morte di Stefano Cucchi. Si tratta di Francesco Di Sano, carabiniere della stazione di Tor Sapienza, e del luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stessa caserma. Colombo sarà interrogato la prossima settimana dai pm.  Nei giorni scorsi è stato sottoposto ad una perquisizione: l’atto istruttorio puntava ad individuare eventuali comunicazioni tra lui e i suoi superiori dell’epoca sul caso Cucchi. Oltre al luogotenente, nel procedimento risulta indagato Francesco Di Sano, il carabiniere scelto della caserma di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi. Il nuovo filone di indagine è stato avviato dopo l’audizione di Di Sano nel processo a carico di cinque carabinieri. Rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò, il militare dell’arma il 17 aprile scorso ammise di avere modificato l’annotazione di salute di Cucchi. “Mi chiesero di farlo – raccontò davanti alla prima Corte d’assise – perché la prima era troppo dettagliata. Non ricordo per certo chi è stato; il nostro primo rapporto è con il Comandante della Stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico.” La morte del trentunenne geometra romano durante la custodia cautelare, disposta in seguito al fermo dello stesso perché trovato in possesso di alcune dosi di droga, ha dato origine a un celebre caso di cronaca giudiziaria che ha coinvolto alcuni agenti di polizia penitenziaria, alcuni medici del carcere di Regina Coeli, e alcuni carabinieri. In aula i genitori di Stefano hanno ascoltato le rivelazioni in modo composto. La sorella Ilaria: “Terribile quello che Stefano ha dovuto subire, terribile quello che è accaduto dopo … Ora sappiamo e in tanti dovranno chiedere scusa.”

DALLA STORIA

12 ottobre 1968, si aprono le XIX Olimpiadi a Città del Messico.

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Il 12 ottobre 1968 hanno inizio a città del Messico i Giochi della XIX Olimpiade, un’edizione che resterà tragicamente legata al massacro di Tlatelolco o massacro di piazza delle Tre Culture e a forme di protesta, in quell’anno di rivendicazioni, da parte di due vincitori di colore, Tommie Smith e John Carlos che sul podio alzarono il pugno guantato delle Pantere nere, un gesto clamoroso di denuncia sulla ignobile condizione dei neri d’America. Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassino di Martin L. King, il 5 giugno l’assassinio di Bob Kennedy. Poi il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, e la strage di piazza delle Tre Culture. Solo dieci giorni dall’apertura dei giochi olimpici, in Piazza delle Tre Culture l’esercito aveva sparato, ad altezza d’uomo, sugli studenti uccidendone, secondo le stime più attendibili oltre 300. “No queremos Olimpiadas” gridavano gli studenti messicani nel 1968, per contestare l’uso strumentale che il governo messicano voleva fare delle olimpiadi del ’68 e dei mondiali di calcio, quelli di Italia-Germania, che si sarebbero disputati due anni dopo. La manifestazione era stata indetta a Città del Messico dagli studenti universitari il 2 ottobre alle 18,30 in Plaza del las Tres Culturas, nel quartiere di Tlatelolco, e doveva rappresentare l’epilogo di quelle iniziate il 23 luglio. Gli studenti manifestavano contro una situazione sociale che aveva ridotto allo stremo il popolo messicano: tre milioni di ragazzi tra i 6 e i 14 anni non frequentavano la scuola, mentre erano 11 milioni gli analfabeti adulti, 8 milioni di messicani avevano bandito dallo loro alimentazione generi alimentari come carne, pesce, uova a causa dello stato di estrema povertà. Le manifestazioni degli studenti messicani, alle quali si erano uniti operai, contadini e svoltesi tra luglio e ottobre di quell’anno, si inserivano sulla scia di una situazione sociale estremamente difficile, e che avevano irritato non poco il governo messicano diretto da Gustavo Diaz Ordaz. Il 26 luglio e il 29 luglio cortei di manifestanti che confluivano da più parti della capitale messicana, si erano conclusi con scontri con la polizia e il ferimento di decine di persone, perciò il 30 luglio il ministro degli Interni messicano, propose di far ricorso all’esercito. Cortei di protesta si ebbero a Città del Messico il 5 e il 13 di agosto e il 13 e il 22 settembre. Nelle settimane successive, ripetuti incontri tra i rappresentanti degli studenti e le forze dell’ordine avevano portato all’accordo secondo cui gli studenti avrebbero manifestato pacificamente e le forze dell’ordine non sarebbero intervenute con la forza. Nel pomeriggio del 2 ottobre i manifestanti affluirono pacificamente a migliaia in piazza delle Tre Culture fino a riempirla del tutto, e nessun segnale faceva presagire quanto accadde due ore dopo. “Un elicottero che sorvolava la piazza, improvvisamente illuminò con un raggio verde i manifestanti per segnalare ai “granaderos” dell’esercito messicano di intervenire. L’unica via di uscita della piazza fu bloccata dai blindati della polizia. I fucili dei “granaderos” spararono all’impazzata, in breve tempo una massa di corpi copriva tutta la superficie della piazza. I morti furono diverse centinaia, anche se la polizia indicò un numero decisamente inferiore nell’ordine di poche decine. Per avvalorare questa tesi molti corpi furono portati via dalla polizia e cremati di nascosto”. Fra i feriti, anche la scrittrice fiorentina Oriana Fallaci, che si trovava in un grattacielo sovrastante la piazza per controllare al meglio le azioni fra i manifestanti e forze dell’ordine, venne ferita da un elicottero in volo. Fu creduta morta e portata in obitorio, dove un prete si rese conto che era ancora viva. La giornalista riportò tre ferite da arma da fuoco e, intervistata quando ancora si trovava in ospedale, testimoniò come si erano svolti i fatti e l’intenzione da parte dell’esercito di sparare intenzionalmente sulle persone.

L’8 ottobre ci fu un incontro tra una delegazione del Comitato, ormai decimato e Diaz Ordaz e il 12 ottobre le Olimpiadi iniziarono regolarmente. Il Comitato annunciò il 22 novembre la fine dello sciopero degli studenti. Negli anni successivi il congresso messicano formò un comitato per investigare sul massacro e raccolse vari testimoni e attivisti politici dell’epoca, incluso l’ex presidente Luis Echeverria, che all’epoca era Segretario del Governo. Echeverria ammise che gli studenti erano disarmati e che l’attacco militare fu pianificato precedentemente per distruggere il movimento studentesco.

 image002Tommie Smith e John Carlos si trovano sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi a Città del Messico, il 16 ottobre, con i pugni alzati, i guanti neri (simbolo del black power), i piedi scalzi (segno di povertà), la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”)

Mary Titton


11 ottobre

PRIMO PIANO

Fallito il lancio della navetta russa Soyuz.

È fallito il lancio della navetta russa Soyuz che portava alla Stazione Spaziale Internazionale il russo Alexey Ovchinin e l’americano Nick Hague, perché a pochi minuti dal lancio è stato rilevato un problema a uno dei propulsori. Poco dopo il decollo dal cosmodromo di Baikonur, la navicella diretta verso la Iss, con a bordo i due astronauti, ha subito “l’arresto di emergenza dei motori del secondo stadio”, dopo la separazione del primo stadio. Il controllo missione ha quindi dovuto annullare il volo e la navicella è stata inserita in una traiettoria balistica di rientro verso la Terra. Secondo le fonti, la comunicazione con l’equipaggio non si è mai interrotta. Le squadre di soccorso hanno raggiunto la navicella nei pressi della cittadina di Zhezkazgan e sono state disposte le procedure per l’atterraggio di emergenza dei due membri dell’equipaggio, che, come ha dichiarato la Nasa, sono in buone condizioni. La navetta Soyuz è atterrata in Kazakistan, a circa 20-25 km dalla città di Zhezkazgan e a 500 da Karaganda. Quattro elicotteri sono decollati per recuperare i due cosmonauti. “Grazie a Dio l’equipaggio è salvo”: così il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha commentato l’incidente. Un incidente simile era avvenuto l’ultima volta il 5 aprile 1975, dopo il lancio della Soyuz 18 diretta alla stazione spaziale sovietica Salyut 4. E’ possibile uno stop ai voli della Soyuz finché non saranno chiarite le cause dell’incidente avvenuto oggi a uno dei propulsori. Ha detto all’ANSA Alessandro Gabrielli dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi): “Si apre ora un problema di accesso allo spazio, in particolare dei voli umani diretti alla Stazione Spaziale. Si apre un periodo di transizione e ad ora non sappiamo se le missioni umane potranno slittare.” La Soyuz è infatti l’unico veicolo in grado di trasportare uomini nello spazio. Il vice premier russo Iuri Borisov, citato dall’agenzia Interfax, ha dichiarato che “viste le circostanze, i lanci spaziali con persone a bordo saranno sospesi per ragioni di sicurezza finché la situazione non sarà stata chiarita.” In seguito all’incidente della Soyuz potrebbe slittare anche la missione dell’astronauta Luca Parmitano in programma nel luglio 2019. A bordo della Stazione Spaziale resta adesso l’equipaggio di tre membri della Expedition 57: il comandante Alexander Gerst dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), l’americana Serena M. Au¤¢n-Chancellor e il russo Sergey Prokopyev. Oggi avrebbero dovuto unirsi al nuovo equipaggio formato dall’americano Nick Hague, al suo primo volo, e dal russo Alexey Ovchinin, un veterano.

DALLA STORIA

Jerome Robbins. Mitico protagonista della scena, a Broadway.

image001(Leonard Bernstein e Jerome Robbins)

Jerome Robbins (all’anagrafe Jerome Rabinowitz) è stato uno dei maggiori coreografi del Novecento. Era nato a New York l’11 ottobre 1918. Dopo una preparazione artistica estremamente ricca e variata (oltre alla danza, Robbins aveva studiato musica e recitazione) debuttò, nel 1939, come danzatore per poi partecipare a numerose commedie musicali. Nel 1940 era entrato come ballerino nel Ballet Theatre (poi American Ballet Theatre, una delle principali compagnie di balletto del XX secolo e una delle compagnie di punta della danza nel mondo) e, nel 1944 coreografò “Fancy Free”, grande successo su musica di Leonard Bernstein, ben presto portato a Broadway e sugli schermi. Nel 1948, dietro sua richiesta, il russo George Balanchine, (una delle  massime personalità del balletto contemporaneo) lo accolse nella compagnia da lui stesso fondata assieme a Lincoln Kirstein, (figura di spicco negli ambienti culturali  di New York, produttore teatrale e artista lui stesso) che stava per assumere il nome di “New York City Ballet”. Robbins era un artista completo, innovativo e la sua professionalità era impeccabile:  “Una delle menti del New York City Ballet e uomo di teatro in generale, Jerome Robbins ha proseguito, a fianco di Balanchine, il suo lavoro di costruzione del nuovo balletto americano lavorando in parallelo al georgiano, … apprese la grande lezione della chiarezza espressiva, e i suoi dance ballets, tanto spesso privati del racconto diretto, ma sempre proiezioni di una storia interiore o vissuta, furono il vero ponte fra classico e moderno … Col suo lavoro Robbins si collocò nel giusto mezzo tra danza accademica e modern dance, aprendo la strada al fecondo atteggiamento creativo che ignora ogni separazione tra i generi”. (Questo il commento di Mario Pasi, storico e critico di balletto e di danza per il “Corriere della sera”, curatore dell’ “Enciclopedia Danza e Balletto” (1993) e direttore per alcuni anni della Rivista illustrata del Museo Teatrale alla Scala). Nella compagnia del “New York City Ballet”, Robbins creò una serie di capolavori tra i quali “The Cage” su musica di Stravinsky del 1951 e, due anni dopo, “Afternoon of a Faun” sul celeberrimo pezzo di Debussy. Nel contempo Robbins montava musical di successo a Broadway, incluso il famoso West Side Story su musica di Bernstein replicato con grande successo per ben quattro anni di seguito. La commedia musicale del 1957 divenne nel 1962 un celebrato film con Natalie Wood, vincitore di ben 10 Oscar, due dei quali, quelli per la regia e la coreografia assegnati a Robbins. Nel film “Il lavoro dei ballerini fu estenuante: le prove andarono avanti per tre mesi, e durante le riprese Robbins continuò ad apportare piccole modifiche e adattamenti alle coreografie originali, arrivando a girare varie volte la stessa scena. I ballerini sostennero di non aver mai lavorato così duramente in tutta la loro vita, molti di loro riportarono danni fisici in parte per la fatica e in parte perché le coreografie, studiate per i palchi in legno dei teatri, erano difficili e pericolose da eseguire sul cemento. A causa del suo eccesso di perfezionismo, Robbins fu licenziato prima della fine delle riprese e il lavoro fu portato avanti dal solo Robert Wise che insieme al coreografo diresse il film. In seguito Robbins continuò a creare molti altri capolavori ricevendo moltissimi premi e riconoscimenti. Alla morte di Balanchine nel 1983, assunse la direzione del “New York City Ballet” mantenendola fino al 1990 e continuò nelle sue creazioni artistiche sino alle soglie della sua scomparsa che avvenne a New York, il 29 luglio 1998, all’età di settantanove anni. Durante il periodo del Maccartismo, negli anni Cinquanta, Robbins fu inquisito per “attività anti americane”. Ammise di avere avuto simpatie comuniste nell’immediato dopoguerra ma, a causa del clima intimidatorio da parte del “Comitato per le attività antiamericane” durante gli interrogatori ai presunti sospettati, tra cui molta gente dello spettacolo, Robbins optò di collaborare con la severa commissione d’indagine.

Mary Titton


10 ottobre

PRIMO PIANO

Turchia: scomparso giornalista saudita dissidente.

Jamal Khashoggi, giornalista saudita del Washington Post, scomparso 8 giorni fa dopo essere entrato nel Consolato del suo Paese a Istanbul, “come nel film Pulp Fiction” sarebbe stato fatto a pezzi con una sega da agenti dei servizi di Riad, all’interno dell’edificio, e i suoi resti sarebbero stati portati fuori nascosti dentro un minivan nero. Lo sostiene una fonte investigativa turca, citata dal New York Times, la tv privata turca Kanal 24, molto vicina agli ambienti governativi di Ankara, ha mostrato le ultime immagini del giornalista saudita dissidente mentre entrava nel Consolato e poi quelle di un minivan nero uscito poco dopo, sostenendo che al suo interno si trovava il cadavere del reporter. Il mezzo avrebbe percorso circa 2 km, parcheggiando poi in un garage nella residenza del Console saudita. Il governo di Riad ha sempre definito “senza fondamento” le accuse nei suoi confronti. Prima della scomparsa del giornalista saudita l’intelligence degli Stati Uniti aveva intercettato alcune comunicazioni tra agenti sauditi che discutevano un piano per sequestrare il cronista e riportarlo in Arabia Saudita. Non è chiaro se gli agenti intendessero arrestare e interrogare il giornalista o ucciderlo, né se le autorità statunitensi abbiano o meno avvertito Khashoggi del pericolo. La fidanzata di Jamal Khashoggi ha rivolto un disperato appello al presidente Donald Trump e alla first lady Melania chiedendo di far luce sulla scomparsa di Jamal. Anche una giornalista bulgara di 30 anni, Viktoria Marinova, che nell’ultimo periodo stava indagando su una presunta corruzione che coinvolge i fondi dell’Ue, è stata stuprata e uccisa il 6 ottobre in un parco a Ruse, al confine con la Romania. Per l’omicidio è stato fermato nella località di Stade, ad una quarantina di km da Amburgo, nel nord della Germania, un uomo di 21 anni di nazionalità bulgara. Il Dna del fermato corrisponde a quello rilevato sul luogo del delitto e l’uomo ha confessato. L’omicidio ha scatenato un’ondata di indignazione in Europa, dove altri due giornalisti sono stati assassinati negli ultimi dodici mesi, lo slovacco Jan Kuciak a gennaio e la maltese Daphne Caruana Galizia nell’ottobre 2017.

DALLA STORIA

La Pena di Morte.

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Da 12 anni, il 10 ottobre, viene celebrata la Giornata Mondiale contro la Pena di Morte, istituita dalla WCADP, Wordl Coalition against the death penalty. Sebbene nella maggioranza essa sia stata abolita è tuttora presente in ben 58 stati in nazioni quali la Cina, l’India, il Giappone, gli Stati Uniti. A partire dalle idee innovative dell’Illuminismo, introdotte dal dibattito degli intellettuali dell’epoca ispirate agli ideali della libertà, della difesa dei diritti umani e ad una maggiore attenzione all’individualità della persona, Cesare Beccaria, pubblicava, ben 300 anni fa, un breve trattato “De’ delitti e delle pene” destinato a cambiare per sempre l’idea di giustizia. Nel pamphlet, Beccaria si esprimeva contro la pena di morte, argomentando che con questa pena lo Stato, per punire un delitto, ne commetterebbe uno a sua volta: “Parmi un assordo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. “Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benchè moderato, farà sempre maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”. L’idea di istituzionalizzare la morte di una persona in pubblico da parte dello Stato viola il diritto alla vita riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e altri trattati regionali e internazionali (come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) nella quale, inoltre, si legge, “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a maltrattamenti o punizioni crudeli, inumane o degradanti”. Anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2007 e nel 2008 ha adottato una risoluzione non vincolante che chiede, fra l’altro, una moratoria sulle esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena di morte. Perciò la sofferenza causata dall’azione di uccidere un essere umano non può essere quantificata, né può esserlo la sofferenza mentale causata dalla previsione della morte che verrà. La pena di morte è dunque sintomo di una cultura di violenza e lo Stato che la esegue dimostra la stessa prontezza nell’uso della violenza fisica. Esso perde la sua autorità morale nel giudicare gli assassini, poichè egli stesso si comporta ugualmente. Giustiziando il colpevole si prescinde dalla possibilità che egli possa, con la detenzione, fermarsi a riflettere sulle sue efferate azioni, e forse avviare un processo di trasformazione nella propria coscienza tale da redimerlo e diventare una persona migliore. È difficile pensare alla pena di morte come ad un deterrente efficace. Se si colpisce in preda ad un impulso passionale o ad una forte emozione non c’è valutazione razionale che possa far riflettere sulle conseguenze del proprio gesto. Diversamente se l’azione criminale è premeditata, sapendo di incorrere in una punizione capitale, l’efferatezza potrebbe diventare illimitata o incoraggiare altri delitti. L’uso strumentale della pena di morte si riscontra nei paesi retti dalla dittatura, nei regimi autoritari, come nel caso della Turchia in cui l’attuale presidente ne ha proposto il ripristino al fine di eliminare gli oppositori. La pena di morte ha elencato una sconsiderata quantità di esecuzioni; a volte attraverso personaggi passati alla storia come Mastro Titta, durante il Risorgimento, il celebre “er boja de Roma”, esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio (una carriera durata ben 68 anni con all’attivo oltre 500 giustiziati). Fino ad arrivare alla “modernità” della sedia elettrica che, in più di un’occasione per il mal funzionamento, ha letteralmente bruciato il condannato per svariati minuti. Clamoroso e orrendo fu il caso di William Kemmler, un uxoricida e il primo ad essere condannato alla sedia elettrica il 6 agosto 1890. Purtroppo non morì subito malgrado una scarica di 1450 volts. “Il corpo di Kemmler subì una tremenda torsione, si incurvò fino quasi a rompere le cinghie che lo immobilizzavano. La sua gola si  infuocò. Dalla testa si levò del fumo ed un forte odore di carne invase la stanza”. Ad essere giustiziati con la sedia elettrica furono nel tempo diversi condannati famosi: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Giuseppe Zangara, Bruno Hauptman, Julius ed Ethel Rosemberg, ecc. Ci furono episodi particolarmente raccapriccianti come quello di Willie Francis, un ragazzo di colore, diciassettenne, che sopravvisse a più scariche di 2000 volts, il boia dovette sospendere il suo lavoro, il ragazzo fu curato per un anno, e quindi sottoposto di nuovo alla sedia elettrica, che questa volta non gli lasciò scampo. Che orrore! Eppure ci sono molti sostenitori a favore della pena capitale! L’avversione alla pena di morte si riscontra nel mondo della cultura: in letteratura, nelle arti e così via e tra le persone la cui sensibilità verso l’“umano” è più spiccata. In America, negli stati del sud, dove la pena di morte è più presente essa è sinonimo di discriminazione sociale e repressione razziale e viene eseguita sproporzionatamente contro le persone e le classi più svantaggiate, che non hanno accesso alle risorse necessarie per affrontare in maniera efficace un processo. Nelle sentenze emesse dai tribunali si sono verificati moltissimi errori giudiziari, più di quanto normalmente si pensi, nel condannare persone innocenti, come è documentato da testimonianze e fatti balzati alla cronaca. Considerando la sacralità della vita è inumano pensare di approvarne l’eliminazione o sopprimerla tanto più in nome di un malcelato senso di giustizia. Giustiziare l’esecutore di un efferato delitto soddisfa un collettivo senso di rabbia e di odio verso il suo autore e appaga sentimenti di vendetta: inaccettabili in una società civile.

image001Mary Titton


9 ottobre

PRIMO PIANO

“La sicurezza è un diritto.”

Diga_del_vajont_1963(La diga del Vajont nel 1963)

Questa la dichiarazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha scritto in un messaggio: “A 55 anni dal disastro del Vajont l’Italia non dimentica le vite spezzate, l’immane dolore dei parenti e dei sopravvissuti, la sconvolgente devastazione del territorio, i tormenti delle comunità colpite. Neppure può dimenticare che così tante morti e distruzioni potevano e dovevano essere evitate. In questo giorno di memoria il primo pensiero va alle vittime, ai loro corpi straziati, molti dei quali mai ritrovati”. La tragedia del Vajont avvenne alle 22:39 del 9 ottobre 1963: dalla costa del Monte Toc (in friulano abbreviazione di “patoc”, “marcio”, “fradicio”) si staccò una frana lunga 2 km e oltre 270 milioni di metri cubi di roccia precipitarono nel bacino sottostante sollevando tre onde colossali, che travolsero e uccisero quasi duemila persone: due onde si schiantarono sulle pareti della vallata circostante, la terza travolse la strada intorno alla diga, raggiunse il greto sassoso della valle del Piave e asportò consistenti detriti, che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina. Il disastro rase al suolo le località di Erto e Casso, come la maggior parte di Longarone, inghiottendo gli abitanti, ben 1917 persone che scomparvero nel nulla. È stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fosse di intensità uguale, se non addirittura superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Le cause della tragedia, dopo numerosi dibattiti e processi, furono ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione, i quali occultarono la non idoneità dei versanti del bacino. Dopo la costruzione della diga si scoprì infatti che i versanti avevano caratteristiche morfologiche (incoerenza e fragilità) tali da non renderli adatti ad essere lambiti da un serbatoio idroelettrico. Nel corso degli anni l’ente gestore e i suoi dirigenti, pur essendo a conoscenza della pericolosità, anche se supposta inferiore a quella effettivamente rivelatasi, coprirono con dolo i dati a loro disposizione, con il beneplacito di vari enti a carattere locale e nazionale, dai piccoli comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici.


8 ottobre

PRIMO PIANO

Il Nobel per l’economia a William Nordhaus e Paul Romer.

Il Nobel per l’Economia è stato assegnato a William D. Nordhaus e Paul M. Romer, al primo per aver studiato l’inter-relazione tra i cambiamenti climatici e l’economia, al secondo per lo studio sulla crescita endogena, da cui sono emerse nuove ricerche sulle politiche che incoraggiano l’innovazione e la crescita a lungo termine. La Royal Academy of Sciences nella motivazione ha sottolineato come entrambi i vincitori “hanno sviluppato metodi che affrontano alcune delle sfide fondamentali e più urgenti del nostro tempo: combinare la crescita sostenibile a lungo termine dell’economia globale con il benessere della popolazione del pianeta … hanno disegnato metodi per indirizzare alcune delle nostre domande sul come ricreare e tenere in piedi una crescita economica sostenibile … hanno allargato lo spettro delle possibilità della analisi economica mettendo in opera soluzioni che spiegano come l’economia di mercato interagisca con la natura e la scienza”. Romer e Nordhaus sono due economisti statunitensi: Romer, nato a Denver nel 1955, docente a Stanford, in California, con le sue ricerche ha dimostrato “come gli economisti possano perseguire un tasso di crescita sano” e come le forze economiche stimolino le imprese a produzioni innovative; Nordhaus, chiamato amichevolmente “Bill”, nato a Albuquerque nel 1941, insegna alla Yale University, in Connecticut, ed è stato il primo a creare un modello quantitativo che descrivesse l’interazione globale tra economia e clima, il suo modello è ora diffuso e viene utilizzato per esaminare le conseguenze degli interventi sulla politica climatica, ad esempio le tasse sulle emissioni di Co2, è, infatti, uno dei principali sostenitori dell’uso della tassazione del carbonio per ridurre le emissioni di Co2. I due studiosi si sono occupati di cambiamenti climatici e innovazione tra gli anni Settanta e Novanta, riscrivendo il concetto stesso di crescita economica. Nella ricerca di William Nordhaus, fin dagli anni Sessanta, il valore dell’ambiente è considerato parte integrante del sistema economico, le emissioni dovute alle produzioni umane non possono essere considerate “esternalità negative”, al contrario, il solo modo sensato per definire lo sviluppo macroeconomico nel lungo termine è quello di favorire una dinamica produttiva che salvaguardi nello stesso tempo la convenienza economica e la qualità dell’ambiente, magari introducendo incentivi che rendano conveniente per gli operatori la ricerca e l’adozione di soluzioni ai due ordini di problemi insieme. Nella ricerca di Paul Romer, a sua volta, l’innovazione tecnologia non è più un fenomeno esterno al sistema economico, ma diventa una condizione endogena di crescita, introducendo nella ricerca economica una tecnologia, che possa salvaguardare l’ambiente.

DALLA STORIA

La battaglia di Ponte Milvio.

image001(Affresco del XVI secolo di Giulio Romano, della scuola di Raffaello Sanzio conservato nella sala di Costantino dei Musei Vaticani)

“Nell’ottobre del 312 d.C. l’imperatore Costantino I era schierato a Ponte Milvio presso Roma, in attesa di ingaggiare battaglia con Massenzio, suo rivale per il dominio dell’impero romano d’Occidente (nel 285 l’impero era stato diviso in due parti, orientale e occidentale, ciascuna governata da un imperatore e da un vice). Secondo la tradizione, nei giorni precedenti, Costantino ebbe la visione di una croce fiammeggiante in cielo con l’iscrizione “in hoc signo vinces” (sotto questo segno vincerai). Ciò lo convinse di avere l’appoggio del Dio cristiano, e la convinzione fu rafforzata quando il suo esercito sconfisse gli uomini di Massenzio. In realtà, il Dio cristiano non era la prima divinità interpellata da Costantino; una versione precedente della sua visione aveva riguardato il dio greco-romano Apollo. Costantino sembra aver cercato un “appoggio” teologico per legittimare la sua ambizione a diventare unico imperatore, e forse un essere supremo monoteistico gli sembrava adatto all’occasione: un’immagine celeste speculare alla sua posizione in terra. Malgrado la leggenda della visione divina, la conversione di Costantino al cristianesimo sembra sia stata graduale e non immediata: fu battezzato solo molti anni dopo, sul letto di morte. Tuttavia, poco dopo la vittoria a Ponte Milvio, Costantino avviò il processo di riabilitazione, e poi di esaltazione, del cristianesimo; nel 313 d.C. promulgò l’Editto di Milano, un proclama che stabiliva la tolleranza religiosa per il cristianesimo in tutto l’impero. L’adozione del cristianesimo da parte di Costantino I dopo la vittoria a Ponte Milvio incoraggiò la nuova fede, che rapidamente attrasse nuovi seguaci e cominciò a soppiantare i culti pagani. Per quasi 300 anni dopo la morte di Gesù Cristo, la religione fondata sui suoi insegnamenti nell’impero romano rimase una setta minoritaria, praticata accanto a molte altre religioni, monoteistiche e politeistiche. Alcuni aspetti del cristianesimo, come la sua natura egualitaria, lo rendevano però sospetto agli occhi delle autorità imperiali, e i cristiani furono periodicamente perseguitati. In tutto il mondo antico dell’epoca i cambiamenti delle condizioni sociali, politiche ed economiche si riflettevano in mutamenti culturali e religiosi; il cristianesimo era soltanto uno tra i vari monoteismi che acquistavano popolarità nell’impero, fra i quali il culto persiano del dio Mitra, con cui aveva molti elementi. Nel 324, dopo essersi sbarazzato dell’imperatore d’Oriente, Costantino divenne sovrano unico dell’impero romano e cercò di sfruttare il cristianesimo come forza unificante del suo regno diversificato e indocile. Per facilitare il governo della parte orientale, sempre più dominante, fondò una nuova città chiamata Costantinopoli (l’attuale Istanbul), consacrandola con riti sia cristiani sia pagani, ma consentendo la costruzione solo di chiese cristiane. Anche se ci sarebbe voluto del tempo perché tutti i cittadini romani si convertissero al cristianesimo, durante il regno di Costantino gli alti ranghi della società, alla ricerca di avanzamento politico e di favore personale presso l’imperatore, accorsero in gran numero verso la Chiesa, e l’imperatore costruì basiliche in tutto l’impero. Tuttavia, all’epoca il cristianesimo si divideva in varie correnti, che portavano a scissioni o scismi. Nel 325 Costantino convocò il Concilio di Nicea, il primo concilio universale della Chiesa cristiana, principalmente per risolvere lo scisma ariano, una disputa teologica sulla questione se Gesù fosse o meno della stessa sostanza del Padre. A metà del IV secolo l’imperatore Giuliano cercò di ripristinare il paganesimo, ma era ormai troppo tardi: i cristiani erano diventati la maggioranza, almeno in Oriente. La fede era sempre più legata all’impero, man mano che lo Stato romano adottava e plasmava la Chiesa facendone uno strumento di controllo sociale e politico, di unità e di stabilità. Sotto l’imperatore Teodosio I (379-395) i templi e i culti pagani furono soppressi, l’eresia fu messa fuorilegge e il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero romano; alla fine si diffuse anche negli Stati barbari che sostituirono l’impero romano d’Occidente, nonché nell’impero bizantino in Oriente. Nel corso dei secoli successivi le Chiese occidentale (cattolica) e orientale (ortodossa) si distanziarono per dottrina e organizzazione, ma il cristianesimo perdurò”.

Per chi volesse approfondire la conoscenza intorno alla complessa e spesso controversa figura dell’imperatore Costantino I, si segnala il libro dello storico Alessandro Barbero, “Costantino il Vincitore”; un testo davvero ricco di informazioni  provenienti da molteplici e attendibili fonti che, anche se non sapremo mai con certezza lo svolgimento dei fatti, permettono una valida ricostruzione di una vicenda che ha cambiato il destino del mondo.

Fonte: “Il libro della Storia”. Ed. Gribaudo.

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Mary Titton


7 ottobre

PRIMO PIANO

Collisione tra due mercantili a nord della Corsica.

Due navi mercantili, una Ro-Ro di nome Ulysse battente bandiera tunisina ed una porta container con nome CLS Virginia di bandiera cipriota, si sono scontrate questa mattina a nord dell’isola francese della Corsica, provocando nel Mar Mediterraneo una fuoriuscita di carburante di 4 km, che le autorità francesi e quelle italiane stanno cercando di contenere. La collisione ha causato uno sversamento in mare di olio carburante stimato in 600 metri cubi, la scia di gasolio si è allungata per una ventina di km al largo di Capo Corso e si è allargata di 300 metri. Sotto il coordinamento delle autorità francesi si sono subito avviate da parte di Italia e Francia le operazioni di contenimento e bonifica, che dureranno alcuni giorni. L’Italia ha disposto, oltre al sorvolo di un aereo ATR42, anche l’invio, nell’area interessata, della Motovedetta CP 409 della Capitaneria di porto di Livorno, equipaggiata con strumenti ambientali adatti e con a bordo alcuni biologi. Un forte allarme arriva da Greenpeace per il Santuario internazionale dei Cetacei (il triangolo di mare racchiuso tra Nord della Sardegna, Corsica, Toscana e Liguria, fin quasi a Tolone, in Francia), dove, ricorda, “sono stati osservati sia la balenottera comune che il capodoglio”. “L’incidente – avverte la ONG – rende non più rinviabile introdurre norme precise sulla protezione e sulla tutela del Santuario”. “Le nostre preoccupazioni si sono avverate” aggiunge l’associazione, osservando che la collisione è avvenuta “tra imbarcazioni che dovrebbero esser dotate delle migliori tecnologie e in condizioni meteorologiche assolutamente ideali.” Nel tratto di mare dove è avvenuto l’incidente, le 20 miglia tra Capraia e Capo Corso, secondo l’associazione ambientalista Marevivo (che ha raccolto con la nave scuola Vespucci i risultati delle rilevazioni acustiche sul Santuario), passano un centinaio di navi al giorno, che disturbano la caccia di animali marini, come balenottere comuni, capodogli, stenelle e delfini, che proprio al suono devono la scoperta del cibo e lo scambio di informazioni vitali. L’incidente conferma la vulnerabilità dell’area, soggetta a intenso traffico navale, ma gli allarmi lanciati da Greenpeace e da molti altri sono rimasti purtroppo inascoltati e ben pochi passi avanti si sono fatti per garantire la sicurezza nel Santuario.


6 ottobre

PRIMO PIANO

Pompei: Ritrovato “Il Giardino incantato”.

immagini.quotidiano.net

Nel corso degli scavi condotti all’interno del Parco archeologico alcuni operai hanno riportato alla luce lo splendido “Giardino incantato”, che è riemerso intatto in tutta la sua bellezza e con i suoi splendidi colori ha suscitato una forte emozione, come ha sottolineato con soddisfazione il direttore del Parco, Massimo Osanna. Il maestoso larario, ricavato su una intera parete di un piccolo giardino, è tra i più grandi finora ritrovati a Pompei e fa ipotizzare che la stanza fosse una stanza dedicata al culto dei Lari (divinità domestiche romane, spiriti protettori degli antenati defunti messi a custodia della famiglia e della casa). Il grande altare dedicato al culto dei Lari è custodito da due serpenti “agatodemoni”, cioé destinati a tenere lontano il malocchio dalla domus, ai piedi dell’altare uno splendido pavone si aggira tra le piante, fiere dorate lottano con un cinghiale nero, e poi ancora cieli solcati dal volo degli uccelli, un pozzo e un uomo con la testa di un cane. La stanza fa parte di una casa appartenente a uno scavo archeologico di inizio Novecento e, come sopra detto, è quasi sicuramente un luogo di culto, come dimostra la presenza dall’arula in terracotta appoggiata al muro, ancora colma dei resti delle offerte bruciate quasi duemila anni fa. Rimane ignoto il nome del proprietario della splendida abitazione, ma non è escluso che nei prossimi mesi, quando verranno liberate dalle ceneri le due stanze adiacenti, ulteriori ritrovamenti possano fornire nuovi indizi e portare a nuove rivelazioni. Ciò che colpisce delle eleganti decorazioni che ricoprono le mura della “stanza delle meraviglie” è la vividezza dei colori e del tratto, rimasti intatti dal 79 d.C, quando la pioggia di cenere e lapilli seppellì per sempre la florida città di Pompei. “Una stanza meravigliosa ed enigmatica che ora dovrà essere studiata a fondo” sottolinea il direttore del Parco Archeologico, Massimo Osanna.


5 ottobre

PRIMO PIANO

Calabria e Sicilia: bombe d’acqua devastanti.

Secondo quanto riferito dal responsabile della Protezione civile regionale Carlo Tansi, in sole sei ore, su alcune zone della Calabria, soprattutto sulla provincia di Catanzaro, sono caduti 300 millilitri di pioggia e 370 nell’arco delle 24 ore. Alcune famiglie sono state evacuate a causa delle esondazioni e del rischio frane conseguenti ai nubifragi che hanno colpito soprattutto la provincia di Catanzaro. A San Vito sullo Ionio l’evacuazione è stata disposta a causa delle esondazioni di fiumare e torrenti, in particolare il torrente “Scorsone” è straripato in più punti, travolgendo alberi, strade, muri e palificazioni delle linee elettriche, l’acqua ha raggiunto il metro e mezzo di altezza. In provincia di Lamezia Terme una mamma e suo figlio di 7 anni sono morti travolti da un torrente, mentre risulta ancora disperso l’altro figlio, un bambino di 2 anni. L’auto della donna è stata trovata dai Vigili del Fuoco tra i comuni di San Pietro a Maida e San Pietro con i lampeggianti accesi. La donna, Stefania Signore, e i figli di 7 e 2 anni hanno cercato un riparo, ma non hanno avuto purtroppo scampo travolti dalla violenza delle acque. L’allarme era stato lanciato dai parenti anche tramite un appello sui social. Il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, ha annunciato di voler chiedere lo stato di emergenza. Violenti nubifragi hanno colpito anche la Sicilia, in particolare Catania, dove le bombe d’acqua hanno creato notevoli problemi ad alcuni quartieri cittadini e alla viabilità in generale, tanto da costringere il sindaco Salvo Pogliese a chiudere le scuole: “Una misura che serve a consentire ai nostri tecnici di effettuare sopralluoghi nelle strutture e verificare eventuali danni provocati dalle due bombe d’acqua abbattutesi su Catania”. Pezzi di asfalto e pietre sulle strade, commercianti che ancora puliscono negozi allagati, un rione interamente isolato, alberi caduti che vengono rimossi, la centralissima via Etnea trasformata in un fiume in piena, con auto posteggiate quasi coperte dall’acqua, la sede distaccata del Tribunale allagata. Questo il quadro tragico di una città in ginocchio. Gli interventi dei Vigili del Fuoco sono stati già 70, mentre una cinquantina devono ancora essere eseguiti. Le zone maggiormente colpite sono quella industriale e aeroportuale e i rioni San Giuseppe la Rena, Villaggio Santa Maria Goretti e la Plaia.

DALLA STORIA

Il mio nome è Bond … James Bond.

BOND

Il 5 ottobre 1962 debuttò al cinema James Bond, il celebre agente segreto al servizio di sua Maestà, creato dallo scrittore Ian Fleming. Accolto con grande favore dal pubblico, nonostante i limitati costi di produzione, il film “Agente 007 licenza di uccidere” lanciò l’allora sconosciuto Sean Connery, che impersonerà Bond in altre cinque pellicole, e consacrò come sex symbol la protagonista femminile Ursula Andress. A portare James Bond sullo schermo fu Harry Saltzman, un produttore inglese già mecenate del free cinema, associato per l’occasione all’americano Albert Broccoli. Si iniziò affidando alla coppia Terence Young (regista) e Sean Connery la storia del “Dr. No” (titolo originale) in cui Bond, inviato in Giamaica per fare luce sulla misteriosa morte di un collega, s’imbatté nei piani scellerati del Dr. No e della potente organizzazione criminale denominata “Spectre”. Poi il travolgente successo del film, grazie anche alla colonna sonora di Monty Norman, che venne mantenuta negli episodi successivi, aprì la strada a una lunghissima serie di avventure cinematografiche. Protagonista di oltre 20 film, Bond ebbe nel corso degli anni i volti di altri attori, tra cui Roger Moore (con sette film detiene il primato), Pierce Brosnan (quattro) e Daniel Craig (tre). “Se il suo ciclo non si è ancora esaurito è anche perché Bond rappresenta gli spensierati anni Sessanta:  è datato ma, come ogni simbolo d’epoca felice, duro a morire. Di 007 piacciono la sicura virilità, il fair-play praticato anche nelle condizioni più impossibili, la capacità di trarsi d’impaccio, la fedeltà all’Union Jack e il macchinario parascientifico di cui è dotato. L’apparato della sua mitologia si è in parte sciolto nei  mille telefilm d’azione che invadono il piccolo schermo, ma a James (soprattutto quando a vestire i suoi panni è Sean Connery) rimane il fascino dell’archetipo legato all’impasto di signorilità (tutta interna ai parametri dei lettori originali di Fleming), per cui veste spesso in smoking e ordina Dom Perignon di annate improbabili e di estrema efficienza legata a una superiorità di razza nemmeno tanto celata.

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4 ottobre

PRIMO PIANO

Assisi: Le celebrazioni per san Francesco, patrono d’Italia.

Sono passati 8 secoli dalla “rivoluzione” pacifica di Francesco d’Assisi, ma la fiammella del suo messaggio, proprio come la lampada votiva, che arde davanti alla sua tomba e a cui quest’anno è toccato alla Campania fornire l’olio, continua a sollecitare ad una riflessione sugli stili di vita, sulla natura e l’ambiente, sulle disuguaglianze sociali, nonostante i principi scritti nelle carte costituzionali di tutte le Democrazie del mondo. Francesco, come scrive Dante nel canto XI del Paradiso, dove ci dà un’immagine plastica delle nozze del santo con Madonna Povertà, non fa discorsi o sermoni, ma attesta con la sua stessa vita, lui che per nascita era ricco, l’opzione per i poveri e gli esclusi, la necessità della contemplazione e del rispetto della natura, l’apertura verso culture e tradizioni diverse, per una pace duratura. È quello di Francesco un modello e un ideale con cui confrontarsi sempre, particolarmente oggi, quando ad Assisi si sono svolte le celebrazioni per la festa del santo, patrono d’Italia, a cui ha partecipato, nella basilica superiore, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “È un messaggio – ha detto il premier – che ci insegna che del cambiamento non bisogna aver paura e che quando l’obiettivo per cui si lavora è il bene della comunità bisogna avere il coraggio di sostenere le proprie idee e le proprie azioni fino in fondo. Anche quando quelle idee saranno contestate, avversate, ostacolate.” Conte si è poi detto “particolarmente ogoglioso per il reddito di cittadinanza, non un sussidio ma una scintilla che permetterà di essere partecipi nella nostra società a tante persone che ora ne sono escluse … contribuirà a sollevare dalla soglia della povertà oltre 5 milioni di persone, contribuirà a offrire un’opportunità di lavoro ai giovani costretti al dilemma: se fuggire dalla propria terra oppure rassegnarsi a non avere un lavoro e un’indipendenza economica e contribuirà a offrire un sostegno a quei genitori che non riescono a garantire gli studi ai figli e a chi non ha i soldi per curarsi o comprare le medicine.”

Per contro è salutare ricordare, per la salvaguardia dei valori democratici, come sia necessario non derogare dalla memoria storica e riflettere “come la coscienza, la competenza culturale e il lavoro intellettuale possano facilmente smarrire la propria valenza critica e auto-critica se fagocitati da micro-cupidità di potere e private ambizioni”.

DALLA STORIA

San Francesco d’Assisi.

image001(Giotto di Bondone, Predica agli uccelli, 1290-1295 circa, Assisi)

San Francesco, equivalente medievale di francese (Assisi, 26 settembre 1182 – Assisi, 3 ottobre 1226), è uno dei santi più popolari e venerati del mondo. Diacono e fondatore dell’ordine che da lui poi prese il nome, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. È stato proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono d’Italia il 18 giugno 1939 da papa Pio XII. Conosciuto anche come il poverello d’Assisi, la sua tomba è meta di pellegrinaggio per decine di migliaia di devoti ogni anno. La città di Assisi, a motivo del suo illustre cittadino, è assurta a simbolo di pace, soprattutto dopo aver ospitato i tre grandi incontri tra gli esponenti delle maggiori religioni del mondo, promossi da papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 2002, e da papa Benedetto XVI nel 2011. Oltre all’opera spirituale, Francesco, grazie al “Cantico delle creature”, è riconosciuto come uno degli iniziatori della tradizione letteraria italiana. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto papa nel conclave del 2013, ha assunto il nome di Francesco in onore del santo d’Assisi, primo papa nella storia della chiesa. Figlio di Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e della nobile Giovanna, detta Pica, di origine provenzale, Francesco, l’apostolo della povertà, nacque ad Assisi nel 1182. Dante, nell’XI Canto del Paradiso dice: Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole … (versi 49-50). La madre, in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista, ma il padre, quando tornò, volle aggiungergli il nome di Francesco, forse in omaggio alla moglie francese. Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel vendere le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui l’erede dell’attività di famiglia. Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, come lo dipinge Giotto, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, tanto da essere acclamato rex iuvenum. Partito per la guerra contro Perugia, fu fatto prigioniero, dopo un anno tornò ad Assisi gravemente malato e maturò la scelta della Povertà, la donna sua più cara (Paradiso, Canto XI, verso 113). Nell’autunno 1205 Dio gli parlò: nella chiesetta campestre di San Damiano, mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina. Pieno di stupore, pensò che il comando si riferisse alla cadente chiesetta di San Damiano, perciò si mise a ripararla con le sue mani, utilizzando anche il denaro paterno. A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco, denudatosi dai vestiti, li restituì al padre, mentre il vescovo di Assisi, Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione. Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui e non alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa. Iniziò così la vita e la missione apostolica, sposando madonna Povertà, annunciando con l’esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli. Prese a predicare la pace, l’uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze, la povertà e l’amore per tutte le creature di Dio. Ben presto attirati dal suo esempio, si affiancarono a Francesco quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani, Egidio e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli. Vivevano alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all’interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, permise loro di predicare e consigliò di recarsi a Roma, da papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori. Francesco desiderò anche raggiungere i non credenti, specie i musulmani. Dopo due tentativi falliti, approdò in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell’amore poteva essere possibile fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo. Verso la metà del 1220 Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, divenuti ormai numerosi, per cui l’originaria breve Regola era insufficiente. La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III. In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gli infedeli, l’equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, stemperando un po’ il concetto di divieto di proprietà. La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e volle rivivere, a Greccio, con figure viventi, l’umile nascita di Gesù Bambino. Nacque così, nel mondo cristiano, la bella e suggestiva tradizione del Presepio, che sarà ripresa dall’arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi. … nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. (Paradiso, Canto XI, vv. 106-108). La mattina del 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava sul monte Verna, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma, tra cui lampeggiava la figura di un uomo con mani e piedi inchiodati ad una croce. Il Serafino gli si avvicinò in volo e gli lasciò il segno delle stimmate. All’inizio del 1225 Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata anni prima, dove vivevano Chiara e le sue suore, e in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, malato e quasi cieco, compose il famoso Cantico di frate Sole, primo testo in volgare-umbro, dove loda Dio attraverso le sue creature, che chiama fratelli e sorelle, compresa sora nostra morte corporale. Ad Assisi, all’amata Porziuncola, la sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra; aveva circa 45 anni. Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi ed essere stato portato a. San Damiano, per essere mostrato un’ultima volta a Chiara ed alle sue consorelle, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio, da dove, nel 1230, la sua salma venne trasferita nell’attuale basilica affrescata da Giotto con gli episodi più significativi della vita del Santo, come la famosa predica agli uccelli. La sua memoria ricorre il 4 ottobre.

Fonte: (Diario Personale delle Ore. Progetto Editoriale Editions)

image002(La copertina in argento del Diario Personale delle Ore realizzato dalla nostra Casa Editrice)


3 ottobre

PRIMO PIANO

Al Quirinale la lettera dei genitori di Giulio Regeni.

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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricevuto questa mattina al Quirinale i genitori di Giulio Regeni, Paola Deffendi e Claudio Regeni, e la sorella Irene, accompagnati da Alessandra Ballerini, avvocato per i diritti umani, e dai partecipanti alla ciclostaffetta itinerante “A Roma per Giulio”, iniziativa in bicicletta partita da Duino, in provincia di Trieste. Claudio Regeni e Paola Deffendi hanno consegnato oggi al Presidente la lettera da loro scritta, portata dai ciclisti partiti da Fiumicello il 22/09, per sostenerli nella loro richiesta di verità sulla morte del giovane ricercatore in Egitto. Scrivono i genitori di Giulio: “Carissimo signor Presidente, oggi siamo qua, grazie alla Sua disponibilità e alla generosità di tanti cittadini italiani che ci sono stati vicini e che hanno voluto dimostrare in modo concreto il loro sostegno e la loro vicinanza alla nostra ricerca di verità e giustizia, per Giulio. Oggi sono trentadue mesi da quando il corpo di nostro figlio è stato fatto ritrovare barbaramente assassinato al Cairo. Sapesse quanto dolore e quanta fatica ci accompagnano da allora. Nulla è stato più uguale a prima. Non siamo mai stati soli: migliaia di cittadini combattono insieme a noi per avere verità, il popolo giallo, la nostra migliore Italia che oggi ha pedalato fin qua. Abbiamo incontrato tantissime persone in diverse parti d’Italia e abbiamo ricevuto tanto affetto che noi vorremmo ricambiare in qualche modo e per questo portiamo a Lei, quale Presidente, la nostra testimonianza come segno di riconoscenza. Ma non possiamo fermarci. Abbiamo bisogno, dopo tanta attesa e tante oltraggiose menzogne, che alle parole si aggiungano i fatti: dobbiamo sapere chi e perché ha preso, torturato e ucciso Giulio. Lo chiediamo non solo da genitori ma da cittadini di quell’Italia che Lei ama, rappresenta e tutela. È un’esigenza corale non una faccenda privata. Nessuno potrà ridarci Giulio ma non possiamo permettere che la nostra dignità di italiani venga offesa con bugie e silenzi. Lei, che più di tutti ha a cuore la dignità di questo Paese, dia voce a questa nostra richiesta e restituisca fiducia e onore a tutti i nostri concittadini. La ricerca della verità per Giulio diventi un impegno per la tutela dei diritti umani come segno esemplare della serietà e della intransigenza del nostro Paese e della solidità dei suoi valori democratici. Chiediamo a Lei e a tutte le istituzioni del governo italiano di sostenere e fare sua, in modo sempre più concreto e tangibile, una richiesta che accomuna e muove cittadini di ogni parte del mondo che in Giulio si riconoscono e per Giulio si mobilitano. Noi, forse Lei lo sa, diciamo sovente che “Giulio continua a fare cose” perché muove le buone energie di questo Paese e costringe con il suo esempio a riflettere sull’inviolabilità dei diritti umani, Giulio ci costringe a decidere da che parte stare. Le chiediamo di stare dalla parte di Giulio, di tutti i Giuli e le Giulie, dalla nostra parte.”


2 ottobre

PRIMO PIANO

Assegnati i Nobel 2018 per la fisica e la medicina.

Il Nobel per la Fisica 2018 è stato assegnato a Arthur Ashkin, Gerald Gérard Mourou e Donna Strickland, che con le loro ricerche hanno aperto la strada alle applicazioni del laser in molti campi, compresa la biologia. Tra i premiati anche Donna Strickland, la terza donna a ricevere il premio da quando è stato istituito: nel 1963 la vincitrice era stata Maria Goeppert-Mayer, 60 anni prima il Nobel per la fisica era stato assegnato a Maria Curie. L’americano Arthur Ashkin, 96 anni, ha trascorso gran parte della sua carriera scientifica nei Bell Telephone Laboratories a Murray Hill. Nato il 2 settembre 1922 a New York, ha studiato alla Columbia University e poi ha lavorato alla Cornell University. Il francese Gérard Mourou, 74 anni, è stato direttore del Laboratorio di ottica applicata della Scuola francese superiore di tecniche avanzate (Ensta). Nato nel 1944 ad Albertville, ha insegnato all’Ecole Polytechnique e negli Stati Uniti è stato tra i fondatori del Centro di Scienza Ottica ultraveloce (Cuos) dell’Università del Michigan. La canadese Donna Strickland, 59 anni, nata nel 1959 a Guelph, si è laureata nella McMaster University e ha proseguito gli studi di dottorato nell’Università di Rochester. Attualmente insegna nell’Università di Waterloo. Ieri è stato assegnato anche il Nobel della Medicina 2018: è stata premiata una scoperta “davvero rivoluzionaria, che sta cambiando la medicina moderna e ha aperto la strada alla terapia personalizzata del cancro, fornendo anche gli strumenti necessari: le proteine ingegnerizzate”, come ha commentato all’AdnKronos Salute Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’università Tor Vergata di Roma. Sono stati premiati l’americano James P. Allison e il giapponese Tasuku Honjo per i loro studi immunologici, che hanno portato a nuovi sviluppi per la cura del tumore. Si legge nella motivazione del premio: “I due studiosi hanno capito che si può stimolare il sistema immunitario per attaccare le cellule tumorali, un meccanismo di terapia assolutamente nuovo nella lotta ad un tipo di malattia che uccide ogni anno milioni di persone e che costituisce una delle più gravi minacce alla salute dell’umanità.” Allison ha studiato una proteina che funziona come freno al sistema immunitario, ha capito il potenziale per liberare le cellule che attaccano i tumori. Il giapponese Honjo ha lavorato alla stessa tecnica, ma con un differente sistema d’azione. Le ricerche dei due studiosi, basate sull’immunologia molecolare e sulla genetica molecolare, aprono la strada alla terapia personalizzata dei tumori, cercando di sfruttare l’aggressività del sistema immunitario contro le cellule malate e fornendo anche gli strumenti necessari.


1 ottobre

PRIMO PIANO

Vista in azione la proteina che causa la SLA.

Per la prima volta si è visto come e perché si formano all’interno delle cellule nervose gli aggregati di proteine che sono all’origine di una grave malattia neurodegenerativa come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla). Il risultato è stato possibile grazie alla nuova tecnica non invasiva di microscopia messa a punto in Italia, nel Center for Life Nano Science dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) presso l’Università La Sapienza di Roma, descritta sulla rivista Communications Biology. La ricerca, coordinata da Giuseppe Antonacci del centro dell’IIT, si basa su una tecnica di microscopia ottica ad altissimo contrasto, che ha permesso di osservare strutture di dimensioni molto inferiori a quelle visibili fino ad oggi. Osservando le cellule danneggiate dalla SLA, ossia i motoneuroni che trasportano il segnale di movimento dal cervello ai muscoli, i ricercatori hanno visto le strutture in cui è attiva la proteina legata alla Sla, chiamata Fus. Hanno così potuto riscontrare che, quando questa proteina è mutata, le strutture cellulari diventano più rigide e viscose. Questo spiegherebbe il motivo, ad oggi sconosciuto, per il quale nei motoneuroni delle persone colpite dalla Sla si formano gli aggregati presumibilmente tossici, responsabili della morte dei motoneuroni. Finora il ruolo di questi aggregati non era che un’ipotesi, che adesso è stata verificata. La scoperta apre la strada a diagnosi più precise e “importanti orizzonti sul fronte della ricerca sulla Sla, fornendo informazioni fondamentali sui meccanismi patologici che portano alla morte dei motoneuroni”, ha detto Antonacci. Alessandro Rosa dell’Università La Sapienza ha aggiunto: La nuova tecnologia, “consentirà di studiare da una nuova prospettiva i granuli cellulari, che sembrano giocare un ruolo chiave nell’insorgenza di malattie neurodegenerative, che è il primo passo per programmare in futuro terapie farmacologiche più mirate contro questa malattia.”

DALLA STORIA

L’Autunno caldo, correva l’anno 1969.

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A partire dall’autunno 1969 comincia in Italia un periodo storico che prende il nome di Autunno caldo a seguito della grande mobilitazione sindacale, figlia del clima politico del Sessantotto, che venne determinata dalla scadenza triennale dei contratti di lavoro, in particolar modo relativi alla categoria dei metalmeccanici. Gli operai delle grandi fabbriche che si battevano per l’adeguamento dei salari (i salari italiani erano tra i più bassi dell’Europa occidentale), trovarono degli alleati negli studenti che avevano dato vita ad agitazioni con cui reclamavano il “diritto allo studio” per tutti gli strati sociali. La battaglia contrattuale divenne perciò una battaglia politica. Tra il settembre e il dicembre del 1969 la questione esplose con una forza che né imprenditori né operai avevano previsto: oltre cinque milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti e di altri settori fecero sentire il peso delle loro rivendicazioni: emerse una nuova figura, quella dell’operaio-massa, ossia una personalità giovane, proveniente dal meridione, non specializzato, addetto alla catena di montaggio, ma più combattivo del tradizionale operaio di mestiere. Le rivolte sindacali furono un fenomeno di collera collettiva provocata non dalla povertà, ma per l’appunto dell’espandersi in fabbrica di fermenti ideologici del momento: uno slogan recitava: “Il nostro Vietnam è in fabbrica”, ed era caratteristico in esso l’incrocio tra l’anti-americanismo, l’anti-imperialismo e le rivendicazioni operaie. Dall’autunno caldo presero corpo nuovi gruppi e movimenti politici extraparlamentari, alcuni dei quali sfociarono nel terrorismo e nella lotta armata segnando una fase dolorosa nel Paese e conosciuta come “anni di piombo”. Ma entriamo nel dettaglio con il testo di Antonio Longo pubblicato ne “Le voci del ‘68”, Editori Riuniti: “La stagione più “calda” del protagonismo operaio è l’autunno del ’69, che ha nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici il momento più intenso e significativo. Nonostante le gradi battaglie sindacali per la riforma delle pensioni e l’abolizione delle gabbie salariali, che hanno rilanciato l’azione del sindacato confederale, una parte consistente del movimento operaio sul finire del’68 è fortemente suggestionata dallo spostamento studentesco che in fabbrica viene riproposto dai Cub. Le scadenze contrattuali del ’69 sembrano offrire la migliore occasione per un rivendicazionismo diretto e protagonista, sull’onda del “vogliamo tutto e subito”. Le pressioni della base spingono Cgil, Cisl e Uil a adottare una strategia molto decisa, con piattaforme contrattuali dai contenuti pesanti in termini salariali e fortemente egualitari, accogliendo e facendo proprie le richieste espresse nelle assemblee di fabbrica. Il sindacato si propone obiettivi politici di fondo per la lotta sindacale. Al congresso Fim Cisl del giugno 1969, la mozione finale parla  di “modificazione del sistema capitalistico”, della necessità di “sperimentare un nuovo modo di fare politica, favorendo la crescita dal basso di elementi di contropotere”. Si afferma, come risultato del clima culturale e sociale del ’68, una impostazione conflittuale dell’azione sindacale, che vuole affrontare i problemi economici e sociali con “un duro confronto e una lotta aperta con la logica perseguita dalle forze capitalistiche dominanti”. E sono proprio le tre federazioni metalmeccaniche, guidate da Pierre Carniti, Bruno Trentin e Giorgio Benvenuto, a lanciare la grande stagione rivendicativa. L’autunno caldo comincia a fine estate, a Torino, quando la Fiat sospende 35.000 lavoratori, dopo una serie di scioperi a catena iniziati il 1° settembre 1969 per inadempienze aziendali sui passaggi di categoria. I sindacati accusano la Fiat di serrata, anche i politici reagiscono. “L’autunno potrà essere veramente “caldo”, si legge sul quotidiano socialista “Avanti!”, ma non a causa e per colpa di qualche estremista, bensì come conseguenza di una perdurante cecità padronale di fronte alle spinte verso nuovi equilibri di potere che si manifestano nella società.”

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Interviene il governo e la vertenza viene risolta, ma Fim, Fiom e Uilm chiedono di anticipare l’apertura delle trattative per il rinnovo del contratto. Le piattaforme presentate, dopo intense consultazioni della base, puntano ad aumenti salariali uguali per tutti, riduzione dell’orario di lavoro da 42 a 40 ore a parità di salario, avvio della parità normativa tra operai e impiegati, riconoscimento del diritto di assemblea in fabbrica. Il rifiuto pregiudiziale della Confindustria, soprattutto sulla contrattazione aziendale integrativa, porta a una serie di scioperi e a tre grandi manifestazioni a Torino per il nord, dove confluiscono il 25 settembre 100.000 operai, a Napoli il 16 ottobre per il sud e ancora a Genova, Brescia, Firenze, Bologna, Venezia. Le rivendicazioni contrattuali si intrecciano con le richieste di importanti riforme sociali ed economiche. Il 19 novembre scendono in campo le confederazioni che proclamano uno sciopero generale per una migliore politica della casa e un fisco più giusto. In centinaia di aziende cominciano a comparire bandiere con la scritta unitaria “Fim-Fiom-Uilm”. A metà novembre la Fiat denuncia alla magistratura oltre 200 operai per danneggiamento, ma è costretta a ritirare il provvedimento per la reazione generale. Il 28 novembre 1969 per la prima volta nella storia sindacale italiana si svolge una gigantesca manifestazione di metalmeccanici a Roma: sono oltre 150.000, giunti con cinque treni speciali e centinaia di pullman. Roma si blocca per  tre cortei, che poi confluiscono a piazza del Popolo. Il 10 dicembre le associazioni delle aziende pubbliche accettano una ipotesi di accordo presentata dal ministro del lavoro Donat-Cattin. Due giorni dopo, 12 dicembre, la strage di piazza Fontana segna col sangue e con ombre cupe la storia del paese. Per i funerali delle vittime, il 14 dicembre, vengono sospesi tutti gli scioperi. Il 19 dicembre si fa l’accordo anche con la Confapi e il 21 dicembre con la Confindustria. Tra le conquiste più importanti, le 40 ore settimanali da raggiungere in varie tappe, un numero di ore retribuite per assemblee di fabbrica, la limitazione del ricorso allo straordinario. L’autunno caldo è finito, dopo quattro mesi di grandi battaglie e 520 milioni di ore di sciopero. Sulla scia dei metalmeccanici, anche altre categorie impegnate nel rinnovo (chimici, edili, braccianti) otterranno contratti con contenuti salariali e normativi significativi. L’approvazione in parlamento, nei mesi seguenti, dello Statuto dei lavoratori darà il suggello alla stagione più significativa di lotte e più ricca di conquiste per tutto il mondo del lavoro. I rapporti in fabbrica ne escono profondamente modificati, con un nuovo equilibrio tra i datori di lavoro, operai e sindacato; ma è la stessa società a rimanerne segnata, con una nuova dignità riconosciuta al lavoro e ai lavoratori. In particolare è l’operaio a conquistare uno status sociale nuovo, che lo mette non più tra i soggetti passivi della dialettica sociale, ma tra i protagonisti più attivi. Il cambiamento allarma i gruppi di potere più reazionari, che decidono di intimidire pesantemente l’opinione pubblica anche a rischio di alzare il livello di scontro politico e sociale, con quella “Strategia della tensione” iniziata a Milano”.

Mary Titton


30 settembre

PRIMO PIANO

Formula 1: Gp Russia, vince Hamilton, Vettel 3°.

La sedicesima gara del campionato mondiale di Formula 1 2018, disputatasi domenica 30 settembre sul circuito di Soči, è stata vinta dal britannico Lewis Hamilton su Mercedes, che ha preceduto all’arrivo il suo compagno di team, il finlandese Valtteri Bottas, e il tedesco Sebastian Vettel su Ferrari. Al via Valtteri Bottas mantiene la pole, mentre Lewis Hamilton deve proteggersi dall’attacco di Sebastian Vettel. Segue poi l’altro pilota della Ferrari, Kimi Räikkönen, che precede Kevin Magnussen. Al 13° giro Vettel effettua la sosta, per passare su gomme soft, e al 14° si ferma Hamilton, che però rientra in pista dietro il tedesco della Ferrari. Hamilton attacca subito Vettel e lo sorpassa alla curva 3, al sedicesimo giro. Al diciannovesimo giro guida Verstappen, dopo la sosta di Räikkönen, che rientra quinto. Al venticinquesimo giro, su richiesta del team – “lascialo passare in curva 13” il messaggio dai box – Bottas rallenta vistosamente per far passare Hamilton al secondo posto. Il pilota inglese cerca di sorpassare Verstappen, momentaneamente 1°, ma non ci riesce e prende il comando della gara solo al 43°giro, quando l’olandese della Red Bull si ferma per il cambio gomme, rientrando in pista quinto, dietro Räikkönen, che taglia il traguardo 4°. Sul podio 1°Hamilton, 2° Bottas, 3° Vettel. Il pilota inglese, campione del mondo in carica, conquista così la sua 70esima vittoria e porta il suo vantaggio su Vettel a 50 punti in classifica generale. Da segnalare la prestazione di Max Verstappen, che oggi ha festeggiato al meglio i suoi 21 anni. Verstappen, scattato dal fondo dello schieramento con gomme soft, è stato protagonista di una fulminea rimonta: l’olandese nell’arco di quattro giri è salito in nona posizione, per poi arrivare al traguardo quinto, alle spalle di Räikkönen.


29 settembre

PRIMO PIANO

Indonesia: terremoto e tsunami nell’arcipelago di Sulawesi.

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Un terremoto di magnitudo 7.5 nell’arcipelago di Sulawesi, in Indonesia, ha provocato uno tsunami che ha colpito gravemente la città di Palu, la capitale della provincia. Lo ha confermato il portavoce dell’Istituto geofisico indonesiano, Hary Tirto Djatmiko. La tv indonesiana mostra in un video girato con un cellulare una potente onda che colpisce Palu, mehtre le persone urlano e scappano. In precedenza, un portavoce dell’agenzia per i disastri indonesiana, Sutopo Purwo Nugroho, aveva detto che l’allerta tsunami era stata tolta. Nel dicembre 2004, un terremoto di magnitudo 9.1 al largo dell’isola di Sumatra, nell’ovest dell’Indonesia, causò uno tsunami che provocò 230mila morti in una decina di Paesi. I morti finora sono più di 800 e il bilancio è destinato a salire di ora in ora. Al momento non risultano italiani coinvolti nello tsunami che ha colpito l’isola indonesiana di Sulawesi. Lo si apprende da fonti della Farnesina, secondo cui l’Unità di crisi, in stretto raccordo con l’ambasciata italiana in Indonesia e le autorità locali, ha seguito fin dal primo momento gli eventi e continua a fare ogni opportuna verifica anche in considerazione delle difficili condizioni dell’area. Proseguono intanto le ricerche di possibili superstiti: tra le 100 e le 200 persone potrebbero essere rimaste intrappolate tra le macerie di un complesso residenziale nella città di Palu, crollato durante il terremoto. Lo ha riferito il responsabile del villaggio dove sorgeva il complesso, secondo cui molti corpi sono già stati estratti, ma altre 90 persone rimangono disperse. L’area è stata raggiunta solo nel pomeriggio dai primi soccorsi. La situazione più grave, infatti, è quella della città di Palu, sulla costa occidentale di Celebes, ma anche a Donggala, più al nord, il numero dei cadaveri ritrovati continua a crescere. A Palu è crollato un hotel di otto piani, il Roa-Roa: fra le macerie potrebbero essere rimaste intrappolate più di 50 persone. Gli impianti elettrici e le linee telefoniche sono stati danneggiati in modo grave. Ci sono ancora diverse zone isolate che non è stato possibile raggiungere e il rischio sanitario è elevato.


28 settembre

PRIMO PIANO

Varata dal governo la manovra economica.

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Giovedì 27 settembre, al termine del vertice a Palazzo Chigi, è stata presentata la nota di aggiornamento al Def (Documento di Economia e Finanza) per il 2019. Il governo ha fissato al 2,4% l’asticella del rapporto deficit/pil per 3 anni, dopo un lungo e faticoso braccio di ferro con il ministro dell’economia Giovanni Tria che non voleva discostarsi troppo dall’1,6%. I vice premier Salvini e Di Maio in una dichiarazione congiunta hanno annunciato l’intesa. “Accordo raggiunto con tutto il governo sul 2,4 di deficit. Siamo soddisfatti, è la manovra del cambiamento”. Queste le misure più innovative contenute nella “manovra del popolo”, come l’ha definita Di Maio: il reddito di cittadinanza per cui verranno stanziati “10 miliardi di euro” da distribuire a 6,5 milioni di persone; la pensione di cittadinanza, cioè “il diritto alla pensione” per almeno 400.000 persone e altrettanti posti di lavoro a disposizione dei giovani, “il superamento della Fornero” ed “un Fondo ad hoc di 1,5 mld”, destinato a coloro che sono stati “truffati delle banche”, la chiusura delle cartelle di Equitalia, investimenti per scuole, strade e Comuni” e, come sottolinea Salvini, “nessun aumento dell’Iva”; la flattax, cavallo di battaglia della Lega, ovvero “tasse abbassate al 15% per più di un milione di lavoratori italiani”. Dice il premier Giuseppe Conte: “Abbiamo programmato il più consistente piano di investimenti pubblici che sia mai stato realizzato in Italia. Stiamo facendo del bene all’Italia e agli italiani”, specificando poi l’introduzione di “meccanismi di controllo della spesa che impediscano il superamento” della soglia del 2,4%. Il presidente del Consiglio scrive pure su Facebook: “Si è appena concluso il Consiglio dei Ministri. Vi garantisco che abbiamo lavorato con serietà e impegno per realizzare una manovra economica meditata, ragionevole e coraggiosa. È un intervento che migliorerà le condizioni di vita dei cittadini e assicurerà al nostro Paese una più robusta crescita economica e un più significativo sviluppo sociale”. Dopo l’annuncio alcune decine di militanti M5s, insieme ai parlamentari, hanno festeggiato davanti a Montecitorio. Durante la sospensione del Cdm il vicepremier Luigi Di Maio è sceso per qualche minuto in piazza, davanti a palazzo Chigi, per unirsi, insieme agli altri ministri del movimento, ai parlamentari pentastellati e ha affermato: “Per la prima volta lo Stato è dalla parte dei cittadini, per la prima volta non toglie ma dà … Abbiamo portato a casa la manovra del popolo che per la prima volta nella storia di questo Paese cancella la povertà grazie al reddito di cittadinanza, per il quale ci sono 10 mld, e rilancia il mercato del lavoro anche attraverso la riforma dei centri per l’impiego … Sarà una Manovra espansiva, che risponde alle esigenze di tanta “gente che ha sofferto una vita e adesso può tornare a respirare”. Durissima la reazione delle opposizioni sia dei partiti di destra, quali Fratelli d’Italia e Forza Italia, sia del Pd, che sorprendentemente si preoccupa più delle banche e dei mercati che delle fasce più deboli della popolazione, dimenticando che negli altri Paesi Ue (tranne Italia e Grecia) sono in atto forme di sostegno e sussidi per disoccupati e non, come chiesto dall’Europa fin dal 1992. Intanto oggi gli occhi sono puntati sui mercati, sulla risposta della Borsa e sullo spread.


27 settembre

PRIMO PIANO

Torino: Riapre la Cappella della Sindone.

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Riapre, dopo 21 anni, la cappella della Sindone, opera barocca di Guarino Guarini, gravemente danneggiata dall’incendio dell’11 aprile 1997. La direttrice dei Musei Reali, Enrica Pagella, durante la cerimonia d’inaugurazione, alla presenza del ministro per i Beni e le Attività Culturali, Alberto Bonisoli, del presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, della sindaca Chiara Appendino, ha detto: “Il restauro è stato una grande sfida di tecnica e immaginazione. Oggi vogliamo celebrare la rinascita di un’opera stupefacente e unica. Ci sono voluti 21 anni, sono molti ma dobbiamo tenere conto della complessità del restauro.” Bisogna ancora recuperare l’altare, opera di Antonio Bertola, i cui lavori di restauro inizieranno a primavera. Per annunciare l’evento, alcune illuminazioni notturne sono state installate sulla cupola. Il pubblico potrà ammirare la Cappella della Sindone da venerdì 28 a domenica 30 settembre al prezzo speciale di 3 euro, da martedì 2 ottobre l’accesso sarà compreso nel biglietto dei Musei Reali. “È uno dei momenti più importanti per la storia della nostra città e il suo futuro. Ricordo le immagini delle fiamme intorno a quella cupola, appartengo a quella generazione che non l’ha mai potuta visitare. Provo grande orgoglio, emozione ma anche senso di responsabilità.” ha affermato la sindaca Chiara Appendino. La Cappella della Sacra Sindone è un’opera architettonica di Guarino Guarini, costruita a Torino alla fine del XVII secolo. La cappella fu commissionata a Carlo di Castellamonte dal duca Carlo Emanuele I di Savoia per conservare il prezioso telo della Sindone, che la famiglia ducale sabauda custodiva da alcuni secoli, successivamente il progetto venne affidato al frate-architetto Guarino Guarini, che abbandonata Parigi nel 1666, nel 1667 subentrò nei lavori e adottò il progetto a forma rotonda, precedentemente elaborato da Bernardino Quadri. La Cappella, gioiello dell’arte barocca, venne chiusa al pubblico il 4 maggio 1990, quando crollò sul pavimento un frammento di marmo da un cornicione interno, poi, durante il successivo restauro conservativo, quasi ultimato, nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997, a causa di un corto circuito un incendio danneggiò pesantemente l’edificio, la stessa Sindone rischiò di essere distrutta; fu fortunatamente sottratta alle fiamme e portata in salvo dai pompieri, i quali sfondarono la teca in vetro contenente la cassetta in legno e argento che conservava il telo, oggi custodito nella Cattedrale di Torino, nell’ultima cappella della navata sinistra, sotto la Tribuna Reale.

DALLA STORIA

Carlo Alberto dalla Chiesa.

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“Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti né ai disonesti”.

“Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario ma è anche un verbo. Poter convivere, potere essere sereni, poter guardare in faccia l’interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunzie, ma di pulizia; poter sentirci tutti uniti in una convivenza che non può restare vittima di chi prevarica, di chi attraverso il potere lucra”. (Carlo Alberto dalla Chiesa. Dal primo discorso pubblico come prefetto di Palermo, 1° maggio 1982).

Il generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa era nato a Saluzzo (Cn) il 27 settembre 1920. Era figlio di un generale dei Carabinieri e dopo la laurea in Giurisprudenza e successivamente anche in Scienze Politiche, durante la Seconda guerra mondiale, ricalcando le orme del padre, entrò nell’Arma. Partecipò alla Resistenza e dopo la guerra combattè il banditismo prima in Campania e quindi in Sicilia; dopo vari periodi a Firenze, Como, Roma e Milano, tra il 1966 e il 1973 fu nuovamente in Sicilia dove, con il grado di colonnello, comandante della Legione Carabinieri di Palermo, indagò su Cosa Nostra. Divenuto generale di brigata a Torino dal 1973 al 1977, fu protagonista della lotta contro le Brigate Rosse; fu lui a fondare il Nucleo Speciale Antiterrorismo, “Il nucleo speciale di polizia giudiziaria”, attivo tra il 1974 e il 1976. Promosso generale di divisione, fu nominato nel 1978 Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano; tra il 1981 e il 1982 fu vicecomandante generale dell’Arma. Nel 1982 il governo Spadolini lo nominò prefetto di Palermo con l’intento di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi brillanti risultati ottenuti nella lotta al terrorismo. Il 3 settembre dello stesso anno, alle nove di sera nel centro di Palermo il prefetto dalla Chiesa venne barbaramente ucciso con trenta colpi di kalashnikov dalla mafia. Accanto a lui, su una A112, venne uccisa anche la giovane moglie Emmanuela Setti Carraro, sposata in seconde nozze da nemmeno due mesi. Qualche metro dietro era rimasto in coma sull’asfalto l’agente della polizia di Stato Domenico Russo, sceso eroicamente dall’auto di scorta per rispondere al fuoco mafioso e che sarebbe morto una settimana dopo. 

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“La strage aveva scosso dalle fondamenta il mondo politico e, ancor più, il Paese. Perché il prefetto-generale aveva conquistato negli anni una popolarità straordinaria che ne aveva fatto il Carabiniere per antonomasia, specie di simbolo nazional-popolare. Perché colpendo lui la mafia, ormai egemonizzata dal gruppo dei corleonesi, aveva mandato a tutti un segnale inequivoco: mirando al cuore dello Stato dichiarava di non essere disposta a fermarsi davanti a niente e a nessuno, affermava con forza una sua protesta di autonomia e di influenza sulla struttura materiale del potere nazionale. Perché il delitto era stato annunciato, e non cripticamente, da un dibattito pubblico durato quattro mesi sulla opportunità che il nuovo prefetto rimanesse a Palermo a svolgere la funzione che gli era stata assegnata. Si trattò di un momento “estremo” della nostra storia; uno di quei momenti in cui un intero ordinamento politico, istituzionale, sembra traballare e disvelare come in un lampo la propria sconvolgente natura”. Da “Delitto imperfetto”, Melampo editore, “il libro che il figlio Nando scrisse nel 1984 per raccontare, prima dei grandi processi, quel che era accaduto. O almeno quel che era accaduto sotto gli occhi dell’opinione pubblica e che quasi tutti fingevano di non avere visto. Erano trascorsi due anni dalla strage di via Carini a Palermo. Due anni di denunce, di polemiche durissime. Forse le più dure dopo Portella delle Ginestre. Due anni di interrogativi e di incertezze. E di tentativi incessanti di depistare i primi e di smontare le seconde. In via Carini era stato ucciso il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, già generale dei carabinieri e punta di diamante della lotta vincente dello Stato italiano contro il terrorismo rosso, inviato quattro mesi prima dal governo della Repubblica a capeggiare, senza poteri e senza mezzi, l’impari lotta contro la mafia in ascesa sanguinaria”. Il 10 agosto 1982, a neanche un mese prima della strage, il quotidiano “la Repubblica” pubblicava l’intervista di Giorgio Bocca a Carlo Alberto dalla Chiesa.

Bocca. “La mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del “windsurf” nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il “segno” che esso dà al generale Carlo Alberto dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all’altro.

Dalla Chiesa è nero: “Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini a un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l’arroganza mafiosa deve cessare”.

Bocca: “Che arroganza, generale?

Dalla Chiesa: “A un giornalista devo dirlo? Uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo”.

Bocca: “Generale, lei è qui per amore o per forza. Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?”.

Dalla Chiesa: “Be’? sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”.

Bocca: “Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve “coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale” la lotta alla mafia”.

Dalla Chiesa: “Non risulta che questi impegni siano stati ancora codificati”.

Bocca: “Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.

Dalla Chiesa: “Preferirei l’esplicito”.

Bocca: “Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione”?

Dalla Chiesa: “Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più”.

Bocca: “No, parliamone, queste faccende all’italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori”?

Dalla Chiesa: “Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani, a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”.

Bocca: “Lei cosa chiede? L’autonomia e l’ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo”?

Dalla Chiesa: “Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non ci si potranno attendere sviluppi positivi”.

Bocca: “Ritorna con la mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde”?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina, giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

Bocca: “Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il ‘’66 e il’73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista del “Giorno della civetta”. Che cosa ha capito allora della mafia e che cosa capisce oggi, 1982”?

Dalla Chiesa: “Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l’istituto del soggiorno obbligato era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: “Brave persone”. Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano un ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi”.

Bocca: “E oggi?”

Dalla Chiesa: “Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la mafia geograficamente limitata alla Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”.

Bocca: “Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell’agguato sull’autostrada, sì, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell’assessore ai lavori pubblici di Catania”?

Dalla Chiesa: “Sì”.

Bocca: “E come andiamo, generale, con i piani regolatori delle grandi città? E’ vero che sono sempre nel cassetto dell’assessore al territorio e all’ambiente?”

Dalla Chiesa: “Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l’abusivismo”.

Bocca: “Senta generale, lei e io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla mafia. Mattarella senior era amico di Calogero Vizzini e di Genco Russo, Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?”

Dalla Chiesa: “È accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l’impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del Palazzo. Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato. L’esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, la copia conforme del caso Coco!”

Bocca: “Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?”

Dalla Chiesa: “Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato”.

Bocca: “Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre”.

Dalla Chiesa: “Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla “associazione a delinquere” la associazione mafiosa”.

Bocca: “Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?”

Dalla Chiesa: “È materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l’associazione mafiosa. La definiscano per il codice e sottraggano i giudizi alle opinioni personali”.

Bocca: “Come si vede lei generale dalla Chiesa di fronte al padrino del “Giorno della civetta?”

Dalla Chiesa: “Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La mafia è cauta; lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco”.

Bocca: “Mi faccia un esempio”.

Dalla Chiesa: “Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l’eroina corre a fiumi ci vado e servo di copertura. Ma se ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade”.

Bocca: “Che mondo complicato, forse era meglio l’antiterrorismo”.

Dalla Chiesa: “In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l’opinione pubblica, l’attenzione dell’Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la mafia è diverso, salvo rare eccezioni la mafia uccide fra i malavitosi, l’Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia”.

Bocca: “Perché sbaglia”?

Dalla Chiesa: “La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.

Bocca: “E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?”

Dalla Chiesa: “Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale”.

Bocca: “Generale dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?”

Mi guarda incuriosito.

Bocca: “Voglio dire, generale: questa lotta alla mafia l’hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l’ala socialista dell’Evis indipendentista e la sinistra sindacale del Rizzuto e del Cannavale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare”.

Dalla Chiesa: “Ma sì, e con un certo ottimismo sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. …

Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme a Falcone e Borsellino e a tutti coloro che combattono contro il sistema mafioso per difendere gli ideali di giustizia e onestà, e vengono per questo uccisi, sono gli eroi che cadono per i molti. “… ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per poter continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli …”. Carlo Alberto dalla Chiesa.

Mary Titton


26 settembre

PRIMO PIANO

Londra: una balena beluga nel Tamigi.

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È stato confermato l’avvistamento, nelle acque del fiume Tamigi, di un esemplare di balena beluga, che  si sarebbe perso a migliaia di chilometri dal suo habitat naturale nel mare artico. Il cetaceo, chiamato Benny, è stato avvistato da un incredulo ecologo mentre dava la caccia ai pesci nei pressi di alcune chiatte ormeggiate lungo il Tamigi, vicino all’estuario del fiume, presso Gravesend, nella contea del Kent (Inghilterra del sud). Il beluga, lungo 4-5 metri, detto anche “canarino di mare” per i richiami melodici che emette, si riconosce facilmente grazie al suo inconfondibile candido colore, oltre che alla testa globosa che lo differenzia dagli altri mammiferi marini. “Si è decisamente perduto”, ha commentato Julia Cable, coordinatrice nazionale del British Divers Marine Life Rescue, annunciando che un’unità di soccorritori subacquei è stata inviata nella zona per cercare di avvicinare l’animale e “verificarne le condizioni”. Si tratta di un evento straordinario e allo stesso tempo drammatico, poiché questi socievoli cetacei odontoceti vivono nelle gelide latitudini artiche; solo molto raramente sono stati osservati nelle acque del Regno Unito (l’ultima volta nel 2015). A preoccupare gli esperti è il fatto che “Benny” si trova completamente solo mentre la sua specie è estremamente sociale, pertanto è verosimile che stia soffrendo molto il suo isolamento. Deve essersi perduto, probabilmente a causa di una violenta tempesta o di un altro evento nefasto o per lo scioglimento dei ghiacci artici, il riscaldamento globale, infatti, sta modificando le zone dove i beluga e le altre specie autoctone possono trovare il cibo, così molti si allontanano dal proprio ambiente, finendo per perdersi e restare isolati. Un altro pericolo per Benny è rappresentato dal fatto che il Tamigi è pieno di sacchi di spazzatura, che il cetaceo potrebbe scambiare per prede, rischiando così di rimanere soffocato o morire tra atroci sofferenze a causa di un blocco del tratto digerente. Il rumore delle imbarcazioni potrebbe inoltre impedirgli di utilizzare al meglio il suo sonar naturale, rendendogli difficile la cattura dei pesci e soprattutto l’orientamento verso l’estuario del fiume, per riguadagnare il mare aperto. Fortunatamente è stato già visto nutrirsi e non presenta segni comportamentali preoccupanti, benché gli esperti di ORCA e di altre organizzazioni specializzate nella tutela dei mammiferi marini lo stiano monitorando attentamente per intervenire in caso di necessità.


25 settembre

PRIMO PIANO

Pisa: incendio sul monte Serra.

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Dalle 22:00 di lunedì la montagna più alta che divide le province di Pisa e di Lucca è in fiamme. L’incendio boschivo, alimentato da un forte vento con raffiche sino a 80 km. orari, ha divorato alberi secolari e macchia mediterranea; almeno settecento le persone sfollate nella notte tra i Comuni di Calci e Vicopisano. Le fiamme, al momento, hanno risparmiato la Certosa di Calci, straordinario monumento del Seicento e del Settecento, che custodisce anche il museo di storia naturale dell’Università di Pisa ed è circondato da campi completamente bruciati. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco del comando di Pisa e varie squadre di volontari, con due Canadair in azione, mentre quattro elicotteri non sono potuti decollare a causa delle raffiche di vento. Sono arrivate squadre dei vigili del fuoco anche dall’Emilia Romagna, mentre dall’aeroporto di Napoli Capodichino è partito un elicottero S64 in dotazione alla Forestale, il mezzo aereo con la massima capienza d’acqua. Per facilitare le operazioni di spegnimento è stato deciso di chiudere l’aeroporto Galileo Galilei di Pisa, almeno fino alle 19.40. Il governatore della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha dichiarato lo stato d’emergenza. Intanto la procura ha deciso di aprire un fascicolo che configuri l’ipotesi di reato di incendio doloso. “Lo abbiamo fatto sulla base di alcuni indizi che ora dovranno essere confermati dal lavoro investigativo – fa sapere il procuratore di Pisa, Alessandro Crini – Primo fra tutti il fatto che le fiamme si siano sviluppate di notte e in una serata sostanzialmente molto fresca.”


24 settembre

PRIMO PIANO

USA: giudice blocca la caccia ai grizzly di Yellowstone.

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Per la prima volta dal 1991 un giudice federale ha bloccato la caccia ai grizzly prevista sulle Montagne Rocciose, ripristinando di fatto la protezione per gli orsi bruni americani. È la terza volta che il giudice Dana Christensen dispone il rinvio. Wyoming e Idaho erano sul punto di permettere ai cacciatori di uccidere fino a 22 orsi nel corso della stagione, che è iniziata il 1 settembre. Lo scorso giugno, infatti, il Servizio Pesca e fauna selvatica degli Stati Uniti – su indicazione della Casa Bianca – aveva deciso di eliminare questi animali dalla lista delle specie da salvaguardare, sulla base di alcune recenti statistiche, secondo cui il numero degli orsi era cresciuto in modo sufficiente negli ultimi decenni. Al centro del provvedimento, che aveva scatenato le proteste degli animalisti, i grizzly degli Stati del Wyoming, dell’Idaho e del Montana. I grizzly sono anche al centro di un divario culturale tra i nativi americani, che venerano gli orsi, e gli allevatori che li considerano una minaccia per il bestiame e un ostacolo per le attività minerarie e di disboscamento. Il giudice federale, nelle motivazioni, ha sottolineato che la decisione non riguarda “l’etica della caccia”, ma la “necessità” di proteggere la specie animale, ricordando che in passato erano 50.000 gli orsi nella regione. Gli orsi grizzly di Yellowstone, una delle più note e diffuse sottospecie dell’orso bruno, dal manto brizzolato, restano così nella lista delle specie protette.

DALLA STORIA

Elvis Presley. Il Re del Rock’n’roll.

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Il 24 settembre 1957 esce “Jailhouse Rock”, una delle canzoni che, con il suo ritmo rocambolesco e sovversivo, ha contribuito a cambiare il mondo. Tuttora popolarissima “Jailhouse Rock”, scritta dal mitico duo Jerry Leiber (liricista) e Mike Stoller (compositore), autori di tantissime hits negli anni Cinquanta e Sessanta, veniva registrata da Elvis Presley il 30 aprile 1957 ad Hollywood. Il brano fu pubblicato come singolo il successivo 24 settembre avente “Treat Me Nice” sul lato B e … fu il delirio, tanto che se ne fece pure un film. Il disco raggiunse la vetta delle classifiche in Usa per moltissime settimane così come nel Regno Unito e ancora, nel 1974 in Olanda, stava in quarta posizione vincendo due dischi platino. Elvis Presley, immortale incarnazione del rock, questa musica l’aveva assimilata fin da piccolo dalla numerosa popolazione nera presente nello Stato del Mississippi dove era nato, a Tupelo, nel 1935. Il Mississippi, richiama infallibilmente, in alcuni luoghi, lungo le sponde e nel delta a un territorio magico, come stare nel cuore della musica o alle sue origini, nell’anima del mondo tra sonorità spirituali e ritmi tribali vertiginosi. Se New Orleans, popolata con la grande varietà di etnie che l’hanno abitata: spagnoli, inglesi, francesi, italiani, neri e creoli significa jazz, una delle più potenti forme di espressione artistica del Novecento nata grazie a questo straordinario mix di tradizioni, religioni e lingue, dire Memphis è come dire Elvis Presley e la sua musica. Come testimoniano Lodetti e Dickson, il destino di Elvis è delimitato dalle sponde di questo fiume, placido e immenso, che sembra esistere per raccontare l’America e i suoi eroi come l’ostile isolamento di Elvis nella comunità di Memphis, l’esordio alla “Sun Records”, il successo travolgente. E poi il ranch di Horn Lake sul Mississippi, di cui si innamora la fidanzata Priscilla. Le spese folli di ristrutturazione, quasi un milione di dollari negli anni Sessanta. E l’assedio dei fan, fino al punto da rendergli la vita impossibile, l’inesorabile declino di un uomo ingrassato in modo abnorme, trasformato in mito, infine, all’età di soli 42 anni, chiuso in casa, il re del ock’ n’ roll muore solo. Con “Elvis Presley Story”, di Antonio Lodetti e Danny Dickson, Kaos Edizioni, entriamo in uno spaccato di quella lontana America degli anni Cinquanta: “Per Elvis il trasferimento da Tupelo alle case popolari di Memphis risultò profondamente traumatico, introverso, ipersensibile, e con non pochi problemi di adattamento e di socializzazione. Catapultato improvvisamente in un ambiente freddo e ostile, i primi giorni fuggiva addirittura dalla nuova e anonima scuola, popolata da 1.600 sconosciuti, nella quale avrebbe dovuto diplomarsi in applicazioni tecniche. Inoltre, come spesso avviene nelle vicende di Elvis, ciò che da adolescente gli aveva procurato i maggiori traumi e problemi, si rivelò in seguito il tocco che lo avrebbe reso un idolo: l’immagine, o meglio il “look”. Elvis, in un’America di “teste rapate”, di divise collegiali e di “sock hops” (le famose calze che distinguevano gli studenti dei college più esclusivi), si aggirava con una pettinatura tanto incredibile quanto provocatoria: ciuffo enorme molto sporgente e rigirato all’indietro. Basette lunghe fin sotto le orecchie, e chili di “Royal Crown Pomade”, tenace brillantina per rendere più compatta e scura possibile la sua chiara chioma. (Questa sua fissazione per l’acconciatura, i biografi riportano che Elvis provò decine di tagli prima di decidersi per quello che lo renderà famoso, ha scatenato una ridda di congetture che faranno la felicità degli amanti dell’aneddotica. Tre sono le ipotesi, diciamo così, accreditate: curava maniacalmente i capelli per semplice edonismo; lo faceva per apparire più adulto; voleva assomigliare il più possibile a un camionista, a quei tempi massimo simbolo di virilità e di “machismo”). Il tocco finale era rappresentato dall’abbigliamento: pantaloni e giacche abbinati in modo assurdo ed eccentrico; camicie e giubbotti coloratissimi (chiaramente mutuati dall’abbigliamento tipico dei “gospels groups”) e pieni di lustrini e di adesivi comperati nei negozi più strampalati e sordidi di Beale Street. A causa di questa sua evidente “diversità”, il giovane Presley subì angherie di ogni sorta. Ufficialmente a causa della sua gracilità, ma essenzialmente a causa del suo aspetto e per i capelli lunghi, fu perfino allontanato dalla “Humes High School Tigers”, la squadra di football della scuola. Curioso è l’episodio relativo alla riunione dei presidi di liceo, “Annual Secundary Schools Principals”, i quali, ammonendo contro i pericoli della nuova moda e delle sue espressioni, dichiararono tra l’altro: “L’imitazione scimmiesca di simili modelli non può portare nulla di buono all’educazione di questi giovani”. E Orren T. Freeman di Wichita Falls, Texas: “Non tollereremo blue jeans o tagli di capelli “ducktail” o cose alla Presley nei nostri party dances” (dal “New York Times”). Oltre all’aspetto esteriore, ciò che l’America degli anni Cinquanta non riusciva a comprendere e ad accettare di questo atipico personaggio, era la sua “negritudine”, il suo desiderio di isolarsi per identificarsi e trarre linfa vitale dall’immagine di un “essere inferiore”, perdente, emarginato. Per spiegare questo punto è necessario soffermarsi sulle tre costanti caratteriologiche fondamentali e potenzialmente innate di Elvis:

1) L’esasperato nichilismo, caratteristica soggettiva portante della fenomelogia punk; egli percorre volutamente e disperatamente una strada (seppur illuminata dalle gratificazioni di una fama e di un successo senza precedenti e senza eguali), segnata dal disprezzo per le regole e i valori etici ed estetici, e da un più o meno conscio autocompiacimento nella dissacrazione e nell’autodistruzione (che lo porterà alla morte).

2) Lo strenuo anticonformismo: Elvis è un “anti” per natura, non per scelta ma per necessità. Il suo atteggiamento e il suo pensiero fin da adolescente erano talmente estranei e lontani dai comuni parametri da condurlo a una sorta di spontaneo anticonformismo e anticonvezionalità. Probabilmente Elvis non si rese subito conto appieno di questa caratteristica soggettiva, ma paradossalmente furono lo stesso establishment e la società americana a rinfacciarglielo prepotentemente e a renderlo consapevole nel tentativo di colpevolizzarlo.

3) Questa consapevolizzazione conduce direttamente al viscerale ribellismo di Elvis. Quello mutuato dai suoi idoli Tony Curtis, Marlon Brando, James Dean, e che ha spinto Peter Guralnick ad affermare che Elvis ha assorbito l’ironia del primo, la sofferta e dura espressione del secondo, e la vulnerabilità del terzo. In effetti ciò che fece di Elvis un vero ribelle fu la tenacia e la perseveranza nel non cedere a compromessi e a ricatti, in un “modus vivendi” e in una società nella quale uno “status” e un ruolo a lui adatto e adattabile non era neppure mai stato configurato. La vera “ribellione” di Elvis fu questa: egli dovette cercarsi e crearsi un ruolo!

Questa coraggiosa e (obbligata) scelta, estrinsecata da atteggiamenti estremistici e sprezzanti impreziosita dai sanguigni e pulsanti ritmi del rock’n’roll, fu indice di reazioni contrastanti e spesso antipodiche. Da un lato i giovani che lo idolatravano e che identificavano in lui, nelle sue movenze, nel suo messaggio e nella sua musica il primo embrione di una cultura e di un modo moderno, indipendente, autarchico e romantico; dall’altro i timori, l’allarmismo, l’indignazione e la campagna ostruzionistica, osteggiatrice e censoria degli adulti cresceva proporzionalmente all’entusiasmo e al grado di coinvolgimento dei fan. Più si assisteva a scene di isterismo collettivo e di fanatismo per Presley, più i giornali si mobilitavano in massa. Addirittura il “Catholic Sun”, in seguito a un’apparizione di Elvis all’“Ed Sullivan Show”, pubblicò un violento articolo di protesta nel quale tra l’altro si diceva: “Presley e i suoi ritmi “voodoo” di frustrazione e di sfida sono purtroppo assurti a simbolo del nostro Paese … Signor Sullivan, questo non ce l’aspettavamo, gli spettatori cattolici sono infuriati!”. Da ricordare come durante l’apparizione al “Dorsey Show” dell’inverno del ’56, mentre eseguiva “Heartbreak Hotel” agitandosi come solo lui sapeva fare, pose le basi per la presa di coscienza che innescò un intero conflitto generazionale. E da quel giorno più di un sociologo e alcuni capi del “Movement”, da Tom Hayden ad Aldous Huxley, riconobbero in Elvis il padre spirituale della contestazione giovanile; come scrisse Jerry Rubin: “Dal suo bacino roteante nacque la Nuova Sinistra. Il rock’n’roll segnò l’inizio della rivoluzione, e fu Elvis a spazzare via Eisenhower e il suo tempo”.

(La famosa scena del film”Jailhouse Rock”)

Mary Titton


23 settembre

PRIMO PIANO

Il viaggio di papa Francesco nelle repubbliche baltiche.

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Un viaggio per manifestare la propria “vicinanza alle Chiese perseguitate” e all’insegna dell’ecumenismo. È questo lo scopo del viaggio che papa Francesco compie da sabato 22 a martedì 25 settembre in Lituania, Lettonia ed Estonia, nel centenario dell’indipendenza dei tre Paesi, raggiunta nel 1918, persa con l’occupazione nazista e l’annessione all’Unione sovietica, riconquistata nel 1989. Tre Paesi quelli baltici vicini, ma diversi tra loro: la Lituania è infatti cattolica all’80%; la Lettonia è in maggioranza luterana con il 20% di fedeli di Roma e il 15% di ortodossi; l’Estonia ha solo 6.000 cattolici, mentre il 75% della popolazione si definisce senza religione e il resto di divide tra luterani (13%) e ortodossi (12%, suddivisi ta loro in due obbedienze: moscovita e constantinopolitana). Durante il viaggio in Lituania, il papa ha visitato le celle di tortura del ghetto di Vilnius, utilizzate prima dalla Gestapo e poi dal Kgb, due piccoli stanzini di 60 centimetri quadrati l’uno, dove sono state rinchiuse e torturate, dal 1944 agli anni ’60, tante vittime innocenti prima dei nazisti e poi degli occupatori sovietici. Più di una volta il Pontefice è apparso sul punto di piangere, in particolare nella stanza delle esecuzioni, dove sono stati uccisi più di mille prigionieri dei due regimi sanguinari che hanno oppresso i paesi baltici. Queste 20 celle, che oggi costituiscono il Museo delle Vittime del Ghetto di Vilnius, per il Papa sono state il Calvario “del dolore e dell’amarezza, della desolazione e dell’impotenza, della crudeltà e del non senso che ha vissuto questo popolo lituano di fronte all’ambizione sfrenata che indurisce e acceca il cuore”. “In questo luogo della memoria – ha scandito Francesco – ti imploriamo, Signore, che il tuo grido ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’ ci mantenga svegli. Che il tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito. Che nel tuo grido e nella vita dei nostri padri che tanto hanno sofferto possiamo trovare il coraggio di impegnarci con determinazione nel presente e nel futuro; che quel grido sia stimolo per non adeguarci alle mode del momento, agli slogan semplificatori, e ad ogni tentativo di ridurre e togliere a qualsiasi persona la dignità di cui Tu l’hai rivestita.”


21 settembre

PRIMO PIANO

Il pianeta di Spock esiste davvero.

Leonard_Nimoy_Spock_1966(Leonard Nimoy sul set di Star Trek, 1966)

Vulcano, il pianeta di Spock, l’ufficiale scientifico della USS Enterprise, la nave stellare della saga di Star Trek esiste davvero. Descritto sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (Oxford University), è stato scoperto dai ricercatori coordinati dall’astronomo Jian Ge dell’Università della Florida, nell’ambito del programma Dharma Planet Survey, per la ricerca dei pianeti esterni al Sistema Solare. È proprio dove la saga di Star Trek lo aveva immaginato: ruota intorno alla stella 40 Eridani A, che è distante 16 anni luce dalla Terra, ha una massa otto volte superiore a quella della Terra e potrebbe sostenere forme di vita, perché si trova nella zona abitabile del sistema, dove le temperature consentono la presenza di acqua liquida. La sua stella è luminosa e abbastanza vicina da poter essere osservata anche a occhio nudo, quando il cielo è molto buio. L’astronomo Matthew Muterspaugh della Tenessee State University ha spiegato: “L’HD 26965 A, di colore arancione, è una stella leggermente più fresca e leggermente meno massiccia del nostro Sole, ha all’incirca la sua stessa età, 4,5 miliardi di anni (abbastanza perché su un suo pianeta si potesse sviluppare una civiltà evoluta) e ha un ciclo magnetico di 10,1 anni. Pertanto HD 26965 A potrebbe essere una stella ospite ideale per una civiltà avanzata.” Nella saga di Star Trek il pianeta dei Vulcaniani è stato immaginato proprio intorno alla stella 40 Eridani A, costellazione meridionale dell’Eridano, coetanea del Sole: ha infatti circa 4 miliardi di anni, e “un suo pianeta avrebbe avuto il tempo di evolvere un essere come Spock” scrisse nel 1991 l’inventore della serie, Gene Roddenberry, in una lettera alla rivista Sky and Telescope. Spock è il famoso vulcaniano dalle orecchie a punta, per metà umano, protagonista della serie, uno dei più famosi personaggi della fantascienza e della televisione. Le “immaginazioni” di Roddenberry sembrano avere qualche possibilià di avverarsi.

 


20 settembre

PRIMO PIANO

Inge Feltrinelli: “Ho avuto una vita così bella.”

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Così si esprimeva in un’ intervista del 2013 Inge Feltrinelli, ultima grande regina dell’editoria internazionale, moglie di Giangiacomo, fondatore nel 1954 dell’omonima casa editrice, spentasi questa notte a Milano, all’età di 87 anni, dopo una vita straordinaria in cui c’è la storia del Novecento italiano ed europeo. Nata il 24 novembre del 1930, a Essen, in Germania, da un padre di famiglia ebrea, direttore di una grande industria tessile, Inge, il cui cognome era Schönthal, quando nel 1958 incontra ad Amburgo Giangiacomo Feltrinelli, s’è già fatta conoscere per aver fotografato Picasso, Hemingway, Gary Cooper e Greta Garbo. Feltrinelli, editore atipico, comunista e miliardario, famoso nel mondo per aver pubblicato il “Dottor Zivago”, Inge, fotoreporter “vivace, allegra, incredibilmente curiosa e dotata di una buona dose di faccia tosta”, s’incontrano la sera del 14 ottobre 1958, ad Amburgo, ad un party negli uffici dell’editore Rowohlt e si sposano nel 1960, per Giangiacomo è il terzo matrimonio. Viaggiano ovunque, il mondo editoriale internazionale è ai loro piedi, specie negli Stati Uniti, dove Feltrinelli è un giovane mito vivente per gli intellettuali progressisti, ma un comunista sgradito all’establishment, nel 1962 nasce Carlo, destinato a succedere al padre; due anni dopo, Giangiacomo e Inge sono all’Avana per lavorare con Fidel Castro alla sua biografia, ospiti negli appartamenti privati di Fidel. Una storia d’amore e di passioni intellettuali, conclusasi tragicamente il 14 marzo 1972, quando Feltrinelli fu trovato carbonizzato da un’esplosione ai piedi di un traliccio dell’alta tensione, nelle campagne di Segrate. Da quel giorno Inge ha guidato la casa editrice verso un presente fatto di libri e autori, ma anche di distribuzione, che rende la Feltrinelli un colosso editoriale, per poi consegnarla al figlio Carlo con un patrimonio culturale invidiabile. È stata amica personale di Doris Lessing, che ha fatto conoscere in Italia; di Gunther Grass, del quale la casa editrice, di cui è stata presidente, pubblicò, per prima, nel 1962, “Il Tamburo di latta” e di Nadine Gordimer, che la invitò quando vinse il Nobel nel 1991. Inge Schoenthal Feltrinelli, naturalizzata italiana, come ha detto Amos Oz, è stata “un vero vulcano di idee, curiosità, gentilezza”, ha fatto conoscere molti autori stranieri in Italia e portato nel mondo la nostra letteratura e, contando sulla propria lungimiranza visionaria, ha anche puntato sulla distribuzione capillare delle librerie Feltrinelli, arrivate oggi a 120. Era solita dire: “I libri sono tutto, i libri sono la vita.” Una donna unica per fascino, simpatia, forza di carattere e allegria trascinante!

DALLA STORIA

“Il Piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry.

image002(“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi se ne ricordano). Antoine de Saint-Exupéry)

Fra le opere letterarie più celebri del XX secolo e tra le più vendute della storia si trova un racconto per bambini: “Il Piccolo Principe”, di Antoine de Saint-Exupéry. Questo libro per bambini che ha conquistato allo stesso modo il cuore degli adulti rimane, più di settant’anni dopo la sua prima pubblicazione sia in francese sia in inglese, un bestseller internazionale. Da allora è stato tradotto in oltre 250 lingue e dialetti, e si stima sia stato letto da quattrocento milioni di persone in tutto il mondo. La storia è una parabola che mette in guardia dalla chiusura mentale e insegna l’importanza di esplorare per crescere spiritualmente. Il racconto è molto poetico e affronta temi come il senso della vita e il significato dell’amore e dell’amicizia. Ciascun capitolo del libro narra di un incontro che il protagonista fa con diversi personaggi e su diversi pianeti e ognuno di questi bizzarri personaggi lascia il piccolo principe stupito e sconcertato dalla stranezza dei “grandi” (“I grandi non capiscono mai niente da soli, ed è faticoso, per i bambini, star sempre lì a dar loro delle spiegazioni”). Ad ogni modo, ciascuno di questi incontri può essere interpretato come un’allegoria o uno stereotipo della società moderna e contemporanea. In un certo senso, costituisce una sorta di educazione sentimentale e le riflessioni sulla natura umana sono perciò molto frequenti. Una delle frasi più conosciute del “Piccolo Principe”: “L’essenziale è invisibile agli occhi”, suggerisce, per esempio, che la cosa più importante sono i sentimenti. La storia è stata anche interpretata come una fiaba sull’isolamento e il disorientamento prodotti dalla guerra. “Saint-Exupéry era cresciuto in un castello francese dove ebbe un’infanzia serena. Il primo volo all’età di dodici anni ebbe su di lui un impatto duraturo e nell’aprile 1921, durante il servizio di leva, prese il brevetto di pilota. In seguito, mentre lavorava per il servizio aereopostale in Nordafrica, scrisse il romanzo “Corriere del sud”, pubblicato nel 1929, il primo di molti libri basati sulle sue imprese di aviatore. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’aristocratico aviatore volò per l’aviazione francese fino a quando, nel 1939, l’occupazione tedesca della Francia non lo costrinse a fuggire negli Stati Uniti con la moglie Consuelo Gomez Carillo. Si stabilì a New York, dove scrisse e pubblicò “Il Piccolo Principe”, ma continuava a pensare alla guerra in Europa, e nel 1943 si arruolò nelle Forze della Francia libera. Fu dichiarato disperso in azione nel luglio 1944, durante una missione di ricognizione sulla Francia. I temi della perdita, della solitudine e della nostalgia di casa erano vicini al cuore dell’autore. Nel libro, l’episodio dell’aereo che precipita nel deserto era ispirato a eventi reali: nel 1935 l’apparecchio di Saint-Exupéry cadde nel Sahara, dove lui e il suo navigatore rimasero bloccati per quattro giorni rischiando di morire. “Il Piccolo Principe” fu pubblicato nell’aprile 1943, ma all’inizio non era disponibile in Francia (il governo di Vichy della Francia occupata dai tedeschi aveva bandito le opere dello scrittore dopo la sua fuga dal Paese). Il libro uscì solo dopo la liberazione del 1944 e dopo la morte dell’autore”. (Da “I libri che hanno cambiato la storia”, ed. Gribaudo). Da subito fu eletto il più grande libro francese. Molto del fascino del libro è dovuto agli acquerelli di Saint- Exupéry, che illustrano il libro ricreando scene specifiche; ma servono anche al narratore per mettere alla prova i personaggi che incontra e per riscoprire la propria infanzia. Il manoscritto di Saint-Exupéry include diversi acquerelli che non comparvero nella prima edizione. La bozza manoscritta, l’unica copia completa scritta a mano di cui si conosca l’esistenza, è conservata al Morgan Library & Museum di Manhattan.

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Il punto di vista di un bambino.

Saint-Exupéry impegna immediatamente il lettore con le sue illustrazioni. Quello che qui agli adulti sembra un cappello, è in realtà un boa constrictor che ha mangiato un elefante.

Il diverso modo in cui adulti e bambini vedono il mondo è un tema ricorrente nel libro. 

Mary Titton


19 settembre

PRIMO PIANO

Ore di angoscia per “Padre Maccalli” rapito in Niger.

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Secondo il racconto di Padre Luigino Frattin, responsabile provinciale della Società Missione Africane, il sequestro di “Padre Maccalli” è stato davvero “lampo”. Il missionario ha spiegato al giornale Avvenire: “Padre Pierluigi Maccalli è stato rapito a Gourmancè, in Niger, durante la notte da un gruppo di persone che ha fatto irruzione nella sua abitazione ed è stato portato via su una moto, hanno preso anche il suo computer, il cellulare e il computer delle suore”. Padre Pierluigi Maccalli, originario della Diocesi di Crema, rapito nella notte fra lunedì 17 settembre e martedì 18, era particolarmente attento all’inculturazione e nel recente passato aveva organizzato incontri di sensibilizzazione riguardo alla pratica delle mutilazioni genitali delle giovani donne africane; proprio questo suo impegno potrebbe essere un movente del rapimento. Secondo quanto scritto da Il Nuovo Torrazzo, settimanale della Diocesi di Crema di cui Padre Maccalli è originario, il prete italiano rapito in Niger è ancora vivo. “Abbiamo appena ricevuto notizia da padre Andrea Mandonico, della Società delle missioni africane, che padre Gigi Maccalli è vivo. Ieri sera gli ha telefonato il vescovo di Niamey per riferire che la polizia nigerina ha assicurato appunto che padre Gigi è vivo e sperano di iniziare le trattative appena i rapitori si faranno vivi”. Questo quanto riportato dal settimanale, poi ripreso da AgenSir. Questa mattina a Fides padre Mauro Armanino, confratello di Don Pigi, spiegava che i rapitori sono di etnia Peuls, popolazione nomade che, distribuita sull’intera fascia saheliana che va dal Mali fino all’Etiopia, vive di pastorizia e negli ultimi anni si è radicalizzata compiendo rapimenti anche di altri occidentali. L’Unità di crisi della Farnesina sta operando per la soluzione del caso, una nota diffusa dal Ministero degli Affari Esteri chiarisce come questa sia in costante contatto con la famiglia del sacerdote per informarla in merito alle evoluzioni riguardanti il sacerdote rapito. Si specifica che: “L’Ambasciata d’Italia a Niamey ha formalmente chiesto alle Autorità locali di dare assoluta priorità alla rapida soluzione della vicenda e in ogni caso di evitare iniziative che possano mettere a rischio quella che è l’incolumità di Padre Pierluigi Maccalli”. Ovviamente c’è grande preoccupazione per il missioonario che in Niger pare sia stato rapito proprio dagli jihadisti con lo scopo di chiedere un riscatto.

DALLA STORIA

Italo Calvino.

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“Nella notte fra il 18 e il 19 settembre 1985 moriva, in seguito a emorragia cerebrale, Italo Calvino. Era nato 61 anni prima, il 15 ottobre 1923 a Santiago de las Vegas, una piccola città presso L’Avana. Il padre Mario, era un agronomo di vecchia famiglia sanremese che, dopo aver trascorso una ventina d’anni in Messico, si trovava a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria. La madre, Eva (Evelina) Mameli, sassarese d’origine, era laureata in scienze naturali e lavorava come assistente di botanica all’Università di Pavia. “Mia madre era una donna molto severa, austera, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose. Anche mio padre era molto austero e burbero ma la sua severità era più rumorosa, collerica, intermittente. Mio padre come personaggio narrativo viene meglio, sia come vecchio ligure molto radicato nel suo paesaggio, sia come uomo che aveva girato il mondo e che aveva vissuto la rivoluzione messicana al tempo di Pancho Villa. Erano due personalità molto forti e caratterizzate … L’unico modo per un figlio per non essere schiacciato … era opporre un sistema di difese. Il che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto”. Nel 1925 la famiglia Calvino fa ritorno in Italia. Il rientro in patria era stato programmato da tempo, e rinviato a causa dell’arrivo del primogenito: il quale, per parte sua, non serbando del luogo di nascita che un mero e un po’ ingombrante dato anagrafico, si dirà sempre ligure o, più precisamente, sanremese. “Sono cresciuto in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto dell’Italia, ai tempi in cui ero bambino: San Remo, a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l’Italia d’allora … Scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori … Mio padre, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista riformista …  mia madre …, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel 1915 ma con una tenace fede pacifista”. (da “Perché leggere i classici”, ed. Mondadori, Italo Calvino).

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Calvino esordì con “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), romanzo seguito da grandi successi internazionali di narrativa e saggistica tra i quali “Il visconte dimezzato” (1952), “Fiabe italiane” (1956), “il barone rampante” (1957), “I racconti (1958), “Il cavaliere inesistente (1959), “Marcovaldo (1963), “Le Cosmicomiche (1965), “Le città invisibili” (1972), “Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), “Palomar” (1983) e le postume “Lezioni americane” e altri ancora.

image003(La trilogia nelle prime edizioni)

Pietro Citati, in “Ritratti di donne”, ed.  Rizzoli, anch’egli scrittore raffinatissimo, ricorda l’amico attraverso un ritratto che ripercorre le esperienze condivise durante l’adolescente, l’amicizia consolidata dalle affinità e dallo stesso amore per la letteratura, negli anni della maturità fino agli ultimi giorni prima della morte di Calvino. La narrazione di Citati coglie nell’essenza la straordinaria figura di uno degli scrittori italiani più importanti del Novecento, perciò è importante riportarne, almeno una parte, se si vuole capire in modo approfondito chi era Calvino. “Italo Calvino ed io avevamo lo stesso paesaggio: la Riviera di ponente, presso la Francia. Avevamo in comune scogliere a picco sul mare, colline di pini e di ulivi, macchie invernali di mimose, le primizie degli orti e le coltivazioni dei fiori, fangulle e granchi, la torta pasqualina, e poi, appena dietro gli ulivi, i gerbidi e il misterioso Appennino, che per me apparteneva ad un altro mondo, dove non osavo penetrare. Appena superate le porte del paese, c’erano le fasce. I contadini (capitani e marinai a riposo, vecchi nostromi, ma anche avvocati rimpatriati dall’Argentina) dividevano le colline pietrose e aridissime in piccole strisce di terra, costruivano muretti a secco, derivavano l’acqua da chissà quale fonte, e poi coltivavano per il loro piacere qualche pianta di pomodoro, di fagiolini e di zucca. Tutto era piccolo, limitato, ricavato dal minimo, con un ingegno reso sottile dalla mancanza di risorse.  … Non si può capire Calvino senza questo paesaggio mentale: senza questo amore per le piccole forme. Erano la sua vera ricchezza. Via via che passavano gli anni, amava sempre più il racconto, il poema in prosa, la parabola morale, la storia metafisica, il capriccio, la miniatura, l’ex voto. Forse proprio queste “piccole forme”, da Petrarca alle Operette morali, costituiscono l’essenza del genio italiano: nitide, concentrate, astratte, realizzate col massimo risparmio di mezzi e una estrema ricchezza di suggestioni. Così, non si scrivono né “Guerra e pace” né “Delitto e castigo”. Ma non è sempre necessario scrivere “Guerra e pace”. Come i grandi poeti persiani, che costruivano poemi immensi incastrando storielle quasi invisibili, Calvino aveva appreso l’arte dell’intreccio e del riflesso; e queste “piccole forme” si illuminavano a vicenda, suggerendo allusioni e prospettive e architetture labili e infinite. Non so cosa avrebbe scritto in quel futuro che non c’è stato: ma ho sempre immaginato che con le sue mani duttili e ingegnose, utilizzando le sue pietruzze colorate, avrebbe composto cosmogonie e cosmologie. Quando lo conobbi aveva ventiquattro anni, e ogni volta che ripenso a lui allora, sorrido tra me di divertimento e di tenerezza. Era incantevole. Attraversava le strade della grigia Torino, vestito come un emigrato da Haiti o da Santo Domingo, sandali e maglioni colorati nel cuore dell’autunno o del primo inverno. Era timido come un ragazzo di provincia trasportato nella metropoli: aveva il complesso d’inferiorità di una famiglia stravagante; e, ogni tanto, un roteare d’occhi, un sussulto fintamente retorico nella voce, un movimento della mano ricordavano che egli non apparteneva alla secca Liguria di Montale, ma a quella, mitomane, esuberante, chiacchierona e massonica, dell’altra Riviera. Quello che affascinava, in lui, era soprattutto la rapidità e la leggerezza. Aveva uno sguardo freschissimo e precisissimo: una mente agile, innamorata della linea retta; una capacità elegante di stilizzazione. Vivendo in quella città che immaginava di essere stoica e geometrica, si era costruito una corazza stoica; e dietro questa corazza, che lustrava fino a farla splendere, guardava lo spettacolo del mondo sempre di sbieco o dall’alto di uno degli alberi della ronzante e frondosa foresta, che una volta copriva l’Europa. Negli anni in cui lo incontrai, Calvino conosceva pochi libri. Allora si cominciava a leggere Musil, Nabokov, Dylan Thomas, Gadda, Pasternak: l’ultima grande fioritura della letteratura d’Occidente. A Calvino non piaceva Musil, non piaceva Nabokov, né Gadda, né “Il dottor Zivago” né “Sotto il bosco di latte”. … Cosa accadde, poi, non saprei raccontare con esattezza. In qualche anno l’incantevole scrittore minore che aveva immaginato “I nostri antenati” diventò il maggiore narratore italiano della fine del ventesimo secolo. Fu una lunga metamorfosi, che si svolse quasi al buio, mentre tutti credevano che accadesse all’aria aperta, negli immaginari laboratori della letteratura sperimentale. Le sue letture mutarono. Ora leggeva Musil e Valéry: proprio i libri che da giovane detestava; e Petrarca, Kafka, Proust, Montale accanto ai quali un tempo era passato distratto e sovrappensiero. Tutto ciò che leggeva, anche le cose apparentemente più estranee, entrava nella circolazione del suo sangue, diventando carne e vita. Non era più altro che letteratura: un uomo-letteratura, come si può essere un uomo di fede o un uomo d’affari; ma la stessa naturalezza con la quale gli alti pini del suo giardino suggevano nutrimenti dal terreno e allungavano i rami sopra di lui. Il suo paesaggio cambiò. Se aveva vissuto a parigi vome un estrane e a Roma come ospite, ora la sua vera casa era la pineta di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. In qualche modo, ripeteva il paesaggio ligure. Anche qui, tutto era limitato: una striscia di sabbia chiusa tra due promontori, una pineta, una macchia, un piccolo giardino dove tutto sembrava miniaturizzato. Scriveva nel cuore della casa, in alto, in uno studiolo raggiunto da una scala pericolosissima, come in un pollaio aereo o in una colombaia. Sotto i suoi piedi, la moglie parlava con le amiche o con la domestica, entravano i fornitori, arrivavano gli amici; e lui continuava a scrivere, immerso nel rumore dell’esistenza, vegliando sulla casa come una cicogna. Non diceva mai di no alle cose. Ma si era ormai allontanato profondamente dalla realtà, chiuso nel suo mondo di ombre leggere. Sulle soglie tra lui e la vita, tra lui e gli altri, aveva disposto la moglie, che doveva riferirgli tutto ….Lassù in alto, come un’ape riceveva miele che la moglie aveva raccolto, e lo depositava nella delicatissima arnia della sua mente. La sua mente si trasformò. Diventò la più complicata, la più avvolgente, la più sinuosa, la più labirintica mente che uno scrittore italiano moderno abbia posseduto: simile a quella di Alessandro Manzoni. Scrivere, per lui, significava mettere in movimento delle idee, perché, come diceva Proust citando Leonardo, la letteratura è una cosa mentale. Non vi era nulla di più inquietante: cadere in una idea era come piombare in un abisso, in un maelstrom infinito, dove ogni volta rischiava di essere travolto. Non aveva nessuna certezza, soltanto ipotesi alla ricerca del proprio significato: ipotesi che, svolgendosi, si insinuavano in altre ipotesi, in nuove congetture, in ulteriori possibilità, che spesso concludevano nell’impossibile. Se, una volta, aveva amato l’ostinata caparbietà della linea retta, ora preferiva gli intrecci, le linee tortuose e ramificate. Se, una volta il ritmo era velocissimo e avventuroso, ora il suo tempo era lento, cauto, meticoloso, come si dicesse, poi cancellasse, aggiungesse, ritoccasse, si contraddicesse; e ogni tema si sviluppava in un corteo di variazioni, echeggiando con risonanze senza fine. Come gli sembravano semplici, i motivi intellettuali della sua giovinezza, quando credeva nel semplice gioco delle opposizioni! Ora i suoi motivi erano quelli del doppio infinito, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, che corrode ogni pensiero: quello del necessario intreccio tra ogni affermazione e ogni negazione: quello dell’indissolubile rapporto tra tutte le cose e del rapporto tra questi rapporti; e del lungo riflesso, dell’eco complicata, che tutte le nostre parole e azioni risvegliano. Le conclusioni non erano consolanti. Calvino si sentiva sull’orlo dell’illusione, della vertigine, dell’impossibilità di parlare e di scrivere. Non era mai stato uno scrittore tragico; e adesso scopriva che la vera tragedia della letteratura non sta nelle passioni ma nelle operazioni della mente. Per quanto sia tragica la morte di Anna Karenina sotto il treno della stazione di Obiralovka, non è nulla di fronte alla tragedia del “riflesso” e del doppio infinito. Come ogni buon artigiano, aveva sempre avuto l’orgoglio di conoscere i propri motivi e procedimenti letterari. Ma proprio, mentre scriveva cose mentali, non sapeva più nulla. Le idee lo portavano in luoghi che egli ignorava completamente, e che qualche volta gli facevano paura. Nessuno era più cieco, per sua fortuna, di quest’uomo così perspicace. Poi sulla pineta scesero, troppo rapidamente, gli ultimi anni. … L’ultima estate fu difficile. Scriveva le sue “Lezioni americane”: un libro bellissimo, l’Ars poetica della nostra fine di secolo, dove la letteratura antica e moderna si riflettono in un limpido specchio.

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… Poi non ci fu più niente. Ci fu la caduta al suolo, la corsa dell’autombulanza fino a Siena, l’orribile ospedale dove avevo conosciuto altre morti, i visi stravolti dei medici, l’operazione inutile, i discorsi inutili, le attese inutili, il capo bendato. La piccola tomba sul mare di Castiglione. … Quella di Italo era una malformazione cerebrale congenita. Avrebbe dovuto morire a venticinque o trenta anni al più tardi. … Non sogno mai. Due anni più tardi, Italo mi apparve in sogno. Aveva la fronte bendata, ma il sorriso era quello, luminosissimo, dell’ultima sera. Mi diceva: “Sai, è stato tutto uno sbaglio. I medici non hanno capito. Non sono morto”, e aveva l’aria di rivelarmi un segreto, un piccolo, trascurabile segreto, che dovevo comunicare a pochissimi amici. Il senso del sogno diceva qualcosa di più. Era, come potevo ingannarmi? un messaggio dai Campi Elisi. Diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo, e che non c’è mai un’ultima tragedia. Dietro c’è ancora un velo, e poi un altro velo, e poi un altro velo ancora; e questo ingannevole gioco di forme, dove quante luci e ombre si intrecciano è l’unica cosa che possiamo conoscere”.  

image002   Mary Titton


18 settembre

PRIMO PIANO

Terremoti: a Potenza il workshop internazionale Emsev 2018.

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Dal 17 al 21 Settembre 2018 si svolge a Potenza il Workshop Internazionale “EMSEV 2018 Electromag netic Studies of Earthquakes and Volcanoes”, organizzato dall’Università degli studi della Basilicata, dal Consiglio nazionale delle ricerche e dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. EMSEV è un gruppo di lavoro interdisciplinare che fa parte dell’associazione internazionale IUGG (International Union of Geodesy and Geophysics) e sin dalla sua istituzione si è dedicato allo studio, l’osservazione e la comprensione dei fenomeni elettromagnetici associati ai terremoti e alle eruzioni vulcaniche. Da oltre 10 anni il gruppo si riunisce con cadenza biennale in forma plenaria, per discutere degli avanzamenti della ricerca in questo settore e delle nuove opportunità offerte dalle più recenti tecnologie osservative dal suolo e dallo spazio riguardo ai fenomeni precursori di terremoti ed eruzioni vulcaniche. Le più recenti edizioni dei workshop EMSEV si sono svolte negli Stati Uniti d’America (Orange, 2010), in Giappone (Gotemba, 2012), in Polonia (Varsavia, 2014) e in Cina (Pechino, 2016). Alla cerimonia di apertura del 18 settembre, presso il Teatro F. Stabile di Potenza, che ha visto la presenza di circa 100 scienziati, accademici e giovani ricercatori provenienti da tutto il mondo, hanno partecipato personalità scientifiche di grande rilevanza e, accanto a ricercatori stranieri, ci sono rappresentanti nazionali di primissimo livello come il Prof. Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, e il Prof. Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia spaziale italiana. “Lo studio di eventuali fenomeni precursori di terremoti ed eruzioni vulcaniche è un tema attuale, tuttora aperto e, per questo, scientificamente molto stimolante, le cui possibili implicazioni sono peraltro evidenti e di interesse generale” ha dichiarato Valerio Tramutoli dell’UNIBAS, Chair di EMSEV 2018, che è stato anche il coordinatore del primo Progetto Europeo (PRE-EARTHQUAKES) per lo studio dei precursori dei terremoti con tecniche spaziali. “Da tempo presso l’Università della Basilicata e CNR-IMAA vengono svolte ricerche avanzate per la messa a punto di tecniche geofisiche, dal suolo e da satellite, che permettano di riconoscere per tempo possibili segnali premonitori di eruzioni vulcaniche e forti terremoti.” ha detto ancora Tramutoli. Il Workshop di Potenza è anche l’occasione, per la folta delegazione cinese guidata dal responsabile della missione CSES, il Prof Xuhui Shen della CEA (China Earthquake Administration), di presentare i primissimi risultati della missione che è iniziata il febbraio scorso. Ha dichiarato Nicola Pergola del CNR-IMAA: “Le tecniche di osservazione da satellite, a differenza di quelle più tradizionali e costose con stazioni al suolo, garantiscono un monitoraggio continuo alla scala globale, che è particolarmente importante quando tempo e luogo (in particolare per i terremoti) di un possibile evento distruttivo non sono noti a priori. Le tecniche satellitari originali sviluppate da IMAA-CNR in collaborazione con UNIBAS hanno permesso, per esempio, di riconoscere in più occasioni anomalie termiche (connesse alla risalita di gas e magma nel condotto vulcanico) precedenti, anche di qualche giorno, gli eventi eruttivi.”

DALLA STORIA

Jimi Hendrix e l’era dell’Acquario. “Quando i sogni parvero diventare realtà e i ragazzi di ogni parte del mondo provarono l’infinita ebbrezza di quello che fu chiamato “l’assalto al cielo”.

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“Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere si avrà la pace”. (Jimi Hendrix). L’odio per il potere e l’autoritarismo erano il tratto distintivo della generazione di Jimi Hendrix; la risposta era “fate l’amore, non fate la guerra” e tutto veniva giocato in nome della libertà che faceva rima con creatività. Il principio di “liberazione” era chiave di vita insieme alle avanguardie da cui uscivano capolavori musicali ed altre mille forme artistiche. In quell’universo carico di elettricità, uno degli astri più abbaglianti e dal talento sorprendentemente geniale è Jimi Handrix che, nel lontano 18 settembre 1970, si spegneva dopo una breve e intesa vita bruciata anzitempo. “Non ti spegni se prima non ti sei acceso” fu la magra consolazione dei fan, a milioni nel mondo, per la perdita di qualcuno che non avrebbe più suonato così. “Quel famigerato 18 settembre 1970 Jimi Hendrix venne trovato morto nell’appartamento che aveva affittato al Samarkand Hotel a Londra. La sua ragazza, presente nella stanza al momento del fatto, racconta di come Hendrix sia soffocato da un improvviso conato di vomito causato da un cocktail di alcool e tranquillanti; non è chiaro se il chitarrista sia morto nottetempo, come asserito dalla polizia, o se fosse ancora vivo all’arrivo dell’ambulanza e sia soffocato durante il trasporto in ospedale a causa del sopraggiungere del vomito in assenza di un supporto sotto la sua testa”. Hendrix moriva. “Cinque anni e quattro album. Un lampo, un immenso bagliore luminoso che cambiò per sempre le sorti del rock”. Il più grande chitarrista di tutti i tempi, secondo la classifica stilata nel 2011 dalla rivista Rolling Stones, uno dei maggiori innovatori nell’ambito della chitarra elettrica. Durante la sua breve parabola artistica, si rese precursore di molte strutture e del sound di quelle che sarebbero state le future evoluzioni del rock attraverso un’inedita fusione di blues, rhythm and blues/soul, hard rock, psichedelia e funky.

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Hendrix non fu solo un genio musicale fu anche uno dei più carismatici protagonisti del suo tempo, negli anni della Swinging London, del “Festival di Monterey, nel ’67, il primo grande raduno rock, del Festival di Woodstock nel 1969 in cui “la cultura giovanile nata all’alba degli anni ’60 raggiungeva il suo culmine, esplodeva in tutto il mondo sospinta da un’utopia secondo la quale il mondo poteva essere ridisegnato da concetti ingenui, semplici, ma profondamente rivoluzionari: l’eguaglianza, la gioia, la creatività e, ovviamente l’amore, di tutti verso tutti”. Gli anni della controcultura in cui “improvvisamente, sembrava che si dovesse discutere di tutto e mettere in dubbio ogni certezza: la famiglia, lo stato, l’esercito, il lavoro, la cultura. Il mondo giovanile sembrò prendere il sopravvento, sembrò poter imporre la propria agenda, i propri bisogni, le proprie aspettative. “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”, urlava Jim Morrison e insieme a lui lo urlavano centinaia di migliaia di ragazzi, da Milano a Berlino, da Londra a Tokyo …”, come è ricordato da Ernesto Assante ne “I giorni del Rock”, ed. White Star. Una gioventù che si interrogava sui reali bisogni dell’uomo contro un sistema istituzionalizzato, funzionale ai meccanismi del potere e al mercato prim’ancora che al rispetto delle libertà individuali, della solidarietà e della condivisione. Una gioventù libera, scomoda per il pensiero conservatore stroncata dalla droga, che circolava come un’arma contro il dissenso, dagli eccessi, dalla protesta senza limiti. “Noi facciamo della musica libera, dura, che picchi forte sull’Anima in modo da aprirla” (Hendrix). Le esibizioni di Hendrix sono entrate di prepotenza nell’immaginario collettivo: il suo esordio al festival di Monterey in cui concluse la performance dando fuoco alla sua chitarra davanti a un pubblico allibito, e la chiusura del festival di Woodstock, durante la quale, con dissacrante visionarietà artistica, reinterpretò l’inno nazionale statunitense in modo provocatoriamente distorto e cacofonico che lui, però, definì bellissimo e che fece di lui uno dei maggiori critici riguardo alla guerra del Vietnam: “Hendrix si accanì sul tema dell’inno in maniera selvaggia, intervallando con feroci simulazioni sonore dei bombardamenti e dei mitragliamenti sui villaggi del Vietnam, sirene di contraerea ed altri rumori di battaglia, il tutto avvalendosi della sua sola chitarra”. Hendrix di sé diceva: “Tecnicamente non sono un chitarrista, tutto quello che suono è verità ed emozione”. Quel bambino, nato nel 1942, a Seattle da padre di origini afro-native (da parte della madre di nobile stirpe Cherokee) e madre afroamericana, completamente autodidatta (si era formato musicalmente sui dischi blues di Robert Johnson e B.B. King, Muddy Waters e Howlin’ Wolf) e morto quarantotto anni fa, resterà indimenticabile. “Hey Joe”, Foxy Lady, la sua amatissima Fender Stratocaster, quella suonata con i denti, dietro la schiena, contro l’asta del microfono e contro l’amplificazione e infine data alle fiamme, come in un sacrificio catartico e trasfigurante, verso l’“assalto al cielo” brilleranno sempre in molti di noi.

https://youtu.be/TKAwPA14Ni4

Mary Titton


17 settembre

PRIMO PIANO

Verità per Giulio Regeni.

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L’ha chiesta ancora una volta, nell’incontro al Cairo con il presidente Al-Sisi , il presidente della Camera, Roberto Fico, riferendosi alla “verità definitiva” sul caso di Giulio Regeni e all’esigenza di “prendere gli uccisori” del ricercatore. Fico ha affermato in modo deciso: “Dopo due anni e mezzo non c’è ancora un processo, non è accettabile. Giulio è morto due volte per via dei depistaggi … questo è il punto all’ordine del giorno, dell’opinione pubblica italiana, della famiglia Regeni, questo è il punto dello Stato italiano e non arretreremo mai”. Da parte sua il presidente egiziano, ribadendo la “determinazione” dell’Egitto a scoprire la verità sul caso, “ha affermato – spiega un comunicato de Il Cairo – di aver dato istruzioni per eliminare ogni ostacolo alle inchieste in corso al fine di risolvere il caso, giungere ai criminali e consegnarli alla giustizia”. In assenza di reali pressioni, economiche e diplomatiche, nessuno si aspetta che lo faccia davvero, visto il più che probabile coinvolgimento dello Stato nella scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio, ma quell’impegno a parole ha il sapore di un’ammissione anche per i palesi insabbiamenti compiuti fin dal 3 febbraio 2016, quando il corpo del giovane ricercatore italiano fu trovato, seminudo e massacrato, in un fosso dell’autostrada Il Cairo-Alessandria. Anche il capo del Parlamento egiziano, Ali Abdel-Aal, nell’incontro con il presidente Roberto Fico, aveva sostenuto “che il caso dell’omicidio dello studente Giulio Regeni è prioritario per le autorità egiziane e che l’Egitto, come l’Italia, tiene a chiarire le circostanze di questo caso”, secondo quanto riportato dall’agenzia ufficiale egiziana Mena che cita un comunicato del parlamento del Cairo. Ad Al-Sisi il presidente Fico ha manifestato anche la sua preoccupazione sulla carcerazione di Amal Fathy, attivista egiziana e moglie di Mohammed Lotfy, consulente legale della famiglia Regeni, arrestata a maggio e da allora vittima del noto sistema di rinvio delle udienze ed estensione continua della detenzione cautelare. Ora si attende il nuovo incontro tra procure, generale egiziana e romana, “a breve, magari a ottobre”. Sul tavolo ci sono i “buchi” nei video consegnati al team dei procuratori Pignatone e Colaiocco: oltre al mancato recupero del 95% del materiale registrato dalle telecamere di sicurezza della metro del Cairo, la procura di Roma ha parlato di “buchi”, voluti, su cui indagare.

DALLA STORIA

Lawrence d’Arabia (il film).

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Nel settembre 1962 usciva, con la regia di David Lean, Lawrence d’Arabia, uno dei più grandi racconti epici di tutti i tempi e un film che rappresenta l’essenza stessa del cinema. In esso si racconta la storia romanzata dell’impresa dell’eccentrico ufficiale britannico Thomas E. Lawrence, tratta dalle sue memorie, sulla campagna contro i Turchi nella Prima guerra mondiale. “Aqaba, lontana e sola, attende l’ultimo assalto. La storia ha deciso il destino di quella roccaforte dell’impero turco in medio Oriente e ha trovato il suo condottiero in un biondo ufficiale di sua maestà britannica”.

image003(Thomas E. Lawrence nel 1915 al servizio della British Army e sotto alla guida di una Brough Superior SS100: erano le moto più amate dal colonnello gallese che le collezionava. Con una di queste, da lui chiamata “George VII”, perse la vita nel maggio 1935 in un incidente stradale, forse intenzionalmente provocato)

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Sullo schermo, interpretato dall’affascinante Peter O’ Toole, Lawrence appare avvolto nel suo bianco mantello, a capo delle truppe arabe finalmente unite e finalmente decise a lottare insieme per la liberazione. Il momento di gloria è giunto, e l’urlo di vittoria sbalordirà il mondo intero. Le immagini e le scene del film, ormai storiche, come quelle di Omar Sharif che esce da un miraggio, l’accensione di un fiammifero che diventa un’alba, le inquadrature che esaltano i penetranti occhi azzurri di Peter O’Toole al sole che batte implacabilmente sulle dune in movimento, il deserto misterioso, le concitate scene di battaglia e le memorabili sfide ne fanno un affresco infinito pieno di fascino. Non mancano alcuni accenni alle verità segrete del personaggio (la sua omosessualità, la sua successiva, incondizionata adesione al nazismo) e una critica storica (Lawrence, come tutti gli uomini della provvidenza, è solo il servitore di interessi e trame manovrate dai potenti padroni della guerra e della pace). Joshua Klein, nel commentare il film ne “I grandi capolavori del cinema”, Ed. Atlante, scrive: “ … Nel film le follie del colonialismo e le ipocrisie della guerra vengono messe in primo piano, mentre il colonnello Lawrence, proclamatosi condottiero degli arabi contro i turchi, perde ogni inibizione, esaltato dai successi militari. Ma il suo ego smisurato non reggerà alla consapevolezza di un onore divenuto ferocia, di un coraggio sostituito dall’arroganza. La triste storia di un declino, mostrata con ingegno e cultura: un’opera epica all’altezza della grande letteratura”. Un colossal vincitore di sette premi Oscar assegnati a Maurice Jarre per l’impetuosa colonna sonora, a Robert Bolt per la sceneggiatura, al fotografo Freddie Young per il deserto magnificamente fotografato, a David Lean, maestro della regia e del racconto (suoi sono i capolavori (alcuni premiati con l’Oscar) come “Breve incontro” del 1946, Il ponte sul fiume Kwai del 1957 e, in seguito, il Dottor Zivago del 1965, La figlia di Ryan del 1970 e Passaggio in India del 1984, ecc.). Gli altri Oscar vanno al produttore Sam Spiegel (miglior film), John Box, John Stoll, Dario Simoni (direzione artistica), Anne Coates (montaggio) e John Cox (suono). Il cast d’eccezione con Peter O’ Toole, Alec Guinness, Anthony Quinn, Omar Sharif, Arthur Kennedy, José Ferrer completa il risultato spettacolare e irripetibile, malgrado l’assenza di effetti speciali. Oggi nessuno oserebbe replicare l’impresa di Lean per i costi di produzione altissimi e per il risultato, impareggiabile, del regista nel suo momento di massimo splendore.

image005(Peter O’Toole e Omar Sharif in una scena del film)

Mary Titton


16 settembre

PRIMO PIANO

Formula 1: Gp di Singapore, primo Hamilton.

Hamilton vince senza problemi a Marina Bay e aumenta il vantaggio in classifica su Vettel. Il tedesco della Ferrari è terzo, dopo Verstappen, secondo. Quarto Bottas e quinto Raikkonen. Hamilton consolida così la sua leadership in classifica, portando a 40 punti il vantaggio su Sebastian Vettel. Il britannico della Mercedes, scattato dalla pole, è stato protagonista di una gara sempre sotto controllo, anche dopo i pit stop che lo hanno momentaneamente allontanato dal comando della corsa. La Ferrari, che pure nelle libere aveva lanciato segnali incoraggianti, si è persa nei momenti decisivi. Vettel, che ha perso 48 punti in 5 gare, riesce a sorpassare Verstappen al primo giro, subito prima del segnale di safety car per l’incidente tra Perez ed Ocon, che ha visto quest’ultimo finire in partenza contro il muro, spinto dal compagno di squadra. Poi un pit stop al momento sbagliato e una scelta di gomme inadatta vanificano lo splendido sorpasso effettuato dal pilota tedesco nei confronti di Verstappen nel corso del primo giro. Al rientro dal pit stop, Vettel non riesce ad aggredire la Mercedes e chiude alle spalle anche di Verstappen. Un problema secondo il muretto Ferrari di freni surriscaldati che costringe il tedesco a rallentare nel momento in cui doveva attaccare, rallentato anche da Perez. Seb sale sul podio, ma è solo terzo. Mondiale finito? No, ma ora la Ferrari non può davvero più sbagliare. La prossima gara in Russia sarà de3cisiva. Con la vittoria di Singapore, la 69esima in carriera, Hamilton si porta a 40 punti di vantaggio in classifica generale su Vettel, a 6 gare dalla fine.


15 settembre

PRIMO PIANO

“Non si può credere in Dio ed essere mafiosi.”

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È questo il severo monito pronunciato da Papa Francesco durante l’omelia della santa Messa celebrata a Palermo in occasione del 25° anniversario della morte del beato don Pino Puglisi, il sacerdote ed educatore italiano, ucciso da Cosa nostra il giorno del suo 56º compleanno per il suo costante impegno evangelico e sociale. Il papa ha espresso una dura condanna della mafia, che ha richiamato lo storico anatema di San Giovanni Paolo II ad Agrigento, nel 1993, un anno dopo gli omicidi dei magistrati anti mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ha detto Francesco: “Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore.   Oggi abbiamo bisogno di uomini di amore, non di uomini di onore, di servizio, non di sopraffazione, di camminare insieme, non di rincorrere il potere. Se la litania mafiosa è ‘Tu non sai chi sono io’, quella cristiana è ‘Io ho bisogno di te’. Se la minaccia mafiosa è ‘Tu me la pagherai’, la preghiera cristiana è ‘Signore, aiutami ad amare’. Perciò ai mafiosi dico: cambiate! Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi, il sudario non ha tasche, non potete portare niente con voi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo! Altrimenti, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte”. Durante la cerimonia il Pontefice ha guidato una preghiera dedicata proprio alle vittime di mafia ed ha ricordato il sacerdote, beatificato il 25 maggio 2013, dicendo: “Venticinque anni fa come oggi, quando morì nel giorno del suo compleanno, coronò la sua vittoria col sorriso, con quel sorriso che non fece dormire di notte il suo uccisore, il quale disse: «c’era una specie di luce in quel sorriso». Padre Pino era inerme, ma il suo sorriso trasmetteva la forza di Dio: non un bagliore accecante, ma una luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore. È la luce dell’amore, del dono, del servizio”. Papa Francesco si è recato anche nel quartiere Brancaccio, controllato al tempo di don Puglisi dalla criminalità organizzata attraverso i fratelli Graviano, capi-mafia legati alla famiglia del boss Leoluca Bagarella: qui don Pino, meglio conosciuto come 3P, fu parroco coraggioso nella lotta contro la mafia, togliendo dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla vita mafiosa e impiegati per piccole rapine e spaccio. Egli, infatti, inaugurò nel 1993 il centro Padre Nostro per la promozione umana e la evangelizzazione, dove, attraverso attività e giochi, faceva capire ai ragazzi che si può ottenere rispetto dagli altri senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori. Per questo dopo una lunga serie di minacce di morte, di cui don Pino non parlò mai con nessuno, i boss mafiosi, considerandolo un ostacolo, decisero di ucciderlo. Per lui oggi sui balconi della modesta palazzina dove il parroco abitava sventolano tanti lenzuoli bianchi. Sul luogo dell’agguato un cuscino di rose rosse.


14 settembre

PRIMO PIANO

Genova: un mese fa il crollo del Ponte Morandi.

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Un mese fa, alle 11:36 del 14 agosto, il tragico crollo del Ponte Morandi. Sotto una pioggia torrenziale, in pochi attimi spariva la campata e il pilone della “pila” numero 9 si sbriciolava causando terrore, disrtuzione, morte: ben 43 le vittime, molti i feriti, oltre 500 gli sfollati costretti ad abbandonare precipitosamente le case sottostanti senza potervi più fare ritorno nemmeno per prendere gli effetti personali, il camion della Basko fermo a pochi metri dall’abisso, una città spaccata in due, attonita e in ginocchio. Una tragedia annunciata quella del ponte, non imprevedibile come quelle causate dai terremoti, secondo quanto affermato, già il giorno dopo, dal procuratore capo di Genova Francesco Cozzi, che ha detto: “Il crollo del Ponte Morandi non è stata fatalità. Noi dobbiamo rispondere a un sola domanda: perchè è successo? Questo è il nostro compito e per farlo faremo tutto quello che è necessario.” Al vaglio della Magistratura tutta una serie di documenti che attestavano già da tempo la pericolosità del viadotto, per accertare le responsabilità e le colpe di chi avrebbe dovuto provvedere a metterlo in sicurezza. Un mese: accuse, indagati, commissioni che sbagliarono, colpevoli negligenze, tempi della demolizione del troncone di cemento armato che è rimasto sospeso attaccato ai tiranti d’acciaio, polemiche su come ricostruire e su chi dovrà ricostruire, il progetto di Piano, la viabilità di Genova, ma 43 persone in pochi attimi hanno perso la vita sprofondando giù insieme al ponte e non torneranno più. Per ricordarle, a un mese esatto dalla tragedia, Genova si è fermata: si sono fermate per strada le auto gialle della coop RadioTaxi, i bus ai capolinea, mentre i treni fermi hanno fischiato, le campane delle chiese e le sirene del porto hanno suonato tutte insieme, ammainate in segno di lutto le bandiere del Palazzo della Regione e di Tursi. Un minuto di silenzio per ricordare … In piazza De Ferrari Tullio Solenghi non ha saputo trattenere le lacrime ricordando i nomi di tutte le vittime del ponte Morandi e raccontando di ognuna un dettaglio davanti alla folla riunita per commemorare la tragedia di un mese fa. A chiudere la cerimonia il premier Giuseppe Conte: “Sono qui a nome del governo … Non sono venuto a mani vuote, ho portato fogli che sono pieni di fatti, misure concrete, a sotegno degli sfollati, per le imprese danneggiate, a favore dei professionisti e per la cassa integrazione delle aziende in crisi.” ha detto mentre mostrava il “decreto urgenze”, approvato dal Consiglio dei ministri, e assicurava che “Entro dieci giorni dall’entrata in vigore ci sarà il commissario che avrà pieni poteri”. “La ricostruzione – ha aggiunto Conte – avverrà a spese di Autostrade, ma la procedura per la revoca della concessione rimane in piedi e si completerà”.

DALLA STORIA

14 settembre 1938. Nasce Tiziano Terzani, uno dei massimi scrittori italiani di viaggi del XX secolo, appassionato cronista del proprio tempo, entusiasta ricercatore della verità degli avvenimenti, dei suoi protagonisti e degli uomini suoi compagni di viaggio fisico e spirituale: una mente tra le più lucide, progressiste e non violente di inizio XXI secolo.

 

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Terzani, per oltre trent’anni, aveva vissuto in Asia lavorando come corrispondente per il settimanale tedesco “Der Spiegel”. Era vissuto a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo, Bangkok e dal 1994 si era stabilito in India, con la moglie Angela Staude, scrittrice e i loro due figli. Era un profondo conoscitore del continente asiatico ed uno dei giornalisti italiani a godere di maggior prestigio a livello internazionale. Il primo dei suoi numerosi libri (tradotti in varie lingue) che trattano della sua esperienza di giornalista, viaggiatore e osservatore è stato “Pelle di leopardo” (1973), dedicato alla guerra in Vietnam. “La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine. Il primo morto, quando l’ho visto, stamani, rovesciato sull’argine di un campo con le braccia aperte, le mani magrissime piene di fango e la faccia gialla, di cera, mi ha paralizzato. Gli altri, dopo, li ho semplicemente contati, come cose di cui bisogna, per mestiere, registrare la quantità. Non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerra, se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi. Me lo dicevo andando al fronte, dopo due giorni passati a Saigon con gli addetti militari delle ambasciate, con gli “esperti”, a discutere di una guerra che rimaneva, per me, campata in aria, astratta, come non fosse fatta da uomini”. La sua attività di scrittore ricade in buona parte nell’ambito della “perigesi”, termine con cui si intende quel filone storiografico che, intorno ad un itinerario geografico, raccoglie notizie storiche su popoli, persone e località, verificate, per quanto possibile, dall’esperienza diretta. Nel 1975 fu uno dei pochi giornalisti a restare a Saigon dove assistette alla presa del potere da parte dei comunisti: da questa esperienza nacque “Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976), libro tradotto varie lingue e selezionato in America come “Book of the Month”. Terzani fu tra i primi corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l’intervento vietnamita in Cambogia raccontando il suo viaggio in “Holocaust in Kambodscha” (1981). Il lungo soggiorno in Cina, conclusosi con l’arresto per “attività contro-rivoluzionaria” e con l’espulsione dal Paese, dà origine a “La porta proibita” (1985), che venne pubblicato contemporaneamente in Italia, a Londra e a New York. Seguì nel 1992 un nuovo successo, “Buonanotte signor Lenin”, un’importantissima testimonianza in presa diretta del crollo dell’impero sovietico, selezionata per il Thomas Cook Award, il premio inglese per la letteratura di viaggio. “Mi aspettavo di star via due settimane. Sono stato via due mesi. Pensavo di andare semplicemente lungo un fiume verso la fine geografica dell’impero sovietico e mi son ritrovato, invece, a viaggiare nella fine storica di quell’impero. Quando all’alba del 19 agosto, a Mosca, i golpisti trasmisero il comunicato che destituiva Gorbacev e metteva tutto il potere nelle mani della giunta, sul fiume Amur, dove il mio battello viaggiava, erano le 13 e 42 … Pur nella assoluta, pacifica indifferenza del fiume e della natura attorno, mi fu subito chiaro che quella notizia segnava una svolta non solo per l’Unione Sovietica, ma per il resto del mondo e fui preso da quella strana febbre che colpisce quelli del mio mestiere ogni volta che la Storia ci passa vicina e non si può resistere al desiderio di starle dietro, di seguirla, anche solo per poterne raccontare un dettaglio.” Negli anni successivi, dopo “In Asia” (1994), pubblicò “Lettere contro la guerra” (2002), in seguito all’attentato terroristico delle Twin Towers a New York, e “Un altro giro di giostra” (2003) dove raccontò il suo ultimo “viaggio”: quello attraverso la malattia. La sua produzione continuò con “La fine è il mio inizio”, “Fantasmi”, “Dispacci dalla Cambogia”. Con i suoi ultimi volumi, il suo interesse verso la ricerca della verità si spostò dai fatti all’interiorità, portandolo a concepire il giornalismo solo come una fase della sua vita: affrontò direttamente i temi che riguardano l’uomo e le sue domande, raggiungendo un vastissimo pubblico con il suo messaggio di lucidità e speranza. “Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace solo che non potrò scriverne”. (Tiziano Terzani, Anam, il senzanome. L’ultima intervista a Tiziano Terzani, Longanesi, 2005).

image002Mary Titton


13 settembre

PRIMO PIANO

USA: l’uragano Florence arriva in North Carolina.

Nell’ultimo bollettino il National Hurricane Center ha reso noto che Florence si sta muovendo verso ovest alla velocità di 9 km. orari. Secondo le previsioni attuali, il centro di Florence continuerà a muoversi verso l’interno, tra North e South Carolina, per poi dirigersi verso gli Appalachi. Florence è passato da categoria 4 a 1, ma nello stesso tempo ha raddoppiato le sue proporzioni, così, nonostante il declassamento dell’uragano a categoria 1, si teme una vera e propria catastrofe. L’assalto alla costa sud-orientale degli Stati Uniti era cominciato, inizialmente, con venti a 155 km. all’ora. L’evacuazione obbligatoria ha riguardato circa due milioni di residenti nelle zone costiere, a rischio ci sono 20 milioni di persone. L’uragano ha causato un innalzamento del mare di circa 3 metri rispetto alla norma a Morehead City, nel North Carolina, sono stati inoltre già cancellati più di 1300 voli e nelle aree di Morehead City e di New Bern sono stati segnalati tetti scoperchiati dal vento, che all’aeroporto internazionale di Wilmington ha raggiunto le 105 miglia orarie, quasi 170 km/h. A New Bern, in particolare, ci sarebbero circa 100 persone bloccate nelle proprie abitazioni in attesa di soccorso. Oltre 460 mila case sono rimaste senza elettricità. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dichiarato lo stato di emergenza. Due gli ospedali che sono stati evacuati nella Carolina del Sud: il Tidelands Waccamaw Community Hospital e il Georgetown Memorial Hospital, che hanno trasferito i pazienti in altre strutture lontano dalla costa. La Fema, l’Ente federale americano per la gestione delle emergenze, ha già distribuito 8 milioni di pacchi viveri e acqua nella Carolina del Sud e del Nord e in Virginia.

DALLA STORIA

Il 13 settembre 1990 Andrej Romanovič Čikatilo viene accusato dell’omicidio di 53 persone a Rostov, in Russia.

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“Il mostro di Rostov”, così soprannominato a sottolineare l’atrocità dei suoi crimini, aveva mangiato i corpi di 54 persone, dopo averle stuprate e uccise. Per dodici anni Čikatilo, a cominciare dal 1978, iniziò la sua macabra attività di assassino e stupratore, conducendo una doppia vita. Da un lato si mostrava un normale padre di famiglia con due figlie, membro del Pcus locale, professore di filosofia marxista-leninista. Dall’altro lato la sua mente malata si esprimeva adescando vittime sugli autobus, sui treni in stazione per poi condurle in un bosco e avventarsi su di queste come un animale. Preferiva colpire soprattutto i diseredati, gli emarginati, i solitari e confessò di aver assassinato torturandoli, mutilandoli, smembrandoli 21 ragazzi, 14 bambine e 18 donne. Una storia atroce che faceva di questo apparentemente innocuo insegnante cinquantaquattrenne il più attivo maniaco della storia mondiale. “Ma come poteva un uomo solo violentare, divorare e uccidere tante persone senza lasciare traccia attraverso lo sconfinato territorio dell’Unione Sovietica? Come si fa a condurre un bambino nel bosco senza la forza? Come si può sbranare un essere umano mentre è ancora in vita? … “Nel vuoto pneumatico del regime comunista, le malattie mentali hanno fatto passi da gigante e hanno partorito dei mostri invulnerabili”, commenta David Grieco ne “Il comunista che mangiava i bambini”, ed. Bompiani del 1994. Al processo, la corte regionale di Rostov aveva accusato la polizia di inefficienza a causa della caccia all’uomo scatenata alla ricerca di Čikatilo, indagine che aveva richiesto l’impiego di 50 investigatori speciali e di almeno 500 agenti di polizia. Una caccia all’uomo, per troppi anni infruttuosa e piena di passi falsi, che aveva evidenziato i limiti delle autorità sovietiche, soffocata dalla burocrazia e da obsolete tecniche d’indagine, anni in cui il “mostro” aveva continuato a mietere le sue vittime. “L’assassino è un comunista modello. Il mostro di Rostov, si cela dietro il sorriso deforme e lo sguardo magnetico del professor Čikatilo. Per smascherare e catturare Čikatilo è indispensabile entrare nella sua mente e provare a comprendere ciò che è intollerabile soltanto pensare”. In un regime totalitario, come era l’Unione Sovietica al momento dei fatti, l’irrazionalità non era contemplata, gli abissi che possono sconvolgere la mente umana venivano elusi, o meglio, negati a favore dell’immagine efficiente del Partito. L’infanzia del “mostro”, egli nacque nel 1936, fu particolarmente traumatica: l’URSS sarebbe entrata a breve in guerra con la Germania ed i piani sulla collettivizzazione agricola di Stalin avevano causato devastanti carestie. Čikatilo venne a sapere, tempo dopo, di avere avuto un fratello più vecchio rapito e divorato dai vicini affamati. Sebbene non ve ne siano conferme, è storicamente accertato che in Russia e in Ucraina effettivamente si verificarono episodi di cannibalismo nel periodo stalinista. Durante la Seconda guerra mondiale, Čikatilo fu testimone dei devastanti effetti dei bombardamenti tedeschi e la sua mente fu invasa da fantasie nelle quali portava ostaggi tedeschi nei boschi e procedeva alla loro esecuzione, fantasie che ebbero poi un nesso con i suoi omicidi. Mentre suo padre era in guerra, Čikatilo dormiva insieme a sua madre. I frequenti episodi di incontinenza notturna erano da lei brutalmente puniti e il bambino era picchiato e umiliato. Suo padre, catturato ed imprigionato dai Nazisti, ritornò nel 1949, ma fu bollato come traditore e codardo (nella Russia stalinista, i prigionieri sopravvissuti erano visti come codardi). Čikatilo ebbe buoni risultati a scuola e riuscì a conseguire il Diploma, ma fallì l’esame di ammissione all’Università di Mosca. La sua prima esperienza sessuale avvenne nell’adolescenza quando, a 18 anni, aggredì una ragazza di 13 anni (amica di sua sorella), lottò con lei per terra e le eiaculò mentre la ragazza si dimenava per sfuggirgli. Questo incidente lo portò ad associare il sesso alla violenza per tutta la vita. Nel 1978, Čikatilo commise il suo primo omicidio documentato. Nel tentativo di stuprare una bambina di 9 anni quando questa cercò di ribellarsi e scappare la pugnalò a morte. Mentre l’accoltellava, eiaculò. L’atto gli piacque talmente che da quel momento in poi accoltellare donne e bambini, fino a provocarne la morte, sarebbe stato il suo unico modo di procurarsi piacere. Infine, solo il 4 aprile 1992, Čikatilo fu processato. “Il processo più atteso della storia dell’Unione Sovietica comincia nella confusione più totale del tribunale di Rostov. Durante le prime settimane i medici erano in servizio permanente nell’aula sovraffollata per valutare i parenti delle vittime che accusavano continui malori alla lettura dei particolari più cruenti. Čikatilo si presentò con il capo completamente rasato per dare l’impressione del malato di mente. In una dichiarazione si alzerà in piedi sventolando nella gabbia, in cui era stato messo per evitare il linciaggio dei parenti delle vittime, una rivista pornografica dando la colpa a quelle immagini e al suo organo sessuale inutile, togliendosi anche i pantaloni davanti a tutti”. Si difese accusando il regime, alcuni leader politici e citando la famosa carestia che colpì l’Ucraina negli anni Trenta. La condanna a morte fu eseguita con un colpo alla nuca, dopo che il presidente russo Boris Eltsin gli rifiutò un ultimo appello.

Mary Titton


12 settembre

PRIMO PIANO

Brescia: ancora nuovi casi di polmonite.

Sta rallentando l’epidemia di polmonite che ha colpito i comuni della Bassa bresciana, nelle ultime 48 ore i nuovi casi sono stati solamente 12, l’allarme però non è cessato, anche perchè in questi ultimi colpiti il batterio sembra essere più aggressivo e 3 nuovi malati sono in gravi condizioni. Nel pomeriggio di mercoledì un 40enne di Remedello è stato trasferito d’urgenza al San Gerardo di Monza dall’ospedale Poma di Mantova: per lui sospetta legionella, ora è ricoverato in prognosi riservata. Sempre a Remedello si è ammalato di legionella un uomo di 56 anni, ricoverato in Rianimazione al Poma, mentre nel nosocomio di Desenzano un 45enne di Borgosotto (Montichiari) è in coma farmacologico per un’infezione ai polmoni. Ancora nessun risultato definitivo sulle cause dell’epidemia di polmonite che nei primi giorni di settembre ha investito la Bassa Bresciana e l’Alto Mantovano, ci vorranno probabilmente alcuni mesi per accertarne l’origine. L’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, ha fatto il punto della situazione e ha parlato di evento difficile da codificare “anche perché – ha spiegato – non si ricorda in Lombardia un’emergenza del genere e non esiste in letteratura scientifica un evento di questo tipo. Anche per questo non si sta lasciando nulla di intentato per individuare le cause di questo contagio che è causato dal batterio della legionella”. Sono in tutto 17 i casi accertati di legionella e si fermano a 237 le persone ricoverate per polmonite, nessuna delle quali ha manifestato i sintomi negli ultimi giorni. La task force dell’Ats di Brescia ha infatti circoscritto ad un periodo compreso tra il 2 e il 7 settembre il momento del contagio “dovuto – secondo quanto ha affermato Carmelo Scarcella, direttore generale di Ats Brescia – ad una causa ambientale”. Dopo le analisi sugli acquedotti ora l’attenzione si sposta sul fiume Chiese, dove sono stati effettuati sei campionamenti, e sulle torri di raffreddamento di alcuni impianti, si cerca la causa anche nei sistemi irrigui dei campi agricoli, infatti la legionella per diffondersi ha bisogno di un mix di aria e acqua. La Procura di Brescia nei giorni scorsi ha aperto un’inchiesta sull’epidemia di polmonite che si sta verificando da giorni nella Bassa Bresciana Orientale.

DALLA STORIA

I Ching o Libro dei Mutamenti.

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“Se si potesse aggiungere qualche anno alla mia vita, ne dedicherei cinquanta allo studio del Libro dei Mutamenti, e potrei quindi evitare di commettere gravi errori”. (Confucio, Analecta VII).

Nel settembre 1973 nella tomba 3 della dinastia Han, nel sito di Mawangdui, veniva rinvenuto un lacero frammento di un commentario confuciano sui 64 esagrammi dell’I Ching, risalente agli inizi del regno di Wendi (180-157 a.C.) quarto imperatore delle dinastia Han. Questo commentario è uno dei dettagliatissimi scritti redatti dai dotti dopo la morte del grande filosofo cinese Confucio (551-479 a. C.). Questi aveva condotto studi approfonditi sull’I Ching, che considerava, piuttosto che uno strumento divinatorio, una guida di vita per conseguire il massimo livello di virtù. I commentari da lui redatti erano i più particolareggiati ed estesi dell’epoca. Ma cos’è esattamente I Ching, questo antico classico libro cinese? Esso è ritenuto il primo dei testi sin da prima della nascita dell’impero cinese e sopravvissuto alla distruzione delle biblioteche operata dal primo imperatore, Qin Shi Huang Di. Il testo si fonda sull’antica credenza cinese che il mondo scaturisca dalla dualità degli elementi: yin (negativo/scuro) e yang (positivo/chiaro), e che l’uno non possa esistere senza l’altro. Il concetto centrale dell’oracolo è che nella vita ogni situazione risulti dall’interazione ying – yang, e che possa essere racchiusa e interpretata dai relativi esagrammi. È come dire che il bianco non può esistere senza il nero o la vita senza la morte e così via relativamente a tutti gli opposti che caratterizzano la nostra realtà terrena dalla cui interazione si generano gli avvenimenti che rappresentano la vita. I più antichi simboli cinesi dello yin e dello yang sono stati rinvenuti, assieme agli esagrammi base, nelle iscrizioni tracciate sugli “ossi oracolari”, cioè resti dello scheletro di tartarughe e bovini nelle pratiche di divinazione sciamanica durante la dinastia Shang (ca. 1600-1046 a. C.).

image001(Guscio di tartaruga “oracolare” risalente al 1200 a. C. circa. L’indovino bruciava il guscio o l’osso fino a farlo incrinare, leggeva le linee risultanti e talvolta incideva un “responso”)

La consuetudine dell’uso di ossi oracolari declinò nel corso della dinastia Zhou (1046-256 a. C.), parallelamente all’aumento della popolarità dell’I Ching. Il corpo principale dell’I Ching è diviso in 64 sezioni, ciascuna corrispondente a un simbolo provvisto di nome e numero, detto “esagramma”. Ogni esagramma si compone di sei linee orizzontali, con linee interrotte che rappresentano lo yin e linee intere che rappresentano lo yang. L’ordine con il quale si gettano gli steli o le monete determina l’esagramma di riferimento, per il quale I Ching fornisce un testo esplicativo, talvolta arcano, o un “giudizio” per interpretarne il significato. Benché l’originale sia andato interamente perduto, le sue idee sono tuttora usate da milioni di persone in tutto il mondo per rispondere agli interrogativi fondamentali sull’esistenza. L’I Ching giunse in Occidente nel Seicento, ma il primo a studiarlo in modo approfondito fu il matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz nel 1701. Leibniz vide in quel simbolismo (linea spezzata=o; linea unita=1) un perfetto esempio di numerazione binaria come illustrò nel suo saggio del 1705, “Spiegazione dell’aritmetica binaria”.

image002(L’illustrazione mostra gli appunti di Leibniz sul diagramma degli esagrammi)

È noto l’interesse di Carl Gustav Jung verso I Ching. Egli, oltre che studiare la psiche umana, cercava il modo di definire quegli aspetti dell’inconscio non riconducibili alla storia individuale perché collegati, essendo comuni, all’intera umanità. Lo studio del meccanismo matematico in cui sono codificati i 64 esagrammi dell’I Ching, lo aveva infatti portato a formulare il principio che connetteva avvenimenti di analogo contenuto significativo, manifestati in differenti momenti temporali, legati al principio di casualità e non a quello di causa ed effetto. Una casualità perfettamente sintonizzata sulle necessità psicologiche di quel momento, basata sul principio per cui i simboli, e gli archetipi ad essi correlati, sono patrimonio comune di tutti gli individui essendoci a priori un bacino di conoscenza, contenente ogni informazione, a cui poter accedere liberamente in qualsiasi momento. Queste informazioni sono trasmesse all’umanità dai simboli che hanno il compito di rappresentarle. Nella prefazione de I Ching di Richard Wilhelm del 1948, Jung scrive che aveva lavorato per oltre trent’anni sulla traduzione di James Legge e approfondisce anche i motivi per cui aveva maturato la propria posizione riguardo al principio di casualità. Pose così le basi che avrebbero in seguito costituito la vera e propria essenza della teoria della Sincronicità del 1952.  “Il popolo cinese possiede una “scienza” che trova proprio nell’I Ching il suo metodo tipico di lavoro. Il principio di tale scienza, come molte altre cose in Cina, è oltremodo diverso da quello su cui invece è impostata la nostra”. (Carl Gustav Jung)

Mary Titton


11 settembre

DALLA STORIA

11 settembre 1885: nasce David Herbert Lawrence: il grande e innovativo scrittore inglese autore di capolavori e del romanzo più scandaloso del secolo scorso, almeno fino agli anni Sessanta.

image002David Herbert Lawrence (Eastwood, 11 settembre 1885 – Vence, 2 marzo 1930)

“Suscitava in Connie un misto di compassione e di bramosia selvaggia, e un folle, ardente desiderio fisico” … Così si esprimeva Lawrence, il grande scrittore inglese nel raccontare, con sorprendente precisione e sensibilità, trattandosi di un uomo e, per la prima volta nella puritana epoca vittoriana, le sensazioni del desiderio e quelle del piacere sessuale femminile (nel testo Lawrence descrive senza perifrasi l’orgasmo sessuale di Connie) nel suo romanzo più famoso, “L’amante di Lady Chatterley”, definito “Il più indecente romanzo del mondo”. Lawrence è riconosciuto come uno dei più importanti interpreti del passaggio fra Ottocento e Novecento ed è stato fra i protagonisti di una nuova letteratura europea, audace nella forma e disinibita nei temi. Ebbe una vita segnata dalla tisi e durante la sua adolescenza dall’antagonismo dei genitori, determinato dalle diverse condizioni sociali. Esperienza questa che si rifletté con varie sfumature nei personaggi dei suoi romanzi. Tra questi si ricordano “Figli ed amanti”, del 1913, “Donne innamorate”, 1920, “Il serpente piumato”, 1926 e molti altri, bellissimi insieme alle poesie e ai racconti.

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Interessante anche la sua produzione saggistica e pregevoli sono le “Lettere”, uscite postume nel 1932. Tradusse inoltre novellieri italiani tra cui Verga. Nel 1914 sposò una tedesca divorziata, la baronessa Frieda von Richofen e visse quasi tutta la vita lontano dall’Inghilterra perché amava viaggiare, come tutti gli inglesi, preferendo l’Italia e il Messico, ma, nel 1919 lasciò definitivamente la madre patria amareggiato per l’accusa di pornografia che l’aveva perseguitato fin dagli esordi di “L’amante di Lady Chatterly”. Attacchi che si rinnovarono ripetutamente fino ad arrivare alla confisca del libro. Tornando al testo più censurato della storia che si dice fu ispirato dalla relazione della moglie Frida con il tenente italiano Angelo Ravagli, si legge una prosa bellissima ricca di interiorità animata da sentimento, riflessione e disagio verso una modernità che non si avvale della bellezza.

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Al centro dell’opera vi è il risveglio dei sensi di una giovane donna e la critica verso la società industriale. Ambientato nella profonda Inghilterra, la vicenda narra di una nobildonna, Lady Chatterley, che, sposata a un uomo di nobile origine, reso invalido e impotente dalla Prima guerra mondiale, bloccato su una sedia a rotelle, si trova a dover assistere suo marito in una tenuta immersa nelle nebbiose Midlands inglesi. L’uomo, un aristocratico colto e raffinato, un conservatore dai modi formali e freddi esige dalla giovane e bellissima moglie un comportamento convenzionale, l’accettazione incondizionata della loro posizione sociale e del potere maschile. Prigioniera di un matrimonio privo d’amore e soffocata da una vita deprimente, Lady Chatterley rimane attratta da Oliver Mellors, il guardiacaccia. Spezzando i limiti imposti dalla società, Constance cede al suo desiderio istintivo verso di lui e scopre il potere trasfigurante dell’amore fisico, che li conduce verso l’appagamento reciproco. La storia vuole rappresentare il contrasto irriducibile tra il vitalismo dei sensi e l’atrofizzazione della società industrializzata. La relazione di Constance e Mellors, sempre più appassionata e sensuale, è quasi una vera e propria iniziazione a quella serie di valori “naturali” che invece la civiltà delle macchine tende inesorabilmente a cancellare. È la figura di Lady Chatterley a scuotere nel profondo la morale vittoriana ancora imperante nell’Inghilterra degli anni Trenta. Con il suo rifiuto delle convenzioni sociali e morali, Constance manifesta una ribellione più profonda. Nel portare alle estreme conseguenze la sua storia d’amore, mentre cerca di divorziare dal marito e di avere un bambino dal suo amato Mellors, allontanandosi così dal quel freddo e industriale mondo che la circonda e ritirarsi insieme al suo amante in una vita governata dalla tenerezza, dalla sensualità e dall’appagamento sessuale, Lady Chatterley diventa suo malgrado un personaggio rivoluzionario e incarna infine le più profonde ansie sociali dell’universo femminile di quegli anni. Il libro fu pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1929, in lingua originale. Lawrence lo scrisse in Toscana e, visto che il suo agente letterario pensava che sarebbe stato impossibile farlo uscire nel Regno Unito, lo propose all’editore italiano Giuseppe Orioli. Sia il Regno Unito che gli Stati Uniti vietarono le importazioni del libro. Nel 1932, due anni dopo la morte di Lawrence, la casa editrice Secker e quella americana Alfred A. Knopf ne pubblicarono una versione pesantemente censurata. Secondo Rosset (il proprietario della casa editrice Grove Press, che in quegli anni portò negli Stati Uniti le opere di molti autori d’avanguardia europei, come Samuel Beckett, Jean Genet ed Eugène Ionesco e molti altri), le due case editrici lavorarono insieme ai funzionari dello United States post Office Departement, l’agenzia federale dei sevizi postali che aveva proibito l’importazione del romanzo, per epurarlo di ogni frase ritenuta oscena. Il romanzo veniva censurato non solo per le scene di sesso ma anche per il suo messaggio contrario alla morale dell’epoca: ha infatti per protagonista una donna che tradisce il marito, aristocratico e invalido, con un uomo della “working class”. Se il protagonista fosse stato un aristocratico innamorato di una serva, dice Rosset nella sua autobiografia, il romanzo non avrebbe dato invece fastidio. Infine, il romanzo venne pubblicato in Gran Bretagna solo nel 1960.

… Il mondo dormiva, cupo e fumoso. Erano le due e mezzo. Ma anche se stava dormendo, era un mondo ansioso e crudele, agitato dal rumore di un treno o di qualche grosso camion sulla strada, e illuminato dai lampi rosei degli altiforni. Era un mondo di ferro e carbone, la crudeltà del ferro e il fumo del carbone, e l’avidità immensa, immensa, che lo guidava. Nient’altro che avidità, l’avidità che si agitava nel suo sonno. Faceva freddo e lui tossiva. Una corrente d’aria fredda e penetrante soffiava sulla collinetta. Pensò alla donna. Ora avrebbe dato tutto quello che aveva, o che avrebbe mai potuto avere, per stringerla calda tra le braccia, tutti e due avvolti nella stessa coperta, a dormire. Avrebbe dato tutte le speranze dell’eternità e tutte le conquiste del passato per averla lì, avvolta con lui, al caldo, nella stessa coperta, a dormire, soltanto dormire. Sembrava che dormire con la donna fra le sue braccia fosse la sua unica necessità. …

Mary Titton


10 settembre

PRIMO PIANO

Elezioni in Svezia: minaccia della destra populista.

In Svezia i risultati usciti dal voto confermano come primo partito quello dei Socialdemocratici con il 28,3%, contenendo la debacle che gli assegnavano i primi exit poll, i moderati si attestano al 19,7%, risultando la seconda forza, mentre quel che appare certa è l’affermazione dei piccoli partiti, in primis gli ex comunisti, Sinistra, che si sono aggiudicati l’8%, bene anche il partito di centrodestra, Centro, e i cristiano democratici che hanno incrementato di un terzo le preferenze del 2014. Cresce, ma non sfonda il partito anti-immigrati della destra populista, gli Svedesi Democratici, come si fanno chiamare, che raggiungono il 17,7% (+4,7% rispetto al 2014). La destra radicale svedese compie così un consistente balzo in avanti: il leader del partito populista e anti-immigrati Jimmie Akesson, parlando ai suoi sostenitori, ha detto: “Abbiamo aumentato i nostri seggi in parlamento e faremo in modo di aver un enorme peso su ciò che accadrà in Svezia nelle prossime settimane, mesi ed anni” ed ha aggiunto di essere disposto a parlare con tutti i partiti, invitando il leader del centro destra Ulf Kristersson a scegliere se stare con gli Svedesi Democratici o con i Socialdemocratici. I risultati delle votazioni, che hanno tenuto l’Europa col fiato sospeso, rendono difficile la formazione del nuovo governo. Le due maggior coalizioni sono divise da pochi decimali: il blocco di Centrosinistra, ai minimi storici, tocca il 40,6% e l’Alleanza di centrodestra è al 40,3%. Il premier Löfven, dopo le elezioni che hanno segnato la peggiore performance del partito socialdemocratico, ha detto che intende “restare al lavoro” e ha invitato al dialogo il centrodestra per formare un “governo forte” in grado di arginare gli estremismi, aggiungendo che “Un partito con radici naziste non potrà mai offrire nulla di responsabile”.

DALLA STORIA

SESSANTOTTO. 50° ANNIVERSARIO.

Donne del Sessantotto. Betty Friedan: teorica e leader del movimento femminista americano.

image002Betty Friedan (1921-2006)

Tra i cambiamenti tumultuosi del Sessantotto, il femminismo è il movimento di liberazione che, più degli altri di quel periodo storico, ha determinato una profonda rottura con la cultura dominante di allora rivoluzionando la visione della società nei confronti delle donne e la loro condizione. Nella loro richiesta di cambiamento, le donne rivendicavano uguaglianza sociale e politica, da raggiungere nei confronti degli uomini e volevano affermare la loro differenza per una riappropriazione della specifica identità femminile negata dalla cultura tradizionale e dalla società capitalistica. Tra le figure di riferimento di quegli anni, storica protagonista degli eventi e al centro del dibattito politico per la visibilità e i diritti delle donne, Betty Friedan è senz’altro la più significativa. Laureata in psicologia all’Università della California, nel 1947 si trasferì a New York, dove lavorò come giornalista, prima di sposare Carl Friedan e avere tre figli. Frustrata per l’esistenza da casalinga e per la mancanza di opportunità lavorative per le madri, iniziò a svolgere ricerche su ciò che provavano le altre donne. Nel 1963, giunse così alla decisione di scrivere “La mistica della femminilità”, un libro di portata internazionale e testo di riferimento fondamentale del movimento femminista. “La mistica della femminilità” accrebbe la consapevolezza dello scontento femminile e avviò la “seconda ondata femminista”, tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’80, (la “prima ondata” era stata quella delle suffragette all’inizio del Novecento). L’insoddisfazione delle donne per i loro soffocanti e subalterni ruoli tradizionali nella società scatenò negli Stati Uniti una serie di eventi che alla fine cambiarono gli equilibri di potere tra i sessi, nella cultura come nella politica. La Friedan scriveva che negli anni ’50 del Novecento le donne soffrivano per il fatto di dover essere casalinghe e madri perfette, un’immagine idealizzata che l’autrice definiva “mistica della femminilità”. Con i suoi ritratti di donne che avevano contrastato tale immagine, il libro dette un possente contributo a una nuova ondata di femminismo, che produsse leggi per uguali retribuzioni e la formazione di numerosi gruppi femminili a sostegno dei diritti delle donne. Nel volume (tradotto in Italia nel 1965 dalle Edizioni di Comunità) la Friedan scriveva: “La mia tesi, è che il nocciolo del problema d’oggi non sia sessuale; si tratta invece di un problema di identità, provocato dall’arresto della crescita o da un’evasione dalla crescita, che vengono perpetrati dalla mistica della femminilità. Come la società vittoriana non permetteva alla donna di riconoscere o soddisfare le proprie esigenze sessuali, così la nostra società non permette di riconoscere o  soddisfare l’esigenza fondamentale della maturazione della personalità, un’esigenza che non si esaurisce nel ruolo biologico”. Il libro, che pone in una dimensione assolutamente nuova le prospettive di emancipazione e liberazione femminili, veniva discusso e analizzato profondamente negli anni successivi, diventando un punto di riferimento importante anche per il movimento femminista italiano. Sempre in quegli anni e precisamente nell’ottobre del 1966, la Friedan fondò e presiedette il Now (National Organization for Women), un’organizzazione che raccoglieva gruppi e collettivi femministi sparsi negli Usa e che gestiva le lotte del movimento femminista americano in una delle fasi di maggior espansione. Ne ricoprì la carica fino al marzo del ’70. In seguito si impegnò nelle battaglie per l’approvazione delle leggi sull’aborto e di altri provvedimenti per i diritti delle donne, come l’Equal Right Amendment, le leggi sul lavoro, la promozione dell’assistenza alle madri lavoratrici. Veniva costantemente invitata come lettrice e collaboratrice da molte università internazionali e, nei decenni successivi, si dedicò alla ricerca e alla produzione letteraria. “Il femminismo è da individuare come movimento politico e culturale di lunga durata, precedente, come e allo stesso tempo successivo al 1968, che tuttavia grazie alla spinta del ‘68 ha sviluppato non solo una visibilità e una serie di forme caratteristiche di pratica politica, ma ha avuto quella “esplosione” che ne ha permesso il radicamento e la diffusione negli anni successivi”. (Michele Colucci). Ogni donna sa che il processo è ancora lungo e faticoso e che, soprattutto, non deve mai abbassare la guardia!

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La veste grafica audace, con il “titolo riflesso”, allude alla convinzione della Friedan che le donne fossero frustrate perché sentivano la pressione di dover presentare alla società una facciata idealizzata, mentre in realtà covavano desideri inappagati, che chiamava “il problema senza nome”.

Mary Titton


9 settembre

PRIMO PIANO

75ma Mostra del Cinema di Venezia: Leone d’Oro a “Roma” di Cuaron.

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Il Leone d’Oro della 75ma Mostra del Cinema di Venezia è stato assegnato a “Roma” di Alfonso Cuaron. Racconto autobiografico ambientato negli anni ’70, il film, girato in bianco e nero, prende il nome dal quartiere di Città del Messico dove è cresciuto il regista e si ispira alla storia vera della sua tata. “Roma” racconta un anno turbolento della vita di una famiglia borghese attraverso le vicende della domestica Cleo (Yalitza Aparicio) e della sua collaboratrice Adela (Nancy García García), entrambe di discendenza mixteca; le due donne lavorano nel quartiere Roma, a Città del Messico, per una piccola famiglia borghese, guidata da Sofia (Marina de Tavira), madre di quattro figli, che deve fare i conti con l’assenza del marito, mentre Cleo affronta una notizia devastante che rischia di distrarla dal prendersi cura dei bambini, che lei ama come se fossero i propri. Il film è un ritratto di vita vera, intimo e toccante, in un momento di lotta personale, sociale e politica. Il Gran Premio della Giuria è andato all’apprezzatissimo “The Favourite” di Yorgos Lanthimos, che ha ottenuto anche la Coppa Volpi per Olivia Colman. Nel film, ambientato nell’Inghilterra di inizio ‘700, l’attrice interpreta la fragile e nevrotica regina Anna, al centro di un triangolo di sesso e potere assieme alle altre due protagoniste Rachel Weisz ed Emma Stone. Il Leone d’Argento per la migliore regia è stato assegnato a Jacques Audiard per un altro film molto apprezzato tanto dal pubblico quanto dalla critica, “The Sisters Brothers”, un western in cui Joaquin Phoenix e John C. Reilly sono i sanguinari “fratelli Sisters” che affrontano un’estenuante caccia all’uomo a cavallo, dagli esiti imprevedibili, dall’Oregon alla California. Come da previsioni, la Coppa Volpi al miglior attore è stata assegnata a Willem Dafoe, apprezzatissimo Vincent Van Gogh nel film “At Eternity’s Gate” di Julian Schnabel, mentre il Premio Speciale della Giuria è andato all’australiana Jennifer Kent, unica regista donna nel concorso veneziano, per “The Nightingale”, una storia di violenza e vendetta nella Tasmania del 1825, di cui sono protagonisti una giovane galeotta irlandese, interpretata dall’italo-irlandese Aisling Franciosi, e un aborigeno interpretato da Baykali Ganambarr. Tutti film apprezzabili. Nessun premio è andato agli italiani.


8 settembre

PRIMO PIANO

8 settembre 1943: 75 anni fa Badoglio annunciava l’armistizio al microfono dell’EIAR.

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Alle 19:42 dell’8 settembre 1943 il Maresciallo al microfono dell’EIAR annunciò alla popolazione italiana l’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, firmato con gli anglo-americani il giorno 3 dello stesso mese. Dopo la sigla dell’armistizio di Cassibile, Badoglio riunì il governo solo per annunciare che le trattative per la resa erano “iniziate”. Gli Alleati, da parte loro, fecero pressioni sullo stesso Badoglio affinché rendesse pubblico il passaggio di campo dell’Italia, ma il maresciallo tergiversò. La risposta degli anglo-americani fu drammatica: gli aerei alleati scaricarono bombe sulle città della penisola. Nei giorni dal 5 al 7 settembre i bombardamenti furono intensi: oltre 130 aerei B-17 (“Fortezze volanti”) attaccarono Civitavecchia e Viterbo. Il 6 fu la volta di Napoli. Perdurando l’incertezza da parte italiana, gli Alleati decisero di annunciare autonomamente l’avvenuto armistizio: l’8 settembre, alle 17:30 (le 18:30 in Italia), il generale Dwight Eisenhower lesse il proclama ai microfoni di Radio Algeri, poco più di un’ora dopo Badoglio fece il suo annuncio da Roma. La fuga dalla Capitale dei vertici militari, del Capo del Governo Pietro Badoglio, del Re Vittorio Emanuele III e di suo figlio Umberto dapprima verso Pescara, poi verso Brindisi, e la confusione, provocata dall’utilizzo di una forma che non faceva comprendere il reale senso delle clausole armistiziali e che fu dai più erroneamente interpretata come indicazione della fine della guerra, generarono grande confusione presso tutte le forze armate italiane su tutti i vari fronti sui quali ancora combattevano. Le conseguenze furono drammatiche: 815000 soldati italiani vennero catturati dall’esercito tedesco e destinati a diversi Lager con la qualifica di I.M.I. (internati militari italiani) nelle settimane immediatamente successive. Più della metà dei soldati in servizio nella penisola abbandonarono le armi e tornarono alle loro case in abiti civili. La ritorsione da parte degli ormai ex-alleati tedeschi, i cui alti comandi, come quelli italiani, avevano appreso la notizia dalle intercettazioni del messaggio radio di Eisenhower, non si fece attendere: fu immediatamente messa in atto l’Operazione Achse (“asse”), ovvero l’occupazione militare di tutta la penisola italiana e il 9 settembre fu affondata la Corazzata Roma, alla quale nella notte precedente era stato ordinato, assieme a tutta la flotta della Regia Marina, di far rotta verso Malta in ottemperanza alle clausole armistiziali, anziché, come precedentemente stabilito, attaccare gli alleati impegnati nello sbarco di Salerno. Nelle stesse ore una piccola parte delle forze armate rimase fedele al Re Vittorio Emanuele III, come la Divisione Acqui sull’isola di Cefalonia dove fu annientata; una parte si diede alla macchia dando vita alle prime formazioni partigiane come la Brigata Maiella; altri reparti ancora, soprattutto al nord, come la Xª Flottiglia MAS e la MVSN, scelsero di rimanere fedeli al vecchio alleato e al fascismo. Nonostante il proclama di Badoglio, gli alleati impedirono una massiccia e immediata scarcerazione dei prigionieri di guerra italiani. Intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dell’82esima Fiera del Levante di Bari, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha definito quello attuale “Momento difficile come allora” ed è ricorso a un paragone ardito per raccontare lo sforzo del governo per la ripresa economica dell’Italia oggi, proponendo il confronto con il dopoguerra. “Negli anni successivi all’8 settembre 1943 – ha scandito – i cittadini italiani hanno sormontato difficoltà enormi a costo di sacrifici inimmaginabili e lasciato in eredità un Paese ricco e avanzato, rispettato nel mondo, l’hanno fatto motivati nella fiducia nel domani”.


7 settembre

DALLA STORIA

Karen Blixen. “Sono fermamente convinta che la vita sia bellissima, ricca e grande: sì, ne sarei convinta anche se dovessi morire di peste in un letamaio”.

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Il 7 settembre 1962 moriva Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke, la scrittrice danese più nota con lo pseudonimo di Karen Blixen, autrice non solo del celeberrimo “La mia Africa”, ma di altrettanti romanzi e racconti, a partire dal primo lavoro del ’34 “Sette storie gotiche” fino ai bellissimi “La storia immortale”, Il pranzo di Babette”, contenuti nella raccolta “Capricci del destino”, e molti altri ancora. Tra questi, da non perdere, l’epistolario sugli anni che la Blixen trascorse in Africa; lettere che, dal 1914 al 1931, scrisse alla madre, ai fratelli e alla zia e che sono bellissime per “la discrezione profonda, la melanconia, l’ardore, l’angoscia, il garbo del cuore, la gravità morale, la tenerezza famigliare che si conciliano con una grazia perfetta”. Dal romanzo “La mia Africa” è stato tratto nel 1985 l’omonimo film diretto da Sydney Pollack, vincitore di sette Premi Oscar così come da “La storia immortale” è stato tratto nel 1968 il film “Storia immortale”, scritto e diretto da Orson Welles. Lo stesso racconto è stato oggetto di infinite rappresentazioni teatrali. Inoltre, nel 1987, la riduzione cinematografica del racconto “Il pranzo di Babette” ha vinto l’Oscar al miglior film straniero.

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C’è un ritratto bellissimo di Karen Blixen scritto da Pietro Citati nel suo libro “Ritratti di donne”, 1992, Rizzoli che, per motivi di spazio, non è possibile riportare per intero. Sicuramente non è possibile neanche tralasciare di trascrivere almeno una parte di questa biografia che coglie nel profondo lo spirito di una delle figure femminili più affascinanti della letteratura di fine secolo. Recita così: “Karen Dinesen cominciò a ribellarsi nell’antica casa di famiglia, nessuno poteva immaginare che sarebbe diventata una grande scrittrice. Sembrava soltanto una delle tante ragazze fantastiche e romanzesche, figlie della borghesia moribonda, che in quegli anni protestavano contro il passato e le madri. Amava Dumas, Il Flauto magico, Shakespeare, la Bibbia, le marionette. Leggeva Byron e Nietzsche, e con gli “immensi occhi scuri, da piccola strega dei boschi”, scrutava gli orizzonti più lontani, per scoprire cosa il futuro serbava per lei. Aveva adottato, come d’Annunzio, il motto di Pompeo: “Vivere non est necesse, navigare necesse est”. Si innamorò perdutamente del cugino, Hans von Blixen-Finecke: non fu corrisposta; e allora, per conservare almeno l’ombra, l’alone, il riflesso dell’amore giovanile, ne sposò il fratello gemello, Bror. Viveva sotto l’ombra del padre, avventuriero e scrittore, che si era impiccato quando era ancora bambina. Le sembrava che il padre vivesse dentro il suo corpo: lo ascoltava parlare; lo ascoltava mentre la invitava a fuggire di casa, ad agire, a misurarsi con le potenze non ancora domate dell’universo. … Nel 1914 Karen si sposò, diventò la baronessa von Blixen-Finecke, partì per il Kenya; e per più di dieci anni voltò le spalle alla letteratura, che non si era curata di lei. Ci sono molti modi per conoscere il proprio destino: chi incontra Dio che lo atterra e lo suscita, chi una donna, chi legge un libro dove sta nascosto il suo io dimenticato, chi scorge un mendicante inviato dagli dei, chi uno strano intreccio di casi. La Blixen incontrò un paese, il Kenya; e da quel momento cadde preda di una fascinazione che non la abbandonò per tutta la vita, e secondo una massima di Pindaro finalmente “diventò chi era”. Non aveva conosciuto un paese così bello nemmeno nei sogni: quelle lontane, immense montagne azzurre, “come in un quadro di Claude Lorrain”; le lunghe praterie buie, i larghi fiumi che scorrono velocemente; le praterie carbonizzate battute dal vento rovente, durante le siccità; e poi le piogge improvvise, il verde che ricopre rapidamente la terra persino nelle valli più profonde, un verde delicatissimo e trasparente, come se la luce uscisse dall’erba, o se l’aria lieve e il cielo si specchiassero sui prati e sui declivi. Era l’Eden, che suo padre aveva sognato: l’Arcadia, di cui aveva letto nei greci. Là doveva vivere, tra le belve e gli uccelli rapaci: là guardava la natura dritto negli occhi: là incontrava il leone, al quale avrebbe voluto somigliare; e che cosa meravigliosa era la caccia, non avere casa, camminare per le praterie, uscire nell’aria fredda della notte, provare l’estasi che avevano provato i primi abitanti della terra. Aveva costruito la sua casa a Ngong, in mezzo a un grande bosco, tra le capre e le pecore e i ragazzini Kikuyu, che suonavano il flauto. Vicino si estendeva la piantagione di caffè. … Nella piantagione faceva di tutto: l’amministratrice, la donna d’affari, la cacciatrice, la medichessa, la maestra, l’autista. La sera, si ritirava nel suo studio. Sul grammofono che le aveva regalato Denys Finch Hatton, ascoltava il “Viaggio d’inverno” di Schubert e “Petruska” di Stravinskij e Beethoven. Leggeva appassionatamente “Le mille e una notte”, Stevenson, Kipling, “Bleak House” di Dickens. Quando aveva tempo, insegnava al giovane cuoco, un genio come Babette, qualche ricetta della cucina europea: la pasta sfoglia, il soufflé, le crêpes, la torta di mele, la sauce béarnaise, la besciamella coi tartufi, il pasticcio di funghi, e il suo mirabile brodo di midollo, al quale avrebbe voluto affidare la propria fama. Non era mai stata così felice. … Certo, lo sapeva, lei era sola. Sarebbe stata sempre sola, senza nessuno, fino alla morte: eppure in Africa, “la mia vita di tutti i giorni era piena di voci che mi rispondevano; non parlavo mai senza ricevere una risposta, e parlavo liberamente, senza reprimermi, anche con il silenzio”. … Il matrimonio con Bror Blixen, il doppio dell’uomo che aveva amato in giovinezza, non durò a lungo. Volubile e frenetico, il marito cacciava tutte le donne, non importa se bianche, somale o negre, oltre che i suoi leoni; e mandò in rovina la piantagione di Ngong. Quanto a Karen Blixen, conobbe un aristocratico inglese, Denys Finch Hatton, e vide subito in lui “l’ideale della vita personificato”.

image004(Karen Blixen e Denys Finch Hatton)

Vissero insieme per qualche anno, negli intervalli (di un giorno o di qualche mese) che Finch Hatton le dedicava tra due viaggi, due safari, due fughe. Era pieno di fascino: bastava che una cosa gli piacesse, perché tutti la trovassero adorabile. Conosceva il greco, la letteratura e la musica moderna: cacciava gli elefanti e i leoni, dipingeva, faceva affari, studiava, nuotava, volava, giocava a golf e a cricket; e faceva tutto benissimo, con l’audacia dell’elisabettiano e la prudenza d’Ulisse, con la grazia del dilettante che non si impegna mai in nulla, perché nulla deve dare la sua misura. “Sono legata a Denys per l’eternità, ad amare la terra che calpesta, ad essere felice al di sopra di ogni immaginazione quando è qui, e a soffrire le pene dell’inferno ogni volta che parte.” Malgrado la sua lucidità, pretendeva da Finch Hatton ciò che non poteva darle. Le mancava: non la sosteneva: era sempre via: sentiva che Denys non amava né lei né nessuno, e che, per qualche misteriosa ragione, lei non poteva essere amata da nessuno. Non tollerava di dipendere così interamente dalla sua presenza. Poi comprese. Lui era Ariel.  … Mi è sempre sembrato che avesse qualcosa della natura dell’aria, e che fosse una sorta di Ariel. Ma chi partecipa di questa natura è anche un po’ senza cuore, e quello che chiamiamo cuore appartiene certo alla terra, dove le cose crescono e fioriscono; un giardino e un campo possono avere moltissimo cuore, e Ariel era proprio senza cuore, come vedrai se leggi “La tempesta”; ma era così puro in confronto agli esseri terreni sull’isola, limpido e onesto, immediato, trasparente, come l’aria.” Intanto, intorno a lei e in lei, tutto precipitava. La piantagione di caffè non rendeva, e i finanziatori danesi volevano venderla. Non c’erano soldi. … La sifilide, di cui era stata contagiata dal marito, la costringeva a letto con atroci dolori. … Non poteva abbandonare la piantagione, che era la sola opera dei suoi sogni e delle sue mani. Non aveva mai fatto altro: aveva coltivato caffè, comandato indigeni, curato bambini malati, educato cuochi: non possedeva altro al mondo; e se la piantagione finiva nel nulla, era il fallimento totale della sua vita. … Nel 1930 la casa e la piantagione furono vendute; e la Blixen cominciò a vendere le sue cose, tranne i libri, l’argenteria e i bicchieri, “che le dita e le labbra di tanti amici  avevano toccato”. Si occupò dei suoi Kikuyu, e cercò di assicurare loro un pezzo di terra. … Molti anni dopo, tornata in Danimarca, in principio, con una tremenda determinazione, la Blixen rinunciò a vivere. “Rinunciato al mio diritto a una vera vita umana”, scrisse su un taccuino, e nessuna altra parola.”  … Non aveva più un destino né un’identità. Le restava un pis-aller: la letteratura. Quando scrisse “Carnevale”, comprese che “era stanca di essere in una quantità di momenti diversi la stessa persona: preferiva essere una quantità di persone diverse in uno stesso momento.” … Quanta letteratura è nata in questo sacrificio e da questa metamorfosi. … Ma, in fondo all’anima, la letteratura non le bastava. … Era magrissima: le innumerevoli operazioni sopportate in seguito alla sifilide, ogni anno le asportavano un pezzo di stomaco o di colonna vertebrale, l’avevano ridotta a pesare trentacinque o al massimo trentotto chili. … Morì così, senza eco, ascoltando da sola il “Viaggio d’inverno” di Schubert. Fu dura con sé stessa fino alla fine: come deve essere ogni vero scrittore; perché “solo ciò che è duro ha un suono: solo i metalli duri possono squillare”. Aveva imparato, un’altra volta a sue spese, che “riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra”. Ma i profani (qualche volta anche lei scrive) non comprendono che questa felicità suprema è, al tempo stesso, la più grande delle sciagure.”

Mary Titton


6 settembre

PRIMO PIANO

Lutto nel mondo del cinema: è morto Burt Reynolds.

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L’attore americano Burt Reynolds è morto oggi all’età di 82 anni in un ospedale della Florida. Reynolds, che soffriva da tempo di problemi di cuore e che nel 2010 era stato operato d’urgenza, è stato stroncato da un infarto. Vincitore di un Golden Globe e con all’attivo una nomination all’Oscar, ha recitato in oltre 70 film. Di origini irlandesi e cherokee da parte di padre, Reynolds debuttò in televisione, interpretando tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta diverse serie, ma diventò popolare con Hawk l’indiano (Hawk). Per il cinema partecipò allo spaghetti western “Navajo Joe” di Sergio Corbucci, che egli stesso definiva il film più brutto a cui avesse mai preso parte, al punto da consigliarne la proiezione solo sugli aerei e nelle carceri, dove gli spettatori, non avendo via d’uscita, sarebbero stati costretti a guardarlo. Il grande successo arriva però nel 1972 con “Un tranquillo weekend di paura” (Deliverance), nel quale interpreta un personaggio di nome Lewis Medlock che, con alcuni amici, partecipa ad un’escursione in canoa sulle rapide di un’amena regione americana, dove diviene bersaglio di alcuni balordi che trasformano la breve vacanza in un incubo. Nel 1974 è protagonista di “Quella sporca ultima meta” (The Longest Yard) di Aldrich, nel ruolo di un giocatore di football, sport del quale era stato realmente un buon giocatore come halfback durante gli studi alla Florida State University. Nel 1997 recita in “Boogie Nights – L’altra Hollywood” (Boogie Nights), per il quale viene candidato al premio Oscar come migliore attore non protagonista. Nel 2002 è guest-star in un episodio della serie televisiva X-Files. Ha prestato la sua voce in alcuni videogiochi e ha partecipato alla serie TV “My Name Is Earl” nei panni di Chubby, ricco magnate proprietario di fast food, strip club, rivendite di auto. Recentemente ha fatto parte del cast della pellicola di Quentin Tarantino “Once upon a time in Hollywood”, uscito negli Usa il 26 luglio scorso.

DALLA STORIA

Giovanni Fattori. Artista tra i più grandi dell’Ottocento e uno dei più sensibili esponenti del movimento dei Macchiaioli.

image001(Giovanni Fattori, Autoritratto, 1854. Palazzo Pitti, Firenze)

Si tratta della prima esperienza artistica significativa del pittore, che qui sceglie di raffigurarsi con un atteggiamento disinvolto e brioso.

Giovanni Fattori, pittore di grande energia e sentimento, eccellente grafico e incisore, è uno dei massimi artisti italiani dell’Ottocento e uno dei più sensibili esponenti del movimento dei Macchiaioli. Fattori nacque a Livorno il 6 settembre 1825. “In quei primi decenni del XIX secolo”, precisa lo storico dell’arte Stefano Zuffi, “con l’affermarsi del Neoclassicismo e il cosiddetto stile Impero gli artisti italiani erano favoriti dalla possibilità di avere costantemente a disposizione i grandi esempi del passato, dall’archeologia alle riletture quattro-cinquecentesche. La consapevolezza dell’immenso patrimonio culturale, minacciato e in parte disperso con le campagne napoleoniche è forse l’elemento più interessante di quel periodo. L’emanazione di decreti per la tutela del patrimonio artistico e il recupero dei capolavori asportati in Francia effettuato da Canova erano i sintomi dell’attenzione nei confronti dell’arte del passato, accuratamente studiati nelle accademie. Questo atteggiamento di recupero della storia non si limitava alle arti figurative: il teatro, il romanzo e l’opera lirica (come i celeberrimi capolavori di Manzoni e di Verdi) si ispiravano alle figure, agli scenari, agli episodi del passato. Era un modo per evitare almeno in parte i rigori della censura, rigidissima soprattutto nelle regioni dominate dagli austriaci, ma rivelava l’esigenza di recuperare motivi e stimoli di identità e di orgoglio nazionale, specie in un periodo di mortificazione. Anche la pittura di soggetto storico giocava un ruolo nella lunga fase del Risorgimento. … Solo verso la metà del secolo entrò in scena l’attualità: alcuni artisti soprattutto lombardi e toscani, partecipano direttamente alle guerre o addirittura all’impresa dei Mille di Garibaldi. L’illustrazione dei fatti contemporanei sostituì la rievocazione di episodi remoti. Al “recupero della realtà” si può far risalire la nascita e l’evoluzione del più importante gruppo di pittori italiani dell’Ottocento, i “Macchiaioli”. Attivi tra Firenze e le coste della Maremma, artisti come Lega, Fattori e Signorini dipingevano situazioni e paesaggi tratti dal vero, con una tecnica di grande ricchezza cromatica, paragonabile a quanto stavano facendo, a Parigi, negli stessi anni gli “Impressionisti”. La sensibilità e la poetica dei vari rappresentanti del gruppo portò a esiti diversi: Lega cercò la poesia dei momenti di intimità, Signorini (anche con la precoce attenzione verso la fotografia) colse al volo movimenti di folla e scenari urbani, Fattori interpretò la solitudine e la fatica dei soldati di ronda nella campagna assolata o di contadini stremati dal lavoro. Quest’ultimo aspetto, l’attenzione verso i nuovi temi sociali, è il filone prevalente negli ultimi anni del secolo. Dopo l’Unità d’Italia e la definitiva scelta di Roma come capitale del regno d’Italia, spenti gli ardori risorgimentali, si scopre lo stato di arretratezza in cui si trova gran parte la nuova nazione che aspira a trovare un ruolo fra le grandi potenze: rapidamente, di fronte alla situazione concreta, si parla di “delusione postunitaria”. Il disagio dei poveri, la necessità di una rapida riconversione dell’economia verso l’industria, il formarsi di un nuovo ceto operaio offrono agli artisti più sensibili l’occasione per una pittura nuova, non priva di un senso di denuncia”. “Quando all’arte si leva il verismo che resta? Il verismo porta lo studio accurato della Società presente, il verismo mostra le piaghe da cui è afflitta, il verismo manderà alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini”, così si pronunciava Giovanni Fattori. I suoi dipinti trattano gli aspetti più terragni della realtà, quelli meno appariscenti e per questo motivo più dolorosi: a queste tematiche Fattori si accostò con diverse disposizioni d’animo, presentando talvolta un grande e innocente coinvolgimento lirico e altre facendo prevalere l’intento polemico, ironico o descrittivo. Questa riflessione sulla quotidianità, in ogni caso, fu condotta sempre con grande vigore e autenticità morale, in pieno accordo con la poetica macchiaiola, animata da un pungente verismo pittorico. Fattori abbracciò, in ogni caso, numerosi altri soggetti oltre a quello militare e, come già abbiamo visto, quello del paesaggio, in particolare la sua terra, la Maremma toscana e dimostrando un certo gusto per il ritratto, realizzato con grande penetrazione psicologica e disinvoltura. Dopo gli anni Settanta, mentre venne meno la compattezza del gruppo dei macchiaioli, Fattori si dedicò con crescente attenzione al ritratto e all’incisione.” Giovanni Fattori morì il 30 agosto 1908 all’età di 82 anni a Firenze; pianto sinceramente dai contemporanei.

image002(In vedetta, 1872. Olio su tavola. Collezione privata)

Il realismo di Fattori si esprime anche attraverso la scelta di colori intrisi di luce e di un disegno che non dimentica la storica lezione dell’arte toscana. Se la tecnica della pittura en plein air e la grande luminosità possono in parte ricordare i coevi risultati degli impressionisti parigini, la stesura robusta delle pennellate con sintetiche “macchie” di colore risulta del tutto originale.

image003(Carro rosso, 1887. Olio su tela. Milano, Pinacoteca di Brera)

Il quadro descrive un momento di pausa nella fatica del lavoro. Le sagome monumentali dei buoi staccati dalla stanga e la pesante massa del contadino si profilano nette sullo sfondo di un litorale strapazzato dal sole, al limitare di un mare che sembra di piombo.

image004(Il campo italiano alla battaglia di Magenta, 1862. Olio su tela. Palazzo Pitti, Firenze)

image005(Soldati francesi del ’59, 1859. Olio su tela. Collezione privata, Milano)

Mary Titton


5 settembre

PRIMO PIANO

Per non dimenticare: 80 anni fa la vergogna delle leggi razziali.

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Ottant’anni fa, il 5 settembre 1938, a San Rossore, il re Vittorio Emanuele III firmò il decreto 1340, con cui gli ebrei italiani venivano espulsi da tutte le scuole e Università, una privazione di diritti che preludeva alle deportazioni e agli stermini successivi. Fu la prima delle cosiddette leggi razziali, un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari) applicati in Italia, fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Molti scienziati e intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre, tra cui Emilio Segre, Bruno Pontecorvo, Enrico Fermi, la cui moglie era ebrea, emigrarono negli Stati Uniti. Chi decise di rimanere in Italia fu costretto ad abbandonare la cattedra. Anche bambini e ragazzi italiani di origine ebrea vennero cacciati dalla scuola. Oggi la senatrice a vita Liliana Segre, che ad Auschwitz ha perso quasi tutta la sua famiglia, ricorda quanto, allora bambina di sette anni, rimase colpita da quel provveimento ingiusto e afferma “La parola ‘espulsa’ dalla scuola mi è rimasta attaccata per tutta la vita”. Le leggi razziali fasciste furono per così dire preparate dal Manifesto della razza, pubblicato, su “Il Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938 e firmato da alcuni dei principali scienziati italiani e rese possibili dalla propaganda fascista, che presentò gli ebrei come un pericolo per la nazione, con il silenzio complice di molti italiani. Oggi a San Rossore si è svolto l’incontro che apre le cerimonie per ricordare la firma del regio decreto che dette avvio alle leggi razziali e ha visto la partecipazione delle istituzioni cittadine, dal sindaco Michele Conti al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, all’Università. Proprio il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella, a nome dell’intera Accademia e alla presenza di tutti i rettori delle Università italiane, riconoscerà la responsabilità per gli atti che, a partire dall’adesione al ‘Giuramento di fedeltà al Fascismo’ del 1931, videro il mondo universitario silente e complice verso le scelte del regime, che giunsero sino all’emanazione delle leggi razziali nel 1938. La solenne cerimonia si svolgerà il 20 settembre nel Palazzo della Sapienza dell’Ateneo pisano e sarà il momento più alto e significativo di ‘San Rossore 1938’, un vasto programma di iniziative che si svolgeranno in Toscana da settembre e che, con incontri nelle scuole, proseguirà fino al 2019 inoltrato. Tutti gli interventi hanno sottolineato come “i fantasmi del nazismo, del fascismo, del razzismo, possono tornare …” e “Serve una memoria vigile …”  

 DALLA STORIA

5 settembre 1997: muore Madre Teresa di Calcutta. La “piccola Matita di Dio”.

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Domenica 4 settembre 2016 in piazza san Pietro, nell’ambito della celebrazione del Giubileo per gli operatori della Misericordia, veniva canonizzata da papa Francesco madre Teresa di Calcutta, al secolo Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, una piccola suora dal fisico e dalla volontà di ferro, albanese di nascita, poi naturalizzata indiana, che, con la sua opera instancabile tra gli “avanzi” senza più voce delle strade di Calcutta, è divenuta una delle persone più famose al mondo, ricevendo numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Nobel per la Pace nel 1979. Madre Teresa è diventata un emblema di quanto può l’amore in un mondo segnato da profonde discriminazioni razziali e sociali (anche se qualche esegeta non ha mancato di sottolineare che “Dio solo è buono e gli uomini, anche i santi, hanno tutti le loro miserie”). Singolare è la vicenda di questa donna: nel 1928, a diciotto anni, decise di prendere i voti entrando come aspirante nelle Suore di Loreto, un ramo dell’Istituto della Beata Vergine Maria che svolgeva attività missionarie in India, fu quindi inviata nel Darjeeling, alle pendici dell’Himalaya, dove, per completare la sua preparazione, si fermò due anni, studiando le lingue inglese e bengali e insegnando nella scuola annessa al convento; nel 1931, dopo aver preso i voti, Teresa lasciò Darjeeling e raggiunse Calcutta, dove per i successivi diciassette anni visse e lavorò presso il collegio cattolico di Saint Mary’s High School del sobborgo di Entally, frequentato soprattutto dalle figlie dei coloni britannici. La sua vita avrebbe potuto continuare a svolgersi attraverso l’impegno dell’insegnamento della storia e geografia alle ragazze inglesi di buona famiglia, ai giorni dedicati alla preghiera, allo studio della lingua hindi, invece ebbe una svolta profonda, quando, colpita e impressionata dalle condizioni di povertà estrema di tante persone che morivano sole e abbandonate sui marciapiedi di Calcutta, non potè restare indifferente: la sera del 10 settembre, mentre in treno si recava a Darjeeling, dove doveva svolgere dieci giorni di esercizi spirituali, sentì quella che ella stessa ha definito una “chiamata nella chiamata”, decise quindi di uscire dal convento e mettersi al servizio dei “più poveri tra i poveri”, di tutte quelle persone che, diventate un peso per la società, perdono ogni dignità umana e muoiono di stenti nel più totale abbandono nelle strade di Calcutta, una realtà ben focalizzata dallo scrittore francese Dominique Lapierre nel suo romanzo “La città della gioia”. Decisione non semplice la sua, destinata ad incontrare l’opposizione del suo ordine e le resistenze del Vaticano, a cui, nonostante la preghiera quotidiana, si aggiungeva il silenzio di Dio e il buio della sua anima, come ella stessa ha scritto nei suoi Diari. Sono ammirevoli il coraggio e la determinazione di questa piccola suora, che cominciò la sua missione al servizio dei poveri nello slum di Motijhil, dove inizialmente ebbe come base solo una capanna. Presto attorno a lei si formò una piccola rete di volontari che l’aiutavano nell’insegnamento, nella distribuzione di cibo e nella diffusione di elementari pratiche igieniche, nonché nell’assistenza ai malati e ai moribondi. Nel 1950, crescendo il numero delle persone che volevano seguire il suo esempio, fondò la congregazione delle Missionarie della carità, il cui stile di vita prevedeva un’austerità rigorosa per condividere le condizioni degli ultimi. Oggi le numerose case di accoglienza di Madre Teresa presenti in tutto il mondo e anche a Roma sono sotto gli occhi di tutti, ma lei nella sua umiltà amava dire di sé “Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio.
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Mary Titton


4 settembre

PRIMO PIANO

Roma: cadono pezzi di tufo dal Passetto di Borgo.

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Dopo il crollo del tetto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, questa mattina alle 8:25, a Roma, all’altezza del civico 23, dove ha sede la redazione Rai Vaticano, è avvenuto il distacco di alcuni frammenti dalle mura del Passetto di Borgo. Secondo quanto riferito dai pompieri, il distacco ha interessato parti di tufo, mentre altri pezzetti arenari sono stati rimossi dai vigili del fuoco perché in “imminente pericolo di caduta”. Nessuno è rimasto ferito. A scopo precauzionale, l’area sottostante è stata interdetta al passaggio pedonale, mentre le auto possono circolare. Il Passetto di Borgo, er Corridore in dialetto romanesco, è un passaggio pedonale sopraelevato, lungo circa 800 m., che collega il Vaticano con Castel Sant’Angelo. Scopo del Passetto di Borgo era quello di permettere al Papa di rifugiarsi nel Castello in caso di pericolo e allo stesso tempo avere un bastione che consentisse un migliore controllo del Rione. Il Passetto fu fatto costruire nel 1277 da Niccolò III in un tratto delle Mura Vaticane durante alcuni lavori di restauro, resisi necessari per il cattivo stato delle stesse. Nel 1494 la struttura permise a papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) di rifugiarsi nel Castello durante l’invasione di Roma da parte delle milizie di Carlo VIII di Francia. Nel 1527 anche papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) si rifugiò a Castel Sant’Angelo tramite il Passetto durante il Sacco di Roma effettuato dai lanzichenecchi di Carlo V. In occasione del Giubileo del 2000 il Passetto, come altre opere architettoniche, fu rimesso in funzione, oggi è possibile visitarlo solo con visita guidata. Il piccolo crollo, ad una settimana dal cedimento del tetto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano e da quello del tratto della Rupe Tarpea in Campidoglio, desta preoccupazione per la conservazione del patrimonio archeologico e storico della Capitale.

DALLA STORIA

Ivan Illich: Un Pensatore libero.

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Ivan Illich, se proprio gli si doveva attribuire una definizione, preferiva essere considerato un pensatore libero, fuori da ogni inquadramento che potesse distoglierlo dall’esercitare il suo pensiero critico rispetto a ciò che osservava nel mondo in cui viveva. Oggi, è considerato uno dei più grandi sociologi del Novecento e ritenuto un intellettuale tra i più radicali della seconda metà del XX secolo. Pedagogista, storico, filosofo e antropologo, citato spesso come teologo, espressione che lui stesso rigettava tenacemente si era, fin da bambino, rivelato particolarmente intelligente e versatile. All’età di sei anni parlava, grazie alla madre, come fossero sue lingue madri, il francese, il tedesco e l’italiano (in seguito divenne un poliglotta imparando il croato, il greco antico, lo spagnolo, il portoghese, lo hindi e altri idiomi). Ciononostante, all’epoca, quando la madre volle iscriverlo a una scuola di Vienna, una scuola molto buona dove per i bambini era già in uso la pratica dei test, gli esaminatori decretarono che era un bambino ritardato. L’esclusione dalla scuola costituì per Illich, come lui stesso raccontò, un grande vantaggio perché poté stare per due anni nella biblioteca della nonna a leggere romanzi e a cercare nei dizionari tutte quelle cose interessanti che potevano eccitare la curiosità di un bambino dispettoso di sette anni. Di fatto non prese mai seriamente la scuola e la frequentò a intervalli irregolari “Tutto quello che ho imparato l’ho imparato fuori dalla scuola”. Illich era nato a Vienna il 4 settembre 1926 da padre croato e madre ebrea sefardita. Per sfuggire alle leggi razziali nel 1941, con la madre e i fratelli, andò a vivere a Firenze e nel ’44 si trasferì a Roma dove si iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana con il progetto di diventare sacerdote. Nel ’51 fu ordinato sacerdote. Prestò servizio come assistente parrocchiale a New York, nella diocesi retta dal cardinale Spellman e nel ’56 fu nominato vicerettore dell’università Cattolica di Porto Rico. Attento osservatore analizzava con spirito autonomo e profondo le realtà che viveva anche all’interno della sua attività ecclesiastica dove, in più di un’occasione, sollevava la sua protesta di fronte a posizioni contrarie al suo modo di pensare come quando “dopo aver partecipato, in qualità di consulente del Cardinal Suenens, alla seconda e alla terza sessione del fondamentale Concilio Vaticano II, nel novembre del ’64, proprio mentre il Concilio dà il placet allo schema della “Gaudium et spes” che apparentemente non si oppone alla conservazione di armi nucleari”, contrario si ritirò. Coerentemente con il suo pensiero, in base all’idea che più della teoria vale l’impegno dell’azione, fonda, nel ’61 a Cuernavaca (Messico) il Centro interculturale di documentazione, uno spazio educativo non istituzionale per la formazione dei missionari che avrebbero operato in America Latina. Nel dialogare con loro Illich applicava “una revisione dei presupposti ideologici che informavano l’azione acculturatrice dei missionari che avrebbero operato nei paesi in via di sviluppo”. La sua analisi critica del Cattolicesimo e il conflitto aperto con le forze più conservatrici della Chiesa lo portarono ad abbandonare il sacerdozio e ad elaborare un’ideologia contestativa verso le forme istituzionali in cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all’economia e alla medicina). Scrisse pertanto diversi saggi tra questi Descolarizzare la società (1971); La Convivialità (1973); Il genere e il sesso. Per una critica storica dell’uguaglianza (1982); Nello specchio del passato (1992).

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Nel ’77 Illich insegnò alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento dove tenne lezioni e organizzò seminari, diventando presto un riferimento per il movimento studentesco. Illich muoveva la sua critica alla società contemporanea, una società produttivistico-consumistica propria del neocapitalismo e sosteneva che le forme istituzionali, espressione di questo sistema sociale, economico, politico sottendono e impongono rapporti di dominazione e subalternità culturale nel rapporto con l’uomo. Secondo il sociologo austriaco la crisi planetaria ha le sue radici nel fallimento dell’impresa moderna: cioè la sostituzione della macchina all’uomo, il prevalere della tecnica in un mondo sempre più privo di valori etici e morali. La società dei consumi è dunque responsabile dell’alienazione dell’uomo moderno e coercitiva della sua espressione creativa. Nel saggio “La Convivialità”, Illich intende per “convivialità” il contrario della produttività”, egli scrive: “Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio della produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono … Il rapporto industriale è il riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale”. “Il passaggio dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato a un valore realizzato”. Illich chiamava società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un gruppo di specialisti che lo tiene in pugno sotto il proprio controllo. Mentre nel suo saggio “Bisogni”, attraverso una approfondita e ben circostanziata analisi, parla dei bisogni indotti che “può essere considerata l’eredità più insidiosa lasciataci dallo sviluppo”. Secondo Illich la creazione dei “bisogni di base” ha trasfigurato la natura umana e la trasformazione è avvenuta in un paio di secoli. … In questo processo secolare la generazione del secondo dopoguerra è stata testimone del passaggio dall’uomo comune all’uomo bisognoso. Oggi, la stragrande maggioranza dei  miliardi di persone viventi sul pianeta accetta incondizionatamente la propria condizione umana di dipendenza dai beni e dai servizi, una dipendenza chiamata bisogno. … Allora, il fenomeno umano non viene più definito attraverso ciò che siamo, affrontiamo, possiamo prendere, sogniamo e nemmeno più attraverso il mito moderno per il quale possiamo lasciarci alle spalle il regno della scarsità, ma attraverso la misura di ciò che ci manca e quindi, di ciò di cui abbiamo bisogno. Le tematiche sollevate da Illich, oggi non sorprendono più nessuno perché le sue riflessioni sulla società industrializzata e le sue problematiche sono un’evidenza invariata nel tempo. La sua eredità si può racchiudere nella frase seguente con la quale concludeva, infine, le sue riflessioni: “La speranza della specie umana dipende dalla riscoperta della speranza come forza sociale”.

Mary Titton


3 settembre

image002(Marte e Venere sorpresi da Vulcano (Efesto). Alexandre Charles Guillemont, 1827)

Ricominciare dai sentimenti con la passione della lettura.

Riprendono oggi, dopo la pausa estiva, le pubblicazioni della rubrica dedicata agli avvenimenti storici ed i loro protagonisti. Personaggi che con le loro azioni hanno segnato fatti di un passato lontano, così come altri di un tempo più vicino che hanno determinando il lungo corso della Storia e il suo divenire. Ripartiamo dunque dalla narrazione di queste vicende umane così come si propone questa rubrica che vuole osservare da vicino le circostanze che hanno provocato tali eventi, ragionando sulle possibili cause, sollevando interrogativi e curiosità, ricercando ragioni e torti per approfondire e considerare le tematiche in antitesi alla realtà odierna che, viaggiando a tempo di Internet, mal sopporta l’impegno della lettura, l’amore per la cultura, la volontà di capire che richiedono tempo e riflessione. Molti oggi ritengono che si possa prescindere dalla cultura, dalla conoscenza anche di fatti che hanno contrassegnato svolte epocali o quella di personaggi che hanno incarnato il pensiero di intere generazioni, che hanno innovato il pensiero collettivo o appassionato con la loro arte il mondo intero. Ci sono giovani oggi che se citi, per esempio, Marie Curie non hanno la più vaga idea di chi sia. Ciò che sembra contare oggi è avere la risposta pronta, la soluzione immediata, al diavolo la complessità, che è propria della natura umana, purché si arrivi al dunque, alla soluzione dei problemi pratici, magari attraverso i muscoli o ad un “parlar chiaro” e semplice che non confonda le idee che non tiri in ballo parole come coscienza, memoria e solidarietà. A questo proposito e relativamente alla forza del pensiero che perviene all’uomo solo attraverso lo sforzo intellettuale e alla formulazione dei concetti la riflessione di Umberto Galimberti, noto filosofo e sociologo, sulla direzione attualmente intrapresa dalla nostra società descrive bene il livello di superficialità che produce il linguaggio impoverito e il ricorso alle immagini come mezzo con cui relazionarsi. Egli scrive: “Oggi educare i giovani ai sentimenti è impresa sempre più ardua, perché molti si fermano a livello di “impulso” che ha come linguaggio non le parole ma i gesti, il più delle volte violenti.” E prosegue: “A un gradino superiore agli impulsi incontriamo le emozioni, ossia la risonanza emotiva che le situazioni che incontriamo nel mondo e i nostri gesti con cui ci relazioniamo al mondo suscitano in noi. Le emozioni sono in parte naturali e in parte culturali, ossia prodotti dall’educazione e dal nostro modo di vivere. In presenza di una carenza emotiva, la psiche non registra la differenza tra ciò che è conveniente o sconveniente, tra ciò che è grave e ciò che non lo è, tra parlare male di un professore o pigliarlo a calci, tra corteggiare una ragazza o stuprarla. Quando, per le più diverse ragioni, la psiche, è apatica è molto difficile accedere ai sentimenti. I sentimenti non sono un’espressione della natura, ma della cultura. I sentimenti si apprendono. Fin dai tempi più remoti, le culture primitive si sono incaricate di raccontare miti dove era possibile apprendere la differenza tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, il puro e l’impuro, il permesso e il proibito. Funzione questa che un tempo veniva svolta anche dalle nostre nonne quando ci raccontavano fiabe dove il bene e il male si contendevano la sorte del protagonista. I miti greci sono una grandiosa rappresentazione delle passioni e dei sentimenti umani: Zeus è il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite la sessualità, Apollo la bellezza, Ares l’aggressività, Dioniso la follia e via dicendo. Oggi non possiamo più rifarci alla mitologia greca per apprendere i sentimenti, ma disponiamo di quel grandioso e appassionante repertorio che è la letteratura, dove è possibile imparare cos’è l’amore in tutte le sue sfumature, cos’è il dolore in tutte le sue declinazioni, cos’è la gioia, la noia, la disperazione, il suicidio, la speranza, la tragedia. Leggendo, i sentimenti si imparano, ci si familiarizza con loro, se ne conosce il nome e i possibili percorsi a cui avviano e dove conducono. Insomma, leggendo, si acquisisce una competenza sentimentale che è alla base della sicurezza di sé. Oggi i giovani stanno passando (se mai già non sono definitivamente passati) dalla lettura che impegna il nostro cervello a tradurre i segni grafici in immagini, che esonera il nostro cervello dal lavoro di traduzione e lo fa regredire a livello infantile quando, per capire qualcosa del mondo, avevamo bisogno di tante immagini e illustrazioni. Più questa tendenza si diffonde e dilaga, sempre meno saranno i giovani (per non parlare degli adulti) che non apriranno mai un libro e si priveranno della capacità di educare i loro sentimenti. Non si creda a quanti dicono: “Quando sarò in pensione mi dedicherò alla lettura”. Non è vero. Se non hanno imparato a leggere da piccoli non apriranno mai un libro. Non sanno come si fa. Non è un caso che l’Ocse abbia collocato l’Italia all’ultimo posto nella comprensione di un testo scritto. Ma questo non è ancora l’ultimo danno. Di peggio c’è il fatto che con le nuove tecnologie i commenti avvengono con un linguaggio poverissimo e soprattutto come risposta immediata su base emotiva, per cui anche coloro che si sono elevati al sentimento con l’uso dei nuovi media regrediscono all’immediatezza dell’emozione che non riflette, ma semplicemente reagisce, come gli animali dai riflessi condizionati.

Mary Titton

PRIMO PIANO

In fiamme il Museo nazionale di Rio de Janeiro.

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Domenica 2 settembre, alle 19:30 ora locale, 23:30 in Italia, un vasto incendio ha devastato, quando era chiuso al pubblico, il Museo nazionale di Rio de Janeiro che ospita oltre 20 milioni di reperti dell’epoca imperiale brasiliana. Alle 5:00 del mattino i vigili del fuoco erano ancora al lavoro per domare le fiamme nella struttura, che a giugno ha celebrato i suoi 200 anni. Il Museo nazionale di Rio de Janeiro, inaugurato dal re Juan VI del Portogallo il 6 giugno 1818, è considerato il quinto più grande al mondo per la collezione ivi esposta: tra i suoi 20 milioni di pezzi ci sono fossili di animali imbalsamati, utensili indigeni e mummie. Il reperto più importante è il cranio di “Luzia”, una donna vissuta nell’attuale territorio brasiliano 11.500 anni fa. Si tratta del fossile più antico dell’America Latina, oltre che di uno dei più prestigiosi reperti archeologici del continente. I resti ossei, rinvenuti nel 1974 a Lagoa Santa, appartengono ad una donna morta all’età di 20-25 anni, che fu una delle prime abitanti del Brasile. Nelle vetrine del Museo erano esposti il cranio di “Luzia” e una ricostituzione del suo volto che rivelava tratti somatici simili a quelli dei neri africani e degli aborigeni australiani. A suo tempo la scoperta dello scheletro di “Luzia” spinse gli studiosi a correggere le principali teorie sul popolamento delle Americhe e a porre il reperto fra i “maggiori tesori archeologici” brasiliani. L’ex direttore del Museo nazionale di Rio de Janeiro, Josè Perez Pombal, che si è recato sul posto, ha dichiarato che “Non ci sarà più niente, le fiamme sono così alte e il fuoco è ovunque, il palazzo brucerà tutto e anche le collezioni, le mummie, tutto”. Il presidente del Brasile, Michel Temer, ha parlato di “una tragica giornata per la museologia” nel Paese, definendo “incalcolabile per il Brasile la perdita della collezione del Museo nazionale”, perché “sono stati persi” duecento anni di lavoro, ricerca e conoscenza”. Davvero una perdita irrimediabile e un danno inestimabile!


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