Della Pace e della Guerra

DALLA STORIA

In un mondo governato dai contrasti dove non c’è il bianco senza il nero, il bene senza il male, e così via, la pace trova necessariamente il suo opposto nella guerra. Da questo punto di partenza non si può prescindere dall’esclusione di un polo senza escludere, automaticamente, l’altro. Si potrebbe concludere, quindi, che senza la guerra non ci può essere la pace e viceversa. Sembra uno scioglilingua, ma a ben riflettere, questo argomento appare molto più profondo di quanto possa sembrare a prima vista. Chiaramente, nella molteplicità delle cose altrettanto molteplici sono le gradazioni che oscillano da tra un estremo e l’altro. Un ritmo che genera realtà diverse in cui la coscienza umana determinata dalla libera scelta tra un’opzione e l’altra, il libero arbitrio, è chiamata alla responsabilità delle proprie azioni. A tale proposito c’è un esempio nella Storia che, davanti all’infamia di azioni criminali, inumane condivise da un popolo di obbedienti, ha saputo discernere il bene dal male elevando il grado della propria coscienza e che qui vogliamo ricordare:

Claus Schenk von Stauffenberg: “Dobbiamo dimostrare al mondo che non eravamo tutti come lui”

“Claus von Stauffenberg era lacerato dalla scissione tedesca tra fedeltà alla patria e fedeltà all’umanità, e ciò può aiutare a capire la difficoltà di una resistenza armata e organizzata in Germania. Ma certo non soltanto nella Germania del Terzo Reich si presentava il fondamentale dilemma, mascherato in tante forme, tra fedeltà all’universale e fedeltà al proprio compito immediato, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità, come ha detto Max Weber, diagnostico ancora insuperato delle contraddizioni fra i sistemi di valori entro i quali si muove la nostra civiltà”. (Claudio Magris. Danubio, 1986. Garzanti). Per von Stauffenberg, contro la maggioranza silente di quell’oscuro periodo storico della Germania di Hitler, davanti ai delitti, alla perversione dell’interiorità tedesca del nazismo, fu imperativo disobbedire.

 

Claus Schenk von Stauffenberg fu arrestato e fucilato alla schiena, assieme agli altri congiurati, per l’attentato del 20 luglio 1944 (noto anche come Operazione Valchiria) contro Adolf Hitler. Lo scopo dell’attentato era quello di eliminare Hitler e, attraverso un colpo di Stato, instaurare un nuovo governo che avesse il compito di negoziare una pace separata con gli Alleati allo scopo di evitare la disfatta militare e l’invasione della Germania. L’attentato fu pianificato sfruttando la possibilità che offriva il piano Valchiria, ossia la mobilitazione della milizia territoriale in caso di colpo di Stato o insurrezione interna, opportunamente modificato dal colonnello von Stauffenberg. L’ufficiale tedesco era nato in Baviera, il 15 novembre 1907 e proveniva da un’aristocratica famiglia cattolica. Suo padre era il conte Alfred Schenk von Stauffenberg e sua madre era la contessa Karoline von Uxkull. Tra i suoi antenati poteva vantare il feldmaresciallo conte August Neidhardt von Gneisenau. Questi, assieme a Gerhard von Scharnhorst e Carl von Clausewitz, l’autore del famoso trattato di strategia militare “Della guerra”, intraprese una radicale opera di rinnovamento di tutto il sistema militare prussiano dopo la sconfitta contro Napoleone Bonaparte alla battaglia di Jena avendo anche il ruolo fondamentale nella creazione dello stato maggiore prussiano, la prima istituzione del genere al mondo. All’età di 19 anni, il conte von Stauffenberg si arruolò volontario nel reggimento nel quale aveva prestato servizio suo zio, il conte Nikolaus von Uxkull, il 17° Cavalleria di Bamberga. Dopo la prima guerra mondiale, l’esercito tedesco era stato drasticamente ridotto nelle dimensioni e gli aspiranti ufficiali dovevano, perciò, prestare servizio nella truppa. Divenne, dopo quattro anni, tenete. Inizialmente, pur non condividendone alcuni aspetti, aderì al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei lavoratori, per poi rigettare la propria fede nel Governo Hitler davanti all’abiezione delle persecuzioni e quando divenne evidente la sua politica fallimentare che avrebbe portato alla rovina l’intero popolo della Germania. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, prestò servizio come ufficiale e in seguito, trasferito al comando supremo di Berlino, prese parte alla campagna di Francia e all’Operazione Barbarossa, il progetto nazista di attaccare la Russia Stalinista. Inviato in Tunisia come ufficiale di Stato Maggiore venne ferito gravemente durante un attacco aereo della Royal Air Force. Ebbe salva la vita grazie all’intevento del famoso chirurgo Ernst Ferdinand Sauerbruch ma perse la mano destra, l’occhio sinistro e due dita della mano sinistra. Per spirito di fedeltà alla patria, continuò a prestare servizio nell’esercito fino a quando si rese conto che Hitler stava portando il proprio Paese verso la distruzione: “E’ tempo di fare qualcosa. Ma chi esita ad agire deve aver chiaro in coscienza che passerà alla storia come traditore; e se omette del tutto di agire, sarebbe un traditore di fronte alla propria coscienza”. “Claus von Stauffenberg”, così lo descrive Marco Innocenti, in un articolo sull’attentato del 20 luglio a Hitler pubblicato sul Sole 24Ore: “37 anni, eroe di guerra, pluridecorato, brillante ufficiale di Stato maggiore: un uomo colto, raffinato, amante della poesia e della musica, fervente cattolico, idealista, poliglotta, ostile alla mentalità conservatrice degli alti gradi dell’esercito. Ha combattuto in Polonia, in Francia, sul fronte russo, in Tunisia: ha perso l’occhio sinistro e la mano destra. L’opposizione a Hitler è nata alla vista delle atrocità commesse dai nazisti. Il disgusto è diventato ribellione, e la ribellione cospirazione. La coscienza ha il sopravvento sull’obbedienza. Nel settembre del ’43 entra nel complotto che altri ufficiali stanno portando avanti da tempo, per una “questione di onore” ma senza fortuna. Alla moglie Nina, madre dei loro quattro figli, dice: “ Sento di dover fare qualcosa per salvare la Germania”. Non sopporta la vergogna di sentirsi tedesco. È un uomo alto, eretto, l’occhio sinistro coperto da una benda nera, una figura piena di fascino e di fierezza. Assume la leadership della congiura, da uomo pronto ad arrivare al limite. E il limite è l’uccisione del Fuhrer, il “caporale boemo”, come lo chiamano gli ufficiali aristocratici che si stanno organizzando per eliminarlo”. L’attentato fu fissato per il 20 luglio 1944 e si sarebbe realizzato nella sede del quartier generale di Hitler, la cosiddetta tana del lupo, a Rastenburg. Alcune circostanze resero, però, più difficile l’attuazione del piano originale. Per il forte caldo, infatti, la riunione si svolse in un edificio in legno, con le finestre aperte, e non nel bunker dove l’esplosione, non potendosi sfogare all’esterno, sarebbe stata enormemente più devastante. Inoltre, Stauffenberg aveva predisposto originariamente due bombe ma, nella fretta, a causa dell’anticipazione della riunione di 30 minuti, riuscì ad armare solo una. Infine, il tavolo della riunione costruito in solido legno di quercia attutì ulteriormente la forza d’urto dell’esplosione. La bomba, contenuta all’interno di una valigetta, fu posizionata vicino a Hitler dallo stesso Stauffenberg ma venne successivamente spostata da Heinz Brandt qualche metro più lontano facendo fallire l’attentato. Immediatamente dopo lo scoppio Stauffenberg, come pianificato, fece ritorno a Berlino, per assumere il comando militare dell’operazione in Bendlerstrasse, per condurre da quella sede il colpo di Stato. Il tentativo di eliminare Hitler, l’ultimo di una lunga serie, fallisce. Il Fuhrer sopravvisse quasi incolume all’esplosione. È sorprendente come Hitler sia scampato ai numerosi attentati. Su Adolf Hitler circola una specie di leggenda che lo ritrae come un uomo immortale, un uomo capace di sfuggire alla morte. Archiviato nei libri di storia come “mito di incolumità”, i commilitoni scherzavano: “Quando c’è Hitler possiamo stare tranquilli, se c’è lui non può succederci nulla”. Il complotto è soffocato in un bagno di sangue. La vendetta di Hitler è feroce. Stauffenberg e alcuni congiurati sono fucilati la sera stessa, alla luce dei fari dei camion. Molti uomini che incarnano il meglio della Germania sono condannati a morte e impiccati a ganci di macellaio. Su ordine di Hitler, tutti i membri delle famiglie dei colpevoli dovevano essere eliminati. Questo portò all’arresto, alla deportazione e uccisione di molti innocenti, che avevano la disgrazia di condividere il nome, anche senza essere parenti, dei congiurati. La moglie di Stauffenber, Nina, e i suoi quattro figli (la donna era incinta della quinta figlia) furono arrestati dalle SS. I quattro figli furono messi sotto falso nome in un orfanotrofio in Bassa Sassonia. “Dobbiamo essere crudeli, aveva detto Hitler anni prima. Dobbiamo compiere efferatezze senza rimorsi di coscienza”. Ora, la strada dove Stauffenberg quella sera gridò “Viva la Sacra Germania” mentre il plotone d’esecuzione faceva fuoco, si chiama Stauffenbergstrasse. Il conseguente fallimento del colpo di Stato portò all’arresto di circa 5000 persone, molte delle quali furono successivamente giustiziate o internate dei lager. Lo storico Ian Kershaw, in merito al numero totale delle vittime, scrive di circa 200 persone “Passate dalle mani del boia”.

Mary Titton

PRIMO PIANO

Il Manifesto di Ventotene: il sogno di un’Europa libera, unita, in pace.

Compie 80 anni il Manifesto di Ventotène, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel 1941 e  pubblicato poi nel 1944 da Eugenio Colorni, che ne curò la redazione e ne scrisse personalmente la prefazione. Il Manifesto, che aveva come titolo originale “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, considerato oggi uno dei testi fondanti dell’Unione europea, è un documento che nasce dall’idea di creare una federazione europea ispirata ai principi di pace e libertà, dotata di parlamento e governo, alla quale affidare ampi poteri, dal campo economico alla politica estera. Era il 1941, quando Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nel periodo in cui erano stati confinati insieme con altri militanti antifascisti sull’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, per essersi opposti al regime fascista, idearono un progetto che aveva come scopo la creazione di un’Europa federale, libera e unita. Gli obiettivi individuati come possibili alla fine della guerra e del nazi-fascismo erano: il superamento degli Stati sovrani con la creazione di “un saldo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” e che “spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari”; un “esercito unico federale; unità monetaria; abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla federazione; rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali; politica estera unica”. In materia economica si prefigura un impianto socialista, ma ben diverso da quello sovietico: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze -scrivono-, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. Questo non vuol dire abolizione della proprietà privata perché la statizzazione generale dell’economia una volta realizzata in pieno non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”. E lo Stato europeo, ovviamente, dovrà garantire “una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello Stato”. I protagonisti di questo ideale progetto, volto alla creazione di un solido Stato internazionale, provenivano da culture diverse, comunista, liberale, socialista, ma erano accomunati dal tragico destino di essere stati confinati dal regime fascista sull’isola pontina e dalla convinzione della necessità di abbattere gli Stati nazionali, di superare, come scrive Colorni nella prefazione, “l’esistenza di Stati sovrani”, che inevitabilmente considerano “gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici”. Il Manifesto che gettò le fondamenta del Movimento federalista europeo e che aveva come scopo la creazione di un’Europa federale, libera e unita, è considerato uno dei testi fondanti dell’Unione europea, ancora oggi, quando l’Europa si trova ad affrontare un’epidemia che ha richiesto un coordinamento politico sopranazionale e un superamento dei nazionalismi. Ripercorriamo brevemente i tratti salienti delle loro storie e delle loro personalità insieme a quelli di Ursula Hirschmann, che, moglie di Eugenio Colorni e poi, dopo la sua uccisione da parte dei fascisti, di Altiero Spinelli, riuscì, insieme con Ada Rossi, moglie di Ernesto Rossi, e altre donne, a far giungere il Manifesto nella penisola e a diffonderlo.

Altiero Spinelli                                                                                                                                                                                      

Altiero Spinelli, nato a Roma il 31 agosto 1907, dopo i primi anni passati con la famiglia in Sud America, dove il padre, laico e socialista, era vice-console, nell’estate del 1912 rientra a Roma, dove frequenta le elementari, il ginnasio e il liceo classico. Nel 1924, l’anno dell’assassinio di Giacomo Matteotti, col fascismo ormai al potere e i comunisti costretti alla clandestinità, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” e, contemporaneamente, alla cellula della Federazione giovanile comunista del quartiere Trionfale, di cui diviene, dopo poche settimane, segretario; nel 1926 è nominato segretario interregionale e partecipa attivamente all’attività antifascista clandestina del partito. Arrestato nel 1927 a Milano, viene condannato a sedici anni e otto mesi dal Tribunale Speciale per cospirazione contro i poteri dello Stato e sconta dieci anni di carcere nei penitenziari di Roma, Lucca, Viterbo e Civitavecchia, dove matura il distacco dal Partito comunista, che diviene definitivo negli anni dei sanguinosi processi staliniani contro i dissidenti del regime. Spinelli non rifiutava solo l’interpretazione del terrore staliniano come un necessario periodo “giacobino”, che avrebbe rafforzato la rivoluzione, ma negava tutto l’insieme della politica comunista come si era configurata dal periodo del “socialfascismo” fino alla politica dei fronti popolari, colpendo anche le basi della dottrina marxista, perché riteneva che “la dittatura del proletariato si era trasformata in dittatura del partito, poi del Comitato centrale, poi personale di Stalin”. In seguito, al momento di essere rilasciato, viene condannato dal regime fascista a sei anni di confino prima, dal 1937 al 1939, a Ponza e poi a Ventotene, dove ha l’opportunità di leggere una serie di articoli scritti negli anni venti da Luigi Einaudi sul Corriere della Sera e pubblicati col titolo “Lettere di Junius”; sull’isola elabora con Ernesto Rossi il Manifesto base del Federalismo europeo, frutto di lunghe riflessioni e accese discussioni con lo stesso Rossi e Colorni. Caduto il fascismo, viene liberato il 19 agosto 1943 e dieci giorni dopo, il 27 e il 28 agosto, in casa di Mario Alberto Rollier in Via Poerio, a Milano, dove una lapide ricorda l’evento, fonda, insieme a una trentina di reduci dal confino, il Movimento Federalista Europeo, che adotta come programma il Manifesto di Ventotene. Dopo aver fatto parte, chiamato da Leo Valiani, della segreteria politica del Partito d’Azione Alta Italia e aver partecipato per alcuni mesi alla Resistenza, Spinelli nel marzo del 1945 organizza a Parigi, insieme con Ursula Hirschmann (vedova di Eugenio Colorni, trucidato dai fascisti pochi giorni prima della liberazione di Roma, e divenuta sua moglie), il primo Congresso federalista internazionale, a cui partecipano, tra gli altri, Albert Camus, George Orwell e il filosofo Emmanuel Mounier. Nel febbraio 1946, a seguito delle conclusioni del I Congresso, lascia il Partito d’Azione insieme a La Malfa, Parri e Reale, con i quali fonda il Movimento per la democrazia repubblicana, che abbandona però alla vigilia delle elezioni alla Costituente. Rilevante fu il ruolo di Spinelli nella nascita e nella definizione in chiave moderna del concetto di Europa e intensa fu la sua attività politica ed intellettuale fino alla morte, avvenuta il 23 maggio 1986 in una clinica romana.Vogliamo ricordarne qui le tappe più salienti: fra il 1962 e il 1965 è tra i promotori dell’Associazione di cultura e di politica “il Mulino”, con lo scopo di contribuire alla conoscenza dei problemi internazionali, con un’attenzione particolare verso il processo di integrazione europea e l’area mediterranea; dal 1970 al 1976 è ininterrottamente membro della Commissione europea; nel giugno 1976 viene eletto deputato al Parlamento italiano come indipendente di sinistra nelle liste del PCI ed è anche nominato al Parlamento europeo; nel 1979 gli viene riconfermato sia il mandato al Parlamento italiano, dove è membro del gruppo misto, sia quello al Parlamento europeo, eletto per la prima volta a suffragio universale; nel 1981 è il fondatore e il promotore del Club del coccodrillo, che porta alla formulazione del progetto del trattato di Unione europea da lui elaborato, approvato, il 14 febbraio 1984, a larghissima maggioranza dal Parlamento europeo, con l’appoggio di deputati europei di tutti i gruppi politici e di diversi Paesi. 

Ernesto Rossi

Ernesto Rossi, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, è stato in Italia uno dei principali promotori del Federalismo europeo con il Manifesto di Ventotene, di cui condivise la stesura con Spinelli e che, pubblicato e curato da Colorni, è considerato il suo testamento morale. Nato a Caserta il il 25 agosto 1897 e trasferitosi con la famiglia nel 1899 a Firenze, conseguita la maturità classica da privatista, nell’ottobre 1915 Ernesto Rossi, non ancora diciannovenne, andò volontario in guerra, ma ferito gravemente il 12 maggio 1917, nel corso della decima battaglia dell’Isonzo, il 29 marzo 1919 fu poi congedato perchè giudicato inidoneo al combattimento; nel luglio successivo si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Siena. Tornato dal fronte, spinto dall’ostilità dei socialisti nei confronti dei reduci e dal disprezzo della classe politica nei loro confronti, si avvicinò ai nazionalisti e poi ai fascisti e prese a collaborare al “Popolo d’Italia”, il quotidiano diretto da Benito Mussolini, fino al 1922. Nell’articolo “Chiarificazioni spirituali”, pubblicato il 1° giugno 1921, espresse la determinazione a “ubbidire ciecamente” a un “duce”, provvisto di “qualità adatte al comando”. In quello stesso periodo, negli ultimi mesi del 1919, fu però decisivo l’incontro con Gaetano Salvemini, che rappresentò l’inizio di una nuova educazione politica, ispirata ai valori dell’elitismo democratico e determinata da una piena intesa intellettuale con il noto storico e antifascista italiano. Si legge nei suoi scritti: “Se non avessi incontrato sulla mia strada al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch’io nei Fasci da combattimento.” Maturò quindi la certezza di dover difendere comunque e ad ogni costo le ragioni della libertà e la conseguente determinazione contro il regime fascista grazie alle discussioni con Salvemini sulla chiarezza e il rigore logico del metodo scientifico di Pareto, autore a cui Rossi aveva dedicato i suoi studi giovanili di Filosofia del diritto, nonché la sua tesi di laurea: “L’evoluzione sociale secondo Pareto”. Dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell’organizzazione interna “Giustizia e Libertà”, Rossi pagò la sua intransigenza con una condanna del Tribunale Speciale a venti anni di carcere, di cui 9 li scontò nelle “patrie galere” e 4 al confino a Ventotene, dove con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federaliste europee, che nel 1941 portarono alla creazione del famoso Manifesto di Ventotene. Dopo la Liberazione, come rappresentante del Partito d’Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell’ARAR (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958, in seguito, dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, aderì al Partito Radicale guidato da Pannunzio e da Villabruna, nel quale, sentendosi come “un cane in chiesa” (sono parole sue), rifiutò incarichi di direzione, preferendo dedicarsi per tredici anni, fino al 1962, al giornalismo d’inchiesta, scrivendo sul “Mondo” i suoi articoli  di denuncia degli interessi corporativi e clientelari dei “padroni del vapore”e dei grandi assetti monopolistici, articoli, che raccolse poi in volumi dai titoli famosissimi, come “I padroni del vapore” (Bari, 1956) e “Aria fritta” (Bari, 1955). Dal 1962 in poi svolse la sua attività di pubblicista su “L’Astrolabio” di Ferruccio Parri. Testimone esemplare di un pensiero laico e liberale, Ernesto Rossi individuò i principali punti critici della situazione economica italiana da una parte in alcuni gruppi industriali e di potere tesi ad “inquinare” il Capitalismo e a svolgere un ruolo di consolidamento nei confronti dei regimi autoritari, dall’altra nelle forme “statalizzate” che il Capitalismo aveva assunto in Italia, dipendenti da aiuti statali e dal potere politico; non mancò neanche di indirizzare la sua critica al sindacato monopolistico e alle leghe sindacali, che rendono invasivo il ruolo di controllo dello Stato e compromettono la libera formazione dei prezzi sul mercato. Nella pars costruens della sua Critica ai sistemi economici  propone come obiettivo quello di abolire la miseria (titolo di un suo scritto): imponendo delle riforme di fondamentale importanza – riforma agraria, terra a chi la coltiva – ed estendendo servizi pubblici e bisogni essenziali – cibo, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria – a tutte le categorie sociali, la “striscia” della miseria tenderebbe ad accorciarsi, rendendo meno evidenti alcune storture del Capitalismo. Rossi, il “democratico ribelle”, come lo definisce Giuseppe Armani nel testo dedicato alla sua figura di politico ed intellettuale, fu un anticlericale convinto di dover difendere un mondo libero dalle costrizioni ideologiche delle gerarchie ecclesiastiche e del regime fascista con cui la Chiesa, a partire dagli anni venti, pervertendo l’originale messaggio del Vangelo, non mancava d’intessere relazioni, in particolare con la firma, l’11 febbraio 1929, dei Patti Lateranensi con Mussolini, definito “Uomo della Provvidenza”, senza tenere in alcun conto i trascorsi ateo-socialisti del duce. Nel 1966 gli fu conferito il premio “Francesco Saverio Nitti” e l’anno successivo, il 9 febbraio del 1967, Ernesto Rossi moriva a Roma, a 69 anni. Pochi mesi prima, in una lettera a Riccardo Bauer, aveva scritto: “Se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: “Si gira su noi stessi come trottole, finchè il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe”.

Eugenio Colorni

Eugenio Colorni è stato un filosofo, politico e antifascista italiano, noto come uno dei massimi promotori del Federalismo europeo: mentre era confinato, in quanto socialista e antifascista, nell’isola di Ventotene, partecipò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, anche loro lì al confino, alla composizione del Manifesto di Ventotene. Nato a Milano il 22 aprile del 1909 da una famiglia ebrea, frequentò il Liceo Statale Alessandro Manzoni di Milano, poi nel 1926 si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia, dove si laureò in Filosofia nel 1930, discutendo una tesi su “Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano”. Proprio a Leibniz dedicò poi gran parte dei suoi studi: nel 1934, nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblicò una traduzione della “Monadologia” di Leibniz, preceduta da una lunga introduzione intitolata “Esposizione antologica del sistema leibniziano”. Come scrisse Eugenio Garin, “Leibniz lo costrinse ad affrontare studi di logica e di matematica, a rimettere in discussione il modo stesso di concepire la scienza e i rapporti fra scienza e filosofia … Ripartì da Kant e dalla problematica kantiana e meditò sulle conseguenze che la fisica teorica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali”. Nel testo autobiografico “La malattia filosofica” il Colorni racconta come a Trieste, in seguito alle osservazioni del poeta Umberto Saba, si sarebbe deciso ad abbandonare la filosofia. In realtà non era la filosofia che rifiutava, ma un orientamento legato a quell’Idealismo di cui erano, o si dicevano, seguaci, anche se in modi diversi, Croce, Gentile e Martinetti: “Da quel giorno -scrive- non ho più orrore né disprezzo per le scienze naturali e non sento più il bisogno di scrivere difficile. La parola “empirico” non è più per me un insulto. E da quel giorno non mi entra più in testa che cosa significhi l’Universale”. Nel 1931 a Berlino incontrò Benedetto Croce, con il quale discusse a lungo, e conobbe la futura compagna Ursula Hirschmann, che sposò nel 1935 e da cui ebbe tre figlie: Silvia, Renata, Eva. Lettore d’Italiano all’Università di Marburgo negli anni 1932-1933, con l’avvento del nazismo tornò in Italia e nel 1933 produsse una tesi di perfezionamento su “La filosofia giovanile di Leibniz”, vinse poi un concorso a cattedra di Storia e Filosofia nei licei e, dopo una prima assegnazione a Voghera, passò nel 1934 a insegnare Filosofia e Pedagogia all’istituto magistrale “Giosuè Carducci” di Trieste, dove rimase fino all’arresto, nel 1938. A partire dal 1935 Colorni intensificò il proprio impegno politico contro il regime fascista, pur sapendo di essere sorvegliato. L’8 settembre del 1938, all’inizio della campagna razziale promossa dal regime, fu arrestato dall’OVRA a Trieste, in quanto ebreo ed anti-fascista militante e fu rinchiuso nel carcere di Varese; dal gennaio del 1939 all’ottobre del 1941 Colorni fu poi confinato nell’isola di Ventotene, dove proseguì i suoi studi filosofico-scientifici e con gli altri compagni confinati, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli, partecipò a lunghe discussioni riportate nei sette “Dialoghi di Commodo”, scritti insieme con Spinelli e pubblicati postumi. Durante il confino sull’isola partecipò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi alla composizione del Manifesto di Ventotene, che propugnava l’idea di un’Europa federale, libera e unita e di cui lui stesso nel 1944 scrisse la prefazione e curò la pubblicazione. Nell’ottobre del 1941, grazie anche all’intervento di Giovanni Gentile, fu trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riuscì ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali, nel 1942 con Ludovico Geymonat elaborò il progetto di una rivista di metodologia scientifica. Fuggito da Melfi il 6 maggio del 1943, visse a Roma da latitante e dopo la caduta del fascismo, avvenuta il 25 luglio del 1943, si dedicò all’organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato nell’agosto dalla fusione del PSI col giovane gruppo del Movimento di Unità Proletaria.Tra il 27 e il 28 agosto a Milano, in casa dello scienziato azionista Mario Alberto Rollier partecipò, insieme con Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann, Manlio Rossi Doria, Giorgio Braccialarghe e Vittorio Foa, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo, che adottò come proprio programma il Manifesto di Ventotene. Dopo l’8 settembre svolse a Roma un’intensa attività nelle file della Resistenza: membro del comitato direttivo del nuovo Partito socialista, redattore capo dell’Avanti! clandestino, si impegnò nella ricostruzione della Federazione giovanile socialista e nella formazione della prima brigata Matteotti. I suoi ultimi articoli sull’Avanti! del 16 marzo e del 20 maggio 1944 (Amministrazione o rivoluzione; Rivoluzione dall’alto?) analizzano lucidamente la situazione politica dell’Europa alla vigilia della vittoria alleata e si battono per un’ autentica rivoluzione dei popoli d’Europa contro ogni possibile imposizione e strumentalizzazione da parte dei vincitori. Il 28 maggio 1944, in via Livorno, fermato da una pattuglia fascista, fu ferito a colpi di mitra mentre tentava di fuggire. Morì il 30 maggio nell’ospedale di S. Giovanni sotto la falsa identità di Franco Tanzi. Nel 1946 gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Ursula Hirschmann

Ursula Hirschmann nacque a Berlino il 2 settembre del 1913 da un’agiata famiglia ebrea. Particolarmente legata al fratello Albert, celebre economista, candidato, poi, nel 1992, al premio Nobel, la Hirschmann nel 1932 si iscrisse all’Università Humboldt di Berlino, dedicandosi anche lei, sull’esempio del fratello, a studi di Economia, ma già l’anno successivo dovette fuggire in Francia, dove si era rifugiato Albert, perchè si era iscritta giovanissima al Partito Socialdemocratico di Germania e aveva cominciato ad opporsi al nazismo. A Parigi, nell’estate del 1933, rivide il filosofo Eugenio Colorni, già conosciuto a Berlino, che nel 1935 seguì a Trieste e sposò, dalla loro unione nacquero tre figlie, Silvia, Renata, Eva. Con il marito erano intanto entrati nell’opposizione clandestina al fascismo e quando Colorni  fu arrestato e poi inviato al confino a Ventotene, Ursula lo seguì sull’isola, che lasciò solo per brevi periodi per partorire o per sostenere esami alla facoltà di Filologia moderna dell’Università di Venezia, dove si laureò con il punteggio di 110 e lode il 30 ottobre 1939. A Ventotene Ursula partecipa attivamente al dibattito tra suo marito Eugenio, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, autori del Manifesto di Ventotene, che progettava un’Europa federale, libera e unita, e stringe amicizia con altre donne, in particolare con Ada Rossi, anch’ella antifascista, moglie di Ernesto, sposato in carcere anni prima, con le quali riesce a portare il Manifesto in Italia e a diffonderlo negli ambienti dell’opposizione di Roma e Milano. Dopo l’uccisione a Roma nel maggio 1944, a pochi giorni dalla liberazione della città, di Colorni per mano della banda Koch, Ursula sposa Altiero Spinelli, a cui era già legata da un  profondo sentimento e con cui ha altre tre figlie: Diana, Barbara e Sara. Alla fine della guerra continua il suo impegno, a fianco di Spinelli, tra Roma e Bruxelles, fino alla costituzione nel 1975 del gruppo Femmes pour l’Europe, convinta che fosse necessaria una maggiore partecipazione delle donne alla costruzione del progetto europeo, ritenendo che il ruolo femminile sarebbe stato capace di portare – come scrive – “una dimensione umana secondo il nostro modo di pensare”. All’inizio del 1976 venne colpita da un aneurisma cerebrale, da cui non si riprese mai completamente, morì nel gennaio nel 1991, assistita sino alla fine dalla figlia Renata. Si riteneva una senza patria, o meglio solo europea, perché non tedesca, non italiana e non ebrea, costretta ad affrontare difficoltà e a fare scelte difficili, guidata dalla convinzine che “… noi possiamo soltanto amare. Non per bontà, non per senso religioso, ma perché è l’unico modo di restare nella realtà”. 


Domande, curiosità?

SIAMO A TUA DISPOSIZIONE

Chiedi informazioni sulle Opere