1 agosto – 1 settembre
31 luglio
DALLA STORIA
Disertare la memoria.
Oggi è l’ultimo giorno di pubblicazione della rubrica DayByDay, prima della chiusura per le vacanze. Un arco temporale iniziato a gennaio che si interrompe per riprendere poi a settembre con la regolare scansione quotidiana. Il DayByDay del 2018 apriva con un articolo dedicato alla memoria, dovendosi per l’appunto occupare di narrare ed approfondire i fatti storici. In quella occasione si sottolineava l’importanza di come la memoria serva a non dimenticare i percorsi sbagliati intrapresi dagli uomini che hanno condotto a conflitti dalle dimensioni catastrofiche quali lo sterminio di milioni di persone, portando l’umanità nel baratro, al confine con l’abisso. Oggi, in retrospettiva e alla luce degli avvenimenti intercorsi in questo lasso di tempo, tornare sulla memoria mi sembra davvero importante, almeno per due motivi. Il primo, come già s’è detto molte volte, è che la memoria può farci riconoscere “le rime” della Storia, per evitare gli stessi tragici errori commessi in passato ma, soprattutto, essa ci richiama all’imperativo morale della difesa dei principi fondativi dell’essere uomini: l’appartenenza al sentimento di umanità e la dignità. Lasciare settecento persone in alto mare in una situazione estrema, quale misura di pressione per ricattare l’Europa, come è accaduto recentemente, al di là di ogni altra considerazione politica e non dovrebbe farci ricordare che siamo di fronte a un comportamento che certamente non è umano, esso è soltanto e incontestabilmente inumano. Accettare una scelta simile non è un fatto di opinioni diverse, essere di destra o di sinistra: è mettere in campo il proprio modo di essere, il “come siamo” e, in quel caso, vuol dire essere disumani, perché significa disconoscere la dignità delle vite in gioco. “Pensare di far valere argomenti come “la maggioranza” per difendere una decisione del genere significa aver accettato la disumanità come strumento di azione politica”. (Michela Murgia). Il pericolo che si sta profilando in questo periodo di interregno (per dirla con il grande sociologo Zygmunt Bauman e prim’ancora con Gramsci, “quando il vecchio è già morto e il nuovo deve ancora nascere, lì dentro può accadere di tutto”) è che si possa affermare, di nuovo, anche se di fatto è già in essere un po’ dovunque, quel concetto di supremazia di alcuni su altri che porta all’inumanità, al male, all’indifferenza del dolore di chi sta male, anzi malissimo, alla bestia che c’è in noi. Scegliere da che parte stare e tracciare il confine tra uomini e no, sta diventando un’emergenza, una priorità se si vuole guardare a un futuro che non ricalchi le mosse autoritarie del passato. “Oggi non è più chiaro che un conto è ragionare sull’integrazione delle minoranze etniche, processo legittimo che riguarda il “cosa” e un altro conto è schedare le persone su base etnica, un inaccettabile “come” che rovescia le regole che ci proteggono tutti”. (Murgia). Regole che salvaguardano i diritti, il rispetto e la dignità umani a prescindere. “Prima di tutto l’uomo”, ci piace ricordare la poesia del grande poeta turco Nazim Ikmet, uomo di altissimo valore umano oltre che artistico e proprio per questo perseguitato dai regimi. Ricordiamoci che tutti, considerati per differenza, siamo la minoranza di qualcun altro. “Il fatto che scelte discriminanti come quelle sopra citate (o anche il solo ventilarle come possibili in un sistema che invece le nega per principio) possano essere affermate all’interno di un sistema democratico non è democrazia: è il banco di prova della sua tenuta. Chi lo sta facendo sta lasciando passare l’idea che per affrontare il merito delle cose qualunque metodo sia diventato lecito. Schierarsi davanti a questo è dunque indispensabile tanto quanto opporre un dissenso senza tentennamenti, perché su quell’idea non si gioca più la differenza tra diverse opinioni, modi di pensare ma quella tra la democrazia e il fascismo”. (Murgia).
PRIMA DI TUTTO L’UOMO
Non vivere su questa terra
come un estraneo
o come un turista della natura.
Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare
ma prima di tutto credi all’uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri
ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca
dell’astro che si spegne
dell’animale ferito che rantola
ma prima di tutto
senti la tristezza e il dolore dell’uomo.
Ti diano gioia tutti i beni della terra
l’ombra e la luce ti diano gioia
le quattro stagioni ti diano gioia
ma soprattutto, a piene mani
ti dia gioia l’uomo!
(Nazim Ikmet).
Mary Titton.
30 luglio
DALLA STORIA
Patrick Modiano: il Proust dei nostri giorni.
Scrittore e sceneggiatore francese, il sessantanovenne Jean Patrick Modiano, nel 2014, vince il Premio Nobel per la Letteratura per “L’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inesplicabili e scoperto il mondo della vita nel tempo dell’Occupazione”. La memoria è infatti centrale nelle sue opere, nelle quali spesso echeggia il sapore amaro dell’occupazione della Francia e dei casi di collaborazionismo con il regime di Vichy. Scelto tra duecentodieci scrittori, Modiano è il quindicesimo francese della storia ad aggiudicarsi il Nobel per la Letteratura ed è considerato uno dei più importanti narratori contemporanei della Francia. Figlio di Albert Modiano, un francese di origini ebraico-italiane e di Louisa Colpijn, un’attrice belga di etnia fiamminga, lo scrittore è nato il 30 luglio 1945 a Boulogne-Billancourt, città poco distante da Parigi. Durante gli studi liceali conosce lo scrittore e matematico Raymond Queneau, amico della madre, che svolgerà un ruolo importante in tutta la sua carriera. Modiano pubblicò il suo primo romanzo “La Place de l’Etoile” nel 1968. La storia stessa è raccontata dal protagonista che mescola finzione e realtà in molte parti della narrazione. Il romanzo gli vale il Premio Roger Nimier. Nei suoi romanzi, per lo più ambientati nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intono alla figura dello straniero, dell’esule, dell’ebreo, si intrecciano una vena disperata di ascendenza esistenzialista e il gusto della rievocazione, da qui l’accostamento a Marcel Proust. L’autore, infatti, rievoca molto spesso, nei personaggi dei suoi romanzi, l’ambigua figura del padre, un ebreo sicuramente vittima del Nazismo che, però, arrestato nel 1943 si dimostrò pronto a tutto pur di sopravvivere (infatti, riuscì a sfuggire alla deportazione grazie a potenti amicizie collaborazioniste). Un padre dalla duplice e ambigua identità, invischiato molto spesso in rapporti di complicità con i carnefici. A proposito di “Un pedigree”, pubblicato nel 2005, uno dei romanzi più toccanti di Modiano in cui racconta le vicende della sua famiglia ebrea, l’autore puntualizza: “Scrivo queste pagine come si redige un verbale o un curriculum vitae, a titolo documentario e certo per farla finita con una vita che non è mia. Non si tratta che di una semplice pellicola di fatti e di gesti”.
“Dora Bruder”, romanzo del 1997, è la storia di un’adolescente di origini ebraiche che resterà vittima delle atrocità della storia. Nel 1978 “Rue des Boutiques Obscures (titolo che si riferisce a via delle Botteghe Oscure, di Roma, dove lo scrittore ha anche abitato), gli vale il Premio Goncout. Autore di numerosi romanzi e racconti, nel 1996, la sua intera opera ha ottenuto il Grand Prix National des Lettres. Tra le altre cose è stato anche paroliere per François Hardy, documentarista per Carlo Ponti e sceneggiatore: ha scritto numerosi testi per i film di Louis Malle, Patrice Leconte e altri registi.
(Patrick Modiano con François Hardy)
Mary Titton
29 luglio
Buon compleanno alla nostra preziosa coredattrice di questa rubrica, Margherita Tramutoli.
PRIMO PIANO
Formula 1: GP Ungheria, vince Hamilton, Vettel 2°, Ferrari sul podio.
Nel GP d’Ungheria, 12esima prova del Mondiale di Formula 1, sul circuito dell’Hungaroring, vince Hamilton, che, scattato dalla pole, consolida così il primato nella classifica piloti e si porta a +24 su Vettel, che arriva 2°, mentre Raikkonen è 3°, Ricciardo 4° e Bottas 5°. Vettel, partito quarto su gomme soft (gli altri con le ultrasoft), ha cercato di superare il finlandese al pit, ma la sua sosta, decisa soltanto al 40° giro, è stata troppo lunga: 4 secondi e 2 per un problema nel bloccaggio dell’anteriore sinistra. Il pilota tedesco ha dovuto, quindi, superarlo in pista, al 65°, prendendo la scia in curva-1 e riuscendo poi a passare all’esterno in curva-2 Bottas, che però ha provato a difendersi. L’incidente, notato dai giudici, non ha portato a ulteriori conseguenze per Bottas, che è stato invece punito con 10″ di penalità e due punti sulla patente per il contatto con la Red Bull di Daniele Ricciardo, che ci ha rimesso la fiancata destra, ma non si è arreso: a un secondo tentativo, l’australiano ha passato il finlandese e si è piazzato quarto. Vettel dopo la gara ha detto: “Il secondo posto non era quello che volevamo per questo fine settimana, ma è stato il massimo che abbiamo potuto … Abbiamo avuto un piccolo problema al pit-stop, poi ho dato tutto per prendere Bottas. Sapevo che le sue gomme si sarebbero degradate sempre di più e ho aspettato fino alla fine per attaccarlo, la scelta giusta.” Interrogato sul contatto col finlandese della Mercedes dopo il sorpasso, il tedesco ha ammesso: “Io ormai ero davanti, ho sentito un colpo da dietro e ho visto che c’erano Valtteri e Kimi”. La Ferrari è uscita indenne dall’urto, mentre Bottas ha avuto dei danni all’ala anteriore. Per Hamilton “Una giornata bellissima, con un pubblico fantastico. Abbiamo fatto un lavoro straordinario, sapevamo che le Ferrari sarebbero state molto veloci in questo weekend e aver portato a casa questi punti è sicuramente un bonus per noi.” Il pilota della Mercedes ha poi aggiunto, commentando la vittoria: “È stata una giornata dura e lo sarà il resto del Mondiale. Ho sudato tantissimo, è stata una gara di gestione passo.”.
27 luglio
PRIMO PIANO
L’eclissi lunare più lunga del secolo.
La notte tra il 27 e il 28 luglio si è verificata l’eclissi più lunga del secolo: la fase totale dell’eclissi, durante la quale la Luna è integralmente immersa nell’ombra, è avvenuta tra le 21:30 e le 23:13, il fenomeno, ben visibile in tutta Italia, ha raggiunto il picco massimo alle 22:22. La fase della totalità, la più spettacolare, è durata complessivamente 103 minuti, poi l’eclissi è tornata ad essere parziale e si è conclusa all’1:30. Durante l’eclissi la Luna ha assunto un colore rosso perché i raggi del Sole vengono rifratti dall’atmosfera della Terra, raggiungendo in parte il nostro satellite, infatti a tingere di rosso la Luna è la sua posizione rispetto alla Terra: quest’ultima si trova tra il Sole e la Luna e proietta sul satellite un cono d’ombra. La Luna rossa è stata visibile in tutto il mondo, dall’Europa all’Africa, all’India e ha attratto con il suo fascino misterioso milioni di persone, un fenomeno unico (un altro così ci sarà solo nel 2123), arricchito dalla spettacolare opposizione di Marte, che si trova leggermente più in basso, a destra della Luna, apparendo nel cielo più grande del 10% ed essendo particolarmente brillante. In questo periodo dell’anno, infatti, la sua orbita sta portando il pianeta rosso molto vicino alla Terra, a circa 58 milioni di km, inoltre si trova in opposizione al Sole, la posizione in cui diventa più luminoso. Per quanto la scienza abbia chiarito cosa accade durante un Eclissi lunare, questo spettacolare fenomeno continua da secoli ad alimentare fantasie e leggende. Alcuni miti lo collegano a eventi catastrofici o apocalittici, un terremoto imminente o la fine del mondo, come in alcune profezie di Nostradamus. Secondo alcune tradizioni agli uomini era vietato guardare la Luna: si diceva che si potesse rimanerne incantati e diventare preda di creature mostruose. In altre culture la Luna Rossa era profondamente collegata a un cambiamento importante e in onore di quest’evento venivano fatti numerosi riti e sacrifici propiziatori. I Persiani credevano che l’Eclissi fosse una punizione divina nei confronti degli uomini, gli indigeni, invece, pensavano che l’Eclissi di Luna fosse causata da un “mostro” che, dopo aver attaccato il corpo celeste, raggiungeva la Terra per uccidere gli esseri umani. La maggior parte dei miti, quindi, legano la Luna rossa a eventi disastrosi, ma ci sono anche credenze più romantiche: a Tahiti considerano l’Eclissi un abbraccio tra Sole e Luna.
26 luglio
PRIMO PIANO
Lombardia: a Bresso allarme legionella, 27 contagiati.
Nel comune di Bresso, alle porte di Milano, è salito a 27 il numero dei contagiati dal batterio della Legionella, mentre resta fermo a tre il numero delle vittime. L’amministrazione comunale, nel corso di un incontro con la stampa, ha precisato che “la maggior parte dei ricoverati sono stati dimessi”. La “sorgente” del batterio potrebbe trovarsi in “punti o luoghi di aggregazione”, come centri commerciali, banche e uffici postali, luoghi dove vengono molto utilizzati i condizionatori. È questa una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti milanesi, perché le persone contagiate non abitano tutte nella stessa zona. Il sindaco di Bresso, Simone Cairo, ha confermato che per la prevenzione è stata ordinata la sanificazione con il cloro degli impianti idrici degli immobili in cui sono stati accertati casi di legionella e ha chiuso, nel piazzale della chiesa dei Santi Nazaro e Celso, la fontana pubblica chiamata “Mappamondo”, nella quale è stata riscontrata la presenza del batterio. Il gruppo Cap, azienda acqua potabile, ha effettuato controlli in pozzi, impianti di stoccaggio e case dell’acqua con il metodo “pcr”, che ha escluso la presenza del batterio. La legionella, o malattia del Legionario, in gergo tecnico legionellosi, è un’infezione polmonare causata dal batterio Legionella pneumophila, così chiamata nel 1976, quando un’epidemia si diffuse tra i partecipanti al raduno della Legione Americana al Bellevue Stratford Hotel di Philadelphia. La fonte di contaminazione batterica in quel caso fu identificata nel sistema di aria condizionata dell’albergo. Le legionelle sono presenti negli ambienti acquatici naturali e artificiali: acque sorgive, termali, fiumi, laghi, fanghi, ambienti da cui raggiungono serbatoi, tubature, fontane e piscine, che possono agire come amplificatori e disseminatori del batterio. La legionellosi viene normalmente acquisita per via respiratoria mediante inalazione, aspirazione o microaspirazione di aerosol contenente Legionella o anche attraverso ferite. Non è mai stata dimostrata la trasmissione interumana della malattia. Fattori di rischio sono l’età avanzata, il fumo, la presenza di malattie croniche, l’immunodeficienza. Il tasso di mortalità può variare dal 40-80% nei pazienti immunodepressi non trattati, al 5-30% in caso di un appropriato trattamento della patologia, complessivamente la mortalità è tra il 5% e il 10%. Nel 2014 a Bresso ci furono sei casi accertati e un decesso, adesso i casi suscitano parecchia apprensionei tra gli abitanti, soprattutto quelli del centro storico. Il direttore del dipartimento prevenzione dell’Ats afferma che la situazione è sotto controllo, ma si risolverà del tutto quando “verrà individuata l’origine del fenomeno”.
25 luglio
PRIMO PIANO
Addio a Sergio Marchionne, “manager dei due mondi.”
È morto nella clinica universitaria di Zurigo, in Svizzera, dove era ricoverato dal 27 giugno per un’intervento alla spalla, Sergio Marchionne, “il manager con il pullover”, come è stato definito, che in pochi anni ha trasformato il gruppo Fiat sull’orlo del fallimento in un’azienda leader e di primo piano del comparto automobilistico internazionale. Marchionne si è spento all’età di 66 anni per arresto cardiaco e “per inattese e improvvise complicazioni postoperatorie” non meglio precisate. Sabato scorso era stato John Elkann a dare notizia, in una lettera ai dipendenti di Fca, delle condizioni gravissime ed irreversibili dell’amministratore delegato del Gruppo. Non si sa ancora cosa lo abbia portato a quel punto critico senza ritorno, molte voci si sono inseguite sulle possibili cause, da un’embolia a un tumore, smentito dalla famiglia, che ha parlato invece di decesso naturale. Marchionne, nato a Chieti, cresciuto in Canada e residente in Svizzera, laureato in filosofia presso l’Università di Toronto e in giurisprudenza, era nel consiglio di amministrazione di Fiat dal 2003. Il primo giugno 2004, dopo la morte di Umberto Agnelli, venne nominato amministratore delegato del gruppo torinese al posto di Giuseppe Morchio. Il vero capolavoro del manager italo-canadese fu l’acquisto a inizio 2009 del 35% di Chrysler, senza spendere neanche un euro in contanti, successivamente, attraverso vari passaggi, la quota in Chrysler era cresciuta progressivamente fino a detenere il 100% del capitale della casa di Detroit al primo gennaio 2014. Nell’agosto dello stesso anno nasceva ufficialmente Fiat Chrysler Automobiles, sintetizzato nell’acronimo Fca, il settimo produttore mondiale di auto, con marchi del calibro di Ferrari, Alfa Romeo, Jeep, Ram, Dodge. Dal 13 ottobre 2014 Sergio Marchionne ha ricoperto la carica di presidente di Ferrari: il cavallino rampante veniva scorporato dalla casa madre e quotato a Piazza Affari e Wall Street per “esprimerne al massimo il valore e potenziale sul mercato”. Il primo giugno scorso, l’ad a Balocco aveva firmato il nuovo piano industriale che disegna il futuro del Gruppo fino al 2022, in una giornata che aveva sancito il raggiungimento del target più ambito, quello del debito zero e che lo aveva visto protagonista fin dal mattino con un giro in pista veloce sulla sua Ferrari per “scaricare la tensione”. L’ultima uscita pubblica è stata il 26 giugno a Roma per consegnare all’arma dei Carabinieri una Jeep Wrangler. Come aveva detto più volte lui stesso, avrebbe dovuto lasciare l’incarico il prossimo anno con l’assemblea dei soci chiamata ad approvare i conti del 2018. Il destino ha voluto diversamente. “Safe journey Sergio, keep enlightening!”: il tweet con cui il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, esprime il proprio cordoglio. “Buon viaggio, Sergio continua ad illuminare”.
DALLA STORIA
Otto Dix. Correva l’anno 1933!
Nel 1933, con la presa del potere da parte di Adolf Hitler, Dix fu considerato un artista degenerato, perse l’incarico di professore all’Accademia di Dresda e gli venne proibito di esporre le proprie opere, alcune delle quali furono esibite nell’esposizione nazista d’arte degenerata e furono poi bruciate.
Il trauma della guerra e delle trincee prima e l’abiezione del nuovo regime traumatizzano fortemente il grande pittore tedesco che usa il linguaggio dell’arte per esprimere la sua denuncia (anche in ambito letterario la denuncia verrà sviluppata da scrittori come, ad esempio, Erich Maria Remarque). Dix realizza perciò “I sette vizi capitali”, un dipinto allegorico che rappresenta la situazione politica in Germania con la presa del potere da parte di Adolf Hitler. Dix l’ha dipinto subito dopo che i nazisti l’avevano rimosso dal suo posto di insegnante all’istituto d’Arte di Dresda Academy. La figura di Invidia, che cavalca la schiena di Avarizia, indossa la maschera di Adolf Hitler, ma in via precauzionale, Dix non dipinse i baffi di Hitler fino a dopo la guerra, nel 1945. Il quadro racconta il pittore tedesco che fu allontanato dall’insegnamento della sua Accademia da un nascente regime. Correva l’anno 1933. Adolf Hitler diventava quell’anno Cancelliere e i quadri dei pittori come questo furono esposti alla mostra dell’arte degenerata, quella che non si doveva più fare. Otto Dix, per reazione, concepì allora l’allegoria di una nazione degradata che si avviava incurante verso un baratro morale ed economico e intitolò questo quadro “I sette vizi capitali”. In primo piano, in basso, una mano adunca stringe convulsa delle banconote. Appartiene ad un’orribile strega cenciosa dagli occhi sbarrati sulla sua ossessione e la sua avidità. Sopra alla vecchia, sullo sfondo, ecco un essere ancora più ripugnante: una bestia feroce e ridicola con una mano che si stringe attorno ad un coltello; figura allegorica del modello maschile che detiene il potere: uomini che si tramutano in animali feroci e che sono preda dell’ira e ce ne sono tanti, veramente tanti, in quel momento. Più in alto, ancora, ecco ora un volto gonfiato, innaturalmente enorme e rosso dal cui orecchio spunta una mano che gli impedisce di ascoltare, un uomo pieno di sé che non ascolta gli altri. La superbia è così attenta a se stessa che si è galvanizzata vicino a chissà quale fiamma senza accorgersene da arrostirne il naso e la sua bocca è stata tramutata in qualcosa che emette solo escrementi. Sulla destra, in alto, vi è uno con la testa incastrata in una pignatta che è diventata così parte di sé da avere essa stessa occhi e naso a generare un mostruoso essere ibrido. Davanti a noi c’è un’inquietante galleria di vizi umani. E poi una chioma rossa, un viso di donna con gli occhi chiusi e la lingua sensualmente tra le labbra, sembra un’estasi erotica, infatti, si palpa un seno per trarne ed ottenere ogni possibile piacere. Lussuria, quello che trasforma l’eros in una possibile routine in cui gli uomini diventano animali in calore senza più dignità. Sopra un personaggio vestito da scheletro che brandisce una falce; è infelice, lo dice il ghigno delle bende sul volto. Quest’uomo non ha più occhi, ma qualcosa’altro è stato estratto, non ha neanche un cuore, ora non può più vedere né sentire è solo preda dell’accidia e cerca vittime per condividere la sua infelicità. Manca solo un vizio ormai, l’invidia. Ecco qui un nano i cui occhi famelici guardano dovunque. L’espressione del viso è infastidita e imbronciata per non essere lui gli altri ed ha due baffetti inequivocabili: è il Führer. Ma attenzione non è un vero volto, è una maschera di cui il pittore fa distinguere i contorni: ecco il significato, l’invidioso si identifica con un uomo potente, rispettato. Questo quadro è l’inferno dantesco, chiaro nella sua aberrazione, spietato nella sua chiarezza. Dix dipinge una società barbara e violenta nella sua miseria, un incubo ricorrente ad occhi aperti, l’orrore della guerra, da cui uomini diversi in epoche diverse avrebbero voluto svegliarsi. Cambieremo mai? Impareremo mai da quello che è stato prima di noi? No! È la risposta di Otto Dix dopo quello che ha visto, sperimentato, sofferto con l’esperienza vissuta nelle trincee della Prima guerra mondiale, accanto a giovani soldati che morivano, a migliaia, per conquistare pochi palmi di terra.
(Autoritratto da soldato, 1914)
Otto Dix, di origini proletarie si era formato presso la Scuola d’Arti Decorative di Dresda e più tardi all’Accademia di Belle Arti. Classe 1891, Dix divenne un esponente di spicco della corrente “Nuova oggettività” e dipinse le sue opere più note durante gli anni della Repubblica di Weimer. Nel 1912, a Dresda, visitò una mostra di Vincent van Gogh, restandone fortemente colpito tanto da determinare il suo perfezionamento anche come autodidatta. Dix era nato a Gera, in Turingia e, allo scoppio della prima guerra mondiale, con entusiasmo giovanile e amor patrio, si arruolò nell’esercito tedesco. Combatté sia sul fronte occidentale, contro l’esercito inglese e francese, che sul fronte orientale, contro l’esercito russo in qualità di sottoufficiale e, nel corso della guerra, fu ferito e decorato più volte. Scioccato dall’orrore della guerra divenne un profondo pacifista e riversò, nei suoi dipinti, le drammatiche immagini degli scenari bellici rappresentandole con particolare crudezza e realtà anche per lanciare un atto di accusa antimilitarista. Destinò la sua arte e il suo talento nel comunicare, spesso in forma allegorica, gli aspetti tragici e ripugnanti della condizione umana nell’esercizio del potere. I soggetti delle sue opere venivano da modelli e immagini reali di soldati sfigurati: corpi maciullati e in decomposizione o orribilmente feriti e mutilati. Al termine della Prima guerra mondiale, tornò a Dresda dove, nel 1919, aderì al gruppo espressionista della Secessione di Dresda ma, ben presto, con George Grosz, Rudolf Schlichter e John Heartfield, diede vita al gruppo dadaista tedesco, che prendeva ispirazione da quello di Zurigo, organizzando nel 1920 a Berlino la prima fiera internazionale dada. Nel 1922 si trasferì a Dusseldorf, dove nella locale accademia perfeziò il suo tipico stile: un realismo acuto, narrativo e morale, pieno di significati simbolici. Nella Germania del tempo, queste tele causavano un tale turbamento che spesso venivano rimosse dai musei e dalle gallerie d’arte dove erano esposte e, con l’avvento del Nazismo, Dix fu considerato un artista degenerato; gli venne proibito di esporre le proprie opere, alcune delle quali furono esibite nell’esposizione nazista d’arte degenerata e furono poi bruciate. Trasferitosi sul lago di Costanza, fu costretto a dedicarsi esclusivamente alla pittura di paesaggio, evitando i temi sociali. Lungo la sua vita dipinse, inoltre, numerosi autoritratti. In quanto veterano pluridecorato della prima guerra mondiale, allo scoppio della Seconda guerra mondiale Dix fu nuovamente richiamato nell’esercito; catturato dalle truppe francesi, fu rilasciato nel 1946. Otto Dix morì a Singen, in Germania, il 25 luglio 1969.
Mary Titton
24 luglio
PRIMO PIANO
Atene: roghi spaventosi, più di 100 morti.
Incendi di enormi proporzioni, quasi sicuramente di origine dolosa, stanno devastando la costa orientale dell’Attica, causando più di 100 morti, tra cui 16 bambini, e almeno 556 feriti, molti dei quali in gravi condizioni. Il fumo denso ha raggiunto Atene avvolgendo il Partenone con una fitta nube, la località più colpita, Mati, è incenerita. E’lo stesso terribile scenario che si presntò nel 79 d.C. a Pompei, dopo l’eruzione del Vesuvio: la maggior parte delle vittime intrappolate nelle case o nelle automobili, nel tentativo di fuggire, corpi di madri e figli abbracciati a una trentina di metri dal mare, nelle vicinanze di un ristorante molto frequentato. Nello stesso punto sono state trovate decine di automobili carbonizzate. Cinque persone che si erano gettate in mare per sfuggire agli incendi, che li avevano circondati nei pressi di Rafina, a Nord di Atene, sono state salvate da una nave traghetto. Circa 700 persone sono state soccorse in mare, dove era terminata la loro fuga dalle fiamme che nella notte hanno avvolto la località di Mati, secondo quanto riferito al Guardian dalla Guardia costiera che ha portato avanti, insieme ad alcune imbarcazioni private, le operazioni di recupero. Migliaia di persone, tra le quali molti turisti, sono state evacuate. Al momento, ci sono ancora 3 fronti aperti nella regione dell’Attica, ma roghi minacciano anche altre zone del Paese, in particolare a Corinto, nel Peloponneso e nell’isola di Creta. A rendere difficile il lavoro dei vigili del fuoco è il forte vento. L’ambasciatore italiano ad Atene, Efisio Marras, ha parlato di “scene raccapriccianti, dodici ore di inferno, partite da ovest, ma poi a causa del vento i danni maggiori si sono registrati sulla costa est dell’Attica”. Il premier Alexis Tsipras ha dichiarato lo Stato d’emergenza e tre giorni di lutto nazionale, assicurando che “nulla resterà senza risposta”, ma “ora è il momento dell’unità e della solidarietà, è il momento della mobilitazione e della lotta per salvare il salvabile”. Il governo greco ha chiesto aiuto all’Europa, l’Italia ha messo a disposizione due canadair e anche la Turchia, storicamente “rivale” della Grecia, ha offerto il suo aiuto in una telefonata del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, al collega greco, Nikos Kotzias. Aiuti sono stati offerti anche da Israele, Francia, Bulgaria, Germania e Polonia. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker ha contattato Tsipras per esprimere “le sue sincere condoglianze alle famiglie e agli amici delle vittime degli incendi” e per assicurare che “sarà fatto tutto il possibile per sostenere il Paese oggi, domani e fino a quando necessario”. Mentre Atene è assediata dalle fiamme, si cerca di capire l’origine dei roghi: non si esclude la mano dell’uomo, dolosa o colposa.
DALLA STORIA
24 luglio 1911, Hiram Bingham scopre Machu Picchu.
Hiram Bingham non era un archeologo ma un uomo appassionato, incuriosito dai misteri dell’America del Sud. Conoscendo le opere dei cronisti antichi riuscì a raggiungere la “città perduta”, dando una realtà storica a un sito archeologico vissuto fino ad allora solo nella leggenda: Machu Picchu. Al suo arrivo “la città” era ancora quale l’avevano lasciata gli ultimi suoi abitanti, e abbiamo pertanto a disposizione, cosa che non si è verificata per nessun’altra civiltà antica, eccezione fatta per le rovine di Pompei ed Ercolano, una perfetta immagine del comune villaggio inca. Le rovine sorgono in una giogaia tra le vette di Machu (Antico) e di Huayna (Nuovo) Picchu, nella valle dell’Urubamba e faceva parte di una serie di centri fortificati intesi a proteggere Cuzco. “La Città del Sole”, come veniva chiamata dagli Incas, è affiancata su entrambi i lati da ripidi pendii. Templi, piazze, case e unità residenziali s’addensano in breve spazio, sospesi sui versanti della montagna grazie a stupende opere di terrazzamento. Aveva un ingresso di pietra con una porta di legno massiccio (sostenuta da una pietra sporgente dall’architrave) e un piccolo cavicchio perpendicolare di pietra per chiuderla. Anche qui, come in ogni altro centro inca, coesistevano vari stili architettonici: palazzi reali di granito perfettamente squadrato e altrettanto perfettamente montato, rozze case per la gente comune e baracche per i soldati. Ogni casa era ricoperta da un tetto d’erba molto fitta e resistente; gli interni erano di una austerità quasi spartana. Tale era Machu Picchu, l’ultima di una costellazione di città abbarbicate sulle montagne e unite mediante una strada di pietra alla capitale dell’impero Inca, Cuzco. Tornando a Bingham, va ricordato che egli nacque nel 1875, a Honolulu da un missionario protestante e, sin da ragazzo diventò, sotto la guida del padre, un alpinista provetto, cosa che in seguito lo avrebbe agevolato molto nelle sue esplorazioni del mondo inca. Appassionato di storia dell’America latina, nel 1906 ripercorse la strada fatta da Simón Bolívar nel 1819 dal Venezuela alla Colombia, e poi, nel 1908, l’antica via commerciale degli spagnoli che, scavalcando le Ande, congiungeva Buenos Aires con Lima. Infine, venne l’impresa della città fortificata di Machu Picchu, che Bingham raggiunse il 24 luglio 1911, mentre in agosto scopriva un altro importante sito archeologico inca: Vitcos. Scrisse poi diversi libri, tra i quali “Lost City of the Incas”, in cui racconta come scoprì la città “del culto del sole”. La sua descrizione è assolutamente emozionante. Ecco qui di seguito il brano: “Superammo una capanna in cattivo stato, dal tetto coperto di paglia, attraversammo una minuscola radura accanto alla strada e ci accampammo vicino al fiume, su una riva sabbiosa. Di fronte a noi, di là dalle enormi rocce di granito che intralciavano il corso tumultuoso del fiume, la ripida montagna era coperta da una giungla folta. Noi eravamo al tempo stesso vicini alla strada e al riparo dalla curiosità dei passanti, sicché il luogo ci sembrò ideale per accamparsi. I nostri preparativi, comunque, destarono la diffidenza del proprietario della capanna, Melchor Arteaga, che aveva affittato le terre di Mandor Pampa. Voleva sapere perché non ci eravamo sistemati nella sua “taverna”, come tutti gli altri viaggiatori rispettabili. Per fortuna, il prefetto di Cuzco, il nostro vecchio amico J. J. Nuñez, ci aveva concesso una scorta armata che parlava quechua. Così il nostro gendarme, il segente Carrasco, rassicurò l’oste ed ebbe con lui una lunga conversazione. Quando Arteaga seppe che ci interessavamo alle rovine architettoniche degli Incas e che stavamo cercando il palazzo dell’ultimo Inca, disse che c’erano alcune belle rovine nei dintorni: e non aveva torto, perché ce n’erano di veramente superbe sulla cima della montagna di fronte, Huayna Picchu, e su un’altra cresta della Machu Picchu! La mattina del 24 luglio cadeva una pioggerella fredda. Arteaga, scosso da brividi, sembrava incline a restarsene nella capanna. Gli offrii una bella somma se mi avesse guidato a vedere le rovine. Fece delle difficoltà, dicendo che l’ascensione sarebbe stata troppo faticosa con quell’umidità, ma, quando si rese conto che ero pronto a pagargli un sol (un dollaro peruviano d’argento e cinquanta cents d’oro), cioè tre o quattro volte la paga giornaliera d’uso nella regione, decise di venire. Quando gli domandammo dove erano esattamente le rovine, indicò, dritto davanti a noi, la cima della montagna. Nessuno si aspettava di trovarle particolarmente interessanti. E nessuno aveva voglia di venire con me. Il naturalista disse che “c’erano più farfalle sulla riva del fiume” e che aveva tutti i motivi per sperare di catturarne qualche specie nuova. Il chirurgo obiettò che doveva lavarsi i vestiti e ripararli. A ogni buon conto, era mio compito verificare la fondatezza di quelle informazioni e cercare di ritrovare la capitale inca. Quindi, accompagnato soltanto dal sergente Carrasco, lasciai il campo alle dieci. Arteaga ci condusse molto lontano, a monte del fiume. Lungo la strada vedemmo un serpente che era stato ucciso da poco, e Arteaga ci spiegò che la ragione era infestata dalle vipere. … Dopo una marcia di tre quarti d’ora, Arteaga lasciò la strada principale, e penetrammo nel folto della giungla per raggiungere l’argine del fiume. Là c’era un ponte rudimentale che sormontava le rapide nel punto più stretto, in uno spazio in cui il fiume era costretto a passare tra due enormi rocce. Il “ponte” consisteva di una mezza dozzina di tronchi molto sottili, la lunghezza di alcuni non copriva neppure interamente lo spazio tra le rocce, tenuti insieme da semplici liane!… Lasciando il corso d’acqua, ci mettemmo a scalare faticosamente l’argine in mezzo a una giungla fitta e dopo alcuni minuti raggiungemmo la base di una salita molto ripida. Dovemmo faticare un’ora e venti minuti per arrampicarci, quasi sempre a quattro zampe e talvolta aggrappandoci con le unghie. In vari punti del percorso era collocata una scala rudimentale, fatta col tronco di un piccolo albero in cui erano state praticate alla bell’e meglio delle tacche sommarie, in modo da aiutare il passaggio sopra dei precipizi che altrimenti sarebbero stati insuperabili. In un altro punto, la montagna era coperta da un’erba scivolosa in cui trovare degli appigli per le mani e per i piedi non era per niente facile. Arteaga si lamentava e diceva che c’erano moltissimi serpenti in quel posto. Il sergente Carrasco non diceva nulla, ma era contento di calzare robuste scarpe militari. … Poco dopo mezzogiorno, completamente esausti, raggiungemmo una capanna con il tetto di erba a 2000 piedi (610 metri) sopra il fiume, dove alcuni indios molto cordiali, piacevolmente sorpresi dal nostro arrivo imprevisto, ci offrirono delle zucche secche traboccanti di una deliziosa acqua fresca. Poi ci offrirono patate dolci cotte. Venimmo a sapere che due coltivatori indios, Richarte e Alvarez, erano andati da poco ad abitare in quel nido d’aquila. Dicevano che lì avevano trovato molte terrazze da coltivare. Riconobbero ridendo che era un gran piacere essere al riparo da visite indesiderate, come quelle degli ufficiali che cercavano “volontari” per l’esercito o incassavano le imposte. … C’erano due strade, dissero, che li collegavano al mondo esterno. Noi avevamo già sperimentato una delle due; l’altra era “ancora più difficile”, era una strada pericolosa che seguiva un precipizio roccioso dall’altro lato della cresta. Era la sola via percorribile durante la stagione umida, quando il ponte rudimentale che avevamo appena attraversato non era praticabile. Non mi stupii nel sentire che si assentavano soltanto “una volta al mese circa”. Tramite il sergente Carrasco seppi che le rovine si trovavano “un po’ più lontano davanti”. Nessuno può dire, in quel paese, se valutazioni di questo tipo sono credibili. A ogni testimonianza per sentito dire conviene aggiungere una postilla: “Molto probabilmente che abbia mentito”. Di conseguenza non ero particolarmente entusiasta, né mi affrettavo a ripartire. Il caldo era intenso, l’acqua di sorgente degli indios era fresca e squisita, e la panchina di legno rustico, ospitalmente ricoperta di un poncho di lana morbida subito dopo il mio arrivo, mi sembrava ben più attraente. Inoltre, il panorama era davvero incantevole. Vertiginosi abissi verdi sfociavano in basso nelle rapide dell’ Urubamba, dal biancore abbagliante. Proprio di fronte a noi, sul versante nord della valle, si stagliava un’immensa parete granitica con uno strapiombo di 2000 piedi (610 metri). A sinistra si vedeva il picco solitario del Huayna Picchu, circondato da precipizi che sembravano inaccessibili. Da tutte le parti si ergevano ripide pareti rocciose e, dietro di esse, le montagne incappucciate di nuvole e coperte di neve raggiungevano altezze di migliaia di piedi sopra di noi. Continuammo ad ammirare il meraviglioso panorama del cañon, ma le rovine che riuscivamo a vedere dal nostro fresco riparo si riducevano ad alcune terrazze. Mi aspettavo di scoprire solo le rovine di due o tre case di pietra, come quelle che avevamo trovato in vari luoghi sulla strada che va da Ollantaytambo a Torontoy, ma mi decisi infine a lasciare l’ombra fresca di quell’incantevole capanna per riprendere la salita della cresta aggirando un piccolo promontorio. Melchor Arteaga era “già passato di là”, così decise di riposarsi e di fare due chiacchiere con Richarte e Alvarez. Come “guida” venne con me un ragazzetto. Il sergente mi seguiva, com’era suo dovere, ma credo che anche lui fosse abbastanza curioso di vedere che cosa c’era da vedere. Avevamo appena lasciato la capanna e aggirato il promontorio, che ci trovammo davanti a una visione imprevista: un vasto susseguirsi di terrazze delimitate da pietre ben tagliate, almeno cento, forse, ciascuna di centinaia di piedi di lunghezza e di 10 piedi (3 metri) di altezza. Da poco gli indios avevano strappato quella terra dalla giungla che ci attorniava. Per ottenere quei terreni adatti all’agricoltura era stato necessario abbattere un’intera foresta di alberi immensi e secolari e bruciarne una gran parte. Il lavoro era troppo per due indios, così era stato permesso loro di lasciare i tronchi degli alberi là dove erano caduti, togliendo solo i rami più piccoli. Ma l’antica terra, accuratamente sistemata dagli Incas, poteva ancora produrre ricchi raccolti di mais e di patate. … Seguimmo la nostra piccola guida senza impazienza lungo una delle terrazze più larghe, in cui un tempo passava una conduttura idraulica, poi ci aprimmo un varco nella foresta intatta che c’era dopo. Avanzammo strisciando nel fitto sottobosco, scalando i muretti delle terrazze e infilandoci nei boschetti di bambù; la guida se la cavava molto meglio di me. E all’improvviso, senza avvertirci il ragazzo ci mostrò, sotto un’enorme roccia a strapiombo, una grotta magnificamente rivestita di una bellissima pietra da taglio. Si trattava evidentemente di un mausoleo reale. In cima a quella roccia stupefacente si ergeva un edificio semicircolare, con un recinto che descriveva una curva dolce, somigliante in modo sorprendente al celebre tempio del Sole di Cuzco. Forse, anche quello era un tempio del Sole. Seguiva l’andamento naturale della roccia e il risultato di un lavoro di muratura tra i più raffinati che io abbia mai visto. Per di più, si articolava dentro un altro muro, anch’esso fatto con blocchi mirabilmente incastrati, di un granito scelto appositamente per la finezza della grana bianca. Era senza dubbio un’opera di grande perizia tecnica. La parte interna del muro era ritmata da nicchie e da sporgenze quadrate di pietra. La parte esterna era di semplicità perfetta e senza decorazioni. Le fasce inferiori, fatte di blocchi molto grandi, davano un’impressione di solidità. Quelle superiori, i cui blocchi diminuivano progressivamente di grandezza verso l’alto, conferivano grazia e delicatezza alla costruzione. Le linee sapientemente disegnate, la simmetria dei blocchi di pietra e la riduzione graduale delle dimensioni delle fasce si alleavano per creare un effetto prodigioso, più armonioso e più piacevole di quello prodotto dai templi di marmo del Vecchio Mondo. Poiché non era stata usata la malta, non c’erano brutte intercapedini tra le pietre: sembrava quasi che fossero spuntate proprio così. Per lo splendore del granito bianco, quell’edificio superava le più belle costruzioni di Cuzco, che suscitavano l’ammirazione dei viaggiatori da quasi quattro secoli. Quello spettacolo mi sembrava una chimera. Cominciavo a rendermi conto, sebbene ancora confusamente, che quel muro e il tempio semicircolare cui era connesso al di sopra della grotta erano bellissimi, comparabili alle più notevoli costruzioni del mondo intero. All’improvviso ci trovammo davanti alle rovine di due costruzioni tra le più elaborate e le più interessanti dell’America precolombiana. I muri erano di un bel granito bianco, alcuni blocchi di grandezza ciclopica, più alti di un uomo. La visione mi catturava lo sguardo come un incantesimo. Entrambe le costruzioni si componevano solo di tre muri, mentre il quarto lato era completamente aperto. I muri del tempio principale, alti 12 piedi (3,60 metri), erano adorni di nicchie magistralmente costruite, cinque delle quali collocate in alto su ogni ala e sette nella facciata di fondo, composta da sette strati. Sotto le sette nicchie del fondo giaceva un blocco rettangolare lungo 14 piedi (4,20 metri), forse un altare per i sacrifici, ma, più probabilmente, un trono per le mummie degli Incas defunti, esposte per essere adorate. Sembrava che l’edificio non avesse mai avuto un tetto. La fascia superiore, composta di ben 3 blocchi levigati, era stata concepita per restare senza copertura, affinché i sacerdoti e le mummie potessero accogliere il sole all’interno. Nell’esaminare i blocchi più grandi delle fasce inferiori, stentai a credere ai miei occhi, stimando che ciascuno pesasse tra le dieci e le quindici tonnellate. Il mondo avrebbe creduto alla mia scoperta? Per fortuna, in un paese in cui la precisione delle informazioni intorno alle cose viste non è certo la caratteristica più diffusa tra i viaggiatori, avevo una buona macchina fotografica, e il sole splendeva. Il tempio principale è orientato verso sud e domina su una piccola piazza o cortile. Sul lato est della piazza si solleva un’altra costruzione strana, le rovine di un tempio ornato da tre grandi finestre che danno sul cañón verso oriente, tempio che è, come l’altro, unico tra tutte le rovine degli Incas. Non si è trovato alcun altro edificio paragonabile a quello, vuoi per ideazione, vuoi per realizzazione. Le tre finestre di notevole grandezza, certo troppo ampie per un uso consueto, erano state eseguite con grandissima cura. Si trattava, senza alcun dubbio, di un edificio per cerimonie di significato particolare. Da nessuna parte in Perù, che io sappia, esiste un edificio con un muro in blocchi di pietra in cui si aprono tre grandi finestre. Come si ricorderà, Salcamayhua, il peruviano che nel 1620 redasse una memoria sulle antichità del Perù, diceva che il primo Inca, Manco il Grande, ordinò “l’esecuzione, sul luogo della sua nascita, di lavori consistenti in un muro di blocchi ornato da tre finestre”.
Era quello il muro che io avevo appena scoperto? Se la risposta era affermativa, allora quelle rovine non erano la capitale dell’ultimo inca, bensì il luogo di nascita del primo. Non mi venne in mente che poteva essere entrambe le cose. Quella regione poteva infatti corrispondere ai dati di Tampu Tocco, il luogo in cui si rifugiò il popolo civile in fuga davanti alle tribù barbare del sud dopo la battaglia della Raya, portando il corpo del re Pachacutec ucciso da una freccia. Non era inverosimile che il re fosse stato sepolto nella grotta rivestita di pietra situata sotto il tempio semicircolare”. Hiram Bingham
Mary Titton
23 luglio
PRIMO PIANO
L’universo è simmetrico, lo dimostrano i dati del telescopio IceCube.
Dopo la scoperta della loro prima sorgente cosmica, un buco nero distante 4,5 miliardi di anni luce, i neutrini dimostrano che Einstein aveva ragione nel descrivere l’universo come perfettamente simmetrico. È quanto emerge dallo studio, condotto dal gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology (Mit) coordinato da Carlos Argüelles e Teppei Katori e pubblicato sulla rivista Nature Physics. Lo studio è basato sulle osservazioni del più grande telescopio per neutrini del mondo, IceCube, una rete di più di 5.000 “occhi” disseminati lungo un chilometro cubo nei ghiacci del Polo Sud. Einstein nella sua Teoria della Relatività Speciale aveva ipotizzato che, a causa della simmetria dell’universo, si dovessero misurare le stesse leggi della fisica in ogni direzione. E’ il caso, ad esempio, della velocità della luce, pari a circa 300.000 km. al secondo, che è la stessa “sia per un astronauta in viaggio nello spazio che per una molecola che si muove all’interno del torrente sanguigno”, come hanno spiegato i ricercatori. Gli scienziati hanno detto: “Abbiamo analizzato due anni di dati raccolti da IceCube sui neutrini prodotti nell’atmosfera terrestre, escludono anomalie nel comportamento dei neutrini, che possano contraddire quanto previsto da Einstein”. La prossima tappa prevede di verificare la bontà delle previsioni di Einstein anche sui neutrini di origine cosmica, come quello proveniente da un blazar, una galassia con un enorme buco nero al centro, catturato nel settembre 2017 e annunciato nel luglio 2018, che ha inaugurato un modo diverso di guardare al cosmo e ha segnato un nuovo capitolo della cosiddetta astronomia multimessaggero.
20 luglio
PRIMO PIANO
Lubecca: aggressione su un bus, diversi feriti.
Oggi, alle alle 13:47, a Lubecca, città nel nord della Germania, al confine con la Danimarca, su un bus di linea diretto verso il mare, un uomo armato di un coltello da cucina ha ferito 9 persone, di cui una versa in gravi condizioni. Secondo la testata locale Luebecker Nachrichten, l’autobus era molto affollato ed era diretto a Travemuende, una popolare spiaggia sul Baltico vicina a Lubecca, dove era prevista l’inaugurazione di un festival cittadino, la Travermuende Woche. Come raccontano testimoni citati da un quotidiano locale, il bus era pieno di gente e l’uomo all’improvviso ha tirato fuori dallo zaino un coltello da cucina con cui ha iniziato ad aggredire i passeggeri. L’autista si è immediatamente fermato aprendo le porte dell’autobus e permettendo ai viaggiatori di uscire e mettersi in salvo, ma è stato preso a pugni dall’assalitore. L’attentatore è stato poi fermato dalla polizia e ora si trova in stato di fermo, è un uomo di 34 anni di cittadinanza tedesca, ma di origine iraniane, residente a Lubecca. “Non escludiamo niente, nemmeno un attacco terroristico” ha detto in una conferenza stampa in serata il procuratore capo Ulla Hingst.
LUIGI!
19 luglio
PRIMO PIANO
Strage di via D’Amelio: “La trattativa Stato-mafia accelerò la morte di Borsellino”.
È quanto sostengono i giudici della Corte d’assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, depositate nel giorno del 26mo anniversario della strage di via D’Amelio, che costò la vita al magistrato Paolo Borsellino e ai 5 agenti della scorta. Nelle oltre 5mila pagine delle motivazioni della sentenza si legge infatti: “L’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino fu determinata dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Ameliio”. E ancora: “Ove non si volesse pervenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo.” Per i giudici, un ruolo determinante sarebbe stato anche quello di Marcello Dell’Utri: “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funzione di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992”. La Corte di Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, il 20 aprile scorso aveva comminato pesanti condanne, come chiedevano i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi: 12 anni per gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, 12 anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno, 28 anni per il boss Leoluca Bagarella, assoluzione invece per l’ex ministro Nicola Mancino, “perché il fatto non sussiste”. Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, che è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Intanto la figlia del giudice assassinato, Fiammetta Borsellino, continua a chiedere a gran voce verità sul depistaggio messo in atto dopo la strage e sulla sparizione della famosa agenda rossa che il giudice portava sempre con sé, come su tanti altri punti oscuri dell’attentato.
DALLA STORIA
Edgar Degas.
Edgar Hilaire Germain de Gas (poi modificato in Degas) nasce a Parigi il 19 luglio 1834. Suo padre, discendente da una nobile famiglia di origine bretone, si era trasferito a Napoli durante la rivoluzione francese ed era ritornato a Parigi, dove dirigeva una succursale della banca di proprietà della famiglia. Nel 1855 Degas abbandona gli studi di legge: frequenta lo studio di Louis Lamothe, allievo di Ingres; e viene ammesso all’École des Beaux-Arts. Tra il 1856 e il 1861 compie il suo primo viaggio di studio in Italia, in particolare a Roma. Nel 1862 stringe amicizia con Manet e dal 1866 inizia a frequentare il caffè Guerbois, dove si riuniscono i giovani del gruppo di Batignolles, capitanati da Brazille, che dissentono dall’arte accademica in nome di un rinnovamento della pittura. Nel 1870, allo scoppio, della guerra franco-prussiana, si arruola nella Guardia Nazionale. Alla fine del conflitto riprende i contatti con gli altri pittori, che ora si riuniscono al caffè Nouvelle Athènes. Nel 1874 presenta dieci opere alla prima mostra degli impressionisti e d’ora in poi prenderà parte a tutte le edizioni successive a eccezione di quella del 1882. A partire dal 1880 comincia ad avere i primi problemi di vista, che lo rendono quasi completamente cieco e lo spingono ad accostarsi alla scultura. Nel 1893 il gallerista Paul Durand-Ruel organizza la sua prima e unica mostra personale. Negli ultimi anni di vita si isola sempre più, conducendo vita appartata, fino alla morte che lo coglie a Parigi, il 26 dicembre 1917.
(Carrozza alle corse. 1870-1873, olio su tela, Boston, Museum of Fine Arts)
Degas comincia ad appassionarsi ai cavalli e alle corse nel 1860, durante un soggiorno in Normandia, a Mesnil Hubert, ospite di Paul Valpinçon. Questi è figlio di Edouard, che era stato amico di Ingres e ne possedeva uno dei quadri più celebri, “La bagnante” (oggi al Louvre di Parigi). Proprio la famiglia Valpinçon è la protagonista di questo dipinto, che stupisce per il soggetto insolito. L’artista ha infatti relegato in secondo piano, sullo sfondo a sinistra, l’arrivo concitato dei due cavalli da corsa, stilizzati con poche rapide pennellate. Al contrario, tutta la parte destra della tela è occupata dalla carrozza, sulla quale Madame Valpinçon, riparata dal sole da un ombrellino e del tutto incurante di quanto si svolge alle sue spalle, ha appena finito di allattare il secondogenito, Henri, sotto gli occhi premurosi della figlia maggiore, Hortense, del cocchiere e di un cane, appollaiato in cassetta.
(La classe di ballo. 1873-1875, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay)
Nel 1873 Degas comincia a interessarsi al mondo delle ballerine, tema che diventerà uno dei più amati e noti della sua produzione artistica. Il primo gruppo di ballerine è datato tra il 1873 e il 1878: in quel periodo frequenta le scene dell’Opéra, a cui può accedere grazie all’amicizia con gli orchestrali; visita inoltre le classi di danza, prendendo appunti, che poi traduce in opere finite su tela. Probabilmente questo dipinto è ambientato nel ridotto di Rue Le Pelletier, prima dell’incendio che in quell’anno distrugge il teatro. Il maestro di danza, Jules Perrot, sta impartendo alcuni consigli a un’allieva, mentre le altre ballerine assistono, in attesa del loro turno. Nel 1875 Degas riprende questa tela, apportandovi significative varianti nella posizione dei personaggi: aggiunge per esempio la fanciulla con il nastro verde in primo piano, per aumentare la profondità dello spazio.
(Cavalli da corsa davanti alle tribune. 1879 circa, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay)
Questo dipinto può essere identificato con quello apparso alla quarta mostra impressionista del 1879, con il titolo “Cavalli da corsa: olio raffinato”. L’artista infatti si è servito di oli raffinati per produrre effetti di luminosità e trasparenza superiori a quelli che avrebbe potuto ottenere con gli oli tradizionali. Anche se alcuni disegni preparatori, specialmente quelli per i fantini, sono stati iniziati nel 1866, il dipinto mostra già una notevole perizia, tipica della serie matura eseguita tra il 1877 e il 1890. In questi anni si nota una maggiore attenzione ai dettagli, in particolare alla precisione anatomica dei cavalli, una accurata distribuzione delle ombre e un più accentuato dinamismo nell’intera composizione. Così lo spettatore ha la sensazione di partecipare direttamente alla scena che si svolge davanti ai suoi occhi.
(L’assenzio. 1876, olio su tela, Parigi, Musée d’ Orsay)
Il locale è la Nouvelle Athénes in Place Pigalle, nuovo ritrovo degli impressionisti dopo il caffè Guerbois. Il personaggio maschile è interpretato dal pittore e incisore Marcellin Desboutin, nello stesso abbigliamento e atteggiamento bohémien con cui l’aveva ritratto Manet nel 1875: davanti a sé ha un bicchiere di mazagran, un rimedio contro i postumi dell’ubriachezza. La modella per la fanciulla è la nota attrice Ellen Andrée, con il tipico bicchiere d’assenzio davanti a sé. Il liquore di assenzio è una bevanda popolare tra la classe operaia parigina di fine secolo, una mistura di anice e menta, con l’aggiunta di estratto della pianta dalle note proprietà tossiche, evidenziate dallo sguardo vuoto e attonito della donna. L’atmosfera richiama i temi sociali dei romanzi di Émile Zola, in particolare “L’ammazzatoio”. In primo piano una scatola di fiammiferi e un giornale, sempre a disposizione dei clienti.
(Ritratto di Diego Martelli. 1879, olio su tela, Edimburgo, National Gallery of Scotland)
Grande amico, teorico e sostenitore dei macchiaioli, Diego Martelli viene ritratto durante il soggiorno a Parigi da Degas e da Zandomeneghi. Il viaggio nella capitale francese, dal 1878 al 1879, è molto importante per il critico, perché gli dà la possibilità di conoscere gli impressionisti e di apprezzare la loro arte, di cui, una volta tornato in Italia, diventa il primo sostenitore e diffusore. Ancora una volta Degas preferisce una posa non ufficiale, informale, con l’uomo visto di fianco, quasi in secondo piano, mentre la scena sembra dominata dalla massa disordinata delle carte e degli attrezzi per l’incisione. Pur essendo vicino alla cecità e scoraggiato per le liti che avrebbero portato alla dissoluzione del movimento impressionista, Degas raggiunge in questi anni la piena sicurezza espressiva e una totale padronanza della luce e dei colori.
Fonte: “Gli impressionisti”. 1999. A. Mondadori
Mary Titton
18 luglio
PRIMO PIANO
Giove: Una delle lune ha un nuovo vulcano.
È stato scoperto un nuovo vulcano su Io, una delle lune di Giove, la più irrequieta del Sistema Solare, dotata di intensa attività vulcanica. La scoperta, in corso di pubblicazione, si deve all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e si basa sullo strumento Jiram (Jovian InfraRed Auroral Mapper), che si trova a bordo della sonda Juno della Nasa, è finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e realizzato dall’industria italiana con Leonardo. Gli esperti pensano che su Io siano presenti più di 400 vulcani attivi, 150 dei quali già osservati direttamente, gli altri 250 al momento solo ipotizzati. Il nuovo vulcano potrebbe essere uno di questi ultimi. Secondo Alessandro Mura dell’Inaf di Roma, vice responsabile di Jiram, il nuovo vulcano potrebbe essere “una struttura simile a una grande caldera, sconosciuta su Io prima d’ora”. Jiram è stato progettato per studiare le aurore di Giove, ma i ricercatori dell’Inaf hanno deciso di orientarlo verso il Polo Sud di Io. Una scelta felice: i dati a infrarossi, raccolti il 16 dicembre 2017, quando Juno era a circa 470.000 chilometri da Io, hanno infatti mostrato a sorpresa un nuovo vulcano. L’intensa attività vulcanica di Io è legata, spiega Mura, “alla sua vicinanza con Giove e con le sue compagne Europa e Ganimede”, che esercitano sulla luna una fortissima attrazione gravitazionale. Lo studioso afferma che questo nuovo vulcano “produce emissioni di zolfo che possono innalzarsi fino a 500 chilometri di altezza”. La sonda Juno ha raggiunto Giove il 4 luglio 2016 e da allora sta studiando il campo magnetico e gravitazionale del pianeta, penetrando la fitta coltre di nubi che forma enormi vortici, ha pure scoperto che sul gigante gassoso soffiano venti, che possono arrivare alla profondità di 3.000 chilometri, e che ai poli si formano cicloni che si possono estendere per migliaia di chilometri. La missione continuerà a operare fino al 2022.
17 luglio
PRIMO PIANO
Omicidio Politkovskaja: la Corte di Strasburgo ha condannato la Russia.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Russia per non “avere messo in atto le indagini appropriate per indentificare i mandanti” dell’omicidio della giornalista russa Anna Politkovskaja, uccisa nell’ascensore del palazzo dove abitava, a Mosca, il 7 ottobre del 2006. A ricorrere a Strasburgo contro le autorità russe erano state la madre, la sorella e i figli della giornalista nel 2007. “Lo Stato russo ha mancato agli obblighi relativi alla effettività e alla durata delle indagini – recita la sentenza della Corte – violando così la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.” La Corte rileva in particolare che “se le autorità hanno trovato e condannato un gruppo di uomini direttamente coinvolti nell’assassinio della signora Politkovskaja, non hanno attuato adeguate misure investigative per identificare i mandanti dell’omicidio”. Secondo la Corte le autorità “hanno sviluppato una teoria sull’istigatore dell’omicidio, dirigendo la loro indagine su un uomo d’affari russo che risiedeva a Londra, ora deceduto”, ma avrebbero dovuto “studiare altre ipotesi, comprese quelle suggerite dalle ricorrenti, secondo cui nell’assassinio sono stati coinvolti gli agenti del FSB, i servizi segreti russi, o l’amministrazione della Repubblica cecena”. Anna Stepanovna Politkovskaja è stata una giornalista russa, molto conosciuta per il suo impegno sul fronte dei diritti umani, per i suoi reportage dalla Cecenia e per la sua opposizione al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. Nata il 30 agosto 1958 con il nome di Anna Mazepa, a New York, da due diplomatici sovietici di nazionalità ucraina di stanza presso l’ONU, studia giornalismo all’Università di Mosca, dove si laurea nel 1980 con una tesi sulla poetessa Marina Cvetaeva. A partire dal giugno 1999 fino alla sua morte, lavora per la Novaja Gazeta, quotidiano russo di ispirazione liberale, e pubblica alcuni libri fortemente critici su Vladimir Putin e sulla conduzione della guerra in Cecenia, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili e dello stato di diritto sia in Russia che in Cecenia e venendo più volte minacciata di morte proprio per il suo impegno e le sue inchieste.
DALLA STORIA
Firenze, 17 luglio 1944: la strage di Piazza Torquato Tasso.
Nel pomeriggio del 17 luglio 1944 un camion pieno di militi repubblichini e agenti in borghese, guidati da Giuseppe Bernasconi, braccio destro del famigerato comandante delle SS italiane Mario Carità, arriva improvvisamente in Piazza Tasso e si ferma all’angolo tra via Giovanni Villani e viale Francesco Petrarca: i fascisti, armati di mitragliatori, aprono il fuoco sulle persone che sono in piazza, seminando morte e terrore. In quel pomeriggio d’estate molti abitanti del quartiere fiorentino di San Frediano erano in piazza, si trattava in gran parte di donne, anziani e bambini, dato che i giovani e gli uomini validi erano quasi tutti nascosti per evitare i rastrellamenti. Sotto il fuoco degli uomini di Bernasconi caddero cinque persone: Ivo Poli, di soli otto anni, Aldo Arditi, Igino Bercigli, Corrado Frittelli e Umberto Peri; si contarono inoltre numerosi feriti più o meno gravi. La retata si concluse con l’arresto di alcuni sospetti gappisti, che saranno inclusi nel drappello di diciassette uomini fucilati alle Cascine il 23 luglio. Solo molti anni dopo, nel 1952, furono ritrovati i loro corpi sul greto del fiume Arno, nei pressi del parco delle Cascine. Stando alle testimonianze disponibili, in quella occasione furono effettuati altri arresti, ma non è chiaro se le persone fermate siano state poi rilasciate o inviate al lavoro coatto in Italia o nel Reich. I repubblichini non erano stati molestati o fatti segno di atti ostili, l’eccidio fu verosimilmente una sanguinosa ritorsione contro la popolazione del quartiere di San Frediano, di solide tradizioni antifasciste e sostenitrice della Resistenza. A condurre l’azione non sono dunque forze tedesche, ma italiane: si tratta di elementi appartenenti alla cosiddetta “banda Carità”, ovvero al Reparto servizi speciali, fondato dal “seniore” Mario Carità nell’autunno 1943 e formalmente inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. La banda aveva in realtà assunto un ruolo autonomo, in stretta connessione con i reparti investigativi tedeschi e si era macchiata di numerosi crimini nella sua attività repressiva contro i gruppi antifascisti e nella caccia agli ebrei. Dato che Carità ha abbandonato Firenze i primi di luglio alla volta di Padova, è Giuseppe Bernasconi, uno dei suoi più stretti collaboratori, a condurre il rastrellamento di piazza Tasso. Il pluripregiudicato Bernasconi è un esempio di quei militanti della prima ora, posti ai margini durante la fase di normalizzazione del regime, che hanno poi trovato nuovi spazi di manovra nei mesi della Repubblica Sociale. L’eccidio di piazza Tasso è esemplificativo dei numerosi episodi di angherie e soppressioni di civili, attribuibili solo in parte ai reparti tedeschi: dalle esecuzioni di antifascisti, o sospetti tali, fino a una serie di eccidi mossi dalla volontà di infliggere l’ultima punizione a una popolazione ritenuta ostile. Nelle settimane che precedono la liberazione, a Firenze domina il terrore: avvengono improvvisi rastrellamenti, mancano i generi alimentari e i servizi essenziali. Mentre le residue autorità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) si disarticolano ed i militanti predispongono l’esodo verso il Nord, la condotta delle numerose unità tedesche di passaggio, ma anche delle residue forze repubblichine, è improntata ad una discrezionalità e ad un arbitrio sempre più evidenti. Nell’area fiorentina l’attività repressiva solo in alcuni casi si condensa in vere e proprie stragi, come quella del Padule di Fucecchio, il 23 agosto 1944, in cui persero la vita 174 civili (uomini, donne e bambini), ma si moltiplicano le violenze, le confessioni estorte con le torture, le intimidazioni. Molte persone vengono arrestate per strada e portate in via Bolognese al civico 67, a “villa Loria” conosciuta con il famigerato appellativo di “villa Triste”, nell’attuale Largo Fanciullacci. Era lì, infatti, il quartier generale del reparto speciale del maggiore Carità, tristemente noto per sevizie e torture. Fra tutti, si ricorda Bruno Fanciullacci che, dopo essere stato quasi evirato, decise di buttarsi dal secondo piano dell’edificio per scampare alle torture. Morì senza rivelare i piani della Resistenza. Nel 2003 lo spiazzo di fronte al famigerato condominio è stato intitolato proprio alla sua figura. Anche Anna Maria Enriques Agnoletti trovò la morte a Villa Triste dopo una settimana di torture. Le contestazioni all’operato di Carità erano giunte da più parti e significativa era in particolare l’avversione del filosofo Giovanni Gentile, il quale minacciò di parlare con Mussolini per denunciarne “i metodi della polizia politica”. Gli stessi tedeschi nei loro rapporti interni sottolinearono come in alcuni casi si eccedesse la misura con i prigionieri. Nonostante le denunce di cui fu fatto oggetto, Carità mantenne l’incarico a dimostrazione di come l’azione di alcuni reparti autonomi fossero pienamente inseriti nelle strategie dell’esercito tedesco e nell’organizzazione repressiva della RSI. La banda Carità fu processata nel 1951 dalla Corte d’Assise di Lucca e nel 1953 dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna. La strage è ricordata da un monumento e da una targa posta all’angolo tra la piazza ed il viale Francesco Petrarca.
16 luglio
PRIMO PIANO
Gigantesco iceberg minaccia un piccolo villaggio in Groenlandia.
Un gigantesco iceberg si è staccato da una calotta glaciale ed è andato alla deriva spostandosi minacciosamente in direzione della costa occidentale della Groenlandia. Questa immensa montagna di ghiaccio, dalle dimensioni davvero gigantesche, sta incombendo su Inaarsuit, un picoolo villaggio di 169 abitanti, che sono stati costretti a lasciare le proprie case per scampare alle possibili conseguenze che può causare l’impatto con un blocco di ghiaccio alto 100 metri, ampio 6 km. e del peso di circa 11 milioni di tonnellate. Il rischio concreto è che l’iceberg possa rompersi provocando così un’onda anomala, un mini tsunami che potrebbe travolgere il villaggio investendo, tra l’altro, la centrale elettrica e le riserve di carburante. Un team di scienziati della New York University ha filmato l’istante in cui l’iceberg di quasi 6 Km e mezzo di superficie si stacca dal ghiacciaio di Helheim e per rappresentare le sue dimensioni lo ha paragonato a circa un terzo di Manhattan. L’evento, dicono gli scienziati, racconta più di mille parole le forze che sottendono l’innalzamento globale del livello dei mari. “Un processo innegabile” osserva David Holland, professore al Courant Institute of Mathematics della NYU e NYU Abu Dhabi, coordinatore del gruppo di ricerca, che aggiunge: “Grazie al fatto che abbiamo registrato questo momento possiamo osservare direttamente la portata di un fenomeno che lascia senza fiato.” Il video mostra, infatti, il livello delle acque che sale mentre il ghiaccio entra nell’oceano. Alcuni esperti hanno avvertito che gli eventi generati da iceberg estremi rischiano di diventare più frequenti a causa dei cambiamenti climatici in corso, fattore che, a sua volta, aumenta il rischio di tsunami. Le montagne di ghiaccio sono assolutamente normali in questa parte del pianeta, tuttavia masse così enormi sono tutt’altro che usuali e purtroppo il rischio è che diventino la norma a causa dei cambiamenti climatici. In questo caso specifico non ci sono pericoli diretti per l’Italia, ma è comunque necessario arrivare ad attuare soluzioni comuni e politiche adeguate.
DALLA STORIA
Heinrich Böll e la “Letteratura delle macerie”.
“Heinrich Böll era appena noto a pochi lettori tedeschi per alcuni racconti pubblicati in riviste di limitata tiratura, quando di colpo divenne un caso letterario con l’uscita in volume del suo breve romanzo “Il treno era in orario”. Era il 1949 e la letteratura tedesca pareva ancora un deserto dopo la distruzione quasi totale causata dal nazismo e dalla guerra. Böll reduce da diversi fronti, ferito non volle “parlare d’altro” e rituffò i suoi connazionali nella grande tragedia che li aveva travolti e che pochi avevano capito in tutta la sua gravità”. “Il vero volto della guerra per me” diceva Böll “fu il bombardamento della città. Quella fu una vera follia. Le donne e i bambini nelle città soffrirono molto, molto di più dei soldati al fronte”. Heinrich Böll era nato a Colonia nel 1917. Cresciuto in un ambiente cattolico, pacifista e progressista, si oppose al partito nazista e negli anni trenta rifiutò l’iscrizione nella Gioventù hitleriana. “Ma i sei anni di guerra Böll se li era fatti tutti”, come racconta Italo Chiusano su Repubblica, “scampando spesso per un pelo alla distruzione personale. Ma quella degli altri, anche in massa, l’ha vista, l’ha assorbita fino alla nausea. E la Germania in cui è tornato, nel 1945, la sua natia Colonia, odorava di morte come un cadavere, in un paesaggio di rovine, di polvere e di silenzio che è poi rimasto, per sempre, il suo … “paesaggio interiore”. Si veda che cosa è stata per lui la guerra nei libri che lo hanno rivelato al mondo … in un continuo rincorrere di sequenze insieme fredde e allucinate, attraverso quasi tutti i romanzi e i racconti via via, sino ad alcune scene intensissime del libro che, nel 1972, gli ha meritato il Premio Nobel “Foto di gruppo con signora” (1971). Si veda come egli ha visto e fatto vedere la Germania delle macerie, la vita inconcepibile dei sopravvissuti nei libri che hanno consolidato la sua fama “Viandante, se vieni a Spa … (1950), “E non disse nemmeno una parola” (1953) … e in moltissimi racconti in volume, fino alla grande silloge del 1966. Poi ci fu il “miracolo economico”, il boom della Germania di Adenauer, con la lunga coda della Germania socialdemocratica. Forse Böll ha visto la morte più ancora in quel benessere, in quell’arroganza dimenticata del passato, che nella tragedia precedente. Lo rivela anche lo stile: nella prima fase crudo, austero, sobriamente rilevato, più tardi cattivo, sornione, sarcastico, a volte amaramente malandrino. Emerge, con gli anni, il Böll “coscienza della Germania”, lo scrittore che, anche a costo di comporre qualche libro poco riuscito … non può fare a meno di mettere ogni due o tre anni, davanti alla faccia sempre più soddisfatta del suo popolo, soprattutto dei suoi ricchi e dei suoi potenti, uno specchio dove ancora domina, ma senza alcuna grandezza, la morte, la morte come indegnità di essere vivi. Si comincia con un racconto precoce, “Le pecore nere” (1951) …” e in seguito per tutta la sua prolifica produzione letteraria. La sua opera è stata definita Trummerliteratur (“letteratura delle macerie”), con implicito riferimento alle rovine della Germania post-bellica.
(Il duomo di Colonia intatto fra le macerie della città tedesca nel 1944)
Böll era un artista di grande valore, considerato uno dei massimi esponenti della letteratura tedesca del secondo dopoguerra “però era anche un cronista,” prosegue Chiusano “a volte minuto e puntiglioso, della sua Germania, amata e odiata: sarà difficile, in avvenire, anche per lo storico, scrivere sulla Germania dal 1939 in poi senza leggere i romanzi, i racconti, i radiodrammi, le poesie, le brevi o sterminate interviste di Heinrich Böll … Era un feroce utopista. E anche un bambino. Chi non ha mai riso con lui, ingenuamente, delle cose più semplici, davanti a un bicchiere di vino, a un pezzo di pane croccante (uno dei suoi “sacramenti”), chi non lo ha visto divertirsi disarmato davanti alla goffaggine anche di un personaggio che pubblicamente combatteva, non può sapere fino a che punto la componente ludica, fosse in lui robusta. Böll amava moltissimo la vita, ne era ghiotto, anche se ha sempre guardato in faccia la morte. Fumare, andare al cinema, viaggiare, coccolare e abbracciare la sua donna (si, al singolare, bisogna sempre tornare alla sua impareggiabile Anne-Marie), passeggiare all’aperto, erano per lui cose sacre. I suoi libri ne sono pieni, di queste cose sacre, ed è lì che il suo cristianesimo spicca meglio, assai più che nelle polemiche teologiche. Anche la politica la concepiva così: uno stare insieme tra fratelli, tra amici, in un mondo pieno d’aria pulita, di verde non venduto ai soli ricchi, di tranquillità ilare, non minacciata né dal terrore né dallo sfruttamento. Questo il suo socialismo anarchico e francescano …”. Böll morì il 16 luglio 1985, nella sua casa di Langenbroich, nel Nordreno-Westfalia, dove nel 1974 aveva ospitato il dissidente sovietico Alexander Solzhenitsyn. La motivazione del Nobel conferito a Böll è: “per la sua scrittura che attraverso la combinazione di una prospettiva ampia sul proprio tempo e l’importante sensibilità nella caratterizzazione dei personaggi ha contribuito alla rinascita della letteratura tedesca”.
15 luglio
PRIMO PIANO
Finale Mondiali 2018: La Francia è campione del mondo.
La Francia, a vent’anni esatti dall’unico trionfo iridato, quello del 1998 con Zidane, allo stadio Luzhniki di Mosca conquista il secondo titolo mondiale, battendo la Croazia 4-2 al termine di una bella finale. Gloria ai Blues, applausi agli sconfitti, capaci di scrivere un romanzo incredibile, cui è mancato solo l’ultimo capitolo. Nessuna sorpresa nelle formazioni iniziali, con entrambi gli allenatori che scelgono il modulo 4-2-3-1 e confermano gli undici titolari schierati nelle semifinali. Tira un sospiro di sollievo soprattutto il ct Dalic: Perisic e Strinic, dopo le voci delle ultime ore su un possibile forfait, sono regolarmente in campo. Tra i Blues il tecnico Dider Deschamps schiera davanti a LLoris la difesa a 4 con Pavard, Umtiti, Varane ed Hernandez. La partita è bloccata per il primo quarto d’ora, anche se la supremazia territoriale è dei croati, ma al 18′ del primo tempo, su punizione di Griezmann, Mandzukic sfiora di testa e fa un clamoroso autogol. Al 28′ del primo tempo Perisic pareggia per la nazionale croata. Al 38′ del primo tempo, la Francia torna in vantaggio sulla Croazia con un rigore assegnato grazie al Var e segnato da Griezmann dal dischetto dopo un fallo di mano di Perisic. Nella ripresa, al 58′ il secondo tiro di sinistro di Pogba non dà scampo a Subasic. È il 3-1 per la Francia. La partita sembra finita quando Mbappè al 65′ con uno splendido destro dai venti metri segna il 4-1 per la Francia, ma al 69′ clamoroso errore del portiere francese Lloris, Mandzukic ne approfitta e segna per la Croazia. Finisce 4-2, la Francia è campione del mondo. In serata festeggiamenti e disordini sugli Champs-Élysées a Parigi, dove i campioni mondiali sono attesi domani alle 14:00.
14 luglio
DALLA STORIA
SESSANTOTTO. 50° ANNIVERSARIO.
Il caso Aldo Braibanti.
(Locandina dello spettacolo teatrale sul caso Braibanti)
Nel giugno 1968 mentre nel mondo infiammava la Contestazione e giovani e intellettuali chiedevano più libertà e più diritti, in Italia si apriva uno dei casi giudiziari più clamorosi della storia italiana del Novecento: il processo al professore di filosofia Aldo Braibanti accusato di aver plagiato due suoi studenti che, in epoche diverse, avevano vissuto con lui. Braibanti, artista e intellettuale a tutto tondo, esperto mirmecologo, ex-partigiano torturato dai nazifascisti e poeta, è condannato specificatamente “per aver assoggettato fisicamente e psichicamente” il ventunenne Giovanni Sanfratello. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia autoritaria e bigotta, una volta raggiunta la maggiore età si era deciso a seguire le proprie inclinazioni omosessuali ed era andato a vivere a Roma con Braibanti. Non accettando l’omosessualità del figlio, il padre affidò Giovanni agli psichiatri con la speranza di guarirlo dalla “seduzione” che avrebbe subito, e denunciò l’artista-filosofo con l’accusa di plagio, un reato considerato già allora “un rudere giuridico”. Il processo si conclude con la condanna di Braibanti a nove anni, che, in appello, sono ridotti prima a sette e poi a quattro, due dei quali gli vengono condonati in quanto ex-partigiano. Ecco come racconta il fatto lo scrittore e storico Alessio Gagliardi ne “Le voci del ‘68”. 2008. Editori Riuniti: “Il 14 luglio 1968 si conclude un processo per plagio. L’imputato viene condannato. La sentenza, rompendo il silenzio generale che c’è stato fino a quel momento, suscita numerose reazioni di protesta e di sdegno. Il caso è iniziato quattro anni prima, nel 1964: il padre di Giovanni Sanfratello, un ragazzo di Fiorenzuola d’Arda (Piacenza), presenta un esposto alla magistratura, ritenendo che il figlio sia plagiato, condizionato profondamente dal pensiero di un’altra persona. Si tratta del professore di filosofia Aldo Braibanti, anticonformista di idee anarchiche, che si mostra piuttosto critico nei confronti della cultura ufficiale, non nasconde il suo ateismo né soprattutto, la sua passione per la letteratura e la poesia. Per questi motivi riesce a stabilire un rapporto stretto con molti suoi allievi e, in modo particolare, con Sanfratello. Il ragazzo è più degli altri affascinato dal professore e da ciò che rappresenta, un’alternativa ai modelli di vita tradizionali fondati sulla centralità della famiglia, tanto da decidere di seguire fino in fondo Braibanti, andando a vivere con lui e con gli altri giovani artisti. La reazione del padre è però immediata. Dopo il fallimento dell’ennesimo tentativo di convincere Giovanni a tornare a casa, lo preleva a forza dall’abitazione di Braibanti, con l’aiuto degli altri figli, e lo sottopone alle visite degli psichiatri che decidono di internarlo in un manicomio. Nel frattempo, sulla base dell’esposto, la magistratura incrimina e arresta Braibanti per plagio. Il processo che si apre poco dopo, si svolge in un clima d’indifferenza e la stampa non se ne occupa o vi dedica soltanto qualche trafiletto. Le polemiche scoppiano dopo la sentenza e ne fanno un caso nazionale ed emblematico. Molti contestano l’atteggiamento della corte sostenendo che essa non si è basata sui fatti e non ha ammesso l’intervento di alcuni testimoni a favore della difesa, in primo luogo proprio Giovanni Sanfratello. Nei partiti di sinistra e nel movimento studentesco però, prevale una lettura in senso politico del processo. Successivamente alla sentenza, sul numero 35 (luglio 1968) dei “Quaderni piacentini”, di cui Braibanti è collaboratore, viene pubblicato un editoriale particolarmente significativo. “È veramente inconcepibile, vi si sostiene, come si sia potuto arrivare prima al processo e poi a questa sentenza. È stata una sorta di caccia alle streghe condotta con tecniche e motivi da tribunale d’inquisizione e se Aldo Braibanti non è stato condannato al rogo, è solo perché questa forma d’esecuzione è scomparsa dalle nostre pene … . Oggi sappiamo che in Italia non siamo liberi di diventare pittori, o poeti o scrittori se i nostri genitori, gli amici non vogliono … . In realtà, i reati per cui Braibanti è stato condannato sono: omosessualità; ateismo (anzi, panteismo); idee anarchiche; aver appoggiato la scelta artistica di un giovane amico; parlare coi giovani di cose serie anziché di donne o di sport; eccessivo interesse per le formiche (anziché, come sarebbe “normale”, per i cani, gatti, canarini o pesci rossi); aver sconsigliato “La settimana enigmistica” a favore di letture più impegnative; essere un artista non di successo (peggio che mai: non averlo mai cercato il successo); vivere poveramente. In sostanza, il rifiuto dei valori correnti, su cui si basa la nostra società: denaro, carriera, agi, sicurezza, prestigio. Chi rifiuta questi valori è un mostro, è incomprensibile. È pericoloso. Va eliminato.”
13 luglio
PRIMO PIANO
Un caso di “riciclo” medievale: Un papiro perduto di Galeno rivelato da raggi Uv e infrarossi.
Il misterioso papiro con scrittura a specchio su entrambi i lati conservato nell’Università svizzera di Basilea potrebbe essere del celebre medico dell’antichità Galeno. Composto da più fogli incollati fra loro, sarebbe stato “riciclato” nel Medioevo e trafugato alla fine del XV secolo dagli archivi dell’arcidiocesi di Ravenna, per poi finire nella collezione di Basilius Amerbach, docente e rettore dell’ateneo svizzero. I raggi ultravioletti e infrarossi, usati nelle operazioni di restauro, hanno permesso di separare i fogli e leggere il documento per la prima volta dopo 2.000 anni. Le immagini prodotte ai raggi Uv e infrarossi dal Basel Digital Humanities Lab hanno, infatti, rivelato un testo di medicina inedito, risalente alla tarda antichità: “descrive il fenomeno dell’apnea isterica, per questo pensiamo che possa essere un testo di Galeno, oppure un testo di commento ad un suo lavoro.” chiarisce Sabine Huebner, docente di Storia antica all’Università di Basilea, che aggiunge: “Si tratta di una scoperta sensazionale, la maggior parte dei papiri sono documenti come lettere, contratti e ricevute. Questo invece è un testo letterario, dotato di un valore decisamente superiore”. Il papiro di Basilea potrebbe rappresentare un caso di “riciclo” medievale: presenta, infatti, molte similitudini con i famosi papiri di Ravenna conservati nella cancelleria dell’arcidiocesi, tra i quali ci sono anche numerosi manoscritti di Galeno che sono stati in seguito usati come palinsesti e riscritti.
12 luglio
PRIMO PIANO
Srebrenica: 23 anni fa il genocidio del 1995.
Nell’anniversario del genocidio di Srebrenica, nel vicino cimitero di Potocari verranno tumulate altre 35 vittime del massacro dell’12 luglio 1995, le ultime identificate quest’anno. 23 anni fa Asim Mujic fu ucciso insieme al figlio Amir, all’epoca ventenne. Le ossa di tutti e due sono state ritrovate nella poco distante Kamenica, dove da 13 fosse comuni sono state esumate 4.500 vittime. Amir è stato sepolto a Potocari nel 2007 e il suo scheletro era completo: mancavano solo, come ha raccontato ai media la madre Tahira, poche ossa della mano e del piede. Accanto ad Amir da quest’anno riposerà il padre Asim, ritrovato 7-8 anni fa, ma le cui spoglie sono state esumate a più riprese dalle varie fosse comuni. Manca il 30% del suo scheletro, ma Tahira e la figlia Raza hanno deciso di non aspettare più altri ritrovamenti e di seppellire Asim. L’attacco contro Srebrenica, dopo tre anni e mezzo di assedio e dopo che era stata proclamata “zona protetta dell’Onu”, iniziò il 6 luglio 1995 e si concluse cinque giorni dopo con l’ingresso in città dell’esercito serbo-bosniaco al comando del generale Ratko Mladic. I soldati di Mladic fino al 19 luglio uccisero, in modo organizzato e sistematico, circa 8.000 uomini e ragazzi musulmani, mentre 30.000 donne e bambini furono deportati nel giro di due giorni. I maschi dai 12 ai 77 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati, in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. Una sentenza della Corte internazionale di giustizia del 2007 nonché diverse altre del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) hanno stabilito che il massacro, essendo stato commesso con lo specifico intento di distruggere il gruppo etnico dei bosgnacchi, costituisce un “genocidio”. Tra i vari condannati, in particolare Ratko Mladić e Radovan Karadžić, all’epoca presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, sono stati condannati in due momenti diversi dall’ICTY, il primo all’ergastolo e il secondo a 40 anni di reclusione.
DALLA STORIA
Pablo Neruda. Poeta dell’amore e dell’ impegno civile.
Pablo Neruda è stato una delle voci più celebrate della poesia del Novecento. Il cantore più appassionato dell’amore: “Amo l’amore che si suddivide / in baci, letto e pane. / Amore che può essere eterno / e può essere fugace. / Amore che vuol liberarsi / per tornare ad amare:” (Farewell, in Crepuscolario). Neruda era convinto di poter cambiare il mondo con la forza della poesia. Insidiatasi la dittatura in Cile, i militari cominciarono a vessarlo con le perquisizioni ordinate da Pinochet; durante una di queste, Neruda avrebbe detto ai militari: “Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia”. “La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina”. (da Confesso che ho vissuto). Neruda era un uomo che veniva dal popolo e per tutta la vita ha dimostrato il suo impegno sociale in difesa delle popolazioni martirizzate dalle dittature e dai totalitarismi esprimendo, nei suoi versi e nelle sue azioni, un forte desiderio di pace e di uguaglianza tra i popoli. “Questa foglia sono tutte le foglie, / questo fiore sono tutti i petali / e una menzogna è l’abbondanza. / Perché ogni frutto è lo stesso, / gli alberi sono uno solo / ed è un solo fiore la terra”. (Pablo Neruda. “Unità”, da Fine del mondo). Per vedere così il mondo bisogna amare. “Due amanti felici fanno un solo pane, / una sola goccia di luna nell’erba, / lasciano camminando due ombre che s’uniscono, / lasciano un solo sole vuoto in un letto”. L’amore per la Donna, spinse il giovane Neruda a scrivere, e l’amore per l’Uomo lo fece continuare, l’obbligò a muoversi, per conoscere e per innamorarsi di nuovo. La vita stessa di Neruda, ricchissima di eventi drammatici e le moltissime esperienze, gli incontri con i più grandi personaggi della cultura del suo tempo, l’amore, la passione, la politica, concepita come realtà universale è testimonianza della sua forza e della sua vitalità: “Ma perché chiedo silenzio / non crediate che io muoia: mi accade tutto il contrario: / accade che sto per rinascere.”
Pablo Neruda, all’anagrafe Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, nasce il 12 luglio a Parral, nel Cile centro-meridionale. Un mese dopo sua madre muore. Nel 1906 il padre, dipendente delle ferrovie, si risposa e si trasferisce in Araucania col figlio. Neruda manifesta molto precocemente interesse per la scrittura e la letteratura incoraggiato dalla poetessa Gabriela Mistral, futura vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1945, sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo articolo appare in un giornale locale e fino al 1919, sotto svariati pseudonimi, appaiono in molti giornali diverse sue poesie. Nel 1920 il poeta adotta il nome d’arte Pablo Neruda in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda. L’anno successivo si iscrive a Santiago al corso di lingua e letteratura francese. Nel ’23 pubblica la sua prima raccolta, “Crepuscolario” e nel ’25 dirige la rivista letteraria “Caballo de Bastos”. In quel periodo, a Santiago, si ritrova in una condizione di povertà che lo costringe ad abbandonare l’Università e ad accettare nel ’27 un incarico di console onorario in Birmania. Scrive le prime poesie di “Residencia en la tierra”. I successivi anni fino al ’32 sarà Console a Ceylon, a Calcutta, dove incontra Gandhi, in Indonesia e a Singapore. Nel ‘32 ritorna in Cile dove completa, nella versione definitiva, “Veinte poemas de amor y una canción desesperada”.
Quest’ultima e “Crepuscolario” tuttora sono tra le sue opere maggiormente apprezzate. Ottiene altre destinazioni diplomatiche; nel ’33 è Console a Buenos Aires; l’anno dopo a Barcellona, dove conosce García Lorca e tiene Conferenze all’Università di Madrid. Si trasferisce a Madrid dove nel ’36 scoppia la guerra civile; a Granada viene ucciso, dai falangisti di Franco, l’amico García Lorca. Durante la guerra civile spagnola, Neruda, sostiene la causa del Fronte Repubblicano contro Franco e dopo l’assassinio di Lorca, s’iscrive al Partito Comunista. Inizia “España en el corazón”. Nel ’39, dopo la vittoria del franchismo, il governo cileno lo incarica di organizzare l’emigrazione dei rifugiati spagnoli in Cile. In seguito, dopo un soggiorno in Messico e negli Stati Uniti, ritorna in Cile attraverso la Colombia e il Perù, dove la vista del Machu Picchu gli ispira la famosa poesia “Canto General”. Nel ’45, viene eletto senatore della repubblica nelle liste del partito comunista e vince il premio nazionale di Letteratura. Nel ’46 il candidato ufficiale del partito radicale per le elezioni presidenziali, Gabriel Videla, gli chiede di assumere la direzione della sua campagna elettorale: a questo incarico Neruda si dedica con fervore contribuendo alla sua nomina a presidente, ma rimanendo deluso per l’inaspettato voltafaccia di Videla, subito dopo le elezioni, nei confronti del partito comunista. La violenta repressione di Videla verso i minatori in sciopero nella regione di Bio-Bio, a Lota, nell’ottobre del ’47, in cui i manifestanti vennero imprigionati in carceri militari e in campi di concentramento, provocheranno la disapprovazione di Neruda che culminerà nel drammatico discorso del 6 gennaio del ’48 davanti al senato cileno, chiamato in seguito “Yo acuso”, in cui il poeta lesse all’assemblea l’elenco dei minatori tenuti prigionieri. Il governo Videla si era rapidamente trasformato in un governo autoritario, da cui il poeta prese completamente le distanze. Subito dopo Neruda viene destituito dalla carica di senatore e colpito da mandato di cattura. Costretto a vivere in clandestinità varca a cavallo la cordigliera delle Ande e si reca per la prima volta in Unione Sovietica. L’anno dopo esce in Messico “Canto General”, subito tradotto in svariati paesi. Nello stesso anno Neruda si reca a Roma e poi in India a incontrare Nehru. Al Secondo Congresso mondiale dei partigiani della Pace riceve il Premio internazionale della Pace insieme a Picasso. Nel ’51 attraversa l’Italia e compie letture pubbliche a Firenze, Torino, Genova, Roma e Milano. Salvatore Quasimodo tiene una conferenza a Miliano su di lui. Nel ’52 trascorre sei mesi a Capri col suo nuovo amore, la cantante cilena Matilde Urrutia che diventerà la sua terza moglie. A lei sono dedicate le poesie di “Los versos del Capitan”, stampate anonime per difendere il segreto della sua passione. La prima edizione viene stampata a Napoli e le singole copie vengono autografate e dedicate singolarmente ai suoi nuovi amici italiani tra cui Palmiro Togliatti, Elsa Morante, Renato Guttuso, Giorgio Napolitano, Salvatore Quasimodo, Carlo Levi, Luchino Visconti. Rientrato in Cile pubblica a Santiago due volumi antologici: “Todo el amor” e “Poesia politica”. Riceve il Premio Lenin per la pace. Nel ’54 avvengono grandi festeggiamenti per i suoi cinquant’anni, con famosi ospiti da tutto il mondo. Dona all’Università la sua biblioteca e nasce la Fondazione Neruda. Quattro anni dopo partecipa alla campagna elettorale di Salvador Allende, candidato alla presidenza del Cile e nel ’60, dopo un viaggio in Europa, si ferma a Cuba, dove conosce Fidel Castro ed Ernesto Guevara. Nel ’67 sulla morte del “Che” in Bolivia, scrive molti articoli sulla perdita del “grande eroe della rivoluzione”, della cui stima era del resto ricambiato, come testimonia la composizione, da parte di Guevara, di un piccolo saggio elogiativo sul libro di Neruda “Canto General”. Nel ’64 esce il “Memorial de la Isla negra”. In seguito il comitato centrale del Partito comunista lo nomina candidato alla presidenza. Nel ’70 con il trionfo dell’unità popolare Salvador Allende diviene presidente della repubblica e Neruda ambasciatore del Cile in Francia. Nel ’71 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura e l’anno dopo comincia a scrivere le sue memorie, “Confieso que he vivido”. L’11 settembre del ’73 un colpo di stato rovescia il governo di Unità popolare e Salvador Allende muore tra le fiamme del palazzo presidenziale. Dodici giorni dopo muore Pablo Neruda, ufficialmente di tumore, ma in circostanze ritenute dubbie, mentre stava per partire per un nuovo esilio. I suoi funerali diventano occasione di una immensa manifestazione di dolore e di coraggio ideologico: uno dei primissimi momenti di opposizione alla dittatura poiché avvenne nonostante la presenza ostile e intimidatoria dei militari a mitra spianato che guardavano a vista i partecipanti, come testimonia un filmato clandestino girato all’epoca. I partecipanti inneggiarono ad Allende, ma i soldati non osarono intervenire. Parecchi tra i presenti finirono poi “desaparecidos”. Fu, inoltre, da parte dei partecipanti un gesto di solidarietà nei confronti del poeta cileno e un atto di ribellione verso la dittatura cilena per avergli devastato, con un ordine impartito da Pinochet, le proprietà mentre questi era ancora ricoverato in ospedale.
(Immagine dei funerali di Pablo Neruda).
Mary Titton
11 luglio
PRIMO PIANO
Thailandia: tutti fuori i ragazzini intrappolati nella grotta.
Dopo 17 giorni di angoscia sono stati portati tutti in salvo i dodici ragazzini e il loro allenatore, che dal 23 giugno erano rimasti intrappolati in una grotta a Tham Luang, in Thailandia. I ragazzini, una volta usciti, sono stati portati nell’ospedale di Chiang Rai, dove vengono tenuti in assoluto isolamento per il timore che, con il sistema immunitario indebolito, siano a rischio di infezioni. Dopo ore di attesa sono usciti anche i quattro subacquei che erano rimasti con i ragazzi e il medico australiano che ha costantemente monitorato le condizioni di salute di tutti i presenti nella grotta. I bambini sono tutti in buone condizioni fisiche e mentali, due ragazzi, però, sono sottoposti a terapia antibiotica per un possibile principio di polmonite. Tutti i ragazzi salvati, di età compresa tra i 12 e i 16 anni, sono in grado di muoversi, di mangiare e di parlare, e, anche se restano in isolamento, alcuni genitori hanno potuto vederli attraverso un vetro. Il portavoce ufficiale delle operazioni, Narongsak Ossottanakorn, ha comunicato che al recupero hanno partecipato 18 sub: 13 stranieri e 5 thailandesi. I livelli di acqua che inondano parzialmente la grotta sono diminuiti in modo significativo. I 12 ragazzi sono stati divisi in 4 gruppi, il primo da quattro e gli altri da tre persone. I ragazzi sono usciti uno alla volta, accompagnati ognuno da due sommozzatori: il primo guidava tenendosi a un cavo prontamente fissato e portava in braccio la bombola di ossigeno a cui era collegato il bambino legato a lui da una corda di sicurezza, il secondo sub seguiva e aiutava il ragazzino a seguire il percorso, a evitare che sbattesse contro le rocce o che venisse preso dal panico nel buio totale in cui erano immersi. I soccorritori hanno calcolato ogni imprevisto possibile e le caverne sono state attrezzate per qualsiasi occorrenza perché per percorrere l’intero percorso fino in superficie ci sono volute alcune ore. Ai ragazzi sono stati somministrati ansiolitici durante il percorso, come ha rivelato il primo ministro thailandese. Il coach per sua volontà è stato l’ultimo ad uscire.
DALLA STORIA
11 luglio 1982, un sogno divenuto realtà: la vittoria dell’Italia ai Mondiali in Spagna.
(La Nazionale italiana di Bearzot)
Sono passati 36 anni dal giorno in cui gli azzurri allenati da Enzo Bearzot divennero campioni del mondo, battendo in finale la Germania al Bernabeu di Madrid. L’11 luglio 1982 si svolse la finale fra Germania Ovest e Italia, diretta dall’arbitro brasiliano Arnaldo César Coelho (primo caso di fischietto sudamericano in una finalissima mondiale). Bearzot dovette riadattare la squadra in seguito alla indisponibilità di Antognoni e all’infortunio, dopo appena otto minuti di gioco, occorso a Graziani a causa di uno scontro con la difesa tedesca. Prevalenza italiana nel primo tempo, anche se Cabrini perse l’occasione per passare in vantaggio sbagliando un rigore. La ripresa vide un calo della squadra tedesca, di cui approfittò per primo Rossi su cross di Gentile. Dopo un tentativo di pareggio di Hrubesch, gli azzurri raddoppiarono con un tiro dal limite dell’area di Tardelli, il cui urlo di gioia divenne una icona di quei Campionati del Mondo e delle successive avventure della nazionale italiana. Altobelli segnò la rete del 3-0, seguita dal punto d’onore di Breitner, già realizzatore di un rigore nella finale mondiale del 1974. Altobelli lasciò poi il posto all’88’ a Causio, ricompensato con la passerella mondiale per i suoi meriti. «Palla al centro per Müller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile, è finito! Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo!!!» Nando Martellini, telecronista RAI, scandì per tre volte consecutive la proclamazione del terzo titolo di campione del mondo della Nazionale italiana. Le immagini televisive che giunsero da Madrid mostrarono l’arbitro brasiliano Coelho prendere il pallone calciato da Bergomi in direzione di Gentile e sollevarlo con le braccia in alto mentre emetteva il triplice fischio finale. Fu un’esplosione unanime di sollievo e di gioia nello stadio e in Italia. Rimasero impresse nella mente degli italiani immagini indimenticabili: il citato urlo di Tardelli, Zoff che prende la Coppa del Mondo dalle mani del re di Spagna e la alza fiero (immagine immortalata poi da Renato Guttuso)
il Presidente della Repubblica Sandro Pertini che esulta con entusiasmo a ogni rete degli Azzurri, lasciandosi scappare un “non ci prendono più” dopo il gol del 3-0, lo stesso Presidente che gioca a scopone scientifico in coppia con Zoff contro Causio e il commissario tecnico Bearzot sull’aereo di ritorno dalla Spagna, con la Coppa del Mondo appena vinta dagli azzurri. Una partita emozionante ed indimenticabile per la presenza del presidente Pertini a fare palesemente il tifo per l’Italia e per quello che sembra quasi un miracolo. Le previsioni per gli azzurri, alla vigilia dei Mondiali, infatti, erano nere, i giornali avevano pubblicato un sondaggio dell’Istituto Gallup, svolto in 19 Paesi del mondo: avevamo l’1% di probabilità di successo finale, come Perù e Cile. Favorito il Brasile: “La coppa del Mondo è quasi sua” scrivevano. “L’Italia è attesa nel “girone della morte”. Ci aspettano l’Argentina campione del mondo e l’immenso Brasile. Previsioni? Nerissime: subito a casa. E invece battiamo l’Argentina, poi il Brasile contro Zico e Falcao. E qui spunta Pablito, il meraviglioso Paolo Rossi. Tre gol, fantastica Italia, shock Brazil. Pablito batte anche la Polonia di Boniek in semifinale 2-0, due gol. “Quella vittoria per 2-1 ci rese invece consapevoli della nostra forza, che potevamo lottare con tutti. Ricorda ancora oggi, dopo 36 anni Paolo Rossi, che continua: “Quello del 1982 era un gruppo straordinario, unito e coeso proprio come lo voleva Bearzot. Raggiungemmo la vittoria tutti insieme, i 22 giocatori della rosa e tutti quelli che erano intorno a noi. Passammo insieme 50 giorni e dopo avere acquisito consapevolezza eravamo un treno in corsa che nulla poteva fermare.” Un successo inatteso quello degli azzurri, giunto dopo un avvio difficile, le polemiche, il silenzio stampa, una vittoria e una notte indimenticabili non solo per i tifosi, ma per tutti gli italiani.
10 luglio
PRIMO PIANO
Grecia: ritrovata tavoletta di argilla con versi dell’Odissea.
Un’antica tavoletta di argilla, con incisi 13 versi dell’Odissea di Omero, è stata ritrovata nel sito archeologico dell’antica Olimpia, nel sud della Grecia, dopo tre anni di scavi condotti dal Servizio archeologico greco in cooperazione con l’Istituto tedesco di Archeologia. Secondo quanto ha reso noto il Ministero della Cultura si potrebbe trattare del reperto più antico del celebre poema epico, trovato vicino ai resti del tempio di Zeus: le prime stime datano, infatti, la tavoletta prima del III secolo a.C. “Se la data verrà confermata – si legge nel comunicato del dicastero – la tavoletta potrebbe essere il reperto scritto più antico del lavoro di Omero mai scoperto”. I versi, tratti dal libro XIV dell’Odissea, descrivono il ritorno di Ulisse ad Itaca e il suo incontro con Eumeo. Composta oralmente intorno all’VIII sec. a.C., l’Odissea, attribuita all’antico cantore greco Omero, è stata poi trascritta, durante l’era cristiana, su pergamena, di cui sono stati rinvenuti solo pochi frammenti in Egitto. L’Odissea (in greco antico: Ὀδύσσεια, Odýsseia) narra le vicende riguardanti l’eroe Odisseo ( Ulisse, in latino), dopo la fine della Guerra di Troia, narrata nell’Iliade. Assieme a quest’ultima, rappresenta uno dei testi fondamentali della cultura classica occidentale e viene tuttora comunemente letta in tutto il mondo sia nella versione originale che nelle sue numerose traduzioni. L’Odissea appartiene al ciclo dei cosiddetti “poemi del ritorno”, in greco nostoi (da νόστος, ritorno).
DALLA STORIA
La Pittura metafisica di Giorgio De Chirico.
La Pittura metafisica è una corrente pittorica del XX secolo che vuole rappresentare ciò che è oltre l’apparenza fisica della realtà, al di là dell’esperienza dei sensi. Il termine metafisica (letteralmente “metà” tà “phisikà”) tradotto significa “dopo la fisica” e venne usato per la prima volta dal filosofo greco Andronico da Rodi a proposito delle teorie di Aristotele che, per l’appunto, andavano al di là della realtà empirica. E proprio in Grecia a Volos, Capitale della Tessaglia nasceva, il 10 luglio 1888, Giorgio De Chirico, il principale esponente di questa nuova corrente. De Chirico, per i suoi primi diciassette anni di vita visse tra Atene e Volos; lì prese le sue prime lezioni di disegno e, circondato dalle forme archetipiche dell’arte classica dei Greci, trasse “nutrimento” per realizzare in seguito le sue famose e celeberrime opere. La genesi della sua pittura Metafisica è individuabile nel quadro “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, del 1910 come egli stesso racconta in un suo manoscritto del 1912: “…, dirò come ho avuto la rivelazione di un quadro che ho esposto quest’anno al Salon d’Automne e che ha per titolo: “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”. “Durante un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. Non era certo la prima volta che vedevo questa piazza. Ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi morbosa. La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. In mezzo alla piazza si leva una statua che rappresenta Dante avvolto in un lungo mantello, che stringe la sua opera contro il suo corpo e inclina verso terra la testa pensosa coronata d’alloro. La statua è in marmo bianco, ma il tempo gli ha dato una tinta grigia, molto piacevole a vedersi. Il sole autunnale, tiepido e senza amore illuminava la statua e la facciata del tempio. Ebbi allora la strana impressione di vedere tutte quelle cose per la prima volta. E la composizione del quadro apparve al mio spirito; ed ogni volta che guardo questo quadro rivivo quel momento. Momento che tuttavia è un enigma per me, perché è inesplicabile: perciò mi piace chiamare enigma anche l’opera che ne deriva”.
(L’enigma di un pomeriggio d’autunno, 1909)
A Parigi, De Chirico entra in contatto con gli esponenti delle avanguardie artistiche del Novecento e con le sue opere del 1912, ‘13 e ‘14 contribuisce ad anticipare la crisi che avrebbe condotto all’enorme cambiamento di clima intellettuale ed estetico che prese corpo durante la prima guerra mondiale. Nel 1913 Guillaume Apollinaire, sul quotidiano “Intransigeant” del 9 ottobre, scrive: “Il signor De Chirico espone nel suo studio al 115 di Rue Nôtre-Dame-des Champs una trentina di tele la cui arte interiore non deve lasciarci indifferenti: l’arte di questo giovane pittore è un’arte interiore e cerebrale che non ha alcun rapporto con quella dei pittori che si son rivelati in questi ultimi anni. Non viene né da Matisse né da Picasso e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova che merita di essere segnalata. Le sensazioni molto acute e molto moderne del signor De Chirico prendono in genere una forma architettonica. Sono stazioni ornate da un orologio, torri, statue, grandi piazze deserte; all’orizzonte passano treni delle ferrovie. Ecco alcuni titoli singolari per questi dipinti stranamente metafisici: “L’énigme del l’oracle”, “La tristesse du départ”, “L’énigme de l’héure”, “La solitude” e “Le sifflement de la locomotive”. La Metafisica, come movimento dichiarato, sorse solo nel 1917, a Ferrara, dall’incontro tra De Chirico e Carlo Carrà. Quest’ultimo proveniva dalle file del futurismo, ma se ne era progressivamente distaccato. L’incontro con de Chirico lo convinse al recupero della figura e all’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica di De Chirico. Rispetto al Futurismo, che nasce nel 1909, la Metafisica si colloca decisamente agli antipodi. “Nel Futurismo è tutto dinamismo velocità; nella Metafisica predomina l’immobilismo. Non solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Il Futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella Metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il Futurismo vuole totalmente rinnovare il linguaggio pittorico; la Metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: soprattutto la prospettiva. Si potrebbe pensare che la Metafisica sia alla fine solo un movimento di retroguardia fermo a posizioni accademiche. Ed invece riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente. Le atmosfere magiche ed enigmatiche dei quadri di De Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che mostrano. Ed invece le sue immagini mostrano una realtà che solo apparentemente assomiglia a quella che noi conosciamo dalla nostra esperienza. Uno sguardo più attento ci mostra che la luce è irreale e colora gli oggetti e il cielo di tinte innaturali. La prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente plausibile è invece quasi sempre volutamente deformata, così che lo spazio acquista un aspetto inedito. Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita e il silenzio più assoluto. Le rappresentazioni di De Chirico superano la realtà, andando in qualche modo “oltre”. Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Le immagini di De Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà creata dal nostro vivere.” (Francesco Morante). I quadri di De Chirico ritraggono spesso piazze italiane considerate misteriose e romantiche: i personaggi presenti in queste piazze sono spesso statue greche o manichini. Nelle opere tutta l’attenzione va alla scena descritta, una scena immobile senza tempo (come un sogno), spesso un luogo silenzioso e misterioso, un palcoscenico teatrale senza emozioni. Attraverso questo nuovo linguaggio pittorico, allusivo di un’altra dimensione immanente e non solo fisica, De Chirico fornì elementi importanti per la nascita della successiva corrente artistica del Surrealismo.
(Melanconia e Mistero in strada, 1914)
Mary Titton
9 luglio
PRIMO PIANO
Addio a Carlo Vanzina, il regista di “Vacanze di Natale”.
(I due fratelli Carlo ed Enrico Vanzina che simpaticamente hanno posato nel 2016 per la nostra campagna I Love Via Margutta)
È morto ieri a Roma, all’età di 67 anni, il regista Carlo Vanzina. Si legge in una nota della famiglia “Nella sua amata Roma, dov’era nato, ancora troppo giovane e nel pieno della maturità intellettuale, dopo una lotta lucida e coraggiosa contro la malattia ci ha lasciati il grande regista Carlo Vanzina amato da milioni di spettatori ai quali, con i suoi film, ha regalato allegria, umorismo e uno sguardo affettuoso per capire il nostro Paese”. Carlo Vanzina, infatti, per oltre 40 anni, insieme al fratello Enrico, ha scritto e diretto film di grandissimo successo, creando il genere del “cinepanettone”, che ha spopolato negli anni ’80 e ’90. Nato a Roma il 13 marzo del 1951, Carlo è vissuto nel mondo del cinema fin dall’infanzia, già a un anno era il piccolo Filippo in “Totò e le donne”, diretto dal padre, il regista e sceneggiatore Steno (Stefano Vanzina). Del fatto di essere stato favorito, per le sue origini, nel mondo del cinema, però, non si vergognava affatto, anzi ad ogni occasione ricordava, riconoscente, la figura del padre e come nella sua casa fossero passati tutti i grandi del cinema: Totò, Ugo Tognazzi, Mario Monicelli, Ennio Flaiano, Mario Camerini e Dino Risi. Diplomatosi alla scuola francese Chateaubriand di Roma, Carlo iniziò la carriera nel cinema nei primi anni ’70 come aiuto regista di Mario Monicelli nei film “Brancaleone alle crociate” (1970) e poi ne “La mortadella” (1971). Dopo aver collaborato con il padre (“Anastasia mio fratello”, 1973) e con Alberto Sordi (“Polvere di stelle”, 1973), nel 1976 diresse il suo primo film, “Luna di miele in tre”, scritto dal fratello Enrico e interpretato da Renato Pozzetto. Da allora ha realizzato, nel corso di circa quarant’anni di carriera, una sessantina di film: da “Eccezzziunale … veramente” e “Viuuulentemente mia”, entrambi del 1982, con Diego Abatantuono, a “Sapore di mare”, il film da lui più amato, uscito in sala l’anno dopo. Sempre nel 1983 esce “Vacanze di Natale”, che dà inizio al genere dei cinepanettoni. Nel 1986 fonda, sempre con il fratello Enrico, la casa di produzione Video 80. Autori di commedie popolari, ma mai volgari, Carlo ed Enrico hanno sempre avuto un conto aperto con la critica. Carlo era solito spiegare così perché avesse dedicato tutta la sua vita al cinema di disimpegno: “La commedia all’italiana esiste in ogni strada del nostro Paese, una cosa del tutto naturale. Il fatto è che gli italiani riescono a trovare il lato comico anche nelle tragedie. In fondo, spesso ce lo dimentichiamo, siamo il paese di Totò”.
8 luglio
DALLA STORIA
F1: Gp Gran Bretagna, vince Vettel.
Al Gp di Silverstone, al termine di una gara entusiasmante, decima prova del mondiale di F1, trionfa Sebastian Vettel davanti a Lewis Hamilton e a Kimi Raikkonen, che è terzo sul podio. Dopo la vittoria il pilota tedesco, felicissimo perché, oltre a espugnare il regno del suo rivale storico Lewis Hamilton, ha consolidato il primo posto nella classifica mondiale, dichiara: “E’ stata una gara emozionante. La safety car ha reso tutto più complicato, ma è stata una bellissima battaglia. Il sorpasso a Bottas? Non è stato semplice, credo di averlo sorpreso. Comunque, vincere qui a Silverstone è un sogno. Il dolore al collo? È guarito, forse per l’adrenalina, non lo so. È stata una gara fantastica”. Lewis Hamilton, invece, è partito male e si è fatto infilare da Vettel, poi alla prima curva è stato centrato da Raikkonen: gomma sinistra del finlandese contro la destra posteriore del britannico che finisce fuori pista, diciottesimo, ultimo. Kimi Raikkonen, terzo al traguardo del gran premio di Silverstone, ha accettato i dieci secondi di penalità che gli sono stati dati e ammette di aver commesso un errore, poco dopo la partenza: “Ho avuto un bloccaggio – dice – e ho finito per prendere Hamilton, lui per colpa mia si è girato. L’errore è stato mio, va bene così, meritavo la penalità. L’ho presa e subito sono tornato a lottare, va bene lo stesso.” Poi aggiunge: “Senza l’errore e la penalità la gara sarebbe andata ancora meglio, ho fatto tutto il possibile, ci possono pure essere visioni diverse per quel che ho fatto, ma è andata così.” Il pilota della Mercedes, che con una spettacolare rimonta dal fondo della classifica è riuscito ad arrivare secondo, ancora visibilmente irritato per il contatto all’inizio della gara, non ha stretto la mano a Raikkonen.
6 luglio
DALLA STORIA
6 luglio 1957. John e Paul si incontrano per la prima volta.
Il 6 luglio 1957 i giovanissimi John Lennon e Paul McCartney incrociano i loro destini sul palcoscenico della Woolton Parish Church nel corso di un concerto Rock in cui sono chitarristi in due diversi gruppi musicali. Tra il 1958 e il 1962 si aggiungono George Harrison e Ringo Starr; insieme daranno vita a un gruppo musicale che cambierà la percezione del mondo per milioni di ragazze e ragazzi e non solo. Il fenomeno Beatles è tuttora oggetto di studio da parte di sociologi, ai corsi universitari di comunicazione e così via. C’è chi si interroga dubbioso sulle loro canzoni “sì, belline ma tutto sommato non dicono niente di speciale”, ma ne resta fatalmente incantato! Qual è il mistero? Posso parlare per me. Le loro canzoni e la loro musica sono semplicemente incantevoli, perché ogni sonorità, anche la più forte ed arrabbiata oppure la più divertente o struggente, è piena di grazia. La loro musica porta a un sentire di pura bellezza dove le note si inseguono in un continuum armonico pieno di elementi creativi e originalissimi. In realtà, in quella musica ci sono loro, i Fab four, che esprimono il loro essere di artisti da cui emerge un “uomo nuovo”; non più il modello stereotipato del maschio dominante e ingessato nei cliché imposti dalla società, ma un uomo che al contrario contesta proprio quel modello arrogante. Yeh, Yeh, Yeh … Uh, Uh, Uh … Un uomo dolce che non teme l’universo femminile ma lo riconosce anche come proprio nella ricchezza della fantasia, dell’immaginazione, nella tenerezza, nel gusto del gioco, nell’universalità spirituale. I Beatles non hanno mai sbagliato un pezzo, come avrebbero potuto, la loro musica non era commerciale era arte e loro suonavano e pensavano così. Diciamo la verità ci manca l’impegno pacifista di John Lennon, l’intensità e la spiritualità di George Harrison e ci mancano tutti loro insieme in quella unità magica e, potremmo dire alchemica, di talenti e spiriti liberi, dotati di sentimento. Oggi, è possibile sentire “dal vivo” ancora Paul McCartney che attraverso i concerti organizzati in tutto il mondo ci fa riascoltare la musica dei Beatles. Su you tube, tra i molti, c’è quello registrato a Mosca nel 2003; è sorprendente osservare le espressioni dei fan russi che da giovani erano costretti a sentire quella musica “rivoluzionaria” in modo clandestino perché proibita dal regime. Ora davanti al palco i fan non urlano in modo isterico, sono felici ed eccitati, ballano al ritmo di “Back in the USSR” (sembra la loro preferita). Molti piangono sopraffatti dall’emozione di trovarsi davanti a tanta bellezza e libertà di espressione così a lungo ostacolate.
6 luglio 1957. John e Paul si incontrano: nascono i Beatles. Da “I giorni del Rock”. Edizioni White Star. Ernesto Assante
“Lo skiffle era una forma povera di rock’n’roll, mescolata con la musica tradizionale e folk, che andava per la maggiore in Inghilterra a metà degli anni ’50. Veniva spesso suonata con strumenti ricavati da oggetti d’uso quotidiano, come tavole per lavare i panni (washboard) o scatole di metallo alle quali veniva attaccato un bastone con una corda tesa per creare un rudimentale contrabbasso (tea chest bass). Era la musica dei giovanissimi che nel dopoguerra erano alla ricerca di qualcosa che avesse il ritmo e lo spirito giusto. John Lennon amava il rock’n’roll, frequentava la Quarry Bank School di Liverpool e voleva avere una sua band. Così mise su i Quarrymen, una skiffle band di adolescenti che suonava in giro, dove poteva, dove capitava. Il 6 luglio del 1957, la Parish Church di Woolton, il quartiere dove John viveva con sua zia Mimi, decise di organizzare una festa, un ballo in cui la musica sarebbe stata suonata dal vivo. Quale migliore occasione per i Quarrymen per esibirsi? John e i suoi compagni, Eric Griffiths, Colin Hanton, Pete Shotton, Rod Davis e Len Garry, salirono su un camion scoperto e, suonando, arrivarono alla chiesa insieme alla processione. Ivan Vaughan, fraterno amico di John e “fan” dei Quarrymen, pensò che quella fosse l’occasione giusta per farlo incontrare con un altro suo amico. Si trattava di Paul McCartney, un ragazzo che sapeva suonare bene la chitarra, aveva una bella voce e sarebbe stato certamente un membro perfetto per la band. Così chiamò Paul e decise di organizzare l’incontro fra i due proprio in occasione della festa nel giardino della Parish Church. Alla fine del piccolo concerto della band, i ragazzi andarono nell’oratorio della chiesa e fu lì che Ivan presentò Paul a John. I due, a dire il vero, a prima vista non si piacquero, ma quando Paul iniziò a suonare la chitarra e a cantare un brano di Eddi Cochran, “Twenty Fligt Rock”, John capì immediatamente che quel ragazzo era l’ideale per la band, che con lui avrebbe potuto combinare di sicuro qualcosa di buono, e invitò Paul a unirsi ai Quarrymen. Ci vollero alcuni mesi, durante i quali i due diventarono inseparabili, per portare il gruppo alla prima esibizione ufficiale con Paul, il 18 ottobre del 1957 al Conservative Club. Ma il vero inizio della più grande leggenda, anzi favola, o meglio ancora rivoluzione nella storia della musica popolare moderna fu questo: una festa nel cortile di una chiesa nel cui cimitero è sepolta una certa Eleanor Rigby”.
Mary Titton
5 luglio
PRIMO PIANO
Vaccini: “Autocertificazione per il prossimo anno di scuola”.
La circolare in merito all’obbligo vaccinale per il prossimo anno scolastico stabilisce che per la frequenza dell’anno scolastico 2018-19 non sarà necessario, come era previsto per legge, presentare entro il 10 luglio la certificazione ufficiale della Asl che comprovi l’avvenuta vaccinazione, basterà l’autocertificazione ovvero una dichiarazione sostitutiva delle vaccinazioni effettuate, da presentarsi alle scuole. Ha detto il Ministro della salute Giulia Grillo: “ I bambini che frequentano la scuola dell’obbligo che non sono al primo anno sostanzialmente non devono fare nulla. Mentre per quanto riguarda la prima iscrizione devono autocertificare che si sono vaccinati. Il termine del 10 luglio non diventa un termine perentorio”. Il ministro Grillo, durante la conferenza stampa sul tema delle vaccinazioni, che si è svolta questa mattina a Roma e a cui ha partecipato anche il Ministro dell’istruzione, Marco Bussetti, ha pure affermato che “A breve ci sarà una proposta di legge parlamentare, alla quale la maggioranza sta lavorando, per modificare l’obbligatorietà dei vaccini come prevista dal decreto Lorenzin, in un tempo che consenta il dibatto parlamentare, ma celere per risolvere la questione.” Sarà anche fatto il decreto per dare il via all’Anagrafe nazionale vaccini, che consentirà al ministero della Salute di acquisire con maggiore puntualità i dati relativi alle coperture vaccinali e gestire a livello centrale la comunicazioni tra le regioni sulle vaccinazioni in caso di mobilità interregionale. Il Ministro Grillo, pur ribadendo l’importanza dei vaccini, tanto che farà lei stessa vaccinare il figlio che le nascerà a novembre, vuole così disinnescare la forte polemica dei mesi scorsi, seguita al decreto del Ministro Lorenzin (che l’ha preceduta al Dicastero), sull’obbligo dei vaccini e le conseguenti gravi penalità in caso d’inadempienza, e favorire una più ampia informazione e un confronto senza pregiudizi sui vaccini stessi.
DALLA STORIA
Jean Cocteau.
(Jean Cocteau uno dei più significativi protagonisti della scena culturale nella Parigi del Novecento)
Jean Cocteau, fu molte cose: poeta, drammaturgo, romanziere, critico, pittore, ceramista, attore, regista, animatore dei più esclusivi salotti parigini; uno dei personaggi più significativi e originali della cultura francese del Novecento. La sua natura eclettica lo portò a svolgere la sua effervescente attività di artista accanto a poeti come Apollinaire, Jacob, romanzieri come Radiguet e Cendras, pittori come Picasso, de Chirico e Dufy, compositori come Poulenc, Satie, Milhaud, Honegger e Stravinsky. Cocteau era nato a Maisons-Laffitte, il 5 luglio 1889. All’età di vent’anni pubblicò il suo primo libro di poesie “La lampada di Aladino” e, nel contempo, fondò, insieme a Lucien Daudet, Reynaldo Hahn, Catulle Mendès e Maurice Rostand, la rivista “Schéhérazade”. Quando nel 1912 ebbe occasione di assistere al primo spettacolo in assoluto dei balletti russi di Serge Diaghilev, “Pavillon d’Armide”, conobbe di persona il famoso impresario che gli commissionò il soggetto di “Le Dieu bleu”, balletto su musica di Reynold Hahn, presentato poi al Théatre du Chatelet. Nel frattempo pubblica altre due raccolte di poesie e fa un viaggio in Algeria. I suoi scritti non passano inosservati, tanto che il 20 giugno 1912 Marcel Proust gli scrive: “Crepo di gelosia nel vedere come nei suoi straordinari pezzi su Parigi lei sappia evocare delle cose che io ho sentito e che son riuscito ad esprimere solo in modo assai pallido”. A Parigi alloggia all’Hotel Byron, lo stesso nel quale risiedono Reiner Maria Rilke e Auguste Rodin. A Montmartre stringe amicizia con altri pittori ed intellettuali come Roland Garros, Max Jacob, Amedeo Modigliani, quest’ultimo lo ritrarrà in un famoso dipinto.
Cocteau è un intellettuale controcorrente, di carattere esuberante, instancabile che suscita attrattiva sugli artisti che popolano la Parigi, eccitante e abbagliante, dei primi anni del Novecento. La sua figura di emblematico dandy e la sua versatilità artistica hanno grande influenza sui lavori di altri artisti come, ad esempio, il circolo musicale di Montparnasse, conosciuto come “Gruppo dei Sei”. Ne scrive il manifesto intitolato “Le Coq et l’Arlequin”, edito per Les Éditions de la Sirène, casa editrice fondata da Cocteau e da Blaise Cendras, che dal 1917 pubblicava volumi illustrati da Marie Laurencin, André Lhote, Picasso e Raoul Dufy. Cocteau prosegue, intanto, la sua attività letteraria con continuità ed entusiasmo lavorando a diversi progetti insistendo nell’affermare di essere, prima di tutto un poeta e che tutti i suoi lavori sono soprattutto espressioni poetiche. Nel 1929 scrive “I ragazzi terribili”, tra le sue opere più note. Il romanzo è considerato uno dei punti fermi della narrativa contemporanea europea: “Il valore medianico dei colori, il rapporto evocativo delle condizioni più che il soggetto narrativo in se stesso renderanno possibile afferrare tutto il fascino, le intense vibrazioni, le intelligenti eleganze, i giochi e i prodigi delle pagine quanto mai tragiche del romanzo”. Insieme a Raymond Radiguet, con il quale ha una liaison d’amore, fonda la rivista “Le Coq”. La scomparsa prematura del suo compagno (Raymond Radiguet muore ventenne per tifo) lo getta in uno stato di profondo sconforto avvicinandolo ad una dipendenza da oppio con cui lotterà per il resto della vita. Questa esperienza darà forma al famoso diario “Opium” in cui l’autore descrive il rapporto che lo lega con il consumo dell’oppio. Il diario descrive soprattutto la storia di una cura disintossicante ma è anche una raccolta di ritratti, interventi polemici, meditazioni, critica letteraria, romanzo, album di suoi disegni che, senza entrare nella drammaticità della tossicodipendenza rivela, da parte di Cocteau, un controllo mentale lucidissimo e forse un connubio illusorio tra droga e letteratura. In seguito viaggerà molto: nel 1935 fa una crociera nel Mediterraneo e pubblica i “Portraits-Souvenir”. L’anno successivo lascia Parigi per un giro che tocca Roma, Atene, Il Cairo, Bombay, Singapore, Hong-Kong (dove incontra Charlie Chaplin), Tokio, Honolulu, San Francisco, Hollywood e New York. Nel 1937 collabora a “Ce soir”, giornale di Louis Aragon e conosce l’attore francese Jean Marais, con il quale viaggia a Montargis, dove scrive in otto giorni “Les Parents Terribles”. Cocteau dedica a Marais il poema “L’incendie” e lo scrittura per il film “La bella e la bestia” e avrà con lui una relazione durata fino alla morte. Nel 1940 “Le Bel indifferent”, riduzione de “La Voix Humaine” scritta per Edith Piaf, è un enorme successo. Si trasferisce di nuovo a Parigi, in rue Monpensier, vicino a casa di Colette. Nel 1947 acquista una casa a Milly-la Forêt, segue la realizzazione dell’episodio che lo riguarda de “L’amore”, di Roberto Rossellini con Anna Magnani, girato a Parigi, e gira a sua volta a Vizille “L’Aigle à deux tetes”. Scrive la sceneggiatura di “Ruy Blas” e nello steso periodo è entusiasmato dalla visione del cortometraggio sperimentale “Fireworks” del regista underground americano Kenneth Anger che inviterà a lavorare con lui per il decennio successivo. I film di Cocteau, il grosso dei quali scrive e dirige in collaborazione con altri artisti, sono molto importanti perché introducono l’immaginario surrealista nel cinema francese e influenzeranno in un certo grado i futuri cineasti francesi della “Nouvelle Vague”. Nel 1950 il film “Orfeo” vince il premio della critica al festival di Venezia. L’anno dopo viene organizzata in Germania la prima mostra importante di disegni e dipinti a Monaco e nel 1953 Cocteau è presidente di giuria al festival di Cannes (nel corso della sua vita Cocteau fu commendatore, presidente, laureato honoris causa, cittadino onorario e presidente onorario di varie Accademie d’Arte e Festival). Negli ultimi anni disegna vetrate e decora cappelle, realizza costumi e scenografie, ceramiche e mosaici. Cocteau fu apertamente gay, sebbene avesse avuto brevi e complicate relazioni con donne (tra cui la principessa Natalia Pavlovna Paley, sorella del gran duca Romanov, ex moglie del sarto Lucien Lelong). Morì d’infarto nel 1963, poche ore dopo aver appreso la notizia della morte di Edith Piaf, per la quale aveva scritto l’elogio funebre. Di Cocteau si può infine dire che egli fu sostanzialmente un geniale artigiano, proteiforme e brillante, dal gusto raffinato e sicuro e che il suo nome resterà certamente legato, più che alla sua copiosa, camaleontica e funambolica produzione (guidata dalla fede nella libertà e nella sacralità dell’arte), alla storia del costume letterario del Novecento.
Mary Titton
4 luglio
PRIMO PIANO
La tempesta “globale” ha cambiato i colori di Marte.
Un’enorme nuvola di polvere, di cui ora sono sono disponibili le immagini, da settimane ha avvolto Marte e ha reso più pallidi i suoi colori. Le tempeste di sabbia marziane sono comuni soprattutto quando nell’emisfero Sud del pianeta arrivano la primavera e l’estate: appena l’atmosfera si riscalda, i venti, generati dalle grandi differenze di temperatura della superficie, trascinano via i sottilissimi granelli di polvere. Il caldo fa inoltre evaporare l’anidride carbonica, che durante l’inverno si congela nelle calotte polari, appesantendo l’atmosfera. Questo fenomeno rafforza le tempeste, favorendo la sospensione delle particelle di polvere nell’aria e la formazione di nuvole di sabbia che possono raggiungere altezze di 60 km. e oltre. Non si riescono più a vedere la calotta polare nord del pianeta, la cima del monte Olimpo, che con i suoi 26 km. di altezza è il più grande vulcano del sistema solare e la vetta del monte Arsia; uno dei grandi rover Opportunity, che funziona ad energia solare, non dà nessuna notizia in quanto i raggi della nostra stella sono offuscati dalla polvere. Continua invece a funzionare l’altro rover, Curiosity, grazie alle sue batterie nucleari.
DALLA STORIA
Riflessioni dalla storia.
(Henri Matisse. “Icaro”. 1947)
“Restare presso di sé”, scriveva accoratamente Wittgenstein nel suo “Diario segreto”. E più in là, davanti alla rozzezza e alla malvagità dei suoi commilitoni, aggiungeva. “Dunque non è vero che la grande causa comune nobiliti necessariamente l’uomo”. Per capire dall’interno i meccanismi della guerra e per trovarsi faccia a faccia con la morte, quel limite della vita che rende uguali tutti gli uomini, il filosofo s’era arruolato come volontario. Era la prima guerra mondiale e, quando ne tornò, portando a casa la propria pelle, si liberò di tutte le sue immense ricchezze per fare l’insegnante. Da questa scelta potremmo dedurre molte cose sull’essenza della guerra, ma del resto i libri di Wittgenstein sono in libreria alla portata di tutti, assieme a molti altri che potrebbero aiutare l’uomo ad avvicinarsi a una visione più complessiva delle cose. Essere presenti a se stessi, dunque, per essere liberi. Ed è a questo che ciascuno dovrebbe pervenire prima di alimentare in sé sentimenti di paura e di odio. Separazione e unità sono le facce di una stessa medaglia. L’odio è il principale elemento di separazione tra gli uomini e, manipolato ad arte come molte volte avviene per mano del “potere”, può generare mostri. L’unità produce empatia tra le persone perché fa comprendere il dolore dell’altro. A questo proposito illuminante è il testo di Ernst Junger tratto da “Il trattato del Ribelle”. Ed. Adelphi. Autore e libro già commentati in questa rubrica ma che qui desidero riproporre alla luce degli avvenimenti che il nostro paese sta vivendo nella presente attualità politica.
“Sono due le pietre di paragone, le macine che nessuno degli esseri viventi può eludere: il dubbio e il dolore, i due grandi strumenti della riduzione nichilista. È necessario esservi passati attraverso. È il compito, l’esame di maturità per poter accedere a una nuova epoca. E a nessuno sarà risparmiato. In questo senso vi sono paesi della terra incomparabilmente più progrediti di altri, e forse sono proprio i paesi che la gente ritiene più arretrati. È una tra le tante illusioni ottiche. Qual è dunque la terribile domanda che il nulla pone all’uomo? È l’antico enigma della Sfinge che interroga Edipo. L’uomo è interrogato riguardo a se stesso: conosce il nome di quello strano essere che si muove attraverso il tempo? Dipende dalla sua risposta se sarà divorato o incoronato. Il nulla vuole accertarsi che l’uomo sia in grado di reggere la prova, vuole sondare se in lui vivono elementi che mai il tempo potrà distruggere. In questo senso nulla e tempo sono identici: ed è vero che l’enorme potenza del nulla conferisce un grande valore al tempo fin nelle sue più minuscole unità. Frattanto si moltiplicano gli apparecchi, cioè l’arsenale del tempo. È per questo che sbagliano quanti sostengono che gli apparecchi, e in particolare la tecnica delle macchine, spingono il mondo alla distruzione. È vero il contrario: se gli apparecchi crescono a dismisura, e premono da vicino, ciò è perché all’uomo viene posta ancora una volta l’antichissima domanda. Gli apparecchi sono i testimoni di cui si avvale il tempo per dimostrare ai sensi il proprio strapotere. Se l’uomo risponde correttamente, gli apparecchi perdono ogni magico fulgore e obbediscono alla sua mano. È importante che lo si sappia. È questa la domanda fondamentale: domanda che il tempo rivolge all’uomo per provarne le forze. È diretta alla sostanza. Tutti gli elementi messi in scena, imperi nemici, armi, pericoli, sono parte integrante della regia che dà vita al dramma. Non c’è dubbio che ancora una volta l’uomo riuscirà a domare il tempo, a ricacciare il nulla nella sua caverna. Uno degli elementi caratteristici dell’interrogazione è la solitudine. È davvero strano, in un’epoca in cui fiorisce rigoglioso il culto della comunità. Ma vedere che proprio il collettivo assume aspetti disumani è stata un’esperienza risparmiata a pochi. C’è un paradosso analogo: all’immenso progresso delle conquiste spaziali corrisponde la riduzione progressiva della libertà individuale. Con la constatazione di questa solitudine si potrebbe chiudere il capitolo; quale sarebbe infatti l’utilità di addentrarci in situazioni a cui non arriva nessun mezzo o guida spirituale? Come per un tacito accordo tutti conveniamo che è così e che di alcune cose non si discute volentieri. Uno dei tratti positivi dell’uomo contemporaneo è il suo rifiuto di luoghi comuni pretenziosi, il suo bisogno concreto di onestà intellettuale, cui si è aggiunta una consapevolezza, una prontezza a cogliere ogni minuto accento di falsità. Sotto questo aspetto gli uomini posseggono ancora il senso del pudore. Si tratta comunque di un tribunale di primo piano. Forse un giorno si riconoscerà che la parte più vivace della nostra letteratura è quella non scaturita da intenti letterari. I resoconti, gli epistolari, i diari che hanno visto la luce nelle grandi battute di caccia, negli accerchiamenti, nei mattatoi del nostro mondo. Si dovrà riconoscere che nel suo “de profundis” l’uomo ha toccato abissi che arrivano alle fondamenta stesse dell’essere, e incrinano la tirannia del dubbio. Qui egli perde la paura. …”.
Mary Titton
3 luglio
PRIMO PIANO
Sentenza Borsellino quater: “Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.”
I giudici della Corte d’assise di Caltanissetta sabato 30 giugno hanno depositato le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater: 1.856 pagine, dodici capitoli, un lavoro minuzioso di ricostruzione firmato dal presidente Antonio Balsamo e dal giudice a latere Janos Barlotti, che rappresenta una tappa importante nella difficile ricerca della verità, perché stabilisce in maniera chiara i misteri ancora irrisolti e indica una strada per proseguire le indagini. Scrive la Corte: “E’ uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.” Soggetti inseriti negli apparati dello Stato indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage in cui furono uccisi il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. Ancora i giudici: “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”. Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera: dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti, secondo la Corte non per ansia di giustizia e di risultato. E proprio in questi giorni la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per il depistaggio di tre poliziotti: il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione, e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è di calunnia in concorso, per aver costretto Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. L’ex questore La Barbera, secondo la Corte, “è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa” di Borsellino, il diario che il magistrato custodiva nella borsa e portava sempre con sé. Per Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso, “queste motivazioni non sono un punto d’arrivo, ma di partenza. Bisogna andare avanti processualmente per accertare le responsabilità di chi ha commesso i reati, ma anche dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini, esistono lacune gravissime e inaudite, sicuramente funzionali a quello che è successo e che devono essere attestate dai competenti organi dello Stato, non solo le procure, ma anche il Csm.”
DALLA STORIA
Franz Kafka e “La Metamorfosi”.
“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un pò la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati”. Inizia così “La Metamorfosi”, uno dei capolavori più noti e famosi dello scrittore boemo Franz Kafka, ritenuto una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo. Il testo descrive la vicenda di un uomo, Gregor Samsa, che una mattina si sveglia e scopre di aver assunto le fattezze di uno scarafaggio: la causa che ha portato ad una tale mutazione non viene mai rilevata. Tutto il seguito del racconto narra dei tentativi compiuti dal giovane Gregor per cercar di regolare, per quanto possibile, la propria vita a questa sua nuova particolarissima condizione, soprattutto nei riguardi dei genitori e della sorella. Attraverso la condizione ripugnante del protagonista e la sostanziale incapacità dei parenti di instaurare con lui un rapporto umano, Kafka vuole rappresentare l’emarginazione alla quale il “diverso” viene tragicamente condannato nella società. L’insetto non simboleggerebbe altro che questo “diverso”. La metafora dell’insetto rappresenta la dipendenza dell’autore dalla famiglia e la negazione della sua libertà artistico-espressiva nella letteratura. Già in una lettera alla sorella Elli, Kafka aveva definito la famiglia come un “contesto veramente animale”, che soffoca la libera espressione dell’individuo con l’egoismo oppressivo di un amore “assurdo e bestiale”. Nonostante la famiglia di Gregor tenti, almeno inizialmente, di mantenere un contatto con lo sventurato, si percepisce quasi subito il ribrezzo che suscita in loro la vista della condizione ributtante nella quale egli versa. Nemmeno lo stretto grado di parentela e il ricordo di un passato normale e felice, riescono a salvare Gregor dalla condanna alla quale sembra, fin dalle prime battute, destinato. Dapprima, scoperta la nuova condizione dell’uomo, i familiari provano raccapriccio; poi paura di avere contatti diretti con esso, tant’è che il poveretto decide di nascondersi, quando gli viene portato il cibo, per non suscitare spavento; poi insofferenza (che si manifsta nel lancio di mele da parte del padre a Gregor che viene gravemente ferito) e infine ha il sopravvento un rinunciatario sentimento di rassegnazione. Gregor è diventato un peso, i familiari stessi si augurano che muoia. La madre, il padre e la sorella ne sono comprensibilmente affranti, tuttavia sanno che quella è l’unica via d’uscita da una situazione divenuta ormai insostenibile.
Franz Kafka, per i temi che spesso ricorrono nelle sue opere: l’alienazione e spersonalizzazione dell’individuo che la società impone; il rapporto problematico padre-figlio; il senso di angoscia; il senso dell’ambiguità; lo spiazzamento; la continua ricerca dell’allegoria e della metafora usate in tutta la loro enigmaticità e ambivalenza; il rifiuto da parte dei familiari per le sue sembianze; la mutazione dei comportamenti, quando Gregor lavora e sostiene la famiglia viene trattato con rispetto ma, quando diventa un peso, lo disprezzano e sono sollevati della sua morte è considerato un importante esponente del modernismo e anticipatore dell’esistenzialismo. Albert Camus, ne “Il mito di Sisifo”, sostiene che “La metamorfosi” sia una rappresentazione dell’etica della lucidità, che può trasformare facilmente l’uomo in una bestia. Tale interpretazione fa pensare anche a “La metamorfosi” come ad un’anticipazione dell’olocausto, anche se certamente il testo trascende una lettura storica peraltro successiva alla scrittura del racconto. Ma chi era Franz Kafka, uno degli scrittori più sensibili e geniali del Novecento? Egli nacque il 3 luglio 1883 a Praga da una famiglia di agiati commercianti ebrei. La prima parte della sua vita è dedicata, senza entusiasmo, agli studi di giurisprudenza che gli permettono di ottenere un lavoro nel settore delle assicurazioni. Frequenta attivamente i circoli culturali praghesi ed esordisce senza fortuna nel 1908 come scrittore in lingua tedesca. Dal 1910 comincia a tenere un diario che lo accompagnerà per tutta la vita e oggi costituisce una tesimoninza preziosa delle sue riflessioni e dei continui fermenti del suo spirito. Gli anni successivi al 1910 sono caratterizzati da lunghi e ripetuti ricoveri in case di cura per una grave forma di tubercolosi (1910-12 a Riva del Garda, 1920 a Merano), ma anche dalla sua più fervida produzione letteraria. Rimase scapolo nonostante ripetuti fidanzamenti. A partire dal 1917 si dedica sempre più intensamente alla questione ebraica, meditando addirittura un suo trasferimento in Palestina. Fu invece costretto a entrare in un sanatorio nei pressi di Vienna, dove morì nel 1924. Per volontà testamentaria, Kafka avrebbe voluto che tutti i suoi manoscritti fossero distrutti. Il suo amico Max Brod decise invece di pubblicare quelli che erano scampati all’eliminazione da lui stesso operata, salvando così alcune delle opere più importanti. Degli inizi dell’attività ci restano le prime pagine dei “Preparativi di nozze in campagna” e la “Descrizione di una battaglia”, un lungo racconto di intenso lirismo che costituisce il nucleo attorno al quale si svilupperà la poetica degli anni successivi. Dal 1913 cura personalmente la stampa delle “Meditazioni”, raccolta di prose brevi e di capolavori quali “La condanna” (1916), “Nella colonia penale”, “Un medico di campagna” (1919) e “Un digiunatore” (1924). Contemporaneamente scrive opere altrettanto importanti che saranno edite solo dopo la sua morte, quali “America”, incompiuta, a cui comincia a lavorare nel 1912, “Il processo”, scritta in gran parte nel 1914, con la storica introduzione di Claudio Magris e “Il castello”, del 1922, anch’essa non terminata.
Tra i temi ricorrenti e centrali dell’opera di Kafka vanno ricordati l’ossessivo rapporto col padre, “uomo d’affari, enorme, egoista e prepotente” (così descritto dal biografo Stanley Corngold) che anima la “La lettera al padre”, del 1919. Altri temi, oltre a quelli già riportati, sono l’incubo di condanne irrevocabili, che concludono processi basati su accuse palesemente ingiuste; lo sconvolgimento improvviso, attraverso trasformazioni inspiegabili di esistenze fino a quel momento tranquille; la solitudine dell’uomo nella moderna società industriale. La trasposizione letteraria di queste tematiche si svolge attraverso una narrazione realistica e uno stile scorrevole che trasportano progressivamente il lettore in un mondo di incubi, di allucinazioni, di riferimenti a una realtà trascendente e difficile da identificare.
Mary Titton
2 luglio
PRIMO PIANO
Thailandia: vivi i ragazzi intrappolati da 9 giorni in una grotta.
Lunedì sera sono stati trovati vivi i dodici ragazzi e l’allenatore di una squadra di calcio, rimasti intrappolati il 23 giugno in una grotta in Thailandia. Tutti di età compresa tra gli 11 e i 16 anni, i ragazzi insieme al loro coach, dopo un allenamento di calcio, sono entrati nella grotta di Tham Luang, alla frontiera con la Birmania e il Laos, e non sono riusciti più a uscire per le piogge monsoniche che sono cadute sul nord della Thailandia, ostacolando fortemente le operazioni di soccorso. Il gruppo è stato trovato a 400 metri dalla cavità di “Pattaya Beach”, rimasta asciutta durante le inondazioni. Imponenti le operazioni di ricerca, a cui hanno partecipato soccorritori di tutto il mondo, tra cui cinesi, americani e australiani, mentre l’intero Paese era in trepida attesa, domenica ha pregato per loro all’Angelus anche Papa Francesco. I ragazzini sono in buone condizioni, ma l’uscita è a 4 km e potrebbero volerci mesi per portarli in salvo, se non impareranno a immergersi con l’attrezzatura da sub per attraversare l’acqua alta 5 metri. I soccorritori hanno intanto già fornito al gruppo cibo e medicine, compresi gel ad alto contenuto calorico e paracetamolo. Il capitano della Marina Anand Surawan ha detto: “Invieremo altro cibo per permettere loro di resistere almeno quattro mesi e li addestreremo ad immergersi mentre continuiamo a scaricare l’acqua”. Purtroppo molti dei ragazzi non sanno nuotare. In attesa del recupero, i soccorritori rimarranno nella grotta con loro fino a quando non saranno tutti in grado di percorrere i quasi 4 chilometri che li separano dall’uscita. “Porteremo loro del cibo, ma non siamo sicuri che possano nutrirsi da soli perché non mangiano da molto tempo, manderemo da loro anche un medico in grado di immergersi”, ha detto il governatore della provincia di Chiang Rai. Vicino alla grotta, accolti in una stanza protetta, ci sono i genitori dei ragazzi, che finalmente hanno pianto di gioia: a tutti loro il governatore ha garantito nelle prossime settimane il massimo sostegno psicologico. Non lontano da loro i soccorritori avanzano con l’acqua fino alla vita, tenendosi aggrappati ad alcune corde in una lotta contro il tempo per evitare che arrivino altre piogge monsoniche. Speriamo che i ragazzi vengano presto tirati fuori.
DALLA STORIA
A Los Angeles, il 2 luglio 1944, Norman Granz, produttore e discografico americano, organizza uno dei momenti più importanti della storia del jazz: il concerto “Jazz at the Philharmonic”.
(Philharmonic Auditorium. “Jazz at the Philharmonic”, 1944. (Gjon Mili photo)
Il 2 luglio 1944, a Los Angeles, al Philharmonic Auditorium, un evento chiamato “Jazz at the Philharmonic” o “JATP” consacra la musica Jazz. All’epoca il jazz godeva di una contrastante considerazione: idolatrato da alcuni, che vi vedevano segnali di avanguardia, tacciato di cacofonia da altri, che non lo comprendevano. Ma fu il grande lancio, organizzato dal mitico Norman Granz, una delle figure fondamentali della musica moderna, in particolare della musica jazz americana a richiamare l’attenzione del grande pubblico. Il concerto era la prima rappresentazione jazzistica in un auditorium classico, la prima ammissione di valore musicale autonomo per il “genere musicale più oscuro” fino ad allora relegato a ruoli di sottofondo o di accompagnamento di corredo ad altre arti. Il concerto fu registrato e l’incisione fu il primo disco Jazz destinato a un pubblico più vasto e ad avere successo sul mercato principale della discografia. I musicisti che vi suonarono, Ray Brown, Coleman Hawkins, Charlie Parker (“The Bird”), Sonny Criss, Nat King Cole, (come pianista, non come cantante), Hanks Jones, Shelley Mann, Fats Navarro, Flip Phillips e Tommy Turk, fecero poi insieme un paio di tournée l’anno, dal 1946 al 1949. Ma il successo del concerto “JATP” sarebbe continuato anche in seguito, con esibizioni fino al 1957, più uno special event nel 1967. Granz divenuto in seguito un produttore discografico e imprenditore, noto per aver creato la casa discografica Verve Records, fin dall’inizio si propose tre scopi nella vita: lottare contro il razzismo (a Houston, nel ’56, tolse personalmente le etichette “bianchi” e “negri” destinate a separare il pubblico dell’Auditorium in cui si sarebbero dovuti esibire, fra gli altri, Ella Fitzgerald e Dizzy Gillespie. Granz fu anche fra i primi datori di lavoro americani a garantire uguale salario ai lavoratori di colore rispetto ai bianchi, oltre ad assicurare uguali trattamenti accessori (come quello, ad esempio, di poter usufruire dei camerini prerogativa, fino ad allora, destinata solo ai bianchi), a dare agli ascoltatori buoni prodotti musicali e a guadagnare solo da buona musica. Egli firmò la sua prima etichetta indipendente (Clef Records) con la quale voleva sviluppare e continuare a seguire il progetto di JAPT. Creò anche la Norgran Records e la Down Records, riservate al jazz tradizionale. La maggior parte dei nomi che hanno fatto la storia nel jazz del periodo hanno firmato un contratto, almeno una volta, con una delle sue etichette, ecco alcuni nomi: Cannonball Adderly, Louis Armstrong, Count Basie, Bud Powel, Louie Bellson, Benny Carter, Buck Clayton, Buddy De Franco, Tal Farlow, Stan Getz, Dizzy Gillespie, Lionel Hampton, Roy Eldridge, Billie Holiday, Illinois Jacquet, Barney Kessel, Gene Krupa, Howard McGhee, Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Charlie Parker, Joe Pass, Oscar Peterson, Flip Phillips, Bud Powell, Sonny Stitt, Nina Simone, Ben Webster e Lester Young!
Nel 1956 Ella Fitzgerald, già celeberrima, raggiunse finalmente “la Comunità” di Granz, dopo che il suo contratto di lunga durata con Decca Records era spirato e Granz, progettando di dedicarle grande e impegnativa attenzione, riunì le sue attività sotto l’etichetta comune di Verve Records. L’etichetta raccolse una popolarità assai vasta grazie alla serie memorabile di “songbooks” (i più importanti dei quali sono quelli dedicati a George Gershwin e a Cole Porter), insieme alla serie dei “duetti” (fra i quali Armstong-Peterson, Fitzgerald-Basie, Fitzgerald-Pass e Getz-Peterson). La Verve fu venduta nel 1960 alla Metro-Goldwyn-Mayer (che nel 1972 l’avrebbe poi ceduta alla PolyGram). Il mondo della musica deve molto a Norman Granz, grazie alla sua sensibilità musicale e il suo alto valore umano ha contribuito a diffondere la bellezza nel mondo. Adorato dai suoi artisti, infine, si ritirò in Svizzera, dove fondò la sua ultima etichetta (Pablo Records, nel 1973) e dove, nel 2001, morì.
Mary Titton
1 luglio
PRIMO PIANO
Formula1: Gp d’Austria, vince Verstappen, 2° Kimi Raikkonen, 3° Vettel.
Max Verstappen vince su Red Bull sul circuito dello Spielberg, riportando il quarto successo della sua carriera, e precede Kimi Raikkonen e Vettel, ora di nuovo in testa al Mondiale, con la Ferrari, prima nella classifica Costruttori. Vettel risale dalla sesta posizione, assegnatagli al via per una penalità nelle prove di qualifica, al 39° giro scavalca Hamilton ed è terzo. Una dopo l’altra le Mercedes in prima fila, per problemi di affidabilità, sono costrette al ritiro, (14° giro Bottas, 64° Hamilton). Il pilota tedesco così torna leader del mondiale con +1 su Hamilton (146 contro 145) e abbastanza soddisfatto, a fine gara commenta: “La partenza è andata bene, in curva 1 invece un po’ un casino e così in curva 3, un casino quasi in fotocopia, poi difficile nel primo stint tornare dietro il treno dei leader. Comunque è stata una buona gara, senza errori. Alla fine abbiamo provato a prendere Verstappen ma non ci siamo riusciti … Il terzo posto è buono, certo senza penalità sarebbe stata un’altra gara: oggi sarebbe stato possibile vincere.” Davanti a lui, secondo, il compagno di squadra Kimi Raikkonen, che parte con un buono spunto per infilarsi tra le due Mercedes, poi subisce la stretta e l’assalto di Verstappen alle spalle, ma una volta trovato il passo lo mantiene con grande costanza fino al secondo posto a 1″5 dal vincitore, ottenendo il giro più veloce in 1’06″957 e tenendo dietro Vettel. Il Cavallino coi suoi due piloti sul podio supera le Frecce d’Argento nella classifica costruttori con un vantaggio di 10 punti (247 contro 237).
30 giugno
PRIMO PIANO
Grecia: sciopero generale contro l’austerità.
In Grecia migliaia di persone hanno aderito allo sciopero generale che ha investito diversi settori e sono scese in piazza ad Atene e nelle principali città. Le manifestazioni costituiscono una risposta alle misure di austerity, che il governo Tsipras si prepara a varare con un nuovo ciclo di riforme legate al terzo piano di salvataggio del Paese. Lo stop di 24 ore ha causato disagi in diversi settori: chiusi uffici pubblici e scuole, fermi il trasporto urbano, treni e traghetti, proprio nei giorni in cui inizia la stagione turistica; la più grande compagnia aerea greca Aegean e la regionale Olympic Air hanno annullato diversi voli, i medici degli ospedali intervengono solo per le emergenze, stop anche ai notiziari radio e Tv. Hanno aderito allo sciopero oltre 10mila lavoratori, giovani e pensionati, sventolando le bandiere del sindacato PAME (Fronte militante di tutti i lavoratori) affiliato al partito comunista. Sui cartelli di protesta le scritte: “Niente riduzione salariale, nessun licenziamento, non saremo schiavi nel XXI secolo”, “No!”, “Hanno annientato le nostre vite!”, “Loro ci hanno divorato”. “Stiamo protestando contro l’austerity, l’alta tassazione e la disoccupazione” hanno dichiarato i rappresentanti delle sigle Gsee e Adedy, secondo cui dal 2010 i greci hanno perso oltre un quarto del loro reddito a causa della crisi finanziaria. Dall’inizio della crisi, circa otto anni fa, la Grecia ha ricevuto 260 miliardi di euro, in prestiti di salvataggio, in cambio di misure di austerità che hanno portato a licenziamenti settoriali, aumenti delle tasse e duri tagli pensionistici, misure insopportabili per tante famiglie greche finite sul lastrico. Nonostante l’opposizione pubblica, il primo ministro Tsipras, nel 2015, ha aderito all’attuale piano di salvataggio internazionale della Grecia, che scadrà in agosto. Lo scorso anno il suo governo, di sinistra, ha ceduto alle richieste della Troika per ulteriori tagli alle pensioni e aumenti delle tasse nel 2019 e 2020.
29 giugno
PRIMO PIANO
Viareggio: richiesta di giustizia e verità 9 anni dopo l’incidente ferroviario che causò 32 morti e 25 feriti.
Nel pomeriggio del nono anniversario dell’incidente ferroviario del 29 giugno 2009 il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) e il Sottosegretario ai trasporti Armando Siri (Lega), nella Sala di rappresentanza del Municipio di Viareggio, hanno partecipato ad un convegno promosso dal Mondo che vorrei onlus, che ha visto la presenza di venti associazioni di familiari delle vittime di incidenti ferroviari (Andria e Corato, 2016), sul lavoro (Thyssenkrupp, 2007), del tragetto Moby Prince e della recente tragedia di Rigopiano in Abruzzo. Il Ministro, durante la manifestazione, ha chiesto scusa a nome del Governo per tutto quello che le famiglie stanno passando e, a proposito di due reati che per la strage di Viareggio saranno dichiarati prescritti all’apertura del processo di appello nel prossimo mese di novembre, ha dichiarato “Inaccettabile la prescrizione”, auspicando che quando ci sarà la riforma della prescrizione, questa “non porti il nome di chi l’ha scritta, ma sia la “Viareggio” o “Viareggio bis”, … perchè chi la pronuncerà in un’aula di tribunale si ricordi non di chi l’ha scritta ma chi è morto e di chi ha sofferto prima che quella legge esistesse”. Ha concluso dicendo che “in Italia mai più dovranno esistere ingiustizie di questo tipo”. La strage di Viareggio si verificò il 29 giugno 2009 in seguito al deragliamento del treno merci 50325 Trecate-Gricignano, un convoglio di quattordici carri cisterna contenenti GPL, e alla fuoriuscita di gas da una cisterna contenente GPL perforatasi nell’urto; per cause fortuite si innescò quasi subito un incendio di vastissime proporzioni che interessò la stazione di Viareggio, con il successivo scoppio della cisterna stessa, qualche centinaio di metri a sud del fabbricato viaggiatori e delle aree circostanti. Undici persone persero la vita in pochi minuti, investite dalle fiamme o travolte dal crollo degli edifici; altre due persone morirono stroncate da infarto e decine rimasero ferite; di esse molte riportarono gravissime ustioni e la maggior parte morì a distanza di diverse settimane dall’evento. I due macchinisti rimasero indenni in quanto si misero in salvo dietro un muro che li riparò dalla fiammata del gas innescato. I parenti delle vittime attendono ancora una sentenza definitiva sui responsabili del terribile sinistro, in cui si contarono 32 morti e 25 feriti.
28 giugno
PRIMO PIANO
Mondiali 2018: per la prima volta Germania fuori al 1° turno.
La Germania è stata eliminata dai Mondiali di Russia 2018, i campioni del mondo in carica sono stati sconfitti 2-0 dalla Corea del Sud nell’ultima partita del gruppo F. È stata una terribile disfatta per la Germania, abituata dal 1954 in poi a continui successi. La Germania è stata eliminata dai Mondiali di Russia 2018, i campioni del mondo in carica sono stati sconfitti 2-0 dalla Corea del Sud nell’ultima partita del gruppo F. È stata una terribile disfatta per la Germania, abituata dal 1954 in poi a continui successi. È atteso nel primo pomeriggio il rientro in patria dei giocatori, demoralizzati e pronti ad affrontare il processo già imbastito da tifosi e media. Tutta la stampa tedesca dedica, infatti, alla clamorosa sconfitta buona parte della prima pagina: “Storico fallimento” titola la Frankfurter Allgemeine Zeitung, sottolineando anche la Schadenfreude, cioè il piacere provato ed espresso nelle altre nazioni per la storica eliminazione dei campioni del mondo al primo turno; “Senza parole” è il titolo che la popolare Bild dedica oggi in prima pagina alla disfatta della Germania al Mondiale, lo stesso che il tabloid più venduto nel Paese aveva usato quattro anni fa dopo lo storico 7-1 inflitto dalla squadra tedesca al Brasile, nel torneo 2014, poi vinto dai tedeschi. La “Frankfurter Allgemeine Zeitung” solleva uno dei temi che la Federazione dovrà affrontare nei prossimi giorni: il futuro dell’allenatore Joachim Loew, che in carica come ct dal 2006, dopo il Mondiale in casa, ha da poco rinnovato il suo contratto fino al 2020 e si è preso tutte le responsabilità della débâcle. Dopo la sconfitta con la Corea del Sud, che ha eliminato i tedeschi campioni in carica nella fase a gironi di Russia 2018, Loew ha dichiarato: “È una enorme delusione, c’è silenzio totale nella squadra, non siamo ancora in grado di dire nulla. È difficile spiegare perché non ce l’abbiamo fatta”. Intanto Svezia e Messico volano agli ottavi del Mondiale di calcio. La sconfitta dei centroamericani contro gli scandinavi (3-0) non compromette la qualificazione di entrambe le squadre (a quota 6 in classifica), data la concomitante sconfitta della Germania 3-0. La Svezia passa come prima del girone. Atteso nel primo pomeriggio il rientro in patria dei giocatori, demoralizzati e pronti ad affrontare il processo già imbastito da tifosi e media. Tutta la stampa tedesca dedica, infatti, alla clamorosa sconfitta buona parte della prima pagina: “Storico fallimento” titola la Frankfurter Allgemeine Zeitung, sottolineando anche la Schadenfreude, cioè il piacere provato ed espresso nelle altre nazioni per la storica eliminazione dei campioni del mondo al primo turno; “Senza parole” è il titolo che la popolare Bild dedica oggi in prima pagina alla disfatta della Germania al Mondiale, lo stesso che il tabloid più venduto nel Paese aveva usato quattro anni fa dopo lo storico 7-1 inflitto dalla squadra tedesca al Brasile, nel torneo 2014, poi vinto dai tedeschi. La “Frankfurter Allgemeine Zeitung” solleva uno dei temi che la Federazione dovrà affrontare nei prossimi giorni: il futuro dell’allenatore Joachim Loew, che in carica come ct dal 2006, dopo il Mondiale in casa, ha da poco rinnovato il suo contratto fino al 2020 e si è preso tutte le responsabilità della débâcle. Dopo la sconfitta con la Corea del Sud, che ha eliminato i tedeschi campioni in carica nella fase a gironi di Russia 2018, Loew ha dichiarato: “È una enorme delusione, c’è silenzio totale nella squadra, non siamo ancora in grado di dire nulla. È difficile spiegare perché non ce l’abbiamo fatta”. Intanto Svezia e Messico volano agli ottavi del Mondiale di calcio. La sconfitta dei centroamericani contro gli scandinavi (3-0) non compromette la qualificazione di entrambe le squadre (a quota 6 in classifica), data la concomitante sconfitta della Germania 3-0. La Svezia passa come prima del girone.
DALLA STORIA
La furia predatrice dei Conquistadores spagnoli.
Oggi ricorre la data di morte dell’imperatore azteco Montezuma ucciso, nel 1520, sembra mediante l’ingestione forzata di oro fuso su ordine di Hernán Cortés. Con la scoperta dell’America del 1492 si verifica l’incontro più straordinario della storia occidentale: la scoperta dell’altro, del diverso da noi, di un “Nuovo Mondo”. La letteratura sugli Aztechi è vastissima. Sembra che non ci sia un periodo della loro vita che non sia stato indagato, analizzato e descritto: le loro origini, la loro storia e la loro scrittura indecifrabile, la loro religione ed il loro calendario, sono stati studiati continuamente e ciò che rimane dei loro scritti geroglifici è stato ampiamente pubblicato. Innumerevoli scavi sono stati via via portati a termine nel tradizionale territorio dell’ “Impero Azteco” e fuori di esso; per molti anni relazioni documentatissime ed erudite sono state pubblicate continuamente e in quantità sbalorditiva. Alcuni dei grandi nomi della letteratura hanno scritto sugli Aztechi e sui popoli loro vicini. Ma il fatto che gli Aztechi siano giunti tanto tardi sulla scena messicana (vi furono moltissime civiltà prima della loro) e che essi siano stati legati alla magia in ogni momento della loro vita, tanto da popolare il loro mondo di dèi e di simboli, fa sì che nella letteratura che li riguarda siano rimaste molte incertezze. Inoltre, dato che la storia degli Aztechi (che comprende la mitologia, l’astronomia, l’etnologia e la ricerca di tutto ciò che avvenne nelle migliaia di anni trascorsi prima della loro scomparsa) è complessa, essa non è sempre un soggetto facile su cui scrivere e del quale leggere. I conquistatori spagnoli del Messico erano per la maggior parte uomini istruiti e letterati, per cui sentirono la “storicità” del momento. Hernán Cortés, che narrò la storia mentre la faceva, per il suo tempo era considerato un uomo di cultura, avendo studiato all’Università di Salamanca. Oltre a lui anche altri narrarono della Conquista mentre il corso della Storia era ancora in atto. Il più colto tra i cronisti, Francisco de Gòmara, scrisse una “Cronica de la Nueva Espana” ma con tanta parzialità in favore di Cortès da spingere Bernal Díaz del Castillo a dettare la sua “Historia verdadera de la conquista de la Nueva Espana”, opera meravigliosa e senz’età. Ai conquistadores seguirono i missionari, che ripresero il racconto là dove i soldati lo avevano interrotto. Nel loro sforzo di realizzare all’interno del Messico il passaggio da una mitologia ad un’altra, essi furono costretti a studiare le lingue, i miti e la vita quotidiana di quei popoli. Il più instancabile fu Bernardino di Sahagún che arrivò in Messico nel 1529 e che, dopo decenni di studi appassionati, lasciò una storia della vita e dei momenti storici più salienti di quel popolo, opera di valore inestimabile per chiunque voglia indagare sugli Aztechi. E così via risalendo i secoli, con i successivi rinvenimenti archeologici ed altri approfondimenti da parte di illustri studiosi e ricercatori, oggi, di quella civiltà scomparsa, si hanno numerose informazioni.
Ciò che da allora si evidenzia come fatto sconcertante è l’incapacità endemica dell’uomo, a giudicare dalle guerre onnipresenti, di confrontarsi con mondi e culture diversi. A questo proposito è di particolare interesse l’analisi del filosofo e saggista bulgaro Tzvetan Todorov che ha condotto un’approfondita ricerca sugli aspetti antropologici, culturali e le relative problematiche connesse al rapporto con “l’altro” verificatesi con la conquista spagnola del continente americano. Lo studioso ha esposto l’esito delle sue ricerche nel celebre saggio intitolato “La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, edito da Einaudi e uscito in Francia nel 1982. Nel libro, Todorov osserva come durante le varie fasi della conquista si verifichino due comportamenti: o gli indigeni sono identificati come diversi, ma in tal caso inferiori e quindi adatti ad essere conquistati e sfruttati; oppure essi sono riconosciuti come uguali ed in tal caso devono essere assimilati alla cultura spagnola. In ogni caso, il comportamento degli spagnoli in questo frangente, ma in generale di tutti gli europei nella conquista dell’America, è stato tale da portare sempre alla distruzione della cultura indigena. La distruzione dell’impero azteco da parte di un pugno di “conquistadores” ha sempre suscitato la curiosità e la riflessione degli storici e non: come si spiega che Cortés, alla testa di poche centinaia di uomini, sia riuscito ad impadronirsi del regno di Montezuma, straordinariamente tanto più numeroso di guerrieri da contarne in termini di milioni? Tra le varie risposte ce ne sono alcune come le seguenti: gli spagnoli sarebbero stati avvantaggiati dalle divisioni tra le popolazioni indigene e, in particolare, dall’ostilità verso gli Aztechi dei popoli a loro sottomessi; l’equipaggiamento più attrezzato degli spagnoli che comprendeva l’impiego dei cavalli e l’uso di armi più potenti come archibugi e cannoni (sconosciuti agli indigeni) e che su di loro avevano un effetto paralizzante. Gli Aztechi non conoscevano la lavorazione dei metalli, le loro spade, seppur taglienti, erano più fragili. Nei loro spostamenti, gli spagnoli, erano molto più rapidi, si muovevano a cavallo o, come nella fase finale dell’assedio di Città del Messico l’impiego dei loro brigantini, contro le lente canoe indiane, ebbe un ruolo decisivo. Inoltre gli Aztechi vennero decimati a migliaia dalle malattie infettive, come il vaiolo ed altre sconosciute alle popolazione mesoamericane portate dagli europei spagnoli. Altri aspetti di tipo culturale giocarono, come spiega Todorov, un ruolo importante: la diversa concezione del tempo e della comunicazione. Gli Aztechi avevano una concezione ciclica del tempo rappresentata graficamente dalla ruota. Il tempo, pertanto, si ripete secondo frequenze immodificabili e il futuro, conseguentemente, altro non è che la ripetizione del passato: per gli Aztechi, conoscere il futuro significava osservare il passato. Montezuma non capiva come poteva prodursi un avvenimento completamente nuovo, come era l’esistenza di “quello strano essere”, un uomo a cavallo, se non pensare che gli spagnoli, in realtà dovevano essere gli dèi, da tempo annunciati dai presagi degli antenati. L’imperatore azteco accolse perciò con tutti gli onori gli “invasori” offrendo loro regali e monili d’oro a profusione, alimentando peraltro la loro cupidigia. In questo epocale scontro di civiltà gli spagnoli ebbero la meglio ma sicuramente la loro civiltà di allora non si può ritenere più civilizzata rispetto a quella azteca. Riflettendo sui costumi ripugnanti, come i noti sacrifici umani compiuti dai sacerdoti Aztechi sui prigionieri, ai quali incidevano il petto ed estirpavano il cuore ancora pulsante in offerta agli déi, in cima ai Templi sacri, si trova difficile conciliare la loro esistenza con una qualsiasi forma di governo o con un progresso nella civiltà. “Eppure, i messicani hanno molte caratteristiche per potersi definire una comunità civilizzata. Si può forse comprendere meglio questa anomalia, riflettendo sulla condizione di qualcuna delle più progredite regione d’Europa, nel XVI, dopo la fondazione della moderna Inquisizione: una istituzione che ogni anno distruggeva migliaia di uomini con una morte più penosa dei sacrifici aztechi; che armava il fratello contro il fratello e, che, imprimendo il suo suggello rovente sulle labbra, ha contribuito ad arrestare il cammino del progresso, più di ogni altro sistema escogitato da umana astuzia”. (William Prescott, “La conquista del Messico”, 1839). Sahagún, dopo la conquista, così racconta: “Offrirono agli Spagnoli insegne d’oro, di piume di Quetzal e collane d’oro. Quando videro tutto questo, le loro facce erano sorridenti ed erano assai contenti e soddisfatti. Quando presero l’oro cominciarono a comportarsi come scimmie, stavano seduti proprio come loro, ed era come se avessero dei nuovi cuori, risplendenti. Perché la verità è, che quello era ciò che più bramavano. I loro toraci si ingrossavano e la bramosia li faceva impazzire. Bramavano l’oro, come maiali affamati”.
(La Pietra del Sole o Calendario Azteco, monolito circolare di basalto ritrovato nel 1790 nella Plaza Mayor di Città del Messico, durante i lavori di restauro della cattedrale)
Mary Titton
27 giugno
PRIMO PIANO
Thailandia: 12 ragazzini sono bloccati da 4 giorni in una grotta.
12 ragazzini, membri di una squadra di calcio, di età compresa tra gli 11 e i 16 anni, dopo l’allenamento, sono entrati sabato scorso con il loro allenatore all’interno della grotta di Tham Luang Nang Non, nel nord del Paese, e sono rimasti bloccati dall’acqua. Secondo la marina militare il livello delle acque è salito di altri 15 centimetri nella notte e anche una terza camera di questa rete sotterranea di grotte, che si estende per diversi chilometri, è completamente inondata. Khanchit Chomphudaeng, uno dei responsaili dei soccorsi, ha detto: “L’innalzamento del livello dell’acqua all’interno della grotta è un ostacolo enorme alle operazioni di salvataggio, ci sono state forti piogge nella notte”. I sommozzatori della Marina thailandese sono penetrati per alcuni chilometri all’interno della grotta, lunga quasi 10 km, senza però mai riuscire a percorrerla fino in fondo a causa dell’alto livello delle acque. I soldati stanno preparando un sistema di pompaggio dell’acqua, molto fangosa e povera di ossigeno, mentre altri soccorritori cercano di raggiungere il gruppo da altri cunicoli della grotta. “Ogni secondo può essere fondamentale” ha precisato il governatore della provincia di Chiang Rai, Narongsak Ossttanakorn, in una conferenza stampa davanti alla grotta, aggiungendo che sono stati chiamati in rinforzo alcuni sommozzatori e speleologi stranieri. Intanto alcuni monaci buddisti si sono riuniti in preghiera con i familiari dei ragazzi. Si spera ancora!
26 giugno
PRIMO PIANO
Istat: in Italia 5 milioni di persone in povertà assoluta.
Essere in “povertà assoluta” significa non avere i mezzi per vivere con dignità. Secondo l’Istat sono in questa condizione 5 milioni di persone, ovvero 1,8 milioni di famiglie, l’8,3% della popolazione residente. Praticamente 1 persona su 12. L’Istat sottolinea che l’incremento della povertà “è un trend iniziato da prima della crisi, nel 2007, e due decimi di punto della crescita rispetto al 2016 sia per le famiglie sia per gli individui si devono all’inflazione”. Dopo quasi dieci anni di crisi, la povertà assoluta in Italia è raddoppiata: nel 2005 circa 2 milioni di persone si trovavano in questa condizione, ovvero il 3,3% della popolazione, tra il 2011 e il 2013 c’è stato l’incremento più drammatico: in un solo triennio i poveri assoluti sono passati dal 4,4 al 7,3% della popolazione, nel 2017 sono stati l’8,3%. L’aumento della povertà assoluta colpisce soprattutto il Sud, dove vive in questa condizione oltre una persona su dieci. L’incidenza stimata dall’Istat, nel Sud Italia, sale da 8,5% nel 2016 a 10,3% nel 2017, per le famiglie, e da 9,8% a 11,4% per gli individui. Il peggioramento riguarda soprattutto chi vive nelle città principali (da 5,8% a 10,1%) e nei comuni di minori dimensioni, fino a 50 mila abitanti, (da 7,8% a 9,8%). Vive in povertà assoluta, pur avendo un lavoro, l’11,8% delle famiglie degli operai in Italia e il 6,1% di quelle dei lavoratori in generale. È il fenomeno dei “working poor”, infatti l’incidenza della povertà assoluta nelle famiglie operaie, osserva l’Istat, “è più che doppia rispetto a quelle delle famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro”. Il rischio di povertà cresce all’aumentare dei figli minori presenti in famiglia: l’incidenza si attesta al 10,5% tra le famiglie con almeno un figlio e raggiunge il 20,9% tra quelle con tre o più figli. Dal report dell’Istat emerge anche un altro dato: la povertà continua ad aumentare tra le fasce più giovani e così aumenta anche il divario di reddito tra generazioni e inter-generazionale. In Italia, nel 2017, sono vissuti in povertà assoluta 1 milione e 208 mila minori. La povertà economica alimenta, poi, la povertà educativa e viceversa, un circolo vizioso, che non è però irreversibile. Negli anni 60-70 la scuola era percepita come “ascensore sociale” che aiutava chi non aveva la fortuna di nascere nella famiglia giusta o nel luogo giusto a “spezzare la catena”. Oggi, quando l’accesso all’istruzione è alla portata di tutti, i bambini delle famiglie più povere, rispetto ai loro coetanei, hanno una maggiore probabilità di abbandonare precocemente la scuola e non raggiungere mai i livelli minimi di apprendimento, rimanendo nella stessa condizione sociale dei genitori o addirittura scendendo ad un gradino più basso. Di qui la necessità d’investire di più nell’ istruzione. Il vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio, citando i dati dell’Istat e il commento sul reddito di cittadinanza della Corte dei Conti, ha scritto su Fb: “Record di poveri in Italia! Il reddito di cittadinanza è un diritto da riconoscere subito!”
DALLA STORIA
Aimé Césaire, cantore della “negritudine”.
Aimé Césaire era nato il 26 giugno 1913 a Basse-Pointe, nell’allora colonia martinicana. Terminati gli studi secondari si traferisce a Parigi dove frequenta la prestigiosa Ecole Normale Supérieure. In questo periodo legge con avidità Rimbaud, Lautréamont, Eluard, Gide e Proust. Lì nel Quartiere Latino conosce un altro giovane “poeta negro”, Léopold Sédar Senghor, un po’ più vecchio di lui, nato nel 1905. E, come racconta Giulio Stocchi, nell’ambito del Festival della Storia sul tema “Di che Razza sei? Un mito pericoloso”, di Angelo D’Orsi, inizia tra i due poeti un viaggio di conoscenza attraverso la potenza del linguaggio poetico. Senghor apparteneva a una famiglia nobile, africana, del Sénégal, discendente da capi tribù, proprietari terrieri, stregoni. Al contrario Césaire apparteneva a una famiglia umilissima che però aveva avuto modo di mandare il giovane studente a Parigi, a studiare letteratura. I due giovani si scambiano le poesie e scoprono di avere al centro dei loro interessi, nei versi che scrivono, gli stessi temi: la dignità e l’umanità. All’epoca era impensabile parlare della dignità del “negro”, incredibile a dirsi. La loro non era una poesia di rivendicazione o di protesta politica contro “i bianchi”; i loro versi parlavano dei “negri” come uomini che amavano, odiavano, sognavano, speravano. Da qui nascerà quel movimento poetico-letterario della “negritudine”, nozione che diventerà l’emblema dell’identità del popolo africano, l’orgoglio delle proprie origini e l’affermazione della propria storia contro l’omologazione a cui costringeva il colonialismo. I due fondano una rivista, “L’étudiant noir”, (“Lo studente nero”)” e, come se un invisibile tam-tam avesse dato l’avvio, arrivano poesie dai ogni parte del mondo di autori neri francofoni: dal Sénegal con Diop, dal Madagascar con Rabirévalo, da Haiti con Roumain, dalla Guyana francese con Damas, e tanti altri che parlano della stessa cosa: la dignità dei “negri”. Ora i “negri” non sono più argomento di dissertazione sotto lo sguardo dei “bianchi”, ma prendono la parola in prima persona. Il popolo nero: milioni di persone sotto il giogo coloniale in America, nei Caraibi, nei paesi africani le cui frontiere non avevano nessun riconoscimento geografico. L’Africa, che era stata spartita dopo il Congresso di Berlino del 1894-95 in base agli interessi delle potenze coloniali europee scopre, nel canto dei suoi poeti, la dignità e la bellezza della loro pelle che non viene più considerata un marchio di infamia, ma come un segno di distinzione e di identità. Dai versi dei suoi poeti nasce l’orgoglio della e per la cultura nera. Sartre, sebbene critico per altri assunti filosofici rispetto alla “negritudine”, di fronte all’oltraggio fisico, mentale, culturale e tutto quello che sappiamo della schiavitù (delle navi negriere, degli “strani frutti” (“Strange fruit”, Billie Holliday) che penzolavano dagli alberi, neri impiccati solo per il colore della loro pelle per il piacere dei razzisti “bianchi” fino agli anni Sessanta del Novecento e vittime di tutto il male che degli esseri umani possono infliggere ad altri esseri umani ove li considerino degli inferiori), dice che questo profondo oltraggio patito dai neri nel corso della loro storia è tale che solo il fatto che costoro affermassero la propria umanità assumeva un valore non solo politico, ma rivoluzionario. Sartre vede nella poesia dei neri l’unica poesia rivoluzionaria, anzi “evangelica”, in cui i poeti neri cantando se stessi definiscono la coscienza di essere neri. Il grande canto della negritudine va al di là del puro dato biologico e si riferisce piuttosto a una delle forme della condizione umana. La “negritudine” assomma tutti i valori spirituali, artistici e filosofici dell’essere neri e porterà Césaire a lottare per l’autonomia della Martinica e a combattere il complesso di inferiorità che il colonialismo impone ai popoli ad esso assoggettati. Celebre è il suo “Discorso sul colonialismo” accolto nel 1955 come un manifesto di rivolta in cui si legge: “La colonizzazione disumanizza l’uomo, persino il più civilizzato; l’azione coloniale, l’impresa coloniale, la conquista coloniale, fondata sul disprezzo dell’uomo indigeno e giustificata da questo disprezzo, tende inevitabilmente a modificare colui che la intraprende; il colonizzatore che, per mettersi in pace la coscienza, si abitua a vedere nell’altro la bestia, si riduce a trattarlo come un animale, tende oggettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia”. “Césaire ha, inoltre, criticato l’interpretazione-umanista-civilizzatrice del colonialismo” come spiega Maddalena Celano, “poiché questa continua a negare l’umanità dei popoli colonizzati, realizzandosi come l’antitesi dell’umanesimo, in cui si sottolinea il dis-valore degli esseri umani non-europei o non nord-americani. Egli ha fatto riferimento alla teoria marxista criticando la “borghese cultura europea”, sottolineando come il capitalismo sia destinato alla disintegrazione. L’allusione più importante al marxismo appare verso la fine del testo quando scrive, “è una nuova società che dobbiamo creare, con l’aiuto di tutti i nostri fratelli schiavi, una società ricca, con tutta la potenza produttiva dei tempi moderni …”. Del 1939 è invece il “Diario del ritorno al paese natale” la sua raccolta più nota, dove appare per la prima volta il termine “negritudine”. Nel dopoguerra André Breton, il fondatore e massimo esponente del Surrealismo francese, innamoratosi del libro, trovato sullo scaffale di uno spaccio in Martinica, nel 1942, in fuga dall’Europa in fiamme, ne scriverà la prefazione consacrando Césaire come un grande poeta surrealista e contribuendo ad attirare l’attenzione degli intellettuali francesi verso la poesia nera. Il suo profondo attaccamento all’Africa non si limitò solo agli scritti. È stato sindaco di Fort-de France e deputato del dipartimento francese d’oltremare per oltre cinquant’anni. Ha vissuto gli ultimi anni in Martinica, senza rinunciare completamente alla politica come durante la presa di posizione contro il Ministero degli Interni francese, a proposito dei movimenti di protesta degli immigrati in Francia nel 2005-2006. Césaire è infine morto il 17 aprile 2008 a Fort-de France all’età di 94 anni.
Mary Titton
25 giugno
PRIMO PIANO
Ballottaggi: trionfa il centrodestra, sconfitta del Pd, M5s tiene.
Domenica 24 giugno, dalle 7:00 alle 23:00, si è votato in 75 comuni italiani, l’affluenza alle urne, in calo, è stata del 47,61% rispetto al 60,42% del primo turno, senza contare gli 8 Comuni della Sicilia, dove l’affluenza è stata ancora più bassa, del 40,10% contro il 60,78% di 2 settimane fa. E’avanzata la coalizione di centrodestra, trainata dalla Lega, che si è aggiudicata Pisa, Massa e Siena, roccaforti toscane del PD, che vince però ad Ancona, Teramo e Brindisi. Un vero e proprio ribaltone quello avvenuto in Toscana, che non può più considerarsi una regione “rossa” dopo che Pisa, Siena e Massa sono passate in blocco al centrodestra, che conquista anche Terni, con il candidato sindaco Leonardo Latini, militante della Lega, e Sondrio con Marco Scaramellini. Il M5s vince ad Avellino ed Imola, dopo 73 anni di dominio della sinistra, ma perde Ragusa, dove ha amministrato per 5 anni. In controtendenza la Puglia, dove l’unica vittoria del centrodestra si registra a San Nicandro Garganico, nel Foggiano. Oltre a Brindisi, unico capoluogo di provincia dove il centrosinistra ha vinto con il ricercatore dell’ Enea Riccardo Rossi alla guida di una coalizione composta da Pd, Leu e civiche di sinistra, una vittoria significativa del centrosinistra si registra ad Altamura (Bari), dove, dopo 20 anni di sindaci espressioni delle destre, ha vinto con il 54,7% Rosa Melodia, 52 anni, avvocato, che ha battuto Giovanni Saponaro, candidato del centrodestra. Nel III municipio di Roma vince il candidato del centrosinistra, Giovanni Caudo. Cateno De Luca, sostenuto da liste civiche, è a sorpresa il nuovo sindaco di Messina, avendo sconfitto il favorito del centrodestra Dino Bramanti. L’ex ministro Claudio Scajola è poi il nuovo sindaco di Imperia, dopo aver sconfitto il candidato del centrodestra Luca Lanteri, indicato dal governatore Giovanni Toti.
DALLA STORIA
William Hope Hodgson … e il “suo” Mare dei Sargassi.
Tra le letture estive, intrappolati nelle soffocanti città arse dal caldo, bagnate da un’umidità che sempre più rimanda alle condizioni climatiche dei paesi tropicali, nelle pause di relax strappate a un lavoro compulsivo, anch’esso peggiorato rispetto al passato recente, è piacevole ritrovarsi tra le mani un libro d’avventura, abbandonarsi a letture di evasione che eccitano la mente e l’immaginazione. “L’orrore del mare”, di William Hope Hodgson (autore tra più affascinanti e suggestivi della letteratura a cavallo tra l‘800 e il ‘900 sui racconti di mare e altro), più che una lettura è un viaggio in un mondo fantastico e … forse un mondo meno immaginario di quanto si pensi. Nel libro Hodgson, genio visionario, fa sorgere dalle profondità del mare degli esseri mostruosi e soprannaturali che non è possibile in alcun modo controllare; i personaggi cui egli dà vita sono costretti ad affacciarsi ogni volta sul baratro dell’ignoto dove la realtà e i simboli si fondono in un insieme terrorizzante. “Durante la sua vita, William Hope Hodgson fu definito “uno scrittore su cui si è posato il manto di Poe”. H.P. Lovecraft, il più importante scrittore americano di Horror dopo Poe, lo definì secondo solo ad Algernon Blackwood nel delineare l’irrealtà. “Pochi lo eguagliano”, scrisse Lovegraft, “nell’adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel comunicare le sensazioni dello spettrale e dell’anormale legati ai luoghi”. Così scrive Gianni Pilo nella prefazione che presenta il libro nell’edizione del giugno 1993, New Compton Editori e prosegue: “Lovecraft, poco prima della sua morte, avvenuta nel 1937, scrisse di essere rattristato dal fatto che le opere di Hodgson fossero “conosciute molto meno di quanto meriterebbero”. Solo negli ultimi anni, dopo la ristampa dei suoi racconti, ad Hodgson è stata tributata la fama che non ottenne quando era ancora vivo”. La vita stessa di Hodgson è un racconto d’avventura, piena di pericoli, di viaggi, di esperienze portate al limite e di azioni temerarie e coraggiose. Un uomo dalla tempra d’acciaio, forgiato da indicibili difficoltà e fatiche fisiche che condivideva con la maggioranza dell’umanità comune di allora, condizioni di vita per noi, oggi, inimmaginabili. “Egli nacque nell’Essex, in Gran Bretagna, nel 1877. Figlio di un pastore protestante, alla morte del padre, a soli quattordici anni, William andò a Liverpool e s’imbarcò come mozzo su un veliero mercantile che compiva traversate oceaniche. Era una vita difficile e qualche anno dopo, in un’intervista al Blackburn Times egli ricordò: “Ero un ragazzino dal fisico non molto robusto, ed ebbi la sfortuna di essere alle dipendenze di un Secondo Ufficiale del tipo peggiore che mi potesse capitare. Era brutale e, sebbene possa dire in tutta sincerità di non avergliene mai dato motivo, mi puniva spesso. Rese la mia vita così miserabile che alla fine raccolsi il coraggio sufficiente per ribellarmi ed attaccarlo”. Fu in tutto e per tutto come una lotta tra un mastino ed un terrier, perché il Secondo Ufficiale era forte e sapeva come punirmi. Naturalmente, mi toccò una misericordiosa fustigazione”. L’incidente avviò William al suo hobby più importante. Divenne un cultore dello judo e fu ossessionato dallo sviluppo del corpo. Studiò la scienza dell’interazione dei muscoli, un interesse che gli procurò una certa notorietà. Nell’ottobre del 1902, il grande contorsionista, Harry Houdini, si esibì al Blakburn Theatre. Aveva sconcertato la Polizia di Blackburn, scappando con facilità dalla prigione per fare pubblicità alla propria esibizione. Il 24 ottobre, Houdini lanciò una sfida al pubblico in sala: qualcuno doveva legarlo in modo che non potesse liberarsi. Hodgson saltò sul palcoscenico. Aveva dei lacci speciali che gli aveva prestato la polizia locale. Questi lacci e la sua perfetta conoscenza dell’interazione dei muscoli, gli permisero di legare Houdini in modo tale che il contorsionista impiegò due ore a liberarsi. Nessun altro è mai riuscito a tenere imprigionato Houdini per tanto tempo. Quando era imbarcato, Hodgson si era dedicato anche alla fotografia che prediligeva fin da quando era ragazzino. Divenne un noto cultore di quest’arte, fotografando cicloni e uragani. Dopo otto anni trascorsi in mare decise che era “una vita da cani”. Nel frattempo aveva ottenuto il grado di terzo ufficiale ed era stato insignito dalla Royal Human Society della medaglia per atti di eroismo. Infatti, al largo delle coste della Nuova Zelanda, si era tuffato nelle acque infestate da squali per salvare il Primo Ufficiale della sua nave dall’annegamento.
(Dal Giornale di bordo di William Hodgson, una sua illustrazione.1819-1821)
A ventidue anni tornò a Blackburn dove aprì la “Scuola di Cultura Fisica W.H. Hodgson”; gli agenti della Polizia locale divennero i suoi migliori clienti. Ben presto, Hodgson si guadagnò anche la fama di essere il personaggio più eccentrico della città a seguito di una prodezza che fece affrontando una ripidissima scalinata in bicicletta. Il “Telegraph” riferisce: “La prudenza, naturalmente, avrebbe richiesto una deviazione. Ma ci sono uomini per i quali la paura è una qualità sconosciuta e il pericolo è solo un elemento da conquistare. Uno di questi uomini è il signor W.H. Hodgson, il noto professore di cultura fisica che, questa mattina, ha disceso in bicicletta la ripida scalinata, senza rompersi il collo!”. Nel 1903, Hodgson fece il suo primo tentativo di scrivere … articoli di cultura fisica e di fotografia, per i quali trovò un mercato favorevole. L’anno seguente, passò alla narrativa e scrisse un breve racconto dal titolo “La Dea della Morte” che venne pubblicato dal “Royal Magazine”. Fu la seconda storia a far guadagnare a Hodgson fama e rispetto da parte degli scrittori professionisti e degli editori. S’intitolava: “A Tropical Horror” e fu pubblicata dal “Grand Magazine” (fondato per emulare il più popolare “Strand”). J. Greenhough Smith, editore e noto critico letterario del tempo, scrisse: “Benché questa storia, un racconto del terrore sul mare, possa essere troppo raccapricciante per il gusto di qualcuno è scritta con grande maestria e con un certo realismo che attira e trattiene l’attenzione del lettore in un modo che ricorda le cose migliori di Defoe”. Hodgson chiuse la Scuola di Cultura Fisica e si trasferì a Revidge. Cominciò a guadagnarsi da vivere con il giornalismo e l’attività di conferenziere. Scrisse anche degli articoli di denuncia sulle condizioni di vita e di lavoro a bordo delle navi mercantili. Sul “The Grand Magazine”, nel settembre del 1905, scrive: “Non mi sono imbarcato perché disapprovo il cattivo trattamento, il cibo cattivo, la paga cattiva e le prospettive ancora peggiori. Non mi sono imbarcato perché ho scoperto molto presto che sulle navi si vive una vita scomoda, stancante e ingrata, una vita così piena di difficoltà e di squallore che la gente a terra può difficilmente immaginarsela. Non mi sono imbarcato perché non mi piace essere una pedina con il mare come scacchiera e gli armatori come giocatori”. In seguito pubblicò molti altri racconti e romanzi: “Dal mare senza maree” fu una pietra miliare nella sua carriera di scrittore perché fu la prima storia sulle leggende del “Mar dei Sargassi”. La maggior parte dei suoi racconti d’orrore sul mare sono ispirati alle leggende del Mar dei Sargassi. In questo modo Hodgson creò tutto un mondo, immaginario ma vivido, di terrore. La sua “geniale” letteratura proseguì con “L’equipaggio del Glen Carrig”, del 1907, “… È ricco di un’immaginazione che ci ricorda quella di H.G. Wells …” scrisse il Daily Telegraph. Seguirono “La Voce nella Notte”; “La Casa sull’abisso”, del 1908. Lovecraft, che fu molto influenzato da Hodgson, considerava, quest’ultimo, il migliore dei suoi lavori e ad esso s’ispirò per ideare il suo “Ciclo di Cthulhu”. “I Pirati Fantasma”, del 1909: “Non c’è nessun altro libro che possa paragonarsi a questo, in tutta la letteratura contemporanea”, osservò il critico del Bookman.
Ma i racconti non gli procuravano denaro, Hodgson passò perciò ai racconti polizieschi, in un periodo in cui decine di scrittori cercavano di emulare il successo di Sherlock Holmes di Conan Doyle. Nella rivista “The Idler”, lo scrittore inventò un nuovo tipo di detective, Carnacki. Era un “investigatore dell’occulto”, un detective psichico che lottava con forze provenienti dall’Altro Mondo. “La Strada per il Mondo”, del 1910 fu il primo racconto. L’ultima storia di Carnacki apparve nel 1912 e, nel 1913, “Nash” pubblicò tutte le storie di Carnacki, con il titolo: “Carnacki: il Cacciatore di Fantasmi. Tra il 1910 e il 1911, Hodgson scrisse quella che considerava la sua opera migliore “La Terra della Eterna Notte” che la critica commentò in maniera entusiasmante: “Notevole sotto ogni aspetto … una volta che si comincia a leggerlo non si riesce più a smettere”; “Un romanzo di notevole immaginazione e di originalità sorprendente”; “Un serio contributo alla storia della letteratura”; e lo stesso Lovecraft lo descrisse come: “Una delle opere più potenti di immaginazione macabra mai scritte.” Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Hodgson, benché avesse quasi quarant’anni si offrì per il servizio militare e come volontario per il servizio attivo. In seguito venne congedato per le gravi conseguenze di una caduta da cavallo durante l’addestramento da Ufficiale di artiglieria; due anni dopo, guarito e nonostante non avesse più alcun obbligo militare, chiese nuovamente di potersi arruolare e partì per il fronte francese. Morì in combattimento in Francia, durante un bombardamento di artiglieria, nell’aprile del 1918. Per tutta la vita aveva scritto poesie. Nel 1920, Selwyn e Blount pubblicarono due collezioni di suoi versi. In uno di questi poemi il sorprendente autore britannico aveva scritto:
“Sto morendo, e il mio lavoro mi è davanti
Come una matita spezzata da un coltello. Così mi ha spezzato il filo crudele
Del pensiero dalla lama affilata, che foggiò la mia vita,
E che mi rese pronto e avido di parlare davanti a Te.
Ed ora muoio, preparato tanto da cantare.
Mary Titton
24 giugno
PRIMO PIANO
Formula 1, Gp di Francia: vince Hamilton, grande rimonta di Vettel, quinto.
Hamilton su Mercedes ha vinto, a Le Castellet, il Gp di Francia, precedendo la Red Bull di Verstappen e la Ferrari di Raikkonen. Nella gara che vede, dopo 10 anni, la ricomparsa della Formula 1 su un circuito transalpino, il campione del mondo della Mercedes è davanti a tutti dall’inizio alla fine, mentre alle sue spalle Sebastian Vettel sbaglia alla partenza entrando in collisione con Bottas. Hamilton ha frenato di colpo, costringendo il pilota della Ferrari a fare altrettanto, di qui la collisione con Bottas che arrivava da destra. Vettel è costretto a cambiare l’ala anteriore e le gomme. Rientra anche Bottas con una gomma posteriore forata dopo il contatto con il pilota tedesco. Safety car in pista, Hamilton al comando davanti a Verstappen e Sainz, seguono Ricciardo, Magnussen, Leclerc e Raikkonen, partito malissimo. Vettel 17°, 18° Bottas. La safety car rientra dopo 5 giri e Vettel si trova sedicesimo davanti a Bottas. Vettel cerca la rimonta ad ogni costo ed è anche protagonista di un contatto con Alonso, che va in testacoda. Vettel dopo l’incidente con Bottas è sotto investigazione e al 10° giro viene penalizzato di 5 secondi. Il pilota tedesco cerca di recuperare al massimo e al 14° giro si trova già in nona posizione, poi si libera di Magnussen ed è sesto, al 20° giro supera anche Sainz e va a 17 secondi dal quarto posto del compagno di squadra, Raikkonen. Al 29° giro pit-stop per Ricciardo, che Vettel supera dopo la sosta ai box, ma ha le gomme so usurate e Ricciardo si riprende il terzo posto dietro a Verstappen. Al 35° giro Raikkonen si ferma ai box e rientra in pista quinto, alle spalle di Vettel che lo deve lasciar passare. Al 41° giro Vettel cambia pneumatici e rientra quinto dopo aver scontato anche la penalizzazione. Al 42° giro il più veloce è Raikkonen, che guadagna 2 secondi su Ricciardo e poi si mette in scia e lo supera. Hamilton primo, poi Verstappen, Raikkonen, Ricciardo, Vettel e Bottas. Al 51° giro esplode la gomma di Stroll (Williams): detriti in pista e divieto di sorpasso con arrivo praticamente in successione. Con questa vittoria Hamilton si riprende il primato in classifica andando a +14 su Vettel.
22 giugno
DALLA STORIA
Anne Spencer Morrow Lindberg, la prima donna pilota.
“Perfino ora considero il volo come un rifugio: scivolare con gli uccelli sulle correnti d’aria, il cielo una vasta cattedrale silenziosa che mi circonda” (Anne Morrow Lindbergh).
Avventuriera intrepida Anne Morrow, moglie del leggendario aviatore Charles Lindbergh, è stata la prima donna ad ottenere, nel 1930, la licenza di pilota di aviazione. Vestita di tuta bianca e con una fascia bianca intorno al capo, al comando di un Albatros Bowlus Modello A, fu lanciata, nei dintorni di San Diego, da un monte di 800 metri; attraversò la strada che si trovò di fronte per due volte e poi atterrò: in tutto sei minuti di volo ma sufficienti per ottenere la licenza che le fu consegnata poche ore dopo. Anne era nata il 22 giugno 1906, nel New Jersey, in una famiglia ricca. Il padre, prima socio di una famosa finanziaria divenne in seguito ambasciatore statunitense in Messico e senatore repubblicano del New Jersey. La madre era una scrittrice, educatrice e presidente del Saint Smith College. Nel 1927, Anne conobbe Charles Lindbergh, durante una visita dell’aviatore all’Ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico, subito dopo la celeberrima attraversata dell’ Atlantico: per primo, tra il 20 e il 21 maggio, Lindbergh volò senza scalo da New York a Parigi percorrendo 5.750 Km. in 33 ore e 29 minuti a bordo dello “Spirit of St. Louis”, un piccolo monoplano, pesante poco più di mille chili. Due anni dopo, dopo essersi laureata in letteratura, Anne convola a nozze con il celebre aviatore. Nel 1932 il primo figlio della coppia, Charles A. Lindbergh III, viene rapito e, nonostante il pagamento del riscatto, attraverso un’ingente somma, il piccolo, di soli venti mesi, viene trovato morto dopo qualche settimana. Il rapimento e il successivo processo Hauptmann ebbero amplissima risonanza nell’opinione pubblica statunitense; la linea telefonica e il radiotelegrafo vennero potenziati per soddisfare le esigenze della stampa. Il caso Lindbergh divenne perciò uno dei fatti di cronaca nera più clamorosi del Novecento. Agatha Christie si ispirò ad esso per descrivere il rapimento di Daisy Armastrong nel suo bestseller “Assassinio sull’Orient Express”. Nel 1934, la Morrow riceve dalla National Geographic Society, unica donna, la Hubbard Gold Medal per aver effettuato 40.000 miglia di esplorazione aerea sui cinque continenti insieme al marito, come copilota e per la passione con cui coltivava lo spirito di conoscenza e avventura.
Si rivelerà un’instancabile annotatrice di bordo e, i libri di memorie sulle loro pionieristiche avventure di volo, la consacreranno una romanziera di successo: “North to the Orient”, del ’35 riceve il National Booksellers Award come il più interessante libro di non-fiction dell’anno, nel ’38 “Listen! The wind” diventa un bestseller nonostante la crescente impopolarità del marito tra gli antifascisti americani per le sue simpatie filonaziste e il rifiuto di alcuni librai ebrei di tenere il libro in negozio. In questo periodo i Lindbergh, trasferitisi in Europa, saranno al centro di uno scandalo; Anne alimenta pettegolezzi e cronache rosa invaghendosi di Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e aviatore come lei, autore del celeberrimo romanzo “Il Piccolo Principe” che la seduce coi suoi progetti d’avventure. I Lindbergh, comunque, non divorzieranno. Anne nel ’44, ormai madre di quattro figli, pubblica “The steep ascent”; è il primo insuccesso editoriale, in gran parte dovuto all’ostilità verso la politica prebellica della famiglia Lindebergh. Il ritorno in America non fu facile: peserà, inoltre, la pubblicazione di “The wave of the future” che la scrittrice pubblicò durante il periodo prebellico e bellico dichiarandosi, insieme al marito, completamente contro la politica americana interventista convinta che, solo il nazismo potesse bloccare l’espansione sovietica. Anne continuerà a scrivere anche dopo la morte del marito avvenuta alle Hawaii nel 1974; pubblicherà altri nove libri, tra cui autobiografie, romanzi e raccolte di poesie. Negli anni ’90, l’intraprendente aviatrice è stata inserita nella National Women’s Hall of fame ed è stata iscritta all’albo internazionale “Delle Donne dei pionieri dell’Aviazione”. Muore nel 2001, all’età di 94 anni, nella sua casa nel Vermont.
Mary Titton
21 giugno
PRIMO PIANO
Il solstizio d’estate:il giorno più lungo dell’anno.
Il 21 giugno è il giorno del solstizio d’estate, che quest’anno cade alle 12:07 italiane: il giorno più lungo dell’anno durerà 15 ore e 15 minuti e “sarà seguito dalla notte più corta, che darà la possibilità di ammirare la Luna al primo quarto e diversi pianeti”, spiega Paolo Volpini dell’Unione Astrofili Italiani. IL solstizio d’estate rappresenta il momento in cui il Sole, nel suo moto apparente, raggiunge il punto più alto rispetto all’orizzonte, offrendo il massimo numero di ore di luce possibili nell’arco di una giornata.L’evento astronomico ritarda ogni anno di circa 6 ore rispetto all’anno precedente a causa dello spostamento dell’asse di rotazione della Terra e si riallinea forzosamente ogni quattro anni in corrispondenza dell’anno bisestile, introdotto per evitare la progressiva divergenza delle stagioni dal calendario. Per questo motivo il solstizio può capitare il 20 o il 21 giugno. Dice ancora Volpini: “Il Sole passa dalla costellazione del Toro a quella dei Gemelli, mentre le più belle congiunzioni tra Luna e pianeti avverranno soprattutto nelle prossime settimane”. Si potranno osservare Saturno e Mercurio, ma anche Giove, visibile per tutta la notte, Venere e Marte. Come ogni anno migliaia di turisti e fedeli di culti pagani, tra cui anche i druidi, hanno atteso l’alba a Stonehenge. Il 21 giugno, giorno più lungo dell’anno, è, infatti tradizione visitare il luogo nella contea di Wiltshire, nel sudovest dell’Inghilterra. Si ritiene che la costruzione di Stonehenge, aggiunto alla lista Unesco dei patrimoni dell’umanità nel 1986, iniziò intorno al 3000 a.C., subendo numerosi interventi nel corso dei secoli che hanno alterato la disposizione originale delle grandi pietre. I raggi del sole hanno centrato alle 4:52 ora locale, le 5:52 in Italia , la grande pietra (Hill Stone) indicata come antico ingresso dello Stone Circle, dove si ritiene che il solstizio sia stato celebrato per migliaia di anni.
DALLA STORIA
Jean-Paul Sartre e il suo esistenzialismo.
Jean-Paul Sartre, una delle menti più acute del Novecento per le idee anticonformiste e anti-borghesi divenne un punto di riferimento della contestazione del Sessantotto e un’icona giovanile universale. Nato a Parigi, il 21 giugno 1905 e qui morto nell’aprile del 1980 si accreditò tra i maggiori esponenti dell’esistenzialismo riprendendone nei suoi testi la solitudine dell’Io di fronte al mondo e il senso di precarietà dell’esistenza. Fautore del ruolo di intellettuale impegnato e di idee socialiste, diffuse le proprie convinzioni attraverso la rivista da lui fondata nel 1945, “Les Temps Moderns”, tuttora considerata tra le più autorevoli riviste francesi a livello internazionale. Insignito nel 1964 del Nobel per la letteratura “per la sua opera, ricca di idee e pregna di spirito di libertà e ricerca della verità ha esercitato un’influenza di vasta portata nel nostro tempo”, lo rifiutò convinto che “nessun uomo merita di essere consacrato da vivo” e lo stesso fece per la “Legion d’onore” e per la cattedra al Collège de France. L’etichetta di “esistenzialista”, come è noto, non se l’era scelta Sartre, il quale anzi protestò subito appena si accorse che i giornalisti l’avevano affibbiata alla sua ideologia. Ma finì ben presto per accettarla, rendendosi conto che non aveva nessun diritto di rifiutare il modo in cui gli altri lo vedevano e di cui, alla fin fine, egli era il solo responsabile. Così, nel 1945, in una conferenza sul tema “L’esistenzialismo è un umanesimo”, Sartre si preoccupa di precisare in che senso vada inteso il termine, che era diventato in breve tempo così generico “da non significare più nulla” o meglio, “da significare le cose più assurde”. La conferenza fu annunciata con grande pubblicità sui principali quotidiani; gli organizzatori, dubbiosi circa l’affluenza del pubblico, rimasero sbalorditi di fronte a quello che si verificò essere un evento storico. Boris Vian fece un riassunto su “L’Écume des jours”: spintoni, sedie rotte, svenimenti di donne, Sartre costretto ad aprirsi un varco a gomitate per raggiungere il palco. L’esistenzialismo era nato. Sartre e Simone de Beauvoir sarebbero divenuti gli idoli di una generazione intera. Tuttavia non era previsto di farne una pubblicazione. Questa fu intrapresa dall’editore Nagel, nel 1946, senza l’accordo di Sartre. Tuttavia nella pubblicazione Sartre vi presentò il suo esistenzialismo e rispose alle critiche avanzate da pensatori cristiani o marxisti e in particolare dai comunisti a cui desiderava riavvicinarsi. Costituisce un’introduzione “estremamente chiara”, benché semplice, all’esistenzialismo e può essere letto senza la minima difficoltà anche da persone non abituate a testi filosofici più complessi. Ma l’eccessiva semplicità di questo testo ha condotto Sartre a rinnegarlo filosoficamente. A rigore, non può costituire altro che una introduzione al suo pensiero. “L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso e pur tuttavia libero perché una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa”. (da “L’esistenzialismo è un umanesimo”).
(Copertina dell’edizione originale)
Il pensiero di Sartre rappresenta il vertice dell’esistenzialismo del Novecento e resta interessante per il suo sforzo di coniugare il marxismo e il comunismo con il rispetto della libertà di tipo umanistico, l’individualismo con il collettivismo e il socialismo, ideali spesso infranti con la realtà storica. Oltre ad Husserl ed Heidegger, Karl Marx esercita una forte influenza su di lui soprattutto nella fase successiva al 1950. “Lungi dall’essere esaurito, il marxismo è ancora giovanissimo, quasi nell’infanzia: ha appena cominciato a svilupparsi. Esso rimane dunque la filosofia del nostro tempo: è insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono ancora superate”. Pur mantenendo, durante la terza fase del suo pensiero, lo storicismo dialettico e il materialismo storico, Sartre sostiene la preminenza del libero arbitrio sul determinismo. L’esistenzialismo sartriano può essere definito una filosofia della libertà, della scelta e della responsabilità. L’uomo deve inventare la propria vita e il proprio destino, deve costruire i propri valori, non c’è un’essenza dell’uomo che prefiguri la sua esistenza, non ci sono norme, leggi, autorità che predeterminano il suo comportamento. Solo i benpensanti, i farisei, i “salaudos” che rifiutano la responsabilità di un’esistenza libera, credono in una necessità esterna all’uomo, in una stabilità delle cose, in un ordine metafisico che presiede alla vita della natura e della società. I benpensanti rifiutano le esperienze radicali e rivelatrici del nulla, della nausea, dell’angoscia che Sartre ritiene fondamentali per provocare nell’uomo la crisi da cui emerge l’esigenza della libertà e dei valori. Nell’impegno politico, Sartre è sempre stato generoso sino al rischio completo. Nel 1947 aveva persino tentato di fondare un partito, il “Rassemblement Démocratique Révolutionnaire”: era naturalmente un partito d’accento marxista, ma privo d’impostazione classista, ed ebbe vita effimera. Comunque Sartre continuò a manifestarsi uomo coraggioso e leale, nella varia e difficile contingenza politica della Francia e del mondo contemporaneo, lottando senza quartiere contro ogni razzismo e ogni oppressione. In queste occasioni, Simone de Beauvoir è sempre rimasta al suo fianco come compagna, seguace, amica, interlocutrice, “complice”. Sartre si schiera via via contro le guerre d’Indocina e di Algeria, a favore degli insorti ungheresi nella rivolta di Budapest e della causa castrista nella Rivoluzione cubana. Dopo un lungo declino fisico prematuramente logorato per la sua costante iperattività letteraria e politica, oltre che a causa del tabacco, dell’alcool assunto in grandi quantità e delle droghe che lo mantengono in forma e gli permettono di mantenere il suo ritmo di lavoro, Sartre muore di edema polmonare a Parigi, il 15 aprile 1980: il presidente Valéry Giscard d’Estaing propose i funerali di stato e la tumulazione immediata al Pantheon ma la famiglia rifiutò non ritenendo ciò in linea con la personalità di Sartre. Nella sua autobiografia “Le parole”, del 1964, Sartre commentava: “la scrittura non redime. La cultura non salva gli esseri umani, non giustifica la loro presenza sulla terra”.
Mary Titton
20 giugno
PRIMO PIANO
Al via la maturità 2018.
Oggi sono iniziati gli Esami di Stato con la prima prova scritta, quella di italiano. Gli studenti ammessi, circa mezzo milione, hanno potuto scegliere tra quattro tipologie di tracce, uguali per tutte le scuole d’Italia: per l’analisi del testo, dopo il toto tracce della vigilia, è uscito un brano de “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani, che, scelto dal 18,5% degli studenti, ha offerto loro la possibilità “di riflettere, a ottanta anni dalla promulgazione delle leggi razziali, sulla drammaticità di quei provvedimenti antisemiti e sulla necessità oggi di combattere ogni forma di discriminazione”, come ha commentato Ruth Dureghello, la presidente della comunità ebraica di Roma. Anche la traccia del saggio breve di ambito artistico-letterario: “I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura”, la più gettonata nei Licei, scelta dal 30,4% dei candidati, ha proposto stimoli alla riflessione attraverso quadri di Edward Hopper, Giovanni Fattori e Edward Munch e i brani del “De vita solitaria” di Francesco Petrarca, di “Ha una sua solitudine lo spazio”di Emily Dickinson, di “ Piccoli canti” di Alda Merini e di “Ed è subito sera”di Salvatore Quasimodo. Interessanti anche le altre tracce del saggio breve: da quella dell’ambito socio-economico su “ La creatività”a quella di ambito storico-politico su “Massa e propaganda”, a quella di ambito tecnico-scientifico sul dibattito bioetico e sulla clonazione. E ancora cooperazione internazionale partendo da un passo di un discorso di Aldo Moro e da un brano dedicato ad Alcide De Gasperi per il tema storico, a 40 anni dal rapimento e dall’uccisione dello statista democristiano. Infine il tema di ordine generale invita a sviluppare l’argomento del principio dell’uguaglianza formale e sostanziale nella Costituzione italiana, di cui ricorrono i 70 anni. Tracce interessanti, come abbiamo detto, ma anche impegnative, richiedenti approfondimenti anche personali di opere, autori, problematiche, che spesso mancano ai candidati, già proiettati verso la seconda prova di domani, 21 giugno: greco al liceo classico, matematica allo scientifico.
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DALLA STORIA
La regina Vittoria del Regno Unito sale sul trono britannico: inizia l’Età Vittoriana.
(La regina Victoria nella foto ufficiale del suo giubileo d’oro del 1887)
Il 22 gennaio 1901, all’isola di Wight, moriva, a 81 anni, Vittoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 20 giugno 1837 e Imperatrice d’India dal 1876 fino alla sua morte. Il suo lunghissimo regno, durato 63 anni, 7 mesi e due giorni, il secondo più lungo della storia del Regno Unito, superato solo dalla sua pronipote, l’attuale regina Elisabetta II, viene anche conosciuto come epoca vittoriana, durante la quale l’Inghilterra attraversa un periodo di stabilità, floridità economica ed espansione commerciale e coloniale, ma vede altresì l’emergere di gravi problemi sociali. Vittoria, che in effetti si chiamava Alexandrina Victoria, ma che aborriva il primo nome al punto da farlo omettere nei documenti ufficiali preparati per l’incoronazione, figlia del principe Edoardo, duca di Kent e Strathearn, quarto figlio del re Giorgio III, morti entrambi nel 1820, salì al trono a diciotto anni, dopo la morte senza discendenza dei suoi tre zii paterni, divenne la prima sovrana a risiedere a Buckingham Palace e risentì molto dell’influenza del primo ministro Whig, Lord Melbourne, fino al 1840, quando sposò un suo cugino di primo grado, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, che, in un primo momento non molto amato dall’alta società inglese a causa delle sue origini tedesche e della sua timidezza, diventò un vero e proprio mentore per la moglie con la sua presenza e i suoi consigli. La regina Vittoria nel suo lungo regno dovette affrontare diverse crisi di governo, da Peel a Palmerston, a Gladstone, quattro volte Primo Ministro, che promosse una prima riforma elettorale, non approvata e ripresa da Disraeli, il quale avanzò un altro progetto di riforma, che allargava il diritto di voto a tutti gli uomini legalmente domiciliati nei “borghi” e fu applicata per la prima volta nel dicembre 1868. Due anni più tardi Gladstone, al governo, fece la prima importante riforma, la Legge sull’Educazione, che prevedeva un sistema scolastico statale e laico, che estromettesse la Chiesa anglicana, nel 1880 l’obbligatorietà fu resa generale e nel 1891 la scuola elementare diventò gratuita. Nel contempo migliorò anche l’istruzione superiore, nel 1871 furono approvate le Leggi di Prova, che aprirono l’accesso a tutti gli uomini di ogni confessione religiosa, eliminando le “prove” religiose imposte precedentemente dalla Chiesa anglicana e anche le donne cominciarono ad accedere all’educazione superiore, anche se non venivano riconosciute come membri delle Università a tutti gli effetti. Negli anni del regno di Vittoria, che subì anche diversi attentati senza conseguenze e la cui popolarità conobbe alti e bassi, soprattutto nel periodo di lutto in cui si chiuse dopo la morte del marito, grande impulso ebbero la cultura e l’architettura con la cosiddetta Battaglia degli stili tra gli ideali del classico e del gotico e la prevalenza di quest’ultimo per il nuovo Palazzo di Westminster, gravemente danneggiato dall’incendio del 1834. Il 1º maggio 1851 venne aperta ufficialmente dalla Regina la prima Esposizione Universale, la Grande esposizione universale di Londra (Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations), che mise in mostra le più grandi innovazioni del secolo: al suo centro il Crystal Palace, un’enorme struttura modulare in ferro e vetro, la prima di questo tipo, successivamente presentata come il prototipo dell’architettura moderna.
(Interno del Crystal Palace. Esposizione Universale, 1851)
La comparsa della fotografia, anch’essa dimostrata per la prima volta alla Grande esposizione, diede impulso a importanti cambiamenti nell’arte vittoriana. John Everett Millais fu influenzato dalla fotografia, soprattutto nel suo ritratto di Ruskin, così come altri artisti preraffaelliti; successivamente fu associata al movimento impressionista e a quello realista, che avrebbero dominato gli ultimi anni del periodo con le opere di artisti come Walter Sickert e Frank Holl. L’Età Vittoriana, accanto ai grandi progressi anche nel campo della tecnica con la progettazione del sistema fognario di Londra e l’introduzione di una rete di gas naturale per l’illuminazione stradale e alla diffusione delle teorie di Darwin sull’origine della specie, divenne nota per l’impiego di minori nelle fabbriche, nelle miniere e come spazzacamini. Il lavoro minorile, dovuto alla povertà delle famiglie, che trasferitesi a Londra dalle campagne vivevano in bassifondi al limite della sussistenza, giocò un ruolo importante fin dall’inizio della Rivoluzione industriale: Charles Dickens, per esempio, lavorò all’età di 12 anni in una fabbrica di lucidi da scarpe, essendo la sua famiglia in prigione per debiti. I bambini dei poveri dovevano aiutare nel sostegno del bilancio familiare, spesso lavorando molte ore in attività pericolose per paghe molto basse. Bambini agili venivano impiegati come spazzacamini, i più piccoli venivano usati per scivolare sotto i macchinari per recuperare i rocchetti di cotone e sempre i bambini venivano fatti lavorare nelle miniere di carbone, strisciando attraverso tunnel troppo stretti e bassi per gli adulti. È stata questa un’età segnata da grandi contraddizioni: da un lato il Positivismo con l’esaltazione del progresso scientifico, la liberalizzazione del commercio e l’ingrandimento dell’impero coloniale, con la sottomissione dell’India, crearono condizioni di prosperità senza precedenti, da cui trasse beneficio soprattutto la classe media, dall’altro la maggior parte della popolazione, composta da operai e da disoccupati, versava in condizioni drammatiche, vivendo in città sovraffollate in cui le più basilari norme igieniche non erano rispettate. Proprio da questa contrapposizione tra prosperità da una parte e povertà dall’altra nasce il termine “Victorian Compromise”. Le stesse grandi contraddizioni caratterizzavano anche la morale dell’epoca: il rigore morale, una rispettabilità di facciata, un puritanesimo spinto al punto che tutte le parole che erano vagamente sessuali furono abolite dalla lingua abituale e la regina Vittoria arrivava a coprire le gambe dei tavoli, si scontravano con costumi libertini, spregiudicati e voluttuosi, senza dimenticare che l’Inghilterra di allora, ormai consacrata Impero, si abbandonava ai fumi dell’oppio che giungeva senza troppi problemi dall’India e criminalizzava l’omosessualità senza riserve. Ne fu vittima anche Oscar Wilde, celebre scrittore e personaggio simbolo di quel periodo controverso, che, coinvolto in un processo per sodomia che all’epoca fece scandalo, fu condannato a due anni di lavori forzati per una legge del 1885 che vietava espressamente i rapporti tra uomini.
(Il lavoro minorile nell’età vittoriana. Alcuni spazzacamini)
Mary Titton
19 giugno
AUGURI FRANCESCO, DA TUTTI NOI!
PRIMO PIANO
Il pianto dei bambini strappati alle famiglie al confine Usa-Messico.
Sono circa 2.000 i piccoli separati dai genitori entrati illegalmente negli Usa. La separazione dei bambini (circa 2.000, di cui oltre 100 sotto i 4 anni) è frutto della politica di “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump. L’Amministrazione Usa difende le sue scelte, ma la registrazione del pianto dei piccoli, diffusa da Pro Publica, alimenta le polemiche sulla linea Trump e il trattamento dei bambini “rinchiusi” in delle gabbie. Per il direttore generale dell’Unicef, Henrietta Fore, le storie di bimbi, alcuni dei quali sono piccolissimi, separati dai genitori mentre cercano sicurezza negli Stati Uniti, sono strazianti, ha dichiarato infatti: “La detenzione e la separazione familiare sono esperienze traumatiche che possono rendere i bambini più vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi e creare stress dannosi che, come hanno dimostrato numerosi studi, possono avere un impatto sullo sviluppo a lungo termine dei bambini.” Fore ricorda pure che per decenni il Governo degli Stati Uniti e la sua popolazione hanno aiutato i bambini rifugiati, richiedenti asilo e migranti in tutto il mondo e spera che l’interesse dei bambini rifugiati e migranti sia considerato primario nella applicazione delle leggi in materia di asilo negli Usa. Trump, però, non cambia idea sui migranti illegali tanto da affermare, parlando ad una platea di imprenditori, “quando persegui i genitori per il loro arrivo illegale bisogna togliere loro i figli”.
DALLA STORIA
William Golding, celeberrimo autore de “Il Signore delle Mosche”.
“Gli uomini producono il male come le api producono il miele”. (William Golding)
(William Golding nel 1957 circa)
Il 19 settembre 1911 nasceva a St. Colomb Minor in Cornovaglia William Golding, sempre in Cornovaglia, a Falmouth, moriva nel 1993. Lo scrittore insignito del Premio Nobel per la Letteratura ricevuto nel 1983, “per i suoi romanzi i quali, con la perspicacia dell’arte di una narrativa realistica e la diversità e universalità del mito, illuminano la condizione nel mondo di oggi” era un maestro elementare di simpatie steineriane. Condusse una vita piuttosto sregolata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale che combatté come ufficiale della Marina britannica. Dopo il congedo riprese a insegnare e a scrivere finché il grande successo ottenuto dal romanzo “Il Signore delle Mosche” gli consentì di abbandonare il lavoro e di ritirarsi, a partire dal 1962, a vivere in campagna nella sua amata Cornovaglia. “Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada lungo la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola, che ora gli penzolava da una mano, la camicia grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno a vapore. Procedeva a fatica tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco: “Ohè! Aspetta un po’!”. Qualcosa scuoteva il sottobosco da una parte del solco, e cadde crepitando una pioggia di gocce”. … Così inizia il romanzo “Il Signore delle Mosche”; il libro che, con il suo enorme successo, 14 milioni di copie vendute nei paesi di lingua inglese, entrò di diritto nella ristretta cerchia delle opere di alta letteratura che sono riuscite a realizzare tirature da bestseller di grandissimo consumo. Il romanzo di esordio dell’allora semisconosciuto William Golding uscì in Inghilterra nel 1954 grazie al caloroso appoggio di T. S. Eliot ma, il grande successo giunse con l’edizione economica negli Stati Uniti nel 1959, che divenne un vero e proprio oggetto di culto soprattutto per il pubblico giovanile. Nel romanzo un gruppo di ragazzi, naufraghi su un’isola tropicale a causa di un incidente aereo, nonostante i primi accordi e comprensioni di tipo democratizzante, in realtà, si scopre capace di generare solo malvagità e violenza. Il gruppo cade preda delle paure e delle insicurezze dei singoli che allentano il controllo razionale e lasciano emergere un’istintualità aggressiva e selvaggia: un’istintualità capace di distruggere qualsiasi forma di collaborazione o solidarietà, fino a un esito tragico che da un certo punto in poi appare davvero ineluttabile. Questa totale sfiducia nelle possibilità di convivenza pacifica dell’uomo è ulteriormente aggravata dal fatto che anche i genitori dei ragazzi sono a loro volta in guerra. Il libro, il cui titolo rimanda all’espressione biblica che indica Satana come il Signore delle Mosche (i ragazzi perdono l’innocenza e scoprono il male), segnò tutta la carriera letteraria dello scrittore britannico. Esso non solo è un atto di accusa nei confronti della fiducia nella ragione, ma anche della fiducia incondizionata nella tecnologia e nel progresso concepito come misura di civiltà. Per contro il libro pone al centro il tema del peccato originale, dei concetti del bene e del male per analizzare una profonda quanto sconsolata riflessione sui fondamenti antropologici della violenza e della brama di potere: la spirale di odio che travolge i ragazzi ha come unico esito possibile il male. Malgrado questa visione critica e negativa della natura umana, resta proverbiale, in Golding l’apprezzamento e la stima che il grande scrittore britannico esprimeva verso le donne, di loro diceva: “Credo che le donne siano pazze a pensare di essere uguali agli uomini. Sono molto superiori, da sempre. Qualunque cosa tu dia ad una donna, lei la migliora. Se le dai dello sperma, lei ti dà un bambino; se le dai un’abitazione lei crea una casa; se le dai del cibo lei crea un pasto; se le dai un sorriso lei ti darà il suo cuore. Le donne moltiplicano e migliorano i doni che ricevono”. Dopo il “Signore delle Mosche”, Golding scrisse numerosi romanzi fra cui “Le due morti di Christopher Martin” (1965), “Caduta Libera” (1959), “La piramide”(1967), “Oscuro visibile” (1979), la trilogia costituita da “Riti di Paesaggio” (1980), “Calma di vento” (1987), “Fuoco sotto coperta” (1989) e un dramma teatrale “Farfalla d’ottone” (1958). “… rimbalzò due volte e si perse nella foresta. Piggy cadde per quindici metri e piombò di schiena sopra quella roccia, rossa, quadrata, nel mare. La sua testa si aprì, ne venne fuori della roba che diventò rossa. Le braccia e le gambe di Piggy ebbero qualche contrazione, come quelle di un maiale appena ucciso. Poi il mare respirò di nuovo, con un lungo, lento sospiro; l’acqua ribollì sulla roccia, facendosi, da bianca, rosea: e quando si ritirò nuovamente, il corpo di Piggy non c’era più. …
18 giugno
DALLA STORIA
I 40 anni di Garfield, il gatto rosso più amato dei fumetti.
Gli appassionati delle strisce e dei cartoni si preparanoa festeggiare i primi 40 anni di Garfield, il gatto più annoiato e cinico dei fumetti: il 19 giugno 1978, infatti, usciva per la prima volta sui giornali statunitensi una striscia creata da Jim Davis, che aveva come protagonista un gatto arancionero irriverente, Garfield. Da allora, il fumetto creato da Jim Davis ha conosciuto un successo straordinario e, negli ultimi tempi, il rilancio anche grazie a dei film e a Facebook, su cui conta 16 milioni di fan. Garfield è anche molto popolare in tutto il mondo, oltre che per i fumetti, per la linea di articoli per la scuola a lui dedicati. Il successo del personaggio aumentò a seguito della pubblicazione della prima raccolta in volumi della strisce, che raggiunse la vetta della classifica dei bestseller stazionandovi per 100 settimane. Da allora il successo è andato sempre aumentando e Garfield è apparso in trasmissioni televisive e ha ricevuto premi Emmy, divenendo uno dei personaggi più famosi dei fumetti. Nel 2004 è stato protagonista del film Garfield, al quale ha fatto seguito, nel 2007, Garfield 2, nel 2008 sono usciti i lungometraggi a cartoni animati Garfield a zampa libera e Garfield e il laghetto magico, mentre del 2011 è Garfield – Il supergatto. Negli anni settanta Jim Davis era uno sconosciuto fumettista che pubblicava una striscia a fumetti con protagonisti degli insetti, dal titolo “Gnorm Gnat”, su un settimanale dell’Indiana, senza riscuotere successo; allora dato che in quel periodo molti fumetti avevano per protagonisti dei cani, ma pochi gatti, decise di scegliere per una nuova serie un gatto ( ispirato in parte da Isidoro nell’aspetto fisico), al quale diede il nome di suo nonno: Garfield. Garfield è un gatto egocentrico, goloso e indisponente che vive insieme al suo proprietario Jon Arbuckle e al cane Odie, che tiranneggia ed ha tanto successo perché è l’incarnazione di tutti i nostri piccoli grandi difetti, ma è anche capace dei gesti più generosi.
DALLA STORIA
Giorgio Morandi.
(Giorgio Morandi a sinistra in una delle rare foto, scattata dal fotografo dell’agenzia Magnum Herbert List nel 1953, a destra in un altrettanto raro autoritratto del 1924 quando l’artista aveva 34 anni)
Figura grandissima della pittura italiana del XX secolo, Giorgio Morandi è un caso veramente straordinario di pittore solitario, al di fuori dei movimenti, con scarsissimi contatti con altri maestri. Morandi non si è praticamente mai spostato da Bologna o da Grizzana, la cittadina sull’Appennino dove passava l’estate. Primo figlio di una famiglia della media borghesia cittadina Morandi si ritrova, a soli diciannove anni dopo la morte del padre, a ricoprire il ruolo di capofamiglia con la responsabilità delle sue tre sorelle ancora molto giovani. Non si sottrarrà mai ai doveri familiari e vivrà tutta la vita nella sua casa natale circondato dall’affetto materno. Fin da ragazzo dimostrò una grande passione per l’arte figurativa e, dopo un anno di apprendistato presso l’ufficio commerciale del padre si iscrive al corso preparatorio dell’Accademia di Belle Arti di Bologna; tra i suoi compagni di corso c’erano anche Severo Pozzati, Osvaldo Licini, Mario Bacchelli, Giuseppe Vespignani. Quando nel 1910 si reca a Firenze, dopo aver visitato gli Uffizi e le chiese più importanti, si racconta che la sera, per la grande eccitazione provata davanti alle tele di Giotto, Masaccio e Paolo Uccello, venisse pervaso da intensi stati febbrili. Nelle sue opere giovanili è tuttavia possibile riconoscere un tracciato che dalla conoscenza delle opere di Cézanne (che conoscerà grazie alla lettura di alcune riviste francesi distribuite nelle librerie bolognesi) passa al contatto con i futuristi diventando, nel 1918, uno dei massimi interpreti della scuola metafisica con Carrà e de Chirico. Poi, a partire dal 1920, la sua ricerca si concentrerà su pochissimi, modesti soggetti (preferibilmente nature morte di bottiglie e paesaggi di Grizzana), continuamente rielaborati e approfonditi. Il processo creativo di Morandi prescinde sostanzialmente dalla ricerca di temi nuovi: “si tratta di una speculazione intellettuale tutta interiore, che analizza la consistenza, il ritmo, i contorni, i riflessi, i delicati toni cromatici degli oggetti in una pazientissima meditazione. Dal punto di vista stilistico si nota efficacemente il passaggio dai dipinti del periodo metafisico, caratterizzati da un disegno rigorosamente geometrico e da ombre scandite, a un progressivo sfaldarsi della forma, con pennellate sempre più larghe e pastose e contorni che si fanno pastosi ed evanescenti, fino a perdersi nei neutri fondali, senza per questo perdere di realismo”. Di grande importanza nel lavoro di Morandi sono le acqueforti, eseguite da autodidatta, che risolvono poeticamente molti problemi espressivi di questa tecnica. Fin dagli esordi del suo percorso artistico portò avanti la passione per le incisioni. Le opere, realizzate con grande cura, sono caratterizzate da segni sottili e rettilinei in un intreccio molto complesso di tratti, con cui raggiunge dimensioni prospettiche di grande efficacia. Giorgio Morandi morirà all’età di settantaquattro anni, dopo un anno di malattia, il 18 giugno 1964 nella sua casa bolognese. La sorella Maria Teresa narra che poco prima di morire, il pittore, tracciasse con l’indice dei disegni nell’aria. “Muore immerso in quella profonda ricerca che gli aveva permesso di portare alla luce quanto più gli stava a cuore: l’essenza delle cose”. È sepolto alla Certosa di Bologna nella tomba di famiglia, dove giace insieme con le tre sorelle. Sulla tomba è ubicato un ritratto dell’artista, eseguito dal suo amico Giacomo Manzù. Giorgio Morandi non era molto propenso a partecipare a mostre, personali o collettive. Le sue opere vennero esposte al Museo d’arte moderna di Bologna e, successivamente, anche all’estero. Nell’ottobre del 2008 è stata dedicata all’artista una mostra al Metropolitan Museum of Art di New York, che ha contribuito a consolidare la sua fama a livello internazionale.
(Paesaggio, 1927, olio su tela. Camera dei Deputati. Roma)
(Natura morta con palla, 1918. Tela. Civico Museo d’Arte Contemporanea. Milano)
“Questo storico dipinto della prima attività di Morandi esprime con abbagliante chiarezza il concetto di stasi, di vuoto, di silenzio che regola (almeno per i primi anni) tutto il gruppo dei pittori metafisici. Il lavorio paziente e solitario di Morandi comincia fin d’ora a produrre risultati di austero controllo e insieme carichi di una nota di toccante lirismo e di malinconia”.
(Natura morta con la brioche, 1920. Tela. Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen. Düsseoldorf)
Mary Titton
17 giugno
PRIMO PIANO
Ha attraccato nel porto di Valencia la nave Aquarius.
Dopo nove giorni sono arrivati nel porto di Valencia i 629 migranti che da sabato scorso erano a bordo della nave Aquarius: 274 persone sono entrate a bordo della nave Dattilo della Guardia Costiera italiana, poi è entrata nel porto la nave Aquarius con a bordo 106 persone, scortata da una motovedetta della Guardia Civil, da un elicottero della Policia nacional e da diverse motovedette, per ultima la Nave Orione della Marina militare italiana con 249 migranti. L’ingresso delle navi è stato fissato ogni tre ore per permettere la migliore assistenza possibile a tutti i migranti dopo 9 giorni in mare. Sulla banchina del molo erano in attesa circa 700 giornalisti di ogni parte d’Europa. Applausi sono scattati a bordo della nave Dattilo della Guardia Costiera italiana da parte dei migranti, appena hanno capito che la nave stava finalmente per attraccare al porto di Valencia, applausi e canti anche sulla Aquarius e sulla Orione. Al molo 1 del porto di Valencia sono stati allestiti due grandi tendoni della Croce Rossa, dove viene effettuato il primo screening sanitario per i migranti: chi è in condizioni precarie di salute, le donne incinte e i bambini vengono portati in ospedale, mentre tutti gli altri vengono indirizzati nei diversi centri di accoglienza disposti dalla Generalitat valenciana in tutta la regione. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), Filippo Grandi, ha così commentato l’epilogo della vicenda: “Il soccorso in mare è un principio troppo importante per essere messo a repentaglio e qualsiasi tentennamento sulle modalità di sbarco comporta un grave pericolo non solo per i rifugiati e i migranti, ma per chiunque sia in difficoltà in mare, a favore di un meccanismo regionale di sbarco sicuro e prevedibile. E, in seguito allo sbarco, a favore di un’adeguata condivisione della responsabilità, per evitare situazioni in cui i paesi siano penalizzati dal dover gestire da soli le procedure seguenti lo sbarco. L’Unhcr è pronto a lavorare con gli Stati del Mediterraneo per raggiungere questo obiettivo.”
16 giugno
PRIMO PIANO
Afghanistan: 20 morti in un attacco suicida.
Almeno 20 persone sono morte in un attentato kamikaze avvenuto nella provincia di Nangarhar, nel nordovest del Paese, nel secondo giorno del cessate il fuoco tra forze governative e talebani, proclamato da Kabul in occasione dell’Eid al-Fitr. Altre 16 persone sono rimaste ferite. L’attentatore suicida ha fatto strage nel distretto di Rodan, mentre le forze di sicurezza e i talebani celebravano la tregua. Secondo il portavoce del governatore di Nangarhar, Attaullah Khugyani, tra le vittime si contano forze di sicurezza, miliziani talebani e un civile. L’attacco non è stato rivendicato. La provincia di Nangarhar è la principale base del sedicente Stato islamico in Afghanistan. L’attentato – ha riferito alla Afp il portavoce del governatore provinciale, Attaullah Khogyani, – è avvenuto nella distretto di Rodat proprio mentre si celebrava la festività in un clima rasserenato dal cessate il fuoco, una situazione senza precedenti in Afghanistan. Poco prima della strage, il presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, aveva annunciato il prolungamento del cessate il fuoco di otto giorni osservato dalle forze di sicurezza afghane verso i talebani in occasione della fine del Ramadan. In un discorso alla nazione trasmesso in tv, Ghani ha anche chiesto ai talebani di estendere di tre giorni il loro cessate il fuoco, che è attualmente in corso e dovrebbe concludersi domenica.
15 giugno
PRIMO PIANO
Incontro a Parigi tra Conte e Macron: convergenza su immigrazione.
Dopo la crisi diplomatica provocata nei giorni scorsi dal caso Aquarius, il premier italiano Giuseppe Conte e il presidente francese Emmanuel Macron si sono incotrati all’Eliseo in un clima di distensione e cordialità e hanno mostrato di avere identità di vedute sulla grave crisi migratoria e sulle modifiche delle regole di Dublino. Sia Conte sia Macron, soprattutto di fronte alle difficoltà evidenti dell’Europa nel gestire i flussi di migranti, privilegiano l’intervento mirato a non farli partire: “lanceremo iniziative per meglio prevenire questi flussi e avere una migliore risposta umanitaria – ha detto Macron – la risposta comincia non quando i barconi arrivano nelle nostre acque, ma quando quelle donne e uomini sono messi nella condizione di prendere il mare e rischiare la vita … si deve lavorare per un meccanismo adatto, che permetta di raggiungere una reale solidarietà e fare sì che la situazione geografica di un paese non lo metta in una situazione insostenibile.” Più deciso Giuseppe Conte: “In Europa nessuno può pensare di restare estraneo e lavarsi le mani rispetto al problema dell’immigrazione. È il concetto stesso di stato di primo ingresso che va riformato, chi mette piede in Italia mette piede in Europa.” Qualche attrito resta, soprattutto sui temi bollenti della settimana, le iniziative del ministro dell’Interno Matteo Salvini e la gestione delle emergenze in mare. Se Conte ha rivendicato “piena condivisione” con le mosse di Salvini, Macron ha ribadito che le decisioni e gli impegni di un Paese vengono assunte “dal capo di stato o dal capo di governo”. L’ipotesi su cui lavorare, per il governo italiano, è “l’istituzione di hotspot nei Paesi africani d’origine – non solo la Libia ma anche quelli sahariani, come il Niger – per chiudere la rotta verso il Mediterraneo, tutelando, al tempo stesso, le vite dei migranti”. La proposta è pensata per un’attuazione nel breve periodo, in vista di una riforma del regolamento di Dublino, che l’Italia vuole radicale. Conte, dopo aver rivendicato di voler “condividere l’esercizio” dei poteri di “indirizzo generale della politica con tutti i ministri” del governo, ha aggiunto: “Se dovessero capitare altre situazioni di tensione, le gestiremo sempre ispirandoci ai medesimi principi: la salvaguardia dei diritti fondamentali, la sicurezza delle persone. E sempre con la flessibilità dimostrata.” Macron di rimando: “la Francia rispetterà sempre il diritto umanitario internazionale, quando la nave arriva nelle tue acque, l’intervento spetta a te. L’Italia non può risolvere il problema aggirando le regole del diritto internazionale, ma avendo un approccio europeo cooperativo”. Conte ha infine annunciato un vertice italo-francese a Roma in autunno.
DALLA STORIA
Nasce la cattedrale di Chartres. (“Sicuramente la cattedrale più bella del mondo, anzi la Cattedrale”).
(Facciata della cattedrale di Chartres)
Chartres è un piccolo paesino situato nel nord della Francia, a circa ottanta chilometri da Parigi. All’epoca in cui venne costruita la cattedrale era un piccolo centro rurale abitato prevalentemente da contadini, ma l’edificio che qui venne eretto è tuttora una delle più grandi cattedrali d’Europa: la prima costruita in stile gotico e la prima cattedrale gotica dedicata a Notre Dame. Da qui in poi sorgeranno, nell’arco di centocinquanta anni, a Parigi e nel nord della Francia molte altre cattedrali dedicate a “Nostra Signora”. Ma perché un paesino di contadini, di pochissime anime, nel 1194 costruisce un’opera così imponente? Come è stato possibile in trent’anni trovare i finanziamenti, la manodopera e le capacità necessarie a concludere tutto questo lavoro così velocemente? Basti pensare per esempio che i cantieri delle altre cattedrali medioevali dovettero spesso arrestarsi per mancanza di finanziamenti. Lo stesso stile Gotico è in fondo, un mistero: sorto all’improvviso, dura un certo periodo di tempo in cui si espande, per poi subire un’ improvvisa battuta d’arresto. Ci sono importanti documenti testimonianti della partecipazione di intere popolazioni che, con spirito di abnegazione e profonda religiosità, lavorano duramente alle cave ed alla costruzione della cattedrale. Uno di questi è “Le livre des Miracles des Notre-Dame (Il libro dei Miracoli di Nostra Signora) che racconta come la notizia dell’incendio del più noto santuario della Vergine sia arrivata in tutta la Normandia, passando di città in città, scuotendo gli animi. Molte ricerche sull’argomento fanno ritenere che molto probabilmente dietro alla nascita ed alla costruzione delle cattedrali gotiche vi sia l’impulso dei templari ed il mistero che li avvolge. Questi Cavalieri del Tempio, furono un ordine religioso militarizzato molto ricco, legato alla corrente del Gral ed in possesso anche di conoscenze segrete acquisite in Terra Santa nelle crociate, conoscenze sui principi del “costruire che rimandano al Tempio del Re Salomone a Gerusalemme, il luogo dove risiedettero e da cui presero il loro nome: i cavalieri del Tempio, appunto. I Templari furono poi perseguitati con feroce brutalità dal re di Francia Filippo il Bello ma la loro sapienza ermetica è scritta nelle loro costruzioni come un “segreto manifesto”. Fulcarelli (alchimista del XX secolo, autore de “Il mistero delle cattedrali”, Parigi 1964), a questo proposito interpreta l’Art Gotique (arte gotica) come una derivazione di “argotique”, che in francese ha la stessa pronuncia. La parola Argot si può tradurre in italiano con “gergo”. Con questo “gioco di parole” Fulcarelli vuole indicare come le cattedrali gotiche siano in realtà delle costruzioni iniziatiche, che parlano il linguaggio criptico-esoterico usato dai costruttori: un gergo “ermetico”, interessante da decifrare soprattutto oggi, uno dei periodi storici più materialisti. Chartres non fu soltanto una cattedrale, è stata anche la sede di una luminosa scuola neoplatonica del medioevo, che ha irradiato con la sua luce tutta l’Europa. Personaggi, oggi quasi sconosciuti, che hanno veramente fatto scuola a tutta Europa sono ad essa legati, come ad esempio Fulberto che ha dato inizio alla cattedrale e alla scuola e che aveva discepoli in Ungheria, in Inghilterra, in Spagna. Oppure Bernardi, Teodorico o Alano da Lilla che, possiamo dire, chiude quest’epoca. E si potrebbe arrivare fino a Dante perché la Divina Commedia è un’irradiazione di quello che è vissuto qui, come se Dante, o meglio ancora il suo maestro, Brunetto Latini, avesse recepito nell’anima qualche cosa della luce che nel medioevo irraggiava da questo luogo e dalla scuola ad esso legata. Con la cattedrale di Chatres è nata l’arte di fabbricare le vetrate: il famoso blu e il rosso di Chartres sono ineguagliabili, introvabili in altri parti del mondo. La sua volta ogivale è una delle più alte in assoluto (oltre 37-38 metri di altezza) e la cripta, anch’essa di grandi proporzioni, sono rimaste così come le possiamo vedere ancora oggi malgrado gli incendi avvenuti a partire dal 1020, quando allora era solo una chiesa.
Riedificata più volte, la cattedrale, nel 1134, subì un nuovo incendio che distrusse la facciata occidentale insieme a gran parte della cittadina. Il famoso Portale Reale (ovest) venne quindi edificato verso la metà del secolo XII. Seguì un successivo incendio dove si salvarono dalle fiamme la facciata con le torri, il portale ovest, qualche vetrata e la cripta. Da allora, dal 1194 ad oggi, la cattedrale non ha più avuto bisogno di rifacimenti, giungendo totalmente integra fino a noi. Ma, perché tutto questo a Chratres? Le origini spirituali di Chartres si perdono nella notte dei tempi, ben prima della fondazione del cristianesimo e il luogo, dove sorge questa magnifica cattedrale, ha una particolare conformazione geologica, geomantica, poiché si tratta di un poggio di granito situato in una piana di pietra calcarea: la piana di Beauce. Si tratta della polarità calcare-granito che si trova anche in altri luoghi sacri come ad esempio a Karnac e a Stonehenge. Se si prova a fare una passeggiata sul granito e poi sul calcare si faranno due esperienze diverse: sul calcare ci si troverà molto più affaticati e sul granito invece lo si sarà di meno. In un certo qual modo, è come se il calcare ci attraesse verso il basso e il granito ci sollevasse verso l’alto. Ci si trova davanti ad una prima polarità fra le altezze e le profondità. I druidi e i celti proprio qui avevano eretto i loro menhir e i loro dolmen. Sotto questo poggio esistono molte sorgenti e delle correnti telluriche in cui si accentrano delle particolari forze energetiche. Se, come recitano le scuole esoteriche, si considera la Terra come un organismo, questi punti sono paragonati, da esse, ai punti attraversati dall’agopuntura sul corpo umano. In questo luogo di culto i druidi ed i celti mettevano delle pietre di fecondità (menhir), come fossero delle vere iniezioni “del Cielo dentro la Terra”. Nella cattedrale di Chartres, fin dai primi tempi della sua edificazione, le persone venivano a curarsi nella sorgente terapeutica sotto alla cripta fino alla Rivoluzione Francese. Poi i rivoluzionari hanno riempito di terra il pozzo “strangolando” così la cattedrale. Questa cattedrale, la Regina delle cattedrali che è possibile ammirare prima di arrivare dentro il paese, posta come una corona in cima alla collina di Chartres, oltre ad essere un’opera architettonica e artistica eccezionale sembra parlarci di cose dell’altro mondo, di incanti e meraviglie. La sua struttura svettante, le sue ardite guglie che sfidano il cielo ci parlano di una materia spiritualizzata. Così i suoi portali, le sue vetrate, il suo famoso labirinto, i suoi numerosissimi simboli dove possiamo leggere la storia evolutiva dell’Umanità, dalla genesi all’Apocalisse, proprio come in un libro di pietra e vetro, come fosse un canto, una musica condensata pronta a rivelarsi.
(Il famoso labirinto visto dall’alto)
Mary Titton
14 giugno
PRIMO PIANO
Russia: al via i mondiali di calcio 2018.
Alle 16:50 italiane, con il discorso e il saluto del presidente russo, Vladimir Putin, prima, e poi del numero 1 della Fifa, allo stadio Luzhniki di Mosca si sono aperti i Mondiali di calcio 2018, purtroppo senza l’Italia, non qualificatasi. Durante le esibizionioni di Robbie Williams e del soprano Aida Garifullina, sono scese in campo le 32 bandiere delle 32 nazionali partecipanti, mentre la coppa del Mondo è stata portata da Iker Casillas e dalla modella russa Natalia Vodianova. Sul terreno di gioco anche l’ingresso di Ronaldo, accompagnato da un bambino, che ha scambiato un passaggio con la mascotte dei Mondiali. Come annunciato, è stato uno show breve, senza troppe coreografie, “molto musicale”, con poche rievocazioni storiche. Putin ha voluto dare un’immagine moderna della Russia, di una potenza non isolata e messa in difficoltà dalle sanzioni post-annessione della Crimea. Robbie Williams ha cantato quattro dei suoi successi, partendo con “Let me entertain you”e chiudendo con “Rock Dj”. Alle 17:01, dopo gli inni nazionali, il calcio d’inizio della partita Russia e Arabia Saudita, finita 5 – 0 per la Russia e in cui Aleksandr Golovin, il giocatore che piace alla Juventus, è entrato in quattro goal su cinque, servendo due cross perfetti in occasione del primo e del terzo, aprendo il campo sul secondo e segnando in proprio il quinto con una punizione telecomandata. Così, in questa prima partita del Mondiale la nazionale russa si è portata in vantaggio al 12mo minuto del primo tempo con un goal di testa del difensore Yury Gazinsky. A pochi minuti dall’intervallo l’esterno offensivo Denis Cheryshev – entrato al posto dell’infortunato Alan Dzagoev – ha segnato il raddoppio con un bel goal preceduto da una finta che ha spiazzato due difensori sauditi. A venti minuti dalla fine, il centravanti Artem Dzyuba ha segnato di testa il terzo goal della partita. Nei minuti di recupero sono arrivati infine i gaol di Cheryshev (doppietta) e di Aleksandr Golovin, su calcio di punizione dal limite dell’area.
DALLA STORIA
Fernando Pessoa.
“E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?”. (Fernando Pessoa).
Nasce a Lisbona il 14 giugno 1888 Fernando Pessoa. Il poeta, autore di prosa e prolifico aforista è uno dei più originali e sorprendenti protagonisti della letteratura mondiale e, per il suo valore, è comparato a Luís de Camões, il principale poeta portoghese che, a sua volta, per la sua padronanza della poesia è stato paragonato ad Omero, Virgilio, Dante e Shakespeare. “Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia”, puntualizzava Pessoa “non c’è niente di più semplice. Ci sono solo due date, quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei”. Una citazione che trova riscontro anche nelle parole del Premio Nobel per la letteratura, Octavio Paz che, quando parla di Pessoa, dice: “il poeta non ha biografia: la sua opera è la sua biografia”, e inoltre “niente nella sua vita è sorprendente, nulla, eccetto i suoi poemi”. Possiamo però dire che, il grande poeta portoghese era considerato, dal critico letterario statunitense Harold Bloom, il poeta più rappresentativo del XX secolo assieme al cileno Pablo Neruda e che Pessoa era una figura complessa, attratto dall’occultismo e dall’esoterismo. Nella sua opera incarnava la frantumazione dei valori e la crisi dell’uomo moderno. Designava la sua professione in quella del “traduttore” (nell’infanzia visse in Sud Africa dove apprese la lingua inglese che parlava perfettamente) che, nella versione più esatta, era: “corrispondente straniero in imprese commerciali”. “Essere poeta e scrittore non costituisce una professione, ma una vocazione”. “Ho il dovere di chiudermi in casa nel mio spirito e lavorare quanto io possa e in tutto ciò che io posso, per il progresso della civiltà e l’allargamento della conoscenza dell’umanità”. Scrisse anche sotto gli eteronimi di Alberto Caeiro, Alvaro de Campos e Ricardo Reis, ciascuno caratterizzato da un proprio stile e da una propria biografia. “Con una tale mancanza di gente coesistente come c’è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?”. Attraverso gli eteronimi, Pessoa condusse una profonda riflessione sulle relazioni che intercorrono fra verità, esistenza e identità. Quest’ultimo aspetto è notevole nell’aura di mistero che circondava il poeta. “È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. … La vita è quel che decidiamo di farne. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”. Le sue opere più note sono: “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares”, un’opera che racchiude le riflessioni del protagonista in costante oscillazione tra ironia, tristezza, amore e perdita di ogni speranza. Frammenti dell’esistenza di Bernardo Soares, uno dei diversi eteronimi dietro cui si celava l’anima di Pessoa; “Il banchiere anarchico”, un breve testo che invita a riflettere sull’ideologia anarchica e sulla trasformazione della realtà politica europea agli inizi del Novecento. “Una sola moltitudine”, raccolta in due volumi a cura di Antonio Tabucchi, e le lettere alla fidanzata. La sua poesia, molto amata, raccolta in diversi volumi pubblicati nel corso degli anni. Molto celebri sono anche le “Poesie Esoteriche”, in cui Pessoa approfondisce il suo interesse sugli aspetti sovrasensibili dell’esistenza. “Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo”. … “Appena leggiamo i versi di Pessoa”, scrive Pietro Citati nel bellissimo libro “Ritratti di donne”, 1992, ed. Rizzoli, “ci sembra che egli sia stato un uomo abitato da sensazioni: ma uno sterminato apparato di sensazioni, in certo modo senza persona e senza confini, come furono negli stessi anni d’Annunzio, Proust e Rilke. Con quale acume, con quale intensità, con quale strazio spasmodico, coglieva le sensazioni che attraversano l’universo: milioni di sensazioni, nubi di sensazioni, oceani di sensazioni, ombre, lievi rumori di acque, suoni, efflorescenze, epifanie di colori, ricordi accumulati nella mente dei morti, temporali nascosti dietro le nuvole, emanazioni delle cose minime e infinitesime, che sembrano slegate dal tessuto della realtà. Ma, al contempo stesso, la sua attenzione era indifferente alle sensazioni che coglieva: si distaccava da loro, faceva il vuoto intorno a loro, come se non potesse mai aderire completamente a nulla. Con una punta di ironico snobismo, Pessoa diceva di avere un “cuore freddissimo”. Nessuno può mettere in dubbio la squisita profondità dei suoi sentimenti, “non è mai esistita un’anima più amorosa e tenera della mia”: la sua dolcezza di figlio e di amico, la sua sensibilità femminile, la sua inquietudine senza cause, gli abissi della sua depressione. Ma era una dolcezza dell’immaginazione e dell’intelligenza: non del cuore. Mentre il cuore restava freddo, l’immaginazione sentiva tutto quello che i cuori, così limitati e individuali, non riescono mai a sentire; e si sfibrava per la partecipazione e lo strazio:
Dicono che fingo o mento
quando io scrivo. No.
Semplicemente io sento
con l’immaginazione.
Non uso il cuore.
Eppure questo ammasso indefinito di sensazioni non ci colpiscono quasi mai con la sua qualità sensuale o tattile, come accade in Tolstoj e in Proust, dove le pagine fremono per un fruscio di seta o s’illuminano della luce del mezzogiorno o vibrano per un suono o odorano di profumi di corpi femminili e di verdure. Tutte le sensazioni di Pessoa penetravano e si insediavano nella mente, diventando quella cosa traslucida che è il pensiero. Qualche volta, ci sembra che nessun altro poeta del nostro secolo, nemmeno T.S. Eliot o Borges, abbia posseduto una così paurosa lucidità intellettuale, una così accecante precisione, una vocazione tanto spontanea per la fermezza dell’aforisma. Quando sognava, vedeva con chiarezza trasparente le figure e le scene dei suoi sogni; e con la stessa esattezza contemplava le idee astratte muoversi nella sua mente e impulsi sconosciuti aggirarsi per le strade tortuose della sua anima. Ma non gli importava affatto produrre uno di quei piccoli oggetti di consumo, buoni per la conversazione quotidiana, che si chiamano “idee”. Non amava, o riteneva irraggiungibile, la Verità, che nemmeno Dio conosce. Gli importava soltanto diventare lo specchio nitidissimo (ma un alone avvolge da ogni lato la nitidezza), dove si potessero riflettere tutti i pensieri, e l’infinito labirinto di relazioni e di concatenazioni, che formano la vita segreta della mente. Leggendolo, penetriamo nel nostro spazio interiore, e ne conosciamo la trasparenza e la leggerezza: la compenetrazione del sogno, della visione, della realtà, del pensiero, del fuori e del dentro in una sola e assoluta immagine mentale. …”
Mary Titton
La morte è la curva della strada.
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio
Questo
Dicon che fingo o mento
quanto io scrivo. No:
semplicemente sento
con l’immaginazione,
non uso il sentimento.
Quanto traverso o sogno,
quanto finisce o manco
è come una terrazza
che dà su un’altra cosa.
È questa cosa che è bella.
Così, scrivo in mezzo
a quanto vicino non è:
libero dal mio laccio,
sincero di quel che non è.
Sentire? Senta chi legge.
13 giugno
PRIMO PIANO
Addio a Luciana Alpi: una vita spesa per ottenere giustizia e verità per sua figlia Ilaria.
È morta martedì sera nella clinica romana in cui era ricoverata da alcuni giorni, a 85 anni, Luciana Riccardi Alpi, mamma della giornalista del tg3 Ilaria, uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio insieme al suo operatore di fiducia, Miran Hrovatin. Donna forte e coraggiosa, sposata con Giorgio Alpi, deceduto dieci anni fa, si è battuta fino alla fine perché si conoscesse la verità sull’agguato che in Somalia costò la vita alla figlia, probabilmente per inchieste scottanti sul traffico di rifiuti tossici o di armi. Non ha mai accettato la versione ufficiale: troppe contraddizioni, bugie, depistaggi, omissioni, tesi precostituite, troppi misteri. Luciana Alpi è sempre stata convinta dell’innocenza del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, prima condannato e poi assolto per l’omocidio, lo considerava l’ennesima vittima della serie di depistaggi che hanno costellato tutte le diverse inchieste svolte dalla magistratura italiana. Alcuni giorni fa aveva vissuto l’ennesima delusione dopo che il pm titolare dell’inchiesta per l’omicidio di sua figlia e di Miran, durante l’udienza con il gip, aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine contro ignoti in quanto le intercettazioni di conversazioni tra cittadini somali del 2012, trasmesse dalla Procura di Firenze, erano irrilevanti per l’inchiesta. Luciana di nuovo aveva chiesto che le indagini non fossero archiviate. “So di dover andare in Procura”, diceva, “ma so anche che mi fa male. Capita ogni volta. Hanno mentito e continuano a mentire. Hanno solo bisogno di mettere una pietra su un caso che ancora brucia”.
DALLA STORIA
William Butler Yeats.
Il poeta, drammaturgo, scrittore amico dei letterati più significativi del suo tempo da Oscar Wilde a John Millington Synge, da James Joyce a Thomas Stearns Eliot, da Virginia Woolf a Ezra Pound (che per alcuni anni, gli farà da segretario) nasceva a Dublino, il 13 giugno 1886; il suo nome, William Butler Yeats, appartiene all’Empireo dei poeti sommi, tra i più grandi di ogni tempo. Premio Nobel per la letteratura 1923, con la motivazione: “Per la sua poetica sempre ispirata, che con alta forma artistica ha dato espressione allo spirito di un’intera nazione”, Yeats oscilla a lungo tra la Londra decadente del XIX secolo e l’Irlanda in piena ebollizione indipendentista.
Le sue prime poesie si caratterizzano per l’uso marcato di simboli ripresi da diverse tradizioni: quella irlandese impregnata di miti e folclore (Percy Bysshe Shelley esercitò su di lui una grande influenza e continuerà a farlo per tutta la vita), quella kabalistica, cattolica e grecoromana. Yeats fu sempre molto interessato al misticismo e allo spiritualismo (la moglie stessa si occupava assiduamente di scienze esoteriche e spesso amavano trascorrere lunghi soggiorni nelle torri irlandesi, occupati negli studi mistici). Già all’età di 24 anni il poeta irlandese pubblicava la sua prima raccolta di poesie, “I viaggi di Ossian”, un omaggio alla terra d’Irlanda. In seguito si focalizzerà sulla realtà storica e personale. Nel 1892 fondò la società Letteraria Irlandese. Qualche anno prima, nel 1889, Yeats conobbe Maud Gonne, una giovane ereditiera che aveva iniziato a consacrarsi al movimento nazionalista irlandese. Maud Gonne apprezzava particolarmente i poemi “The Isle of Statues” dell’autore irlandese il quale sviluppò, per la patriota Maud, un’infatuazione ossessiva che lei, tuttavia, respinse ostinatamente. A lei Yeats dedicò una delle sue più belle raccolte dal titolo “Il vento fra le canne”. Nel 1896 Yeats venne presentato a lady Augusta Gregory dal loro amico comune Edward Marty, la quale incoraggerà il nazionalismo del poeta irlandese e lo persuaderà a continuare a scrivere opere teatrali. Anche se influenzato dal simbolismo francese, Yeats si concentrerà su testi di ispirazione irlandese; una tendenza rafforzata dall’emergere di una nuova generazione di autori irlandesi. Il 27 dicembre 1904 il poeta aprì l’Abbey Theatre e continuò ad occuparsi di teatro fino alla sua morte sia come membro del comitato direttivo, sia come drammaturgo. Dopo i sessant’anni Yeats soffrì di diversi disturbi cardiaci e respiratori a seguito dei quali si trasferì in Italia, a Rapallo dove per altro si ammalò gravemente di febbre maltese. Continuò tuttavia la sua intensa attività di poeta, drammaturgo e saggista fino agli ultimi giorni di vita, completando fra l’altro, nel ’37 la seconda edizione, radicalmente riveduta, del trattato “A Vision”, che espone il suo complesso sistema storico-astrologico. Morì, in Francia, il 28 gennaio del ’39 e fu sepolto a Requebrune. Nel ’48 la sua salma venne trasferita a Drumcliff, nella contea di Sligo in Irlanda. “Il posto che più ha influenzato la mia vita è Sligo” aveva detto Yeats. Infatti a Sligo, città della madre, il poeta trascorse lunghi periodi nell’infanzia e tornava periodicamente. Oggi la cittadina ospita una statua del poeta e organizza annualmente la Yeats International Summer School. Sulla lapide di Yeats è incisa un’iscrizione la stessa dettata dal poeta nella chiusa del poemetto “Under ben Bulben”:
Un poeta alla donna amata
Ti porto con mani religiose
i libri dei miei sogni innumerevoli,
o bianca donna che la passione ha consumato
come la spiaggia bigia consuma la marea,
e con cuore più vecchio del corno
colmato dal pallido fuoco del tempo:
o bianca donna dei sogni innumerevoli,
ti porto le mie rime di passione.
Canzone dell’amante
L’uccello sospira per desiderio d’aria,
Il pensiero per non so qual luogo,
Per il grembo il seme sospira.
Ora scende un medesimo riposo
Sulla mente, sul nido,
Sulle cosce sforzate.
Quando sarai vecchia
Quando sarai vecchia e grigia e di sonno onusta,
e sonnecchierai vicino al fuoco, prendi questo libro
e lenta leggi, e sogna il dolce sguardo
che avevano un tempo i tuoi occhi, e la loro ombra profonda.
In molti amarono i tuoi attimi di felice grazia
e amarono la tua bellezza con amore falso o vero,
ma un uomo solo amò la tua anima pellegrina,
e amò le pene del viso tuo che incessante mutava.
Piegati ora accanto all’ardente griglia del camino
e sussurra, con qualche tristezza, come l’amore scomparve,
e vagò alto sopra le montagne,
e nascose il suo viso in uno sciame di stelle.
(W. B. Yeats)
Mary Titton
12 giugno
PRIMO PIANO
La nave Aquarius naviga verso Valencia.
La nave Aquarius dell’ong SOS Mediterranée, in arrivo dalla Libia con più di seicento migranti, rifiutata dall’Italia e da Malta, bloccata in mare per diverse ore fra i due paesi, è ora in viaggio verso il porto di Valencia, scortata da una nave della Guardia costiera italiana e da una della Marina Militare. La nave aveva a bordo 629 migranti, tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte, soccorsi nella notte tra sabato e domenica in sei diverse operazioni di salvataggio e trasferimento nell’arco di 9 ore, tutte sotto il coordinamento della Guardia Costiera Italiana (MRCC). Il governo italiano domenica 10 giugno non le ha concesso l’autorizzazione ad attraccare in uno dei suoi porti, come avveniva da anni in questi casi, e Malta, indicata come possibile meta per lo sbarco, si è dichiarata indisponibile. Nel pomeriggio di lunedì il governo della Spagna si è offerto di accogliere la nave e i migranti nel porto di Valencia. Così la Guardia costiera italiana ha dato comunicazione ufficiale dell’assegnazione di Valencia come porto sicuro per la nave umanitaria di Sos Mediterranee e Msf, dicendo che “Il tempo di navigazione è stimato in quattro giorni e il trasferimento sarà assicurato nelle condizioni di massima sicurezza possibile per le persone presenti a bordo”e sottolineando che 500 migranti sono stati trasferiti sulla nave Dattilo della Guardia Costiera e sulla nave Orione della Marina Militare, sulle quali sono presenti medici dell’ordine di Malta e personale dell’Unicef per il supporto ai minori, inoltre sono stati portati sulla nave viveri e generi di prima necessità. Le tre navi sono partite alle 21:00 dal punto in cui si trovavano, circa 27 miglia a nord est di Malta e e 35 miglia dalla Sicilia, davanti hanno un viaggio di 1400 chilometri. Intanto le dichiarazioni diffuse ieri dalla Francia in merito alla vicenda dell’Aquarius, in particolare da Benjamin Griveaux, portavoce del presidente francese Macron: “C’è una certa forma di cinismo e una parte di irresponsabilità del governo italiano di fronte a una situazione umanitaria così drammatica” e da Gabriel Attal, portavoce del partito francese En Marche, il partito di Macron: “Credo che la posizione, la linea del governo italiano, sia vomitevole. È inammissibile fare politica spicciola con delle vite umane”, rischiano di creare una crisi diplomatica con Parigi. Il governo italiano ha risposto, infatti, alle accuse francesi dicendo: “Le dichiarazioni intorno alla vicenda Aquarius che arrivano dalla Francia sono sorprendenti e denunciano una grave mancanza di informazioni su ciò che sta realmente accadendo. L’Italia non può accettare lezioni ipocrite da Paesi che in tema di immigrazione hanno sempre preferito voltare la testa dall’altra parte”. È questa dell’Aquarius una vicenda senza precedenti, che ha innescato in Italia un acceso scontro tra posizioni filo-governative e opposizioni e ha acceso i riflettori sulla complessa problematica dell’accoglienza dei migranti, che dovrebbe essere regolata dal Trattato di Dublino, i cui accordi non vengono rispettati da alcuni paesi e che l’attuale governo vorrebbe ridiscutere nella Ue, che solo da poco, con alcuni suoi esponenti, comincia a riconoscere che “l’Italia è stata lasciata sola” a fronteggiare la situazione.
DALLA STORIA
Margherita Hack, “Signora delle stelle”.
Margherita Hack era nata a Firenze, il 12 giugno 1922. Era considerata una delle astrofisiche italiane più importanti e una “madre nobile” della divulgazione scientifica in Italia. Fu la prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia e a dare un forte contributo alla ricerca per lo studio e la classificazione spettrale di molte categorie di stelle. Atea convinta era celebre anche per il suo impegno politico. La scienziata era inoltre membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Unione Internazionale Astronomi e della Royal Astronomical Society. Nell’anniversario della sua nascita riportiamo una lettera che l’ astrofisica scrisse, nel 1998, su invito della redazione di “Lettere. Il mensile dell’Italia che scrive”. “Lettere” era una rivista epistolare, nata da un’idea della scrittrice Enza Li Gioi, edita dalla Pineider, che pubblicava lettere di gente comune accanto a lettere di personaggi noti appartenenti al mondo della cultura, dello spettacolo, della politica, del mondo scientifico, dello sport e così via. Ecco la lettera di Margherita Hack:
Cari extraterrestri,
una sola cosa è certa: non riceverete mai questa lettera. Ma voglio comunque immaginare che la riceviate e che mi rispondiate con la solerzia che la velocità della luce ci impone. Sappiamo già che nel nostro sistema solare, a distanza di minuti o ore luce, non c’è nessuna forma di vita, non dico intelligente, ma nemmeno piante o animali un po’ complessi. Forse su Marte ci sono stati miliardi di anni fa, quando il pianeta era ricco di acqua, delle forme molto elementari, batteri o alghe. Poi la massa del pianeta, troppo piccola per trattenere l’atmosfera e il vapor acqueo, non ha reso possibile il progredire verso forme di vita più complesse; il ripetersi insomma di quello che è successo sulla Terra. Nessuna speranza per gli altri pianeti o satelliti del sistema solare. Mercurio e Luna sono completamente privi di atmosfera e la loro temperatura nell’emisfero esposto al sole è di 400 e 100 gradi centigradi rispettivamente, per scendere a 100 sotto zero nella parte in ombra. Su Venere, che ha massa e raggio tanto simili alla Terra, da poterla considerare quasi una sua gemella, c’è un’atmosfera così spessa e opaca che l’effetto serra è formidabile: la temperatura è costante di giorno e di notte su tutto il globo ma raggiunge 500 gradi centigradi. Andrebbe bene per le mitiche salamandre. Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone coi loro satelliti sono troppo lontani dal Sole e troppo freddi. Difficile pensare a forme di vita nei gelidi oceani di metano e azoto dei pianeti giganti. Forse ospiteranno anche molecole molto complesse, molecole prebiotiche, ma non vita sui loro satelliti. E allora, cari extraterrestri, certamente non appartenete a questo nostro minuscolo villaggetto che è il sistema solare. Però entro un raggio di cento anni luce da noi, abbiamo finalmente trovato prove indirette ma certe, della presenza di grossi pianeti in orbita attorno a una decina di stelle, con caratteristiche simili al Sole. A noi sarebbe piaciuto trovare anche delle terre, e queste probabilmente ci sono, ma la loro massa è troppo piccola per causare quei disturbi gravitazionali al moto della loro stella, che ci rivela invece la presenza di “giovi”. Fra qualche decennio, o forse anche meno, la nostra tecnologia ci permetterà di scoprire anche la presenza di “terre” e forse di vedere direttamente l’immagine di alcuni “giovi”. Chissà se qualcuno di voi extraterrestri abita su quelle “terre” ad appena 50 o 100 anni luce da noi. Chissà se avrete le stesse nostre curiosità, se come noi vi state domandando: “Siamo soli nell’universo?”. Forse, poiché il vostro sole è simile al nostro, e ha circa la stessa età, 5 miliardi di anni, anche il vostro stadio evolutivo potrebbe essere abbastanza simile al nostro. È molto improbabile, ma non da escludere. Se anche voi volete farci sapere che ci siete, potreste aver mandato un segnale radio o luminoso, modulato, chiaramente artificiale. Nella speranza che oggi i nostri radiotelescopi del progetto internazionale SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence) riescano a captarlo, sapremo che l’avete lanciato 50 o 100 anni fa. E se noi saremo capaci di rispondere, ci sentirete fra altri 50 o 100 anni. Ma è più probabile che esseri intelligenti e tecnologicamente avanzati siano abbastanza rari, perché sono necessarie molte condizioni stringenti affinché questi possano svilupparsi. Tuttavia io credo che voi, cari extraterrestri, siate certamente presenti nella nostra galassia, e in tutto l’universo. Ci sono infatti almeno 400 miliardi di stelle nel nostro continente stellare che chiamiamo Via Lattea e 40 milioni di miliardi nell’universo. Anche se solo una stella su un milione avesse un pianeta adatto allo sviluppo della vita, ce ne sarebbero 400.000 nella Via Lattea e 40 milioni di miliardi nell’universo su cui ci sarà o potrà svilupparsi vita intelligente. Ma i nostri segnali radio dovrebbero viaggiare nello spazio per migliaia e decine di migliaia di anni attraverso la nostra Galassia prima di avere una qualche probabilità di incontrare qualcuno di voi. E se caso mai arrivasse a destinazione, anche la civiltà che l’aveva lanciato sarebbe probabilmente estinta. Quindi, cari extraterrestri, sono certa che ci siate, in vari punti dell’universo, ma sono ancora più certa che non riusciremo mai a conoscerci.
Buon Anno terrestre. (Margherita Hack)
Mary Titton
11 giugno
PRIMO PIANO
Ancona: Marina Militare in festa.
È stata celebrata oggi, nel porto di Ancona, la Giornata della Marina Militare coincidente con il centenario dell’Impresa di Premuda. La cerimonia, organizzata in ogni dettaglio, è iniziata alle 10:45 sotto un sole cocente, con l’arrivo in elicottero della neoministra Elisabetta Trenta e del vicepresidente della Camera, Ettore Rosato. Sulla banchina 4 dello scalo dorico erano schierate tutte le batterie della Marina, compresi gli equipaggi dei sommergibili Venuti e Romei del battaglione San Marco, gli Incursori e le unità delle forze aeree della Marina. Il Ministro della Difesa ha annunciato la proposta di candidatura della Marina Militare, e di tutte le componenti che hanno partecipato ai salvataggi in mare dei migranti, al Premio Nobel per la Pace e ha poi premiato cinque ufficiali e sottufficiali per le missioni valorose nel mar Mediterraneo, tra le acque libiche e il canale di Sicilia. Il Ministro, nel suo discorso, ha spiegato che è stata scelta Ancona come sede per i festeggiamenti della Giornata della Marina, in quanto un secolo fa, il 10 giugno del 1918, in piena prima guerra mondiale, Luigi Rizzo e Giuseppe Aonzo, rispettivamente comandanti dei MAS 15 e 21, partirono proprio dal porto di Ancona e penetrarono di nascosto tra le unità di una formazione navale nemica diretta al Canale d’Otranto, riuscendo ad affondare la corazzata austriaca SMS Szent István (Santo Stefano). L’azione bloccò la veemenza della flotta austriaca e contribuì al successo, per mare e per terra, della Prima Guerra Mondiale. Per questo tale data è stata scelta dalla Marina Militare per celebrare la sua giornata. Inoltre Ancona fu uno dei principali punti d’approdo per i sommergibili italiani: un’altra spina nel fianco della flotta austro-ungarica. il capo di Stato maggiore della Marina Militare, ammiraglio Valter Girardelli ha dichiarato in un’intervista: “Guardo fiducioso al futuro della Marina Militare”.
DALLA STORIA
Enrico Berlinguer, un comunista italiano.
L’11 giugno 1984 Enrico Berlinguer, segretario generale del Partito Comunista Italiano, dal 1972 al 1984, uno degli esponenti più importanti della storia della Repubblica italiana, muore, dopo quattro giorni dal ricovero presso l’ospedale di Padova, per emorragia cerebrale. Fautore, insieme ad Aldo Moro, del compromesso storico e sostenitore dell’allontanamento dall’Urss, ai suoi funerali a Roma parteciperanno oltre un milione di persone. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini metterà a disposizione l’aereo presidenziale per il trasporto della salma, dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. In un volume a lui dedicato a trent’anni dalla morte, editato dal “Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., il giornalista Bruno Manfellotto, nella prefazione lo ricorda con queste parole: “La mattina del 13 giugno 1984, un mercoledì, a Roma si sveglia sotto un sole splendente. Di certo farà molto caldo. Stupita e incredula, la città si preparava a vivere una giornata indimenticabile, triste e potente, di dolore e di riscatto. Forse immagina un nuovo inizio, invece è la fine di una stagione. Il leader del Pci Enrico Berlinguer, amatissimo da militanti e comuni cittadini, non altrettanto dalla nomenklatura di partito, è morto due giorni prima, a poche ore da un drammatico comizio in piazza delle Erbe, a Padova, che ha voluto concludere a tutti i costi nonostante la fatica accumulata e a dispetto dell’ictus già esploso dentro il suo corpo fragile e sottile. Ora la sua bara di legno chiaro è nell’atrio di Botteghe Oscure. Una lunghissima fila, compagni e non, attende paziente per l’ultimo saluto. Tra poco il feretro, seguito dai familiari, muoverà verso piazza San Giovanni, la piazza del popolo comunista. I capi del partito e le autorità già aspettano sul grande palco bianco posto dinanzi alla basilica. Intanto si sono formati tre immensi cortei, forse un milione e mezzo, “l’Unità” azzarda due milioni, di uomini e donne di ogni età. E certo non sono tutti comunisti … Solo una piccola parte riesce a entrare nella piazza dove la salma arriva alle quattro del pomeriggio, e comunque una folla così non s’è mai vista, nemmeno ai funerali di Palmiro Togliatti. La Rai se ne rende conto e organizza la diretta, tre ore di telecronaca con un giovane Bruno Vespa al microfono. La tragedia di un uomo, di una famiglia, di un partito diviene dolore collettivo di un’intera comunità nazionale. Da quel giorno sono passati trent’anni e ancora cerchiamo di capire fino in fondo che cosa abbia rappresentato Berlinguer e come sia stato possibile che un comunista senza se e senza ma sia stato votato da un italiano su tre, e abbia visto intorno alla sua bara, nella piazza fisica o in quella virtuale della tv, milioni di persone. … La verità è che Enrico Berlinguer è stato l’ultimo leader in cui abbiano pienamente coinciso pratica di vita e progetto politico. La stessa morte sul lavoro, sul palco dell’ultimo comizio, esalta un impegno vissuto come dovere superiore. Il rigore personale; la sobrietà non declamata, ma praticata fino all’austerità che si fa proposta politica; la separatezza tra famiglia e partito, sfera privata e missione pubblica; la passione militante unita alla convinzione profonda che il partito debba diventare architrave di un’Italia migliore; il richiamo alla questione morale, intesa come lotta alla nefasta occupazione dello Stato e delle istituzioni a opera dei partiti (ed era davvero inimmaginabile allora che alla fine molto sarebbe stato mazzette e aragoste, corruzione e feste in maschera, caviale e champagne …): questo straordinario insieme di valori fondanti e quotidianamente vissuti restituiva, e restituisce ancora, un’immagine del leader piena, rassicurante, sincera. Capace di seminare fiducia. E indicare nella politica una cosa destinata, ma pensa un po’, solo a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. Forse ha ragione Walter Veltroni, autore e voce narrante di un film toccante e appassionante, quando dice che Berlinguer, o almeno il suo progetto politico, è morto una prima volta a via Caetani, a Roma, dinanzi al cadavere di Aldo Moro raggomitolato in una R4 rossa parcheggiata a metà strada tra piazza del Gesù e Botteghe oscure. E d’altra parte il fenomeno politico Berlinguer, e di un Pci largamente sopra la soglia del 34 per cento, non sarebbe stato lo stesso se non lo avesse indirettamente alimentato, nel 1974, la campagna per il divorzio. Una grande battaglia di civiltà, caparbiamente inseguita da un leader radicale, Marco Pannella, poco amato al Bottegone, ma divenuta immediatamente politica perché simboleggiava, intercettandolo, un desiderio diffuso in tutta la società di cambiamento, di crescita, di modernizzazione. Così, sotto quel vessillo si saldano di nuovo culture politiche diverse, comunisti e socialisti, liberali e cattolici laici, riformisti e post azionisti, rinnovando un certo spirito della resistenza e l’intuizione del Togliatti sbarcato a Salerno. Ora come allora la leadership se la assume il Pci. Così si comprendono meglio anche compromesso storico e alternativa democratica, progetti poi andati perfino al di là delle stesse intenzioni del leader comunista. Che cosa sarebbe potuto succedere se Berlinguer non fosse morto allora e su quel palco, quale strada politica avrebbe intrapreso, non si riesce a immaginarlo nemmeno ricorrendo alla controstoria. Ciò che invece sappiamo è che nessuno dei suoi eredi e sodàli di allora ha provato a continuare, rinnovare, reinterpretare quanto fatto negli anni precedenti. Anzi, è come se quella stagione fosse stata saltata a pié pari, rimossa senza porsi più domande né risolvere le contraddizioni profonde che pure s’erano manifestate. Ma di lui, Enrico Berlinguer, e di ciò che rappresentava perfino fisicamente, si parla ancora oggi. Evidentemente questo non è rimpianto, perché tutto cambia e nulla si ripete così com’era; magari è speranza in qualcosa che possa modificare il corso delle cose, trascinarci via da una lunga stagione oscura, resuscitare un po’ di passione per l’unico antidoto possibile all’antipolitica e alle sue derive populiste e leaderiste: la politica. La politica perbene”.
(Un imponente numero di persone segue il funerale di Enrico Berlinguer a Roma)
10 giugno
PRIMO PIANO
Formula 1: Vettel trionfa nel Gp del Canada e torna leader della classifica.
La Ferrari torna a vincere dopo 14 anni il Gp del Canada e Sebastian Vettel, arrivato primo, è ora in testa alla classifica: ha un punto di vantaggio su Lewis Hamilton, quinto, preceduto all’arrivo dal compagno di squadra Valtteri Bottas e dalle Red Bull di Max Verstappen e Daniel Ricciardo. Sebastian Vettel ha condotto dal primo all’ultimo giro il Gp del Canada e si è aggiudicato una gara che lo ha portato al comando del mondiale grazie al 5° posto di Lewis Hamilton. Per il ferrarista 121 punti, 120 per Hamilton. Sul podio Bottas, secondo, e Verstappen, terzo, quarto Ricciardo, sesto Raikkonen. Vettel è partito senza esitazioni, pochi secondi dopo la Toro Rosso di Brendon Hartley è finita contro le barriere ed i commissari hanno mandato in pista la safety car. Vettel fa valere il suo ritmo e dopo nove giri ha un vantaggio di quasi 3 secondi su Bottas, mentre Raikkonen perde terreno rispetto al gruppetto di testa e sceglie di ritardare la sosta ai box, ma questa strategia non paga e il pilota finlandese deve accontentarsi della sesta posizione. L’ultima parte della gara non riserva sorprese e Vettel taglia per primo il traguardo con un vantaggio di oltre 7 secondi su Bottas e di quasi 22 su Hamilton. “So quanto significa questo circuito per la Ferrari e fare una gara come quella di oggi è incredibile. Era un lunghissimo periodo che la Ferrari non vinceva qua, stasera faremo una grande festa, devo dire grazie alla squadra. Vedere una Ferrari che vince oggi, sul circuito intitolato a Gilles Villeneuve, con me alla guida mi rende fiero.”, ha dichiarato subito dopo il pilota tedesco.
9 giugno
PRIMO PIANO
Addio a “un ragazzo della via Gluck”.
La notte scorsa, a Milano, all’età di 77 anni, per un arresto cardiaco si è spento Gino Santercole, uno degli storici componenti del clan di Celentano, nipote e cognato del “Molleggiato”. Entrambi provenivano dalla celebre via Gluck, la strada alla periferia di Milano protagonista della canzone “Il ragazzo della via Gluck”, presentata nel 1966 al Festival di Sanremo in abbinamento con lo zio ed eliminata nella prima serata; con loro c’erano anche Ico Cerutti e Pilade, che isieme a Gino formavano il Trio del Clan. Il legame con Celentano era così stretto che fu proprio suo nipote Gino a scrivere per lui una delle più belle canzoni del repertorio di Celentano “Una carezza in un pugno” e uno dei più bei brani italiani di musica leggera “Svalutation”. Santercole ha pure contribuito alla realizzazione delle colonne sonore di film come “Yuppi du” o “Segni particolari: bellissimo”. Oltre alla carriera di compositore e musicista, Gino Santercole espresse le sue qualità artistiche anche nel cinema: da attore fu diretto da registi come Pietro Germi, Dino Risi, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Luigi Comencini e Luciano Salce. Agli esordi nella musica nei primi anni Sessanta faceva parte del gruppo I Ribelli. Nel 1964 debuttò come cantante solista con “Attaccata al soffitto/Se vorrai”, brano passato inosservato. Dopo un ultimo disco con il gruppo, Santercole lasciò I Ribelli e continuò ad incidere da solo. Il successo arrivò prima con “Stella d’argento”, pubblicato a dicembre del 1964, che ottenne un buon riscontro i primi mesi del 1965, e poi con “Questo vecchio pazzo mondo”, che era la cover di “Eve of Destruction” di Barry McGuire. Con questo brano Santercole parteciperà al Cantagiro del 1967. La stessa versione verrà poi incisa nel 1984 da Adriano Celentano e riproposta nel 1999 da quest’ultimo con Luciano Ligabue nella prima puntata del programma televisivo “Francamente me ne infischio”. Nel 1965 Santercole incise una cover di “Busted” di Ray Charles, intitolata “Sono un fallito” e pubblicata in un EP inciso con Celentano e Don Backy. Anche questo brano venne riproposto da Celentano nell’album “I miei Americani”. L’anno successivo partecipò al Festival di Zurigo con “La lotta dell’amore”.
8 giugno
PRIMO PIANO
Molecole organiche e metano “ciclico” su Marte: indizi di una possibile vita.
Su Marte ci sono molecole organiche e il metano nell’atmosfera varia ciclicamente: il pianeta rosso sembra avere tutti i requisiti per avere custodito la vita in passato e forse per ospitarla ancora. I dati, inviati a Terra dalla missione Curiosity della Nasa, sono pubblicati su Science e, pur non essendo ancora la prova della vita, indicano una forte probabilità che tre miliardi e mezzo di anni fa su Marte ci fossero i requisiti per ospitarla. Le molecole organiche sono state scoperte da Curiosity nel cratere Gale, che il rover-laboratorio sta esplorando dal 6 agosto 2012: “si sono conservate nell’argillite di origine lacustre alla base della formazione Murray, antica 3,5 miliardi di anni”, scrive su Science il gruppo coordinato da Jennifer Eigenbrode, del Centro Goddard della Nasa. L’incredibile laboratorio miniaturizzato del rover Curiosity, il Sam (Sample Analysis at Mars), ha escluso ogni dubbio su un’eventuale contaminazione, ma non è riuscito a chiarire l’origine delle molecole: potrebbero essere la testimonianza di una vita passata o cibo di forme di vita esistenti o qualcosa di indipendente dalla vita. Se la materia organica, però, è stata trovata vicino alla superficie di un ambiente ostile come quello marziano, aumentano moltissimo le probabilità di rinvenirla nel sottosuolo: una speranza enorme per la missione ExoMars 2020 di Agenzia Spaziale Europea (Esa) e Russia, che perforerà il suolo marziano fino a due metri di profondità. Nello stesso numero di Science il gruppo del Jet Propulsione Laboratory (Jpl) della Nasa, coordinato da Christopher Webster, descrive le prime oscillazioni nel livello del metano. Il metano nell’atmosfera marziana era stato scoperto nel 2004 dalla missione Mars Express, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), e fin da allora ci si era chiesti da dove provenisse questo gas, considerato una delle fondamentali spie della vita. Si pensava che la scoperta di eventuali variazioni stagionali avrebbe potuto essere la spia di una sorgente ancora attiva sul pianeta rosso. La risposta è arrivata adesso, sempre da Curiosity: le variazioni stagionali nel livello del metano sono state viste e, scrivono i ricercatori, “sono consistenti con piccole sorgenti di metano localizzate sulla superficie o nel sottosuolo”. L’origine non è ancora nota e la presenza di forme di vita è solo una delle ipotesi, anche se sempre più fondata. Il 95% del metano presente sulla Terra è generato da processi biologici, la sua presenza su Marte alimenta le speranze che ci possa essere una qualche forma di vita (ad esempio alcuni tipi di microbi metanogeni), ma la sua presenza può essere spiegata anche da numerosi processi “abiotici”. Lo studio dice che i livelli di concentrazione di questo gas nell’atmosfera subiscono variazioni cicliche, stagionali, il che suggerirebbe processi attualmente in corso che alimentano la formazione del gas. Secondo la Nasa, infatti, il metano richiede 300 anni per dissiparsi, quindi qualcosa lo starebbe producendo. “Sono tempi entusiasmanti. – ha detto Chris Webster, del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, nella diretta online – Guardiamo con speranza al futuro, in cerca di ulteriori risultati. Ci vorrà ancora del tempo prima di capire se l’origine del metano è biologica”.
DALLA STORIA
Maometto.
Maometto, il fondatore e “l’uomo che tutti i musulmani riconoscono loro profeta, più precisamente l’ultimo profeta dell’Islam, moriva a Medina l’8 giugno 632. La data di nascita non si conosce con precisione, si sa che nacque a Medina, intorno al 570. Maometto è considerato l’ultimo esponente di una lunga tradizione profetica, all’interno della quale egli occupa, per i musulmani, una posizione di assoluto rilievo, venendo indicato come Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti. Maometto sarebbe stato incaricato da Dio stesso, attraverso l’angelo Gabriele, di divulgare l’ultima e definitiva Rivelazione all’umanità. Edouard Schuré, famoso saggista drammaturgo e poeta, che ha legato il suo nome soprattutto alle opere nelle quali elabora un suo sistema filosofico ed esoterico, simile per alcuni aspetti alla teosofia di Rudolf Steiner, nell’interessante libro “Santuari d’Oriente”, Newton & Compton Editori, parla di Maometto attraverso una descrizione puntuale, frutto di una ricerca approfondita supportata anche dalle sue esperienze di viaggio nelle affascinanti terre d’Oriente. Luoghi che per secoli hanno custodito i simboli di una spiritualità profondissima che è, quella stessa, alla base anche del cristianesimo e di tutte le religioni monoteiste (nella loro essenza, tutte le religioni sono i diversi rami di uno stesso tronco); luoghi, per dirla con l’autore “dove risiedono le Idee-Madri, che possiedono la chiave dell’Intelligenza, dove abitano le Forme melodiose che posseggono la chiave della Bellezza, dove abitano le Forze divine che posseggono la chiave dell’amore”. Schuré, nel libro, commenta che questa triplice concezione del Verbo divino, gerarchicamente formulata dall’antico Egitto, umanizzata, semplificata e addolcita dal cristianesimo, contiene anche, per chi la sa comprendere e interpretare nel suo significato universale, i principi superiori della scienza e lo splendore sovrano dell’arte e della vita. “Diversamente”, scrive Schuré “nell’islamismo Dio è impenetrabile, come la luce bianca e cruda, senza rifrazione prismatica. Manca all’islamismo la transizione dall’infinito al finito. La traduzione del divino attraverso l’umano. Maometto, con la sua opera, ha strappato all’idolatria l’arabo, il beduino, e tutti gli erranti del deserto, dando una religione e un codice adatti al loro tipo di vita e alla semplicità della loro intelligenza. Finché ci saranno semiti nomadi ci saranno musulmani. Il Profeta ha risvegliato in loro il senso della preghiera rivolta a un Dio supremo, che chiamò innanzitutto “il Misericordioso”. Inculcò, con grandissima energia, la fede nella vita futura. Sviluppò lo spirito di famiglia e sublimò la donna quanto lo permetteva la poligamia. Santificò il focolare domestico attraverso il rispetto per la madre e l’amore per i figli, come dimostra questa bellissima frase: “Il figlio conquista il Paradiso ai piedi di sua madre”. Se l’idea della giustizia sociale appare in Maometto soltanto nella forma mitologica del giorno del Giudizio, non gli fu certamente estranea quella dell’amore universale e della solidarietà umana. Lo provano, infatti, le belle parole del Corano: “Il giorno del Giudizio sarà un giorno in cui un’anima non potrà far nulla per un’altra anima: tutto sarà devoluto a Dio”. Da molto tempo l’Occidente ha reso giustizia all’elevatezza, alla nobiltà, all’innata bontà di Maometto, ma forse non sono stati abbastanza riconosciuti in fervore e la sincerità della sua fede. All’origine della sua missione, tutto ha il carattere di un’autentica ispirazione, di un impulso venuto dal profondo della sua anima, agitata da una causa misteriosa. Nulla faceva presentire il riformatore religioso nell’umile mercante; sposo di Khadigia. Lo avevano chiamato “Emin”, il leale, il fedele, a causa del carattere forte. Può sembrare strano avvicinare i due nomi, ma la sua missione comincia esattamente come quella di Giovanna d’Arco, rivelandosi a lui per mezzo di voci e di visioni. Vi resiste a lungo. Una notte, sprofondato nel sonno, vede un angelo che lo avvolge in una stoffa di seta coperta di scrittura, stringendolo fino a soffocarlo. Nello stesso tempo, una voce gli dice: “Leggi, in nome di Dio!”. Non sa leggere, ma ripete le parole dell’angelo: “La generosità del tuo Signore è senza limiti: è lui che ha creato il Verbo”.
(L’arcangelo Gabriele riferisce la Rivelazione di Dio a Maometto, ancora una volta velato. Antica miniatura)
E quelle parole gli si stampano nel cuore. Svegliatosi, ha paura, fugge in montagna, poi torna nella grotta vicino a Khadigia, che lo incoraggia. Per non vedere e non sentire più nulla, si avvolge nel mantello. Allora la Voce gli rivolge queste parole sublimi: “O tu che sei avvolto nel tuo mantello! Alzati, e prega per tutta la notte. Ripeti il nome del tuo Signore, offri una devozione totale a Dio, padrone del Levante e del Ponente. Non c’è altro Dio che Lui: prendilo dunque come patrono”. (Corano, LXXIII. Traduzione di Kasimirski). A partire da quel momento, crede, agisce, non si ferma più. La sua fede è assoluta, il suo coraggio indomabile, benché in contraddizione con la natura dolce e il carattere esitante, per niente battagliero. Converte i genitori, sopporta gli scherni e le persecuzioni, si crea un partito, un esercito, prende la Mecca, brucia gli idoli della Kasba, vi stabilisce il culto di Allah, e muore povero, dopo aver fondato una religione che conquisterà gran parte dell’Asia e dell’Africa”.
“Finché l’Occidente non avrà trovato la strada per penetrare nella coscienza musulmana”, scrive Schuré, “ci sarà, tra noi e la razza d’Ismaele, una barriera insormontabile. I punti in comune con la tradizione giudaico e cristiana non mancherebbero certo nell’Islam. Maometto ha preteso soltanto di restaurare la religione di Abramo e ha sempre parlato di Gesù come di un grande profeta. In un commento del Corano, Moize, (Mosé) è chiamato “l’allocutore di Dio”, Issa (Gesù) è chiamato “Lo spirito di Dio” e Maometto “l’intercessore”. È anche vero, però, che, fino ai nostri giorni, l’Islam si è dimostrato impenetrabile e refrattario allo spirito dell’Occidente. Ma l’Occidente ha capito fino in fondo la ragione d’essere, l’utilità e la grandezza dell’Islam? Bisogna che l’europeo ponga nei suoi rapporti col musulmano una comprensione più profonda, una simpatia più ampia, una giustizia accompagnata dall’amore e dall’abnegazione, e forse un giorno il cuore d’Ismaele si aprirà. Non dimentichiamo, intanto, che, nella sua immobilità, l’arabo è rimasto l’eterno patriarca e il cavaliere del deserto, pieno di generosità e di eleganza. Ricordiamoci anche che, se tutti gli uomini sono fratelli, tutte le grandi religioni sono sorelle”.
(La Cupola della Roccia, punto dal quale Maometto sarebbe asceso al Paradiso)
Mary Titton
7 giugno
PRIMO PIANO
In Antartide tracce di microplastica e di sostanze chimiche nocive.
Ricercatori di Greenpeace hanno trascorso tre mesi di quest’anno, da gennaio a marzo, in Antartide, prelevando campioni di acqua e di neve da aree remote del sesto continente. E le analisi hanno indicato che la maggior parte conteneva “sostanze chimiche nocive e persistenti” e microplastica. Sette degli otto campioni analizzati di acqua della superficie marina contenevano microplastica come microfibre. Sette dei nove campioni di neve analizzati contenevano concentrazioni rilevabili di sostanze chimiche nocive persistenti come polifluorurati alchilati o Pfas (acido perfluoroottansolfonico), che creano problemi alla riproduzione e allo sviluppo della fauna. I campioni di neve raccolti includevano neve caduta da poco, quindi le sostanze chimiche nocive provenivano da pioggia o da neve contaminate. Il rapporto è parte della campagna globale di Greenpeace “Protect the Antarctic” per proteggere il fragile ecosistema dalla pesca industriale e dal cambiamento climatico. Una decisione sulla proposta, presentata dall’Unione Europea e sostenuta da gruppi ambientalisti attorno al mondo, sarà discussa alla prossima riunione dell’Antarctic Ocean Commission in Tasmania il prossimo ottobre. L’Antartide, denominato anche come il sesto continente, costituisce una delle ultime grandi aree naturali rimaste al mondo, quindi, ovviamente, qualsiasi minaccia al suo ecosistema si traduce in un avvertimento per il mondo. “I risultati del nostro studio dimostrano che neanche le aree più remote del pianeta sono immuni dall’inquinamento prodotto dall’uomo. – ha detto Frida Bengtsson, della campagna sopracitata – Sono necessarie azioni alle fonti per impedire a queste sostanze inquinanti di finire in Antartide e abbiamo bisogno di un santuario nell’oceano antartico per dare spazio ai pinguini, alle balene e all’intero ecosistema, perché si possano riprendere dalle pressioni cui sono esposti”. L’India mette al bando la plastica, dal 2022 stop al monouso.
DALLA STORIA
Antoni Gaudì: “l’architetto di Dio”.
Il 7 giugno del 1926 l’architetto Antoni Gaudí, massimo esponente del modernismo catalano, venne investito dal primo tram circolante a Barcellona, fu soccorso dai passanti che, ingannati dal suo aspetto dismesso, lo scambiarono per un mendicante e lo trasportarono in un ospizio, dove morì il 10 giugno. Al funerale parteciparono migliaia di barcellonesi che per celebrarlo lo soprannominarono “architetto di Dio”. Fu sepolto nella cripta della Sagrada Familia, la basilica cattolica di Barcellona tuttora in costruzione, di cui Gaudí fu nominato architetto-capo a soli 31 anni. Definito da Le Corbusier come il “plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro”, dal 1869 studiò a Barcellona, una città che stava crescendo e cambiando tumultuosamente e dove stavano maturando i fermenti culturali del modernismo catalano e della Renaixença, il movimento culturale e politico del recupero della lingua e della cultura catalana, che l’artista condivise per tutta la vita, contribuendo attivamente all’atmosfera di rinnovamento culturale che caratterizzava allora la città. Diplomatosi nel febbraio del 1878 alla Scuola Superiore di Architettura, riuscì a lavorare con i migliori architetti del tempo e studiò i testi di John Ruskin, Eugène Viollet-le-Duc e Otto Wagner, ma anche la tecnica dei nuovi materiali da costruzione come il cemento. Nel 1878 a Parigi, durante l’Esposizione universale, avvenne l’incontro fondamentale, quello con l’industriale catalano Eusebi Güell, che divenne il suo mecenate e gli commissionò alcune di quelle che poi sarebbero diventate le sue più famose opere. In questo periodo Gaudí partecipò alla vivace vita sociale della città, mentre negli anni successivi sarà noto per il particolare carattere schivo e solitario. Nel 1887 il conte Güell gli affida la costruzione della sua residenza di città, il Palazzo Güell, nella cui creazione Gaudí usa per la prima volta gli archi di catenaria che saranno un elemento costante del suo linguaggio architettonico. Negli anni 1898-1900 fu costruita la Casa Calvet, un edificio in pietra che ottenne il premio assegnato dal Comune di Barcellona per il miglior edificio realizzato in città, confermando il successo professionale di Gaudí. A partire dal 1900 nascono i suoi capolavori, quasi tutti a Barcellona: il parco Güell in cui natura, scultura ed architettura si confondono in una grande maestria artigianale nell’uso dei materiali; la Casa Batlló (1904-1906),
che, considerata una delle opere più originali per la collocazione di dischi di maiolica frammentata e di vetri istoriati di diverse dimensioni e forme, secondo la tecnica del trencadí, appare come modellata da mani gigantesche, con la facciata rivestita da un mosaico di pietre vitree colorate, mentre i suoi balconi in ghisa ricordano delle ossa (nome con il quale venne ribattezzata l’abitazione) e lo strano tetto ondeggiante si presenta simile alle squame di un rettile primitivo; la chiesa della Colònia Güell, a Santa Coloma de Cervelló, di cui fu costruita la sola cripta. Tra il 1905 e il 1912, al numero 92 del celebre Passeig de Gràcia, nella zona d’espansione dell’Ensanche (in catalano, Eixample), su incarico di Roser Segimon e Pere Milà per il loro imminente matrimonio, costruì Casa Milà, detta La Pedrera (cava di pietra), adottando come elemento fondante la linea curva, zoomorfa, richiamante l’immagine delle onde del mare, che trionfa in svariati motivi presenti nella struttura (facciata, interni, mobili), anticipando l’intuizione del “plan libre” di Le Corbusier. La facciata esterna dell’edificio è rivestita di pietra grezza (di qui l’appellativo de La Pedrera) e presenta l’aspetto di parete rocciosa, ondulata, plasmata da forze geologiche, grandioso basamento di una statua alla vergine del Rosario che Gaudí intendeva collocare sulla sommità: al piano interrato un grande vano è coperto da una struttura metallica a “ruota di bicicletta” e il tetto dà l’idea di un paesaggio montano, popolato da camini, dissimulati da sculture dall’aspetto surreale e fantastico. Le opere di Gaudì sono caratterizzate, infatti, dall’elaborazione di forme straordinarie, imprevedibili e oniriche, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui seppe trarre le massime possibilità espressive con una profonda attenzione per le lavorazioni artigianali. La profonda fede cattolica, la spiritualità ed il suo peculiare misticismo permeano tutte le sue opere, costellate di motivi simbolici complessi, ma soprattutto la Sagrada Familia, che per Gaudí era un inno di lode a Dio, di cui ogni pietra era una strofa. I lavori del monumentale complesso iniziarono nel 1882, sotto il regno di Alfonso XII di Spagna. L’edificio venne iniziato in stile neogotico, ma quando Gaudí subentrò come progettista dell’opera, nel 1883, lo ridisegnò completamente. L’artista lavorò alla chiesa dedicandovi interamente gli ultimi 15 anni, accentuando la tendenza alla solitudine, tanto da vivere in una stanzetta nel cantiere. L’esterno del Tempio rappresenta la Chiesa attraverso gli Apostoli, gli Evangelisti, la Vergine Maria e Gesù, la torre principale simboleggia il trionfo della Chiesa, l’interno si riferisce alla Chiesa universale e il transetto alla Gerusalemme Celeste, simbolo mistico della pace. Il progetto è basato sulle versioni ricostruite dei progetti e dei modelli perduti (un incendio nel 1936, appiccato durante la guerra civile spagnola dai repubblicani all’atelier di Gaudí, distrusse molte tavole progettuali del celebre architetto), sullo studio della porzione dell’edificio realizzata personalmente da Gaudí e su adattamenti moderni. Quando Gaudí prese in mano la direzione dei lavori della Sagrada Familia, soltanto la cripta era stata realizzata e decise di non stravolgere quello che già era stato costruito, modificò soltanto i capitelli, passando da uno stile corinzio a uno ispirato alle forme vegetali. Le sue fonti d’ispirazione furono la grotta del Salnitre a Collbató, nella provincia di Barcellona, e la montagna di Montserrat. Gaudí riteneva che l’architettura gotica fosse imperfetta, perché le sue forme rettilinee e i suoi sistemi di pilastri e contrafforti non riflettevano le leggi della natura, cosa che invece fanno le forme geometriche rigate, quali il paraboloide iperbolico, l’iperboloide, l’elicoide e il conoide. Il famoso architetto progettò l’interno della Sagrada Familia come se fosse la struttura di un bosco, con colonne a forma di alberi che vanno a dividersi in modo da formare dei rami che sostengono la struttura a volte iperboloidi intrecciate. Gaudí, essendo consapevole di non poter completare l’opera, decise di costruire completamente la Facciata della Natività per dare un’idea globale della struttura e delle decorazioni piuttosto che continuare la costruzione nella sua interezza e in maniera lineare; scelse di costruire questa facciata verticalmente per dare un esempio di come sarebbero dovuti continuare i lavori: « Se invece di fare questa facciata decorata, ornata, turgida, avessi cominciato con quella della Passione, dura, nuda, come se fatta di ossa, la gente si sarebbe ritirata.» Secondo gli auspici del comitato promotore l’opera potrebbe essere completata, nella migliore delle ipotesi, per il 2026, a 144 anni dalla posa della prima pietra.
(La Sagrada Familia. Barcellona)
6 giugno
PRIMO PIANO
Governo Conte: ottenuta la fiducia al Senato e alla Camera.
Ieri sera, dopo l’esposizione programmatica da parte del presidente del Consiglio, il Senato ha approvato la fiducia al governo di Giuseppe Conte: i voti favorevoli sono stati 171, i contrari 117, gli astenuti 25, presenti 314, votanti 313. I 171 sì sono il risultato della somma dei voti dei 109 senatori grillini e dei 58 della Lega, ai quali si sono aggiunti due espulsi dal M5s e due eletti all’estero del Maie. Dopo il sì del Senato, il premier ha oggi ottenuto la fiducia della Camera con 350 voti a favore, 236 contrari e 35 astenuti, in tutto 4 voti in più rispetto alla base parlamentare. Hanno votato a favore i deputati del M5s e della Lega e quelli del Maie, hanno detto “no” alla fiducia Pd, Forza Italia e Leu. Durante la discussione generale hanno annunciato il loro sì due deputati del Maie, Antonio Tasso e Catello Vitiello, e altrettanto hanno fatto nelle dichiarazioni di voto Salvatore Caiata (Misto ed ex M5S) e Vittorio Sgarbi, in dissenso con il suo gruppo, Fi. La proclamazione del risultato della votazione è stata salutata da un coro da stadio e da un lungo e forte applauso della maggioranza in piedi al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che mentre veniva abbracciato dai ministri, con le dita, ha fatto il gesto di restituire l’applauso ai deputati. Nel suo discorso il premier ha illustrato i vari temi del programma di governo, dalla pace fiscale e dallo stop all’austerity, dalla flat tax e dal reddito di cittadinanza alle banche, alla deburocratizzazione, al sistema giustizia, sanità, migrazioni, senza tralasciare Sud, Scuola, e Infrastrutture, di cui non aveva parlato al Senato. Sul tema più delicato, quello su cui vigila il presidente della Repubblica (l’Europa e il debito), il presidente del Consiglio ha ribadito la sua volontà di “negoziare sul fronte della discesa progressiva del debito”. “Bisognerà vedere come arrivarci”, ha precisato. Il premier ha parlato pure di un “vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali, che potrebbe essere attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici.” Non sono mancati momenti di tensione, quando durante la replica, di fronte alle manifestazioni di dissenso di alcuni deputati dem sulla parte relativa al conflitto di interessi, Conte ha chiesto di non essere interrotto e a questo punto è intervenuto, richiamando all’ordine, Roberto Fico, contro il quale si sono schierati i deputati Pd Emanuele Fiano e Ivan Scalfarotto, accusando il presidente della Camera di parzialità. Duri e violenti sono stati gli attacchi di Fi e Pd, in particolare di Graziano Delrio, capogruppo dem, che ha ammonito il premier a non “fare lezioni”, a non fare “il pupazzo in mano ai partiti” e poi lo ha corretto, quando Conte nel suo intervento ha citato il fratello di Sergio Mattarella, assassinato dalla mafia, definendolo “un congiunto” del capo dello Stato: Delrio ha precisato “Piersanti, si chiamava Piersanti” tra la standing ovation dei deputati Pd. In un tweet il premier Giuseppe Conte, pubblicando la foto dell’Aula della Camera, ha scritto “Il Parlamento ha dato la fiducia al governo del cambiamento. Da oggi pronti a lavorare per migliorare la qualità della vita degli italiani.”
DALLA STORIA
Anne Bancroft.
Figlia della prima generazione di immigrati italiani negli Stati Uniti, la famiglia era originaria di Muro Lucano, un paesino in provincia di Potenza, Anna Maria Louisa Italiano, in arte Anne Bancroft, con la sua scomparsa, avvenuta il 6 giugno 2005, ci ha lasciato tutti un pò orfani, tristi con la consapevolezza che con lei se ne andava un’attrice che fu protagonista di un cinema colto, impegnato, intelligente. Anne Bancroft era un una donna di particolare fascino, intensa e la sua capacità interpretativa, nei ruoli più diversi, ha ricevuto i più alti riconoscimenti: due premi Oscar, due Golden Globe, tre BAFTA. Era nata a New York, nel Bronx, il 17 settembre 1931. Fin da giovanissima prese lezioni di danza e recitazione all’American Academy of Dramatic Arts di New York. Durante i primi anni della sua carriera, fece una dura gavetta: “Conoscevo benissimo l’odore delle tavole polverose di tantissimi teatri di periferia, finchè presi parte ai primi serial televisivi interrotti dalla pubblicità della minestra Campbell”. Nel ’52, a ventun anni, debuttò a Hollywood, con la Metro Goldwyn Mayer (la casa di produzione le chiese di cambiare cognome, lei sceglie Bancroft, perché le sembrava elegante) nel film “La tua bocca brucia”, con Marilyn Monroe e Richard Widmark. Le sue interpretazioni successive, in pellicole come “Gorilla in fuga” e “La terra degli Apaches”, non sembrarono soddisfarla. Lasciò Hollywood per New York e nel ’58 debuttò a Broadway a fianco di Henry Fonda in “Due sull’altalena”, di William Gibson, vincendo il Tony Award. L’anno seguente apparve di nuovo sul palcoscenico nel ruolo dell’insegnante che cerca di aiutare una bambina sordo-cieca in “Anna dei miracoli”, sempre con Gibson. Nel ’62, il regista Arthur Penn la chiamò a ripetere la performance nell’omonima trasposizione cinematografica della pièce; la sua interpretazione le fece guadagnare nel ’63 un premio Oscar “come miglior attrice” e un premio BAFTA quale attrice internazionale dell’anno. Nel ’64 sposò l’uomo che le resterà a fianco per quarant’anni: Mel Brooks. Egli dirà: “Quando l’ho vista mi sono innamorato perdutamente … stiamo insieme perché nonostante le difficoltà, almeno abbiamo l’un l’altra”. Nel ’64 vinse anche il secondo BAFTA con l’interpretazione in “Frenesia del Piacere”. Lavorò in altri film come: “La vita corre sul filo”, del ’65, di Sidney Pollack, in “Missione Manciuria”, nel ’66, l’ultimo film di John Ford. Nel ’67 venne chiamata come protagonista del film “Il laureato”, di Mike Nichols, basato sul romanzo omonimo di Charles Webb, in cui interpretò la provocante Mrs. Robinson (immortalata nella celebre e omonima canzone di Simon & Garfunkel) che seduce un giovane Dustin Hoffman. Il film ebbe un successo strepitoso, tanto che è un film di culto, rivisto, citato, ricordato e apprezzato anche a distanza di moltissimi anni. Il film, seppur in veste di commedia e attraverso un taglio sentimentale e non politico, avverte e in qualche modo anticipa i fermenti giovanili di ribellione che esploderanno di lì a pochi mesi nelle grandi contestazioni del ’68. In tutta la pellicola, viene continuamente sottolineata una sostanziale incomunicabilità fra i giovani e il mondo degli adulti, che tentano di imporre i propri schemi perbenisti. Incomunicabilità che il protagonista, Benjamin, ha non soltanto con i genitori ma anche con la signora Robinson, persino dopo esserne diventato l’amante. Benjamin, non è ancora un figlio del ’68, non si ribella apertamente, non tenta di cambiare il mondo, semplicemente si limita a disobbedire, ha il coraggio di fare di testa sua, scegliendo una strada diversa da quella pensata dagli adulti. La fuga finale dei due giovani in autobus, preso a caso, può essere vista persino come una sintesi del clima di quell’epoca, la spinta a una rottura con il conformismo imposto dalla società, ma attraverso una fuga inconsapevole, colma di incertezze e priva di un reale progetto. Lavorò col marito Mel Brooks in alcune storiche pellicole e con altri grandi registi: nel documentario “Hindenburg”, che rievoca, romanzandola, la tragedia dello Zeppelin tedesco esploso nel ’37. Successivamente è tra gli interpreti del drammatico “Stupro” poi è Maria Maddalena nel “Gesù di Nazareth”, di Franco Zeffirelli, che stando alla critica è considerato uno dei film più retorici sulla vita di Gesù, riqualificato dalla presenza scenica della Bancroft. Nel ’77, insieme a Shirley Mac Laine interpreta “Due vite una svolta”, storia di due amiche aspiranti ballerine che, ritrovandosi dopo molti anni, fanno un bilancio sulle rispettive e diverse scelte di via. Diverse sono le sue partecipazioni cinematografiche come quella di una celebre attrice che nell’Inghilterra vittoriana prende a cuore la vicenda di un ragazzo deforme in “The Elephant Man”, del ’80, di David Lynch o quella della madre superiora che scopre il terribile segreto di una giovane suora in “Agnese di Dio”, insieme a Jane Fonda e Meg Tilly, nel ’85, di Norman Jewison o, accanto a Anthony Hopkins in “84 Charing Ceoss Road, nel ’86, di David Hugh Jonres. Negli anni Novanta interpretò ruoli drammatici e recitò in “Soldato Jane”, di Ridley Scott e una delle sue ultime interpretazioni cinematografiche fu quella della stravagante madre di un giovane rabbino in “Tentazioni d’amore”, di Edward Norton, nel 2000. A parte un breve periodo di rallentamento del lavoro per la nascita del figlio Max, nel ’72, avuto con Brooks, (in quell’anno era stata scelta per il ruolo di Chris MacNeil, la madre in “L’esorcista”) la sua attività cinematografica è sempre stata molto intensa. L’attrice confidò, comunque, che le sue maggiori soddisfazioni le traeva a Broadway. Si dice che a lei non piacesse essere ricordata, sempre e soprattutto, per aver interpretato Mrs Robinson, forse non voleva restare imprigionata in quell’unico ruolo. Conosciamo bene la caratura dell’attrice lucano/americana ma, quelli della mia generazione, che allora erano poco più che adolescenti, solo a guardare il suo bellissimo volto rivanno, con la memoria e molta nostalgia, alle immagini di un film carico di speranza e sogni di libertà.
5 giugno
PRIMO PIANO
Uffizi: nuova sala dedicata a Michelangelo e Raffaello.
Al secondo piano della Galleria degli Uffizi è stata aperta una nuova sala dedicata ai due grandi artisti rinascimentali, Michelangelo e Raffaello. Al centro di una enorme “parete oblò” è collocato il celebre Tondo Doni di Michelangelo insieme alla Madonna del Cardellino di Raffaello. Sulle pareti di colore grigio morbido, per esaltare la vividezza dei colori delle opere, spiccano altri capolavori di Raffaello, come i ritratti di Guidobaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga, quelli di Angelo e Maddalena Doni e il San Giovannino, le cui forme scultoree fanno da ‘specchio’ al Tondo Doni. Ci sono anche tre opere di Fra Bartolomeo, la grande Visione di San Bernardo, Porzia, il piccolo dittico dell’Annunciazione, e l’Alessandro morente, una marmorea testa ellenistica molto conosciuta nel Rinascimento. Ha spiegato il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt: “Abbiamo concentrato 11 vere e proprie bombe della storia dell’arte in questa nuova sala, sono tutti capolavori, che abbiamo tolto da punti della galleria dove, per varie ragioni, non avevano la visibilità che meritavano, affinché insieme, con la loro incredibile forza espressiva, potessero simboleggiare e celebrare la gloria del primo decennio del ‘500. Allora, Firenze era capitale artistica, culturale e scientifica di tutto il mondo: in pratica, insieme la Soho, la Montmartre, la Silicon Valley dell’Occidente di allora”. Schmidt ha poi annunciato l’apertura il 9 luglio di una nuova sala per Leonardo al secondo piano, accanto a quella di Michelangelo e Raffaello. L’Adorazione dei Magi, l’Annunciazione e il Battesimo saranno spostati dal primo piano, dove “la loro grandezza risultava in qualche modo solitaria”, al secondo. “L’obiettivo – ha detto Schmidt – è di ricreare con questi accostamenti quel momento magico del Rinascimento, nel primissimo scorcio del ‘500, in cui Leonardo, Raffaello, Michelangelo si trovavano tutti e tre a Firenze.”
DALLA STORIA
Luigi XIV, il Re Sole, monarca assoluto di Francia.
Nei libri di storia si indica la data del 5 giugno come il giorno in cui, nel 1662, Luigi XIV adotta come suo simbolo personale il sole a sottolineare che la sua monarchia è come un astro attorno al quale ruota tutta la vita di corte, esattamente come i pianeti ruotano attorno il sole (riferimento alla rivoluzione Copernicana); una monarchia talmente luminosa, potente e preziosa da abbagliare con il fasto, il lusso, le arti ogni altro regno esistente in Europa. Per questo egli sarà definito il Re Sole e, come un sole, genera e mantiene la vita della nazione. Dalle sue Memorie si legge “Il sole, per la sua qualità di unico centro del sistema solare, per il suo splendore, per la luce che comunica agli astri che compongono attorno a lui una specie di corte, per la costante ed equa distribuzione che fa di questa luce a tutte le plaghe, per il bene che produce ovunque generando la vita … è certamente la più viva immagine di un grande monarca”. Non si può dire che non fosse dominato da uno “sfrenato” desiderio di potere tale da progettare un impero universale! Un modello archetipico di quello che successivamente, molti anni e secoli dopo, verrà definito “il culto della personalità”. Già a partire da Enrico IV, la restaurazione dell’autorità fu un obiettivo prioritario in Francia. Lo perseguì Luigi XIII che, con Richelieu, cominciò anche una politica di egemonia europea. Ma, come già annunciato, con Luigi XIV arriverà al culmine. Quando nel 1643, in piena guerra dei Trent’anni, il re di Francia Luigi XIII morì, gli succedette il figlio Luigi XIV che all’epoca aveva solo cinque anni. A reggere il regno fu sua madre, la regina Anna d’Austria accompagnata dal cardinale Mazzarino, una vecchia eredità di Richelieu. Entrambi dovettero scontrarsi con la sfida del proseguimento della guerra all’estero, come anche con la difficoltà di finanziarla. Nonostante la Francia fosse uno dei regni più popolosi d’Europa, ci furono momenti in cui la pressione fiscale risultò eccessiva e portò allo scoppio di una serie di tumulti che sembravano insuperabili. Le insurrezioni a ferro e fuoco coinvolgevano i contadini, ma arrivarono nelle strade piene di miseria di alcune città. Poveri e privilegiati condivisero la loro antipatia per il cardinale. Le misure di centralizzazione del governo provocarono anche episodi di insubordinazione costante tra le corporazioni rappresentative, specialmente nei parlamenti regionali, anche se l’assemblea che ebbe un ruolo protagonista nelle proteste fu il parlamento della capitale, Parigi a sollevarsi. Contadini, nobili e oligarchie urbane avevano, senza dubbio, progetti molto diversi e opposti tra loro: i nobili volevano più autonomia nel governo dei loro feudi (si opponevano alla politica accentratrice del cardinale Mazzarino) e i contadini chiedevano meno tasse e migliori condizioni di vita. Solo il rifiuto del regime di guerra imposto da Richelieu e proseguito da Mazzarino li unì nelle loro proteste, che sono conosciute con il nome di Fronda (dal francese “fronde”, fionda, arma utilizzata dal popolo parigino per distruggere le finestre degli appartamenti del cardinale durante i moti di protesta). Nel 1661, all’età di ventitré anni, fin dal primo giorno dopo la morte di Mazzarino, Luigi XIV, ricordandosi di quando era bambino della ribellione dei nobili e della guerra civile che aveva devastato la Francia tra il 1648 e il 1653, decise di governare da solo. A sottolineare il suo assolutismo, in questa occasione, sembra abbia pronunciato la famosa frase “L’État c’est moi!”. Volle esercitare personalmente il potere per contrastare indisturbato il potere dei nobili attraverso una regia strategica ben orchestrata. A Versailles non lontano da Parigi, Luigi XIII si era fatto costruire una palazzina di caccia. Luigi XIV, per realizzare il suo piano politico, definito politica della distrazione, decise di trasformare la palazzina in una sontuosa reggia, senza pari in Europa per splendore rendendola così desiderabile che tutti i nobili vollero trasferirsi, non capendo che si stavano infilando in una gabbia, ancorché dorata. Versailles fu concepita da Luigi XIV per impressionare il mondo e mostrare la sua potenza ma, il suo ruolo principale fu quello di ospitare, distraendola dalla politica, la nobiltà francese. Trasferendosi a Versailles, i nobili persero progressivamente, come previsto dall’astuta politica del Re Sole, i contatti con i propri feudi, che erano la loro fonte di potere e si ritrovarono legati a doppio filo al Re. Questi governò per diritto divino ed era considerato l’origine di tutta la legislazione del regno, fonte inesauribile di privilegi e giudice supremo. In relazione a queste caratteristiche divine, tutta la sua corte si era preparata a rendere culto alla sua persona attraverso una liturgia quasi sacra. Non tutti coloro che circondarono il Re Sole furono meri e futili adulatori. Istruito dagli insegnamenti di Mazzarino, Luigi XIV era senz’altro un uomo preparato intellettualmente, di una certa cultura e conoscitore del regno. Seppe così circondarsi di collaboratori fidati e competenti. Per consultarsi disponeva di un consiglio reale diviso in sezioni specializzate, che esaminavano due volte alla settimana i grandi temi di ordine interno ed esterno. Durante il suo lungo regno, 1643-1715, si registrò una ricca fioritura delle arti. Molière e la sua compagnia teatrale poterono godere della sua protezione; nel 1660 il re installò nel Téhâtre du Palais-Royal la sede definitiva della compagnia teatrale dove Molière dimostrò sempre un’attività frenetica. Le sue commedie, il cui umorismo fustigava l’ipocrisia dei cortigiani e della borghesia, gli valsero il favore di Luigi XIV, ben contento di mettere in ridicolo i poco amati nobili. Il primo architetto del Re Sole, Jules Hardouin-Mansart, è considerato il più importante del periodo barocco in Francia. Egli è l’autore del grandioso palazzo di Versailles e della famosa Galleria degli specchi, forse la più alta espressione della magnificenza e del lusso di cui si volle circondare il Re Sole. Simboli del potere del re furono disseminati per ogni dove, dai fastosi interni allo spazio esterno. Le cifre di edificazione di Versailles furono talmente spettacolari paragonabili solo, in quanto a mobilitazione di manodopera, ai grandi monumenti degli altri imperi antichi. Il palazzo fu continuamente demolito, ristrutturato e perfezionato per cinquantaquattro anni, dal 1661 al 1715, fino alla morte del Re Sole. Il suo splendore accecò tutti i sovrani europei, al punto che alcuni vollero imitarlo, come fece l’imperatrice Maria Teresa d’Austria con Schonbrunn nel tentativo addirittura di superarlo.
(Galleria degli specchi a Versailles)
Mary Titton
4 giugno
PRIMO PIANO
Guatemala: eruzione del Volcán de Fuego.
È alta la possibilità di un’ecatombe in Guatemala per l’eruzione del Volcán de Fuego, il vulcano alto oltre 3.700 metri, che, noto per la sua attività di tipo stromboliano, si trova 35 km a sudovest della capitale, Città del Guatemala. L’eruzione è stata improvvisa: nella notte tra domenica e lunedì un’esplosione di gas, fumo e ceneri ha oscurato il cielo ed è rapidamente caduta sul territorio circostante, densamente abitato, cosicchè alcuni centri sono stati completamente sepolti dalle ceneri. Il vulcanologo Piergiorgio Scarlato, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), che ha studiato sul posto il vulcano, ha detto all’ANSA: “ L’impatto di questa eruzione sulla popolazione è simile a quella di Pompei, ma in questo caso gli stili eruttivi del vulcano del Fuego e del Vesuvio sono diversi: il vulcano del Fuego ha generato colonne di ceneri e gas alte fino a 3-4 Km. e flussi piroclastici, cioè una miscela di gas e materiale vulcanico, il Vesuvio nell’eruzione del 79 d.C ha generato una colonna di gas e ceneri alta fino a 20-25 Km. che, collassando su se stessa, ha prodotto flussi piroclastici come quelli osservati al Fuego”. La nube ardente ha raggiunto temperature di almeno 700 gradi e velocità superiori ai 100 Km. all’ora e ha investito la popolazione con ceneri, lapilli e blocchi di rocce e tutto quello che ha trascinato con sé. Secondo le dichiarazioni di Mario Arvalo, segretario esecutivo della Caritas guatemalteca, l’entità dei danni non è ancora quantificabile, il dato provvisorio è di circa 70 vittime, ma alcuni esperti temono che ci siano addirittura tremila persone sotto le ceneri, ci sono moltissimi abitanti dispersi, imprecisato il numero dei senza tetto. Ancora il segretaio Alvaro: “Come Caritas del Guatemala, in coordinamento con le Caritas diocesane, stiamo operando per raccogliere alimenti e sistemare le persone in alberghi e centri di accoglienza. Le persone coinvolte sono un milione e 700mila, numero che potrebbe aumentare. Ci sono gravissimi danni anche a infrastrutture pubbliche, soprattutto strade e ponti, per cui le comunicazioni sono molto difficili”.
DALLA STORIA
1949: viene pubblicato a Parigi “Il secondo sesso” della scrittrice Simone de Beauvoir.
“Essere donna è una condizione pericolosa e infelice soltanto se ci si lascia vincolare nella dipendenza morale e materiale degli uomini”. (S. Beauvoir)
Nel giugno del 1949, esattamente a metà del XX secolo in Francia, dove le donne hanno votato per la prima volta nel 1947, viene pubblicato “Il secondo sesso”, di Simone de Beauvoir. Mille pagine che suscitano scandalo. Ma lo scandalo assicura al libro un immediato successo. Fin dalla prima settimana, sono vendute oltre ventimila copie. In Germania viene tradotto nel 1952, in Italia, solo nel 1961, da il Saggiatore, che lo ha ristampato prima nel 1986, dopo la morte di Simone e poi nel 1999, in occasione del cinquantenario dell’opera. In Spagna, invece, all’epoca del franchismo, il libro circolava clandestinamente in una traduzione argentina del 1962. All’inizio le reazioni di associazioni e gruppi femminili furono poche, un silenzio imbarazzato, evidentemente, indicava che le posizioni della Beauvoir erano molto avanti rispetto al pensiero generalizzato nei confronti della condizione femminile e la sua discriminazione, anche in seno ai movimenti femminili. Oggi, come e più che all’epoca in cui scriveva Simone, si avverte una strana contraddizione fra le “conquiste” femminili e la realtà della vita delle donne anche nel “civilizzato” Occidente. I dati sull’occupazione, sull’istruzione, sulla presenza delle donne in politica, gli stereotipi che persistono, la guerra dei sessi che sembra si sia accentuata piuttosto che placata, sono lì, “incomprensibili, inspiegati e inspiegabili”. Con il diritto al voto, a conclusione di una serie di leggi che mettevano fine alla discriminazione della donna sul piano giuridico sembrava che l’uguaglianza fosse stata acquisita una volta per tutte. Interrogata sull’argomento la Beauvoir, sintetizzava, in modo lapidario: “La donna? È semplicissimo, dice chi ama le formule semplici: è una matrice, un’ovaia; è una femmina: ciò basta a definirla. In bocca all’uomo, la parola “femmina” suona come un insulto; eppure l’uomo non si vergogna della propria animalità, anzi è orgoglioso se si dice di lui: “È un maschio!”. Questi pregiudizi, a distanza di quasi settant’anni, non sono affatto anacronistici a giudicare dall’ondata di violenza maschile sempre più presente nei fatti di cronaca in cui si conta, ogni anno, un numero crescente di donne uccise per mano di mariti, compagni che accampano, sulle malcapitate, diritti di possesso e pretese di autorità. Nelle decadi successive, con l’affermarsi del movimento di liberazione della donna, il cosiddetto “femminismo”, si accesero i riflettori sulla disparità di genere che attingeva a modelli educativi, ancestrali, di carattere culturale provenienti da una mentalità contadina, arcaica e patriarcale che aveva, per secoli, contrassegnato l’Europa e, in particolare, “lo Stivale”. Le lotte, organizzate per lo più dalle intellettuali (punti di riferimento culturale teorico e partecipativo) avevano diffuso una presa di coscienza femminile sempre più ampia e trasversale: in quegli anni le donne scendevano in piazza e rivendicavano, esigevano il riconoscimento dei loro diritti e la parità. Donne insegnavano ad altre donne l’importanza della trasmissione, nell’educazione ai propri figli maschi, di un modello sociale con al centro la figura femminile e maschile in termini di assoluta parità, nel rispetto delle diversità e nel valore della persona a prescindere. Come valutava, la Beauvoir, l’essere donna nel XX secolo? “Essere donna?”: “È una condizione pericolosa e infelice soltanto se ci si lascia vincolare nella dipendenza morale e materiale dagli uomini”. Ma l’uguaglianza negava le differenze dell’uomo e della donna? “È semplicemente stupido pretendere che non vi siano differenze tra l’uomo e la donna per il solo fatto che essi godono di eguali possibilità e libertà. Io sono la prima a sostenere che le donne sono molto diverse dagli uomini. Non ammetto, invece, che la donna sia diversa dall’uomo. In realtà, oggi, sussistono tra uomini e donne differenze che soltanto facendo del femminismo a buon mercato si possano negare. “Il femminismo è una maniera di vivere individualmente e una maniera di lottare collettivamente”. Mi sembra che gli uomini abbiano più risorse. Non so se siano senz’altro più felici, ma mi sembra (forse esagero) che non precipitino mai in quel baratro di infelicità, di abbandono, di non senso della vita nel quale possono finire le donne. Questo perché gli uomini sono pur sempre presi in attività che li interessano, perché hanno la possibilità di dare un senso alla propria esistenza proiettandosi nella società e nell’avvenire. Mentre le donne, in generale, sono assai più vincolate a un mondo monotono e, rispetto agli uomini, sono mantenute in una condizione di dipendenza morale e materiale. Questa, d’altronde, è la ragione principale perché io sono femminista: perché penso che, anche per ciò che concerne la semplice felicità (senza voler parlare della libertà, della liberazione di sé), la condizione femminile è assai più pericolosa, sì, assai più infelice. Il che non impedisce, naturalmente, che ci siano donne molto felici e altre che, pur nella loro infelicità, raggiungono orizzonti che sfuggono a molti uomini. Il fatto è che molto spesso gli uomini sono assai più banali delle donne”. Inoltre Beauvoir spiega che in un mondo in cui i due sessi fossero uguali, entrambi sarebbero più liberi: infatti se l’uomo desse alla donna la possibilità di avere una carriera significativa, lei si focalizzerebbe meno su di lui e potrebbe essere più indipendente. Il coraggioso saggio, che si apre con un capitolo di introduzione e uno di conclusione, è diviso in tre parti: Destino, Storia, Miti. La donna viene vista dall’autrice attraverso i dati della biologia, il punto di vista psicoanalitico, storico. Dapprima è analizzata dall’esterno e in particolare dall’uomo e ne viene messa in rilievo la condizione subordinata che le è stata attribuita e in seguito viene studiata in ogni fase della sua vita, dall’infanzia all’iniziazione sessuale, dalla maturità alla vecchiaia. Ne vengono descritti i comportamenti e le varie situazioni, come sposa, madre, prostituta, lesbica, narcisista, innamorata, mistica. Simone de Beauvoir parla di tutte le circostanze che portano a credere all’inferiorità delle donne e degli effetti che questo ha sulla loro scelta di sposarsi e di abbandonare la propria carriera. L’autrice interroga poi gli studiosi più credibili senza distinzione di sesso, dai medici agli psicologi, dai romanzieri agli scrittori e al tempo stesso invita le donne a raccontare le loro esperienze sia d’amore sia di altro. Beauvoir sostiene che è necessario che la donna venga integrata nella società con gli stessi diritti e doveri dell’uomo e pertanto con tutte le conquiste che ne derivano, dalla uguaglianza del salario, alla possibilità del controllo delle nascite, all’aborto in termini legali e a tutti quei riconoscimenti civili, politici e giuridici che possiedono gli uomini.
3 giugno
PRIMO PIANO
Naufragi al largo di Turchia e Tunisia: decine di morti, anche bambini.
Nella notte tra sabato 2 e domenica 3 giugno c’è stato un naufragio al largo delle isole Kerkennah, nel mare di fronte alla Tunisia. Le autorità tunisine hanno detto che la barca trasportava 180 migranti, tra cui 80 da altri paesi africani, i soccorritori hanno recuperato 48 corpi, ma il bilancio è destinato a salire. Un supersitite ha raccontato che l’imbarcazione era salpata ieri sera intorno alle 20:30 e quasi subito aveva iniziato a imbarcare acqua, fino a inabissarsi, mentre il capitano ha abbandonato la nave, quando ha iniziato ad affondare, per sfuggire all’arresto. La Ong Forum tunisino per i diritti economico e sociali, Ftdes, in riferimento al naufragio al largo delle isole tunisine di Kerkennah, in un comunicato, ha chiesto al governo tunisino di rivedere le politiche di sicurezza relative alla migrazione clandestina. Il Ftdes ha sottolineato in particolare “la necessità di riesaminare le vie esistenti di cooperazione con l’Unione europea, che dà la priorità agli approcci di sicurezza nella gestione delle migrazioni e all’adozione di politiche di chiusura delle frontiere senza fornire alternative di sviluppo globale che rispondano alle aspirazioni dei giovani della Tunisia attraverso la dignità e la giustizia sociale”. L’altra tragedia del mare con 9 morti, tra i quali sei bambini, è avvenuta in Turchia. Un gruppo di migranti cercava di raggiungere le coste europee, ma il motoscafo sul quale viaggiavano è affondato prima della loro meta, la piccola isola greca di Kastellorizo, di fronte alla cittadina turca di Kas. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stato turca, Anadolu, il motoscafo ha registrato un’avaria nel distretto di Demre, nel golfo di Antalya, luogo molto frequentato dai turisti. Cinque persone sono state tratte in salvo e una è dispersa. Le identità e le nazionalità delle vittime non sono state rese note. Nel 2015 erano stati più di un milione i profughi siriani che avevano raggiunto la Grecia passando dalla Turchia, ma l’anno successivo un accordo dell’Ue con Ankara per i rimpatri dei migranti irregolari ha drasticamente ridotto gli sbarchi nelle isole greche dell’Egeo (meno di 11mila nei primi cinque mesi del 2018).
2 giugno
PRIMO PIANO
2 giugno: in migliaia ai Fori Imperiali per la festa della Repubblica.
(Giuseppe Tresoldi, luogotenente dei paracadutisti)
Oggi, ai Fori imperiali, a Roma, si sono svolte le tradizionali celebrazioni per la festa della Repubblica, nata settantadue anni fa, quando il 2 giugno del 1946 gli italiani, con un referendum, scelsero di dare al nostro Stato la forma di Repubblica costituzionale, al posto della monarchia che vigeva nel nostro Paese da ottantacinque anni. In via dei Fori Imperiali migliaia di persone hanno assistito alla parata delle forze armate e delle autorità civili del Paese, che si tiene dal 1948 per festeggiare la ricorrenza, occasione anche per la prima uscita ufficiale del governo guidato da Giuseppe Conte. Il nuovo premier, salutato calorosamente dalla gente, ha dichiarato: “È la festa di noi tutti. L’Italia non è corrotta”. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, accompagnato dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta, ha sfilato lungo via dei Fori imperiali a bordo della Lancia Flaminia scoperta, da sempre utilizzata dai Presidenti nelle manifestazioni ufficiali, e ha poi raggiunto il palco d’onore, dove alla presenza delle massime cariche dello Stato ha ricevuto gli onori militari e infine ha cominciato ad assistere alla sfilata conclusasi con la fanfara dei Bersaglieri. Al termine della cerimonia un paracadutista della Brigata Folgore con una bandiera tricolore di 400 metri quadrati è atterrato su via dei Fori Imperiali tra gli applausi della folla, entusiasta anche per il successivo passaggio delle frecce tricolori. In precedenza, sulle note della Canzone del Piave, a 100 anni dalla conclusione della Prima guerra mondiale, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, accompagnato dalle massime autorità dello Stato, aveva deposto una corona di fiori davanti alla tomba del milite ignoto, all’Altare della patria, rimanendo alcuni istanti in raccoglimento al suono del “Silenzio”.
1 giugno
PRIMO PIANO
Roma: scoperta una tomba del IV secolo a. C.
Il ritrovamento è avvenuto alla periferia di Roma, nella zona Case Rosse, durante i lavori di archeologia preventiva, svolti dall’Acea per il raddoppio dell’acquedotto Castell’Arcione-Salone. La sepoltura, chiamata dagli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma “Tomba dell’Atleta”, perchè, insieme ai resti ossei, sono stati trovati due strigili in ferro, usati dagli atleti per detergersi dopo le attività fisiche, rappresenta una scoperta eccezionale per il perfetto stato di conservazione in cui si trova e perché è apparsa inviolata. La tomba è rimasta, infatti, intatta per oltre 2000 anni e nel corso dei secoli vi è entrata una limitatissima quantità di terra. E’composta da una camera, scavata a una profondità di circa 2 metri sotto l’attuale piano di campagna, e ospita 4 sepolture, avvenute in momenti differenti. Il vano ipogeo, completamente scavato nel banco tufaceo caratteristico della zona, presenta una larghezza di circa 2,50 metri, una lunghezza di 3,30 metri e una altezza di 1,75 metri. Nella camera di epoca repubblicana tutto è esattamente com’era, immobile da oltre 2 millenni: gli scheletri di tre uomini e una donna, sepolti accanto al corredo funerario, splendide ceramiche a vernice nera, alcune decorate con motivi geometrici e vegetali, una moneta in lega di bronzo con la testa elmata di Minerva e la scritta “Romano” sul rovescio, i piatti con i resti delle offerte alimentari a base di coniglio, agnello o capretto e due strigili in ferro, usati dagli atleti per lavarsi dopo le attività fisiche. Gli esperti hanno rimosso la pochissima quantità di terra penetrata nel vano nel corso dei secoli e hanno sottoposto la tomba a un rilevamento laser, funzionale a una ricostruzione tridimensionale della sepoltura, mentre i reperti saranno oggetto di studi approfonditi da parte della Soprintendenza nei prossimi mesi. Durante lo scavo è, però, già emerso che le quattro inumazioni sono avvenute in momenti differenti e riguardano due uomini adulti ritrovati sui lati lunghi, uno di 50 anni (probabilmente l’atleta, per la presenza degli strigili accanto al suo scheletro) e uno di 30-39 anni, e un uomo e una donna posti a terra, lui tra i 35-45 anni e lei di età indefinita. Secondo gli archeologi, gli scheletri, per le caratteristiche del corredo, circa 30 pezzi, apparterrebbero a una famiglia medio borghese di età repubblicana.
DALLA STORIA
Giuseppe Ungaretti: “Uomo di pena”, come egli diceva di se stesso.
Giuseppe Ungaretti moriva a Milano, all’età di ottantadue anni, il 1° giugno 1970. Era nato, infatti, l’8 febbraio 1888 da genitori toscani originari della provincia di Lucca, ad Alessandria d’Egitto, dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza e dove maturò l’amore per la poesia attraverso la lettura di Baudelaire e dei simbolisti francesi. Nella poesia “Pellegrinaggio”, che fa parte della raccolta “L’Allegria”, si definì “uomo di pena” per rappresentare la parabola di dolore che ha attraversato la sua vita e che diventa simbolo universale della condizione esistenziale dell’uomo moderno. Nella sua lunga vita, che lo ha visto coinvolto nelle due guerre mondiali, ha composto diverse raccolte poetiche, ma quella che è stata la più dirompente nel panorama del Novecento italiano è “L’Allegria”, a cui il poeta in origine aveva dato il titolo “Il Porto sepolto”, che, dietro il rimando leggendario a un antico porto sommerso nei pressi di Alessandria, allude a quel mistero, quel segreto che è in noi, dove “arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde”. Infatti nella poetica di Ungaretti, anche per la suggestione di Mallarmè e Apollinaire, domina la parola, che, “isolata nello spazio bianco della pagina, corrispondente al silenzio da cui scaturisce, assume il valore di un’improvvisa e folgorante “illuminazione”, identificandosi con “l’attimo”, in cui attraverso il rapporto analogico, la poesia sfiora il senso dell’esistenza, il mistero, l’assoluto”: “Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso”. L’intensificazione espressiva della parola da un lato e la sua indefinitezza dall’altro danno luogo ad ardite soluzioni formali, quali l’abolizione della punteggiatura, la frantumazione del verso, l’uso ricorrente di parole-verso, scelte stilistiche portate alle estreme conseguenze in brevissimi versi quali quelli di “Soldati” (Si sta come/ d’autunno/sugli alberi/le foglie), che esprime la precarietà dell’esistenza umana o nella famosissima “Mattina”, in cui il poeta, in due sole sequenze (M’illumino/ d’immenso), strettamente correlate al titolo, traduce l’improvvisa folgorazione della luce, che provoca in lui, in modo rapidissimo e alogico, la percezione della vastità immensa del cosmo, un momento di fiducioso abbandono e di “armonia” con l’infinito, con il tutto. Ungaretti, originariamente anarchico, venuto in Italia, spinto dal nazionalismo circolante tra gli intellettuali nel 1914 e dal desiderio di sentirsi appartenente ad una patria, si arruolò con entusiasmo come volontario e partecipò alla prima guerra mondiale come semplice fante prima sul Carso e poi sul fronte francese: tale esperienza gli rivelò la violenza brutale e l’orrore della guerra, che, come afferma Luperini, “denudata di ogni mito e fede, è rappresentata nella sua insensata tragicità come pura esperienza esistenziale”. L’atrocità della guerra distrugge paesi (San Martino del Carso: “Di queste case/non è rimasto/che qualche/ brandello di muro”), uccide esseri umani (“Un’intera nottata/buttato vicino/a un compagno/massacrato/con la sua bocca/digrignata/volta al plenilunio”), ma soprattutto incide un dolore profondo ed indelebile nell’animo del poeta (È il mio cuore/il paese più straziato). Il dolore, emblema di ogni vita umana, accompagna anche gli anni della maturità di Ungaretti, che è colpito da gravi lutti familiari, la perdita del fratello e del figlio Antonietto di nove anni (E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto! …) ed assiste alle atrocità della seconda guerra mondiale e della guerra civile in Italia, un dolore pietrificato in “una roccia di gridi” e che si fa preghiera vibrata e dolente, che invita gli uomini a riscoprire i valori della fratellanza e della pietà:
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
31 maggio
PRIMO PIANO
Al via il governo Movimento Cinque Stelle-Lega.
Dopo 88 giorni di crisi politica, è stato raggiunto l’accordo per un governo politico M5s-Lega con Giuseppe Conte presidente del Consiglio, come viene annunciato in una nota congiunta dal capo del M5s Luigi Di Maio e dal leader della Lega Matteo Salvini, che, al termine del loro incontro alla Camera, alle 19:00, hanno siglato il patto. Dopo mezz’ora, Carlo Cottarelli, il premier incaricato dal Presidente della Repubblica, lunedì 28 scorso, di formare un governo tecnico, ha rimesso il mandato e ha dichiarato: “Un governo politico è la soluzione di gran lunga migliore per il Paese”. Alle 21:00 Mattarella ha richiamato il prof. Giuseppe Conte e gli ha conferito l’incarico di formare il governo. Alla fine il governo gialloverde si può fare: la trattativa, dopo la rottura di domenica tra Quirinale e M5s-Lega su Paolo Savona al Ministero dell’Economia, si è sbloccata spostando il professore alle Politiche Ue, ministero altrettanto importante, e proponendo per l’Economia il prof. Giovanni Tria, docente ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata e dal 2017 preside della Facoltà di Economia. Questa la squadra di governo: Presidente del Consiglio: Giuseppe Conte; Interno e vicepremier: Matteo Salvini (Lega); Sviluppo economico e Lavoro e vicepremier: Luigi Di Maio (M5s); Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta: Riccardo Fraccaro (M5s); Pubblica amministrazione: Giulia Bongiorno (Lega); Affari regionali: Erika Stefani (Lega); Sud: Barbara Lezzi (M5s); Politiche Ue: Paolo Savona; Disabilità e famiglia: Lorenzo Fontana (Lega); Esteri: Enzo Moavero Milanesi; Giustizia: Alfonso Bonafede (M5s); Difesa: Elisabetta Trenta (M5s); Economia e Finanze: Giovanni Tria; Politiche agricole: Gianmarco Centinaio (Lega); Ambiente: generale Sergio Costa; Infrastrutture e Trasporti: Danilo Toninelli (M5s); Istruzione: Marco Bussetti (Lega); Beni culturali e Turismo: Alberto Bonisoli (M5s); Salute: Giulia Grillo (M5s); Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: Giancarlo Giorgetti (Lega). Il giuramento dei ministri è previsto per il primo giugno alle 16:00, mentre il 2 giugno i 5 stelle hanno confermato la manifestazione in piazza, che non sarà naturalmente contro il Presidente della Repubblica, ma piuttosto per festeggiare “l’evento storico” di essere arrivati al governo. Il presidente Mattarella non ha nascosto il sollievo per la fine della crisi di governo più lunga della storia repubblicana: “Si è concluso un complesso itinerario con la formazione del governo. Grazie per il lavoro e buon lavoro per il futuro”.
DALLA STORIA
Iacopo Robusti, altrimenti detto il Tintoretto.
(Autoritratto del Tintoretto, 1548 circa)
«Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto, et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori». Con queste parole Vasari descriveva Iacopo Robusti (Venezia 1518-1594), detto Tintoretto perché figlio di un tintore di panni. Artista complesso e contraddittorio, sorprendeva e lasciava a volte interdetti i suoi contemporanei per le sue drammatiche composizioni. Animato da un instancabile furore creativo, sempre secondo Vasari, pare lavorasse spesso «a caso e senza disegno» ed è proprio la tensione emotiva che traspare dalle sue «nuove e capricciose invenzioni», insieme al gioco inquieto di luci e ombre, che conferisce ai suoi dipinti un tono particolare. Jacopo Robusti, noto come il Tintoretto, nato a Venezia il 29 aprile 1519, per la sua straordinaria energia nella pittura è stato soprannominato Il furioso e per il suo uso drammatico della prospettiva e della luce è stato considerato il precursore dell’arte barocca. La prima importante biografia apparsa in Italia su Tintoretto è la preziosa opera storico-documentaria di Melania Mazzucco “Jacomo Tintoretto & i suoi figli”, che insieme con il romanzo “La lunga attesa dell’angelo”, l’autrice ha dedicato al grande maestro, passando così dalla libera interpretazione dei fatti e dalla dimensione fantastica dei personaggi all’indagine appassionata di una possibile verità storica. Attraverso un confronto serrato con le sue opere, frutto di oltre dieci anni di studi e ricerche negli archivi veneziani, Melania Mazzucco ricostruisce minuziosamente la vita di Jacopo Robusti, cognome ereditato dal padre per aver difeso le porte di Padova durante la guerra della Lega di Cambrai. Accanto al protagonista, come in una delle sue tele affollate di figure, troviamo i suoi familiari: il padre, la giovane moglie Faustina, le figlie suore, i nipoti rinnegati e fra tutti “la prediletta e amatissima figlia illegittima, Marietta, pittrice e musicista, allevata al di fuori delle regole della buona società per fare di lei uno dei suoi massimi capolavori: non una moglie e una madre, ma un’amante, una donna libera, un’artista”. Accanto a lui una galleria di ritratti di personaggi che hanno incrociato la loro vita con questo artista misterioso e geniale, in una città unica e irripetibile, Venezia: attraversata casa per casa, esplorata nei fondachi, sui moli, nei bordelli, nelle botteghe e nei monasteri, rivelata in ogni aspetto delle sue attività e dei suoi costumi, evocata con impressionante realismo in tutto lo splendore e la miseria dei suoi mille traffici e dei suoi mille mestieri. Ed è qui, a Venezia che Tintoretto utilizza fin da piccolo i colori che trova nel laboratorio del padre, tanto che questi lo invia ben presto, nel 1530, a bottega da Tiziano, che, a quanto si narra, avendo visto un disegno del giovane allievo, per timore di future concorrenze, lo fece cacciare da Girolamo, uno dei suoi collaboratori. Sembra che nel 1539 Tintoretto si potesse già fregiare del titolo di maestro, con uno studio indipendente presso campo san Cassiàn, nel sestiere di San Polo. Nel 1541, appena ventitreenne, riceve dal nobile Vettor Pisani l’incarico di realizzare, in occasione delle sue nozze, 16 tavole raffiguranti le Metamorfosi di Ovidio. Nella circostanza si reca al Palazzo Te di Mantova per studiare gli affreschi di Giulio Romano. Nel 1548 dipinge Il miracolo di San Marco e riceve le lodi dell’Aretino. Sempre per la Scuola Grande di San Marco lavora fino al 1566 alle tre tele raffiguranti i miracoli postumi del santo: San Marco salva un saraceno durante un naufragio,
(San Marco salva un saraceno da un naufragio, 1566, olio su tela. Gallerie dell’Accademia, Venezia)
Trafugamento del corpo di San Marco e Ritrovamento del corpo di San Marco. Per l’Albergo della Scuola della Trinità, una confraternita minore, esegue invece, tra il 1551 e il 1552, un ciclo di dipinti con storie tratte dal libro della Genesi, tra cui la Creazione degli animali, il Peccato originale e Caino e Abele. Nel 1564 Tintoretto si aggiudica il concorso bandito dalla Scuola Grande di San Rocco per la realizzazione di un San Rocco in gloria, da collocare nella sala principale dell’Albergo. L’anno successivo diventa membro della Scuola e viene incaricato di eseguire un ciclo di dipinti sulla Passione di Cristo. Nel 1566 dipinge cinque tele allegoriche da collocare nella Saletta degli Inquisitori nel Palazzo Ducale. Pur impegnato con il Palazzo Ducale e con la Scuola Grande di San Rocco, Tintoretto accetta nel 1579 l’invito di Guglielmo Gonzaga e realizza otto grandi tele per il Palazzo Ducale di Mantova in cui si esaltano le gesta della famiglia Gonzaga. Nel 1588, alla morte di Veronese, subentra a quest’ultimo nella decorazione della parete della Sala del Maggior Consiglio. L’opera che ne risulta, una immensa tela di più di 7 metri di altezza e 24 di lunghezza, raffigura il Paradiso con al centro il Cristo Pantocratore. Tintoretto muore il 31 maggio 1594, all’età di settantacinque anni dopo aver realizzato tre ultime opere per la Basilica di San Giorgio Maggiore: gli Ebrei nel deserto e la caduta della manna, l’Ultima Cena e la Deposizione nel sepolcro (1592 – 1594).
(Ultima cena, 1592-1594, olio su tela. Basilica di San Giorgio Maggiore. Venezia)
30 maggio
PRIMO PIANO
Grecia: sciopero generale contro l’austerità.
In Grecia migliaia di persone hanno aderito allo sciopero generale che ha investito diversi settori e sono scese in piazza ad Atene e nelle principali città. Le manifestazioni costituiscono una risposta alle misure di austerity, che il governo Tsipras si prepara a varare con un nuovo ciclo di riforme legate al terzo piano di salvataggio del Paese. Lo stop di 24 ore ha causato disagi in diversi settori: chiusi uffici pubblici e scuole, fermi il trasporto urbano, treni e traghetti, proprio nei giorni in cui inizia la stagione turistica; la più grande compagnia aerea greca Aegean e la regionale Olympic Air hanno annullato diversi voli, i medici degli ospedali intervengono solo per le emergenze, stop anche ai notiziari radio e Tv. Hanno aderito allo sciopero oltre 10mila lavoratori, giovani e pensionati, sventolando le bandiere del sindacato PAME (Fronte militante di tutti i lavoratori) affiliato al partito comunista. Sui cartelli di protesta le scritte: “Niente riduzione salariale, nessun licenziamento, non saremo schiavi nel XXI secolo”, “No!” , “Hanno annientato le nostre vite!”, “Loro ci hanno divorato”. “Stiamo protestando contro l’austerity, l’alta tassazione e la disoccupazione” hanno dichiarato i rappresentanti delle sigle Gsee e Adedy, secondo cui dal 2010 i greci hanno perso oltre un quarto del loro reddito a causa della crisi finanziaria. Dall’inizio della crisi, circa otto anni fa, la Grecia ha ricevuto 260 miliardi di euro, in prestiti di salvataggio, in cambio di misure di austerità che hanno portato a licenziamenti settoriali, aumenti delle tasse e duri tagli pensionistici, misure insopportabili per tante famiglie greche finite sul lastrico. Nonostante l’opposizione pubblica, il primo ministro Tsipras, nel 2015, ha aderito all’attuale piano di salvataggio internazionale della Grecia, che scadrà in agosto. Lo scorso anno il suo governo, di sinistra, ha ceduto alle richieste della Troika per ulteriori tagli alle pensioni e aumenti delle tasse nel 2019 e 2020.
DALLA STORIA
Boris Leonidovič Pasternak: Il dottor Živago.
Lo scrittore russo Boris Leonidovič Pasternak ha legato il suo nome al suo unico e celebre romanzo “Il dottor Živago”, che nel 1958 ottenne l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Alla notizia dapprima Pasternak inviò un telegramma a Stoccolma esprimendo la sua gratitudine attraverso parole di sorpresa e incredulità, alcuni giorni più tardi, in seguito a pressanti minacce e avvertimenti da parte del KGB circa la sua definitiva espulsione dalla Russia e la confisca delle sue già limitatissime proprietà, lo scrittore con rammarico comunicò all’organizzazione del prestigioso premio la sua rinuncia per motivi di ostilità del suo Paese. Pasternak rifiutò così la fama, il denaro del premio e i riconoscimenti che avrebbe trovato all’estero, per non vedersi negata la possibilità di rientrare nell’URSS. Da allora trascorse il resto dei suoi giorni senza aver ritirato il premio e comunque perseguitato. Morì due anni dopo in povertà, non aiutato da chi in Italia e in altre nazioni si arricchiva con la vendita del suo romanzo, a Peredelkino, nei dintorni di Mosca, il 30 maggio 1960.
(Ritratto dal padre Leonid Pasternak, 1910)
Proprio l’assegnazione del premio scatenò una vicenda singolare che vide il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali. Infatti il regolamento dell’Accademia Svedese prevede che, per ottenere il Nobel, l’opera in questione debba essere stata pubblicata nella lingua materna dell’autore, requisito che “Il dottor Živago” non aveva. Pertanto, a pochi giorni dal momento in cui l’assegnazione avrebbe dovuto essere resa nota, un gruppo di agenti della Cia e dell’intelligence britannica riuscì ad intercettare la presenza di un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo in volo verso Malta. Gli agenti obbligarono l’aereo a deviare per entrare momentaneamente in possesso del manoscritto che, fotografato pagina per pagina, fu precipitosamente pubblicato su carta con intestazione russa e con le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni russe. Questo fu lo stratagemma usato per permettere l’assegnazione del Nobel al capolavoro di Pasternak. L’opera, che fu censurata dal governo russo, fu causa per l’autore di persecuzioni intellettuali da parte del regime e dei servizi segreti, che lo costrinsero negli ultimi anni della sua vita alla povertà e all’isolamento. Ad ogni modo il manoscritto riuscì a superare i confini sovietici e il libro, nel 1957, venne pubblicato per la prima volta in Italia dalla casa editrice Feltrinelli in una edizione diventata poi storica, di cui parlò subito il critico letterario Francesco Bruno. Il libro si diffonderà in occidente e nel giro di pochissimo tempo, tradotto in più lingue, diventerà il simbolo della testimonianza della realtà sovietica. Il romanzo fu pubblicato legalmente in Russia solo nel 1988, nel periodo di riforma dell’Unione Sovietica promosso da Gorbačëv, e nel 1989 il figlio dell’autore, Evgenij, in Svezia ritirò il premio spettante al padre 31 anni prima. Il romanzo narra le vicende di un medico russo con la passione della scrittura, il dottor Jurij Andreevic Živago partendo dalla sua adolescenza e parallelamente da quella della sua futura moglie Tonja Gromeko sullo sfondo della rivolta del 1905. Dopo gli anni della prima gioventù, la storia prosegue, alternando immagini della guerra e della Rivoluzione del 1917. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Jurij viene chiamato a prestare servizio in un’unità medica inviata al fronte. Quando però il divampare della rivoluzione provoca il dissolvimento dell’esercito russo, rientra a Mosca. Gli basta poco per rendersi conto delle difficili condizioni di vita venutesi a creare in città in seguito alla rivoluzione, decide quindi di rifugiarsi, con la moglie Tonja, il figlio Sasha e il suocero, a Varykino, un paesino sperduto sui Monti Urali. Qui, il dottore, obbligato a una certa inattività, comincia a frequentare le biblioteche locali, dove incontra Larisa Antipova (che aveva già conosciuto come crocerossina durante la guerra, quando il martio di lei risultava disperso al fronte). Tra i due nasce un amore, che Živago vive con grandi dubbi e grande senso di colpa, rendendosi conto di voler ancora bene alla moglie, che nel frattempo è nuovamente rimasta incinta. Decide così di confessare tutto a Tonja, ma, prima di poterlo fare, viene aggregato di forza da un gruppo di partigiani rossi capitanato proprio da Pavel Antipov, marito di Larisa, che combatte contro i distaccamenti “bianchi”. Živago scoprirà questa identità solo più tardi, perché Antipov si fa chiamare Strel’nikov. Dopo qualche mese Živago, finalmente libero, torna al paese e ritrova Lara: è questo il periodo più felice della vita di Živago, in cui anche la sua vena letteraria può esprimersi al meglio, ma poi i due vengono costretti a separarsi. Il dottore, tornato a Mosca, vive in miseria e viene a sapere che la sua famiglia è stata espulsa in quanto antisovietica e vive a Parigi. Živago – che convive con la figlia del suo ex portinaio, Marina Capova – spera di riuscire a far rientrare i suoi cari o di partire egli stesso per la Francia. Negli stessi mesi Tonja dal suo esilio combatte per ottenere il visto di rientro in patria. Dopo alcuni anni, in modo del tutto casuale, Živago incontra il suo fratellastro, Yevgraf (da sempre fervente bolscevico, aveva fatto carriera nell’Armata rossa, arrivando fino al grado di generale) che, resosi conto della difficile situazione del fratello, lo aiuta economicamente e si attiva per fargli occupare un posto in un grande ospedale, posto che però Živago non potrà mai occupare, perché dopo pochi mesi, viene stroncato da un infarto. Ai funerali, tra la folla convenuta, segno che la fama di Živago era ben superiore a quanto anch’egli credesse, partecipa anche, sconvolta dal dolore, Lara, che, arrivata da poco a Mosca abita, senza saperlo, nelle vicinanze del dottore di cui continua a essere innamorata. Lara ed Yevgraf, nei giorni successivi, decidono di raccogliere e far pubblicare, in maniera sistematica, gli scritti di Živago, ma la donna non potrà portare a termine l’opera: “Un giorno Larisa Fëdorovna uscì di casa e non ritornò più. Evidentemente fu arrestata per strada. E morì o scomparve chissà dove, numero senza nome di qualche irrintracciabile elenco, in uno degli innumerevoli campi di concentramento comuni, o femminili, del Nord”. L’epilogo del libro si ha nell’estate del 1943, durante la seconda guerra mondiale, quando Dudorov e Gordon, diventati ufficiali dell’esercito, durante un trasferimento incontrano la lavandaia Tanja, che racconta loro la sua triste storia, dalla quale i due capiscono trattarsi della figlia nata dalla relazione di Živago con Lara. Da questo capolavoro della narrativa novecentesca è stato tratto, nel 1965, il film omonimo, di grande successo, con Omar Sharif, Julie Christie, Geraldine Chaplin, Alec Guinness, Rod Steiger (presentato in concorso al 19º Festival di Cannese) vinse cinque Golden Globe e cinque Oscar, celebre quello per la musica, il Tema di Lara, che vendette centinaia di migliaia di copie.
29 maggio
PRIMO PIANO
Caso Regeni: giunti nuovi verbali e filmati ai pm di Roma.
Da oggi, 29 maggio, sono a disposizione della magistratura romana, che indaga sul sequestro e l’omicidio del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni, i verbali di nuove audizioni dei nove poliziotti coinvolti nelle indagini e i filmati, pari al 5% del totale ripreso il 25 gennaio 2016 dalle telecamere posizionate all’interno della metropolitana del Cairo. Il materiale è stato consegnato al pm Sergio Colaiocco dal procuratore generale d’Egitto, Nabeel Sadek, al termine dell’attività istruttoria congiunta, durata circa 15 giorni e svolta da un team di esperti russi alla presenza di inquirenti sia italiani che egiziani. Grazie ad un software, sviluppato appositamente dagli esperti della società informatica russa, è stato possibile salvare circa 10,5 giga di dati, tra frame e video, che ora verranno analizzati in Italia per individuare Giulio o soggetti coinvolti nel suo rapimento e nella sua uccisione. Il server della metropolitana del Cairo era stato sequestrato nel 2016 e la sua memoria è rimasta in un archivio della Procura generale della Capitale egiziana fino a due settimane fa, quando è cominciato il lavoro congiunto di tecnici egiziani e russi e dei carabinieri del Ros. Il materiale, scomposto all’atto dell’archiviazione in singoli byte per ragioni incomprensibili, è stato ricomposto in immagini grazie al software russo, ma ci vorrà molto tempo tempo per analizzare la mole di filmati spezzettati e ricomposti in video di 10 secondi. L’ambasciatore Cantini, durante la visita del pm Sergio Colaiocco al Cairo, ha dichiarato: “Importante che ce lo abbiano dato”.
DALLA STORIA
L’esoterismo di Dante.
Nel 1265, tra il 21 maggio e il 21 giugno, nasce Dante Alighieri. Linguista, teorico politico, filosofo ed esoterico Dante, nelle sue opere, spazia all’interno dello scibile umano, in modo tale da segnare profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura occidentale; per questo è soprannominato il “Poeta” per antonomasia o “Sommo Poeta”. La sua fama è dovuta eminentemente alla paternità della Comedìa, diventata celebre come Divina Commedia, universalmente considerata la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale. L’Opera, espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, è anche un veicolo allegorico della salvezza umana che si concretizza nel toccare i drammi dei dannati, le pene del Purgatorio, le glorie celesti e, nella quale, Dante offre al lettore uno spaccato di morale ed etica. La bibliografia sulla vita del “Padre della lingua italiana” e delle sue opere è sterminata. È interessante perciò soffermarsi, anche se solo per brevissimi cenni, sull’aspetto meno conosciuto contenuto nelle famose terzine che, insuperabili nella loro bellezza poetica, a volte restano enigmatiche al lettore per il loro simbolismo metafisico. Réne Guénon, nell’interessante saggio, “L’esoterismo di Dante”, contribuisce a chiarire molti versi ermetici.
Guénon, intellettuale francese, filosofo, esoterista, nato alla fine dell’Ottocento e morto negli anni Cinquanta, non ha mai rivendicato, per se stesso, altra funzione se non quella di aver cercato di esporre, nei limiti del linguaggio ordinario, le idee veicolate nel simbolismo, nella ritualità e nella metodologia operativa delle “forme tradizionali” o vie di perfezionamento spirituale provenienti dalle differenti espressioni del sacro: il Cristianesimo, il Taoismo, l’Induismo, l’Islam, l’Ebraismo, l’Ermetismo e altre ancora. “O voi che avete gl’intelletti sani, / Mirate la dottrina che s’asconde / Sotto il velame delli versi strani!”. Génon, nel saggio scrive: “Con queste parole, Dante indica un modo molto esplicito che nella sua opera vi è un senso nascosto, propriamente dottrinale, di cui il senso esteriore e apparente è soltanto un velo e che deve essere ricercato da coloro i quali sono capaci di penetrarlo. Altrove, il poeta va più lontano ancora, poiché dichiara che tutte le scritture e non soltanto quelle sacre: “si possono intendere e debbonsi sposare massimamente per quattro sensi.” (Convivio, t. II, cap. 1°). È evidente, d’altronde, che questi diversi significati non possono in nessun caso distruggersi od opporsi, ma debbono invece completarsi ed armonizzarsi come le parti di uno stesso tutto, come gli elementi costitutivi di una sintesi unica. Così, che la Divina Commedia, nel suo insieme, possa interpretarsi in più sensi, è una cosa che non può essere messa in dubbio, poiché abbiamo a tal riguardo proprio la testimonianza del suo autore, sicuramente meglio qualificato di ogni altro per informarci delle sue intenzioni. La difficoltà comincia solamente quando si tratta di determinare questi diversi significati, soprattutto i più elevati o i più profondi e, anche a tal riguardo, cominciano naturalmente le divergenze di vedute fra i commentatori. Questi si trovano generalmente d’accordo nel riconoscere, sotto il senso letterale del racconto poetico, un senso filosofico, o piuttosto filosofico-teologico, ed anche un senso politico e sociale; ma, con il senso letterale stesso, non si arriva così che a tre sensi e Dante ci avverte di cercane quattro; quale è dunque il quarto? Per noi, non può essere che un senso propriamente iniziatico, metafisico nella sua essenza ed al quale si riattaccano molteplici dati, i quali senza essere tutti d’ordine puramente metafisico, presentano un carattere ugualmete esoterico. È precisamente in ragione di questo carattere che un tal senso profondo è completamente sfuggito alla maggior parte dei commentatori; e tuttavia, se viene ignorato o misconosciuto, gli altri sensi stessi non possono che essere afferrati parzialmente, poiché esso è come il loro principio, nel quale la loro molteplicità si coordina e si unifica. … Il vero esoterismo è una cosa del tutto differente dalla religione esteriore e, se ha qualche rapporto con questa, non può essere che in quanto trova nelle forme religiose un modo d’espressione simbolico; d’altronde, importa poco che queste forme siano quelle di tale e o di tal’altra religione, poiché ciò di cui si tratta è l’unità dottrinale essenziale la quale si dissimula dietro la loro apparente diversità. Tale è la ragione per cui gli iniziati antichi partecipavano indistintamente a tutti i culti esteriori, secondo i costumi stabiliti nei diversi paesi dove si trovavano; ed è anche perché Dante vedeva questa unità fondamentale e non per l’effetto di un “sincretismo” superficiale, che ha usato indifferentemente, secondo i casi, un linguaggio preso sia dal Cristianesimo e sia dall’antichità greco-romana. La metafisica pura non è né pagana né cristiana, è universale; i misteri antichi non erano paganesimo, ma vi si sovrapponevano; e parimenti, nel medioevo, vi furono organizzazioni il cui carattere era iniziatico e non religioso, ma che avevano la loro base nel cattolicesimo. …”. Con la Divina Commedia Dante ha lasciato un’eredità che, se colta nella sua interezza, rivela dietro l’apparenza “sensibile” l’intelligibile, la strada che per molti porta alla vera “canoscenza”, come del resto è ben specificato nei famosi versi del Poeta fiorentino nel XXVI Canto dell’Inferno: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
Mary Titton
https://youtu.be/UOkgT1iEp0A
(Benigni legge il XXVI Canto)
28 maggio
PRIMO PIANO
Il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il nuovo governo a Carlo Cottarelli.
Dopo la rinuncia, ieri, del prof. Giuseppe Conte in seguito al veto di Mattarella sul nome del professor Paolo Savona al Ministero dell’Economia e delle Finanze e all’“irrigidimento” di M5s e Lega, il Capo dello Stato ha dato oggi l’incarico di formare il governo all’economista Carlo Cottarelli, che ha acettato con riserva. Dopo l’incontro, durato poco meno di un’ora, con il Presidente della Repubblica, Cottarelli ha dichiarato: “Con me il governo manterrebbe una neutralità completa rispetto al dibattito elettorale. Penso di presentare in tempi stretti la lista dei ministri e il programma in Parlamento. Se otterrò la fiducia traghetterò l’esecutivo fino a nuove elezioni, ad inizio 2019. Se invece non avrò la fiducia si andrà alle urne subito dopo il mese di agosto. Sotto la mia guida gestione di conti pubblici ‘prudente’. Sul fronte europeo, bisogna proseguire sulla strada di un dialogo costruttivo.” Qualche cenno biografico su Carlo Cottarelli: laureato in Scienze Economiche e Bancarie presso l’Università di Siena, ha conseguito il master in Economia presso la London School of Economics, ha lavorato nel Servizio Studi della Banca d’Italia (1981-1987), presso il Dipartimento monetario e settore finanziario, e dell’Eni (1987-1988). Dal settembre 1988 lavora per il Fondo monetario internazionale, nell’ambito del quale ha fatto parte di diversi dipartimenti. Nel 2001 è stato senior advisor nel Dipartimento Europeo come responsabile per la supervisione della attività del FMI in una decina di Paesi, ed è capo della delegazione del FMI per l’Italia e per il Regno Unito. Nel novembre 2013 è stato nominato dal Governo Letta commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica. Il 1º novembre 2014, su nomina del Governo Renzi, è diventato direttore esecutivo nel Board del Fondo Monetario Internazionale e per questo motivo il 30 ottobre del 2014 ha lasciato l’incarico di commissario alla revisione della spesa. Ha scritto diversi saggi sulle politiche e istituzioni fiscali e monetarie, libri sull’inflazione, politica monetaria e tassi di conversione. Dal 30 ottobre 2017 è direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica. Stando alle dichiarazioni dei partiti successive al suo incarico, il futuro governo da lui formato rischierebbe di non avere la fiducia e neanche un voto in Parlamento. Intanto, in questa difficile impasse, lo spread tra Btp e bund torna sopra quota 230, segnando 233, ai massimi dalla fine del 2013.
DALLA STORIA
Brescia: la strage di piazza della Loggia.
(La piazza subito dopo l’esplosione)
Il 28 maggio 1974, alle ore 10:00, in piazza della Loggia, a Brescia, durante un comizio antifascista, esplose un ordigno nascosto in un cestino della spazzatura. L’attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue. L’atto, riconducibile alla strategia della tensione, portò alla condanna in primo grado di alcuni esponenti dell’estrema destra. Uno di essi, Ermanno Buzzi, fu strangolato in carcere il 13 aprile 1981. Nel 1982 il processo di secondo grado commutò le condanne in assoluzioni, confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione. Un secondo filone di indagine partì nel 1984 e portò ad altri esponenti di destra: gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987 e prosciolti in appello nel 1989 con conferma da parte della Cassazione. Nel corso dei procedimenti giudiziari vennero alla luce indizi del coinvolgimento nella strage dei servizi segreti e di alcuni apparati dello Stato e una lunga serie di inquietanti circostanze: l’ordine del vicequestore Aniello Damaremeno, due ore dopo la strage, a una squadra di pompieri di ripulire frettolosamente con le autopompe il luogo dell’esplosione, spazzando via così reperti e tracce di esplosivo; la misteriosa scomparsa dell’insieme dei reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch’essi di fondamentale importanza ai fini dell’indagine; infine la recente perizia antropologica ordinata dalla Procura di Brescia su una fotografia di quel giorno che comproverebbe la presenza sul luogo della strage di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID. Inoltre l’invio nel 1989 da parte del SISMI di una velina, relativa a un’improbabile pista cubana, e la misteriosa fuga di un testimone in Argentina, avvenuta poco prima che i magistrati potessero ascoltarlo, portarono il giudice istruttore Zorzi a denunciare l’esistenza di un meccanismo “che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”. Una terza istruttoria, nel 2005, ha portato alla richiesta di arresto per Delfo Zorzi, ormai divenuto cittadino giapponese non estradabile. Nel 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. I primi tre erano, all’epoca, militanti del gruppo neofascista Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti. Francesco Delfino era un ex generale dei carabinieri, responsabile del Nucleo investigativo di Brescia. Giovanni Maifredi era collaboratore dell’allora ministro degli interni Paolo Emilio Taviani. Il 21 ottobre 2010 i pubblici ministeri formularono l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, escluso Pino Rauti, per il quale fu chiesta l’assoluzione per insufficienza di prove, anche se gli venne riconosciuta la responsabilità morale e politica nella vicenda. Il 16 novembre del 2010 la Corte d’Assise si pronunciò con l’assoluzione di tutti gli imputati, con formula dubitativa per Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino e Pino Rauti, il non luogo a procedere per Maurizio Tramonte e la revoca della misura cautelare per Delfo Zorzi. Il 14 aprile del 2012 la Corte d’Appello confermò l’assoluzione per tutti gli imputati e condannò le parti civili al rimborso delle spese processuali. Il 22 luglio 2015 Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi sono stati condannati, in appello, all’ergastolo. Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno posto l’accento sui “troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe” che hanno fatto da contorno allo stragismo neofascista degli anni di piombo, facendo ampio riferimento all’ “opera sotterranea” condotta da un “coacervo di forze” che di fatto hanno reso “impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità”. Queste le motivazioni della sentenza di appello del Tribunale di Milano, il 10 agosto 2016: «Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze di cui ha parlato Vinciguerra [ex ordinovista che si è assunto la responsabilità della Strage di Peteano ndr], individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader ultra ottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe». Un ulteriore troncone di indagine risulta tuttora pendente presso la Procura per i Minorenni di Brescia a carico del veronese Marco Toffaloni. A seguito di rivelazioni del collaboratore di giustizia Gian Paolo Stimamiglio, al quale Toffaloni, ritenuto dagli inquirenti militante di Ordine Nuovo, avrebbe riferito di “aver avuto un ruolo tutt’altro che marginale nella strage”, è stata acquisita una fotografia del giorno della strage che attesterebbe la presenza di Toffaloni, all’epoca diciassettenne, in piazza della Loggia la mattina del 28 maggio 1974, pochi istanti dopo l’esplosione. È stata così disposta dalla Procura una perizia antropometrica al fine di effettuare una comparazione tra la fotografia e altre di Toffaloni della stessa epoca, sequestrate presso i suoi genitori. I risultati di detta perizia, esposti dai consulenti della Procura nel corso dell’incidente probatorio svoltosi il 22 luglio 2016 presso il Tribunale per i Minorenni di Brescia, hanno confermato la presenza di Toffaloni sul luogo della strage. Toffaloni, interrogato sui fatti per rogatoria, poiché residente in Svizzera, dal pubblico ministero titolare dell’inchiesta, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più classificati e sono perciò liberamente consultabili da tutti.
(L’omaggio alla stele dei caduti dopo la sentenza)
27 maggio
PRIMO PIANO
Crisi istituzionale senza precedenti: Conte rinuncia all’incarico.
In un pomeriggio di una domenica di maggio, come tante altre, con gli italiani volti a seguire la Formula1 o a impiegare il loro tempo libero, si arriva all’ultimo atto del tentativo durato 85 giorni di dare un governo agli italiani sulla base del “contratto” fra le due forze arrivate prime alle elezioni: M5s e Lega (all’interno della coalizione di centro-destra), che avevano individuato il futuro possibile premier nel professor Giuseppe Conte, che, a sua volta aveva pronta la squadra di governo con i nomi dei ministri. Tutto si è bloccato sul nome di Paolo Savona al Ministero dell’Economia e delle Finanze e, dopo un braccio di ferro mai visto prima tra il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e gli esponenti delle forze in campo Di Maio e Salvini, Conte ha rinunciato al mandato. Le motivazioni nelle parole del Capo dello stato che ha detto: “Ho condiviso e accettatto tutte le proposte tranne quella del ministro dell’Economia … La designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato per gli operatori economici e finanziari, ho chiesto per quel ministero l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, che al di là della stima e della considerazione della persona non sia visto come sostenitore di linee che potrebbero provocare la fuoriuscita dell’Italia dall’euro, cosa differente dal cambiare l’Ue in meglio dal punto di vista italiano. A fronte di questa mia sollecitazione ho constatato con rammarico indisponibilità a ogni altra soluzione, e il Presidente del consiglio incaricato ha rimesso il mandato”. Ha quindi aggiunto: “La situazione ha messo in allarme risparmiatori e investitori italiani e stranieri portando a un’impennata dello spread … La decisione di non accettare il ministro dell’Economia non l’ho presa a cuor leggero, ora da alcune forze politiche mi si chiede di andare alle elezioni. Prenderò delle decisioni sulla base dell’evoluzione della situazione alle Camere.” Perché il veto del Quirinale su Paolo Savona e l’“irrigidimento” di M5s e Lega? Paolo Savona è un economista, politico e accademico italiano, dell’età di 81 anni, che nella sua lunga carriera ha ricoperto importanti cariche istituzionali e nei suoi studi e nei suoi libri, pur sostenendo che il mercato unico sia una cosa positiva per l’economia italiana e necessiti di una moneta unica, ha avanzato riserve e critiche sui parametri di Maastricht, definendoli privi di base scientifica e troppo rigidi per un’economia che richiede flessibilità, e su una Germania che, secondo il suo pensiero, sta imponendo ancora una volta una volontà di potenza, non più militare, ma finanziaria ed economica sì. Ad evitare il veto di Mattarella sul suo nome non è bastata neppure una dichiarazione del professore, arrivata nel primo pomeriggio, per chiarire quali fossero le sue posizioni sul “tema dibattuto e quelle del Governo che si va costituendo interpretando correttamente la volontà del Paese”. “Voglio una Europa diversa, più forte, ma più equa” dice l’economista, che stigmatizza la “scomposta polemica che si è svolta sulle mie idee in materia di Unione Europea”. Immediate le reazioni dei due leader : Di Maio ha affermato: “La scelta di Mattarella è incomprensibile … La verità è che non vogliono il M5s al governo … Avevamo espresso Conte come Presidente del consiglio, avevamo una squadra di ministri, eravamo pronti a governare e ci è stato detto no perché il problema è che le agenzie di rating in tutta Europa erano preoccupate per un uomo che andava a fare il ministro dell’Economia. Allora diciamocelo chiaramente che è inutile che andiamo a votare tanto i governi li decidono le agenzie di rating, le lobby finanziare e bancarie, sempre gli stessi.” Salvini dal canto suo sostiene: “Qualcuno ha detto “no” ora al voto … Abbiamo lavorato per settimane, giorno e notte, per far nascere un governo che difendesse gli interessi dei cittadini italiani. Ma qualcuno (su pressione di chi?) ci ha detto No. Mai più servi di nessuno, l’Italia non è una colonia. A questo punto, con l’onestà, la coerenza e il coraggio di sempre, la parola deve tornare a voi!”. Nessun commento dal Quirinale sull’ipotesi di impeachment ventilata da Giorgia Meloni (FdI) per il capo dello Stato Sergio Mattarella per l’indisponibilità a Savona come ministro dell’Economia, ipotesi su cui starebbero ragionando anche i 5 stelle.
26 maggio
PRIMO PIANO
Firenze ricorda la strage di via dei Georgofili.
(L’Adorazione dei pastori di Gherardo Delle Notti, dopo il restauro)
Per commemorare le vittime dell’attentao di via dei Georgofili, che nella notte tra il 25 e il 26 maggio del 1993 costò la vita ad Angela Fiume e Fabrizio Nencioni, alle loro figlie Nadia e Caterina e allo studente di architettura Dario Capolicchio, causò 48 feriti e danni ingentissimi al patrimonio storico-artistico, la città di Firenze ha organizzato molti eventi, tra cui il corteo con i Gonfaloni del Comune di Firenze e della Regione Toscana e i labari delle associazioni di volontariato, che prenderà il via da piazza della Signoria per raggiungere via dei Georgofili, dove all’1:04, ora dell’esplosione, una corona d’alloro sarà deposta sul luogo dell’attentato. È stata anche allestita agli Uffizi una video installazione immersiva con immagini e suoni di quella notte drammatica accompagnata dall’esposizione del primo dipinto distrutto dalla bomba e poi restaurato, L’Adorazione dei pastori di Gherardo Delle Notti. Sulla tela dell’Adorazione verranno inoltre proiettate le parti mancanti del dipinto, impossibili da recuperare dopo la deflagrazione: un inserto simbolico, realizzato con il fine di ricucire virtualmente le parti dell’opera andate perdute. La tela di Bartolomeo Manfredi, “I giocatori di Carte”, che era appesa di fronte alla finestra sulla torre dei Georgofili e con l’esplosione della bomba fu strappata dai vetri distrutti dal tritolo, dopo 25 anni, è stata poi restaurata grazie alle nuove tecnologie disponibili, che hanno cosentito di mettere insieme ogni frammento, dando di nuovo forma alla scena di vita quotidiana del 1600, che raffigura un gruppo di giovani uomini, seduti in un’antica locanda intorno a un tavolo di legno, mentre giocano a carte. La strage, come altre bombe che esplosero nello stesso anno a Roma e Milano, fu ordinata da Cosa Nostra, che voleva così condizionare il funzionamento degli istituti democratici e lo svolgimento della vita civile del paese e ottenere un allentamento del regime del 41 bis. I responsabili materiali della strage, tra cui Bernardo Provenzano (all’epoca latitante, fu arrestato nel 2006) e Matteo Messina Denaro, vennero individuati velocemente e condannati. Resta ancora aperta la ricerca degli eventuali mandanti “occulti”, che il magistrato Gabriele Chelazzi aveva avviato e per cui l’associazione “Tra i familiari delle vittime” chiede la riapertura delle indagini.
25 maggio
PRIMO PIANO
Bergamo: scoperto un capolavoro del Mantegna.
La “Resurrezione di Cristo”, databile tra il 1492 e il 1493, che per quasi 200 anni è stata considerata una copia e custodita come tale nei depositi dell’Accademia Carrara, è un originale e il suo valore, secondo quanto scrive il “Wall Street Journal”, che ne ha ricostruito l’attribuzione, sarebbe di circa 30 milioni di dollari, oltre 26 milioni di euro. Di proprietà dell’Accademia Carrara dal 1866, per decenni la tavola è stata considerata da esperti e storici dell’arte un’opera di bottega, una copia coeva o una realizzazione del figlio dell’artista. Proprio queste sottovalutazioni non gli hanno concesso di trovare un posto tra i tanti capolavori esposti nella galleria di Bergamo. Solo di recente approfonditi studi, partendo da un indizio, hanno permesso di stabilitre che la piccola croce sul margine inferiore, sotto un arco di pietra, doveva avere una corrispondenza in una porzione di dipinto mancante. Così, gli esperti, valutando la continuità tra la croce e l’asta che la sorregge, oltre la perfetta coincidenza nella definzione delle rocce dell’arco, sono giunti alla conclusione che la “Resurrezione di Cristo” è la parte superiore della “Discesa al Limbo” di Mantegna, un’opera del 1492, che fa parte della collezione di Barbara Piasecka Johnson ed è conservata a Princeton. L’attribuzione al grande Maestro del Rinascimento italiano è stata avvallata anche dal massimo esperto al mondo sull’artista, Keith Christiansen, del Metropolitan Museum of Art di New York. L’opera verrà inserita nel “Catalogo completo dei dipinti italiani del Trecento e Quattrocento dell’Accademia Carrara”, curato dallo storico dell’arte Giovanni Valagussa, che spiega: “L’attenta osservazione diretta dell’opera ha infatti permesso di riconoscere l’alto livello qualitativo della pittura, riconducibile già di per sé al Maestro, ma come capita con opere e autori di tale portata, era necessario avere una prova certa. Una piccola croce sul margine inferiore, sotto l’arco di pietra, non poteva non trovare un prosieguo e dunque una corrispondenza in una porzione di dipinto mancante. La piccola croce è dunque la chiave e se ne desume che la Resurrezione di Accademia Carrara è un dipinto di Andrea Mantegna in persona”.
DALLA STORIA
Robert Capa: “Non c’è salvezza se non stare dentro ciò che vuoi capire”.
“Non c’è nulla al mondo che non abbia un momento decisivo”, scriveva il grande fotografo Henri Cartier-Bresson, amico di Robert Capa: “Quello che coglie l’azione alcuni istanti prima del suo compimento, fra la fine dell’attesa e l’attimo della rivelazione”. Il momento decisivo è l’essenza del fotogiornalismo del lavoro di Robert Capa, considerato il primo e più famoso fotografo di guerra. Temerario per natura, Capa vive “dentro la vita e le cose”; “Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino” ripete a proposito dell’intensità con cui svolge il suo lavoro di fotoreporter anche quando gli scenari sono spaventosi teatri di guerra. I suoi reportages rendono testimonianza di cinque diversi conflitti: la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la seconda guerra mondiale (1941-1945), guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d’Indocina (1954). Capa documentò inoltre il corso della seconda guerra mondiale a Londra, nel Nordafrica e in Italia, lo sbarco in Normandia dell’esercito alleato e la liberazione di Parigi. Robert Capa si chiamava in realtà Endre Erno Friedmann: “Avevo un nome che non andava troppo bene. Allora ero altrettanto incosciente, soltanto un po’ più giovane. Non riuscivo ad ottenere un incarico. Avevo assolutamente bisogno di un nome nuovo … Robert suonava molto americano e così doveva essere. Anche Capa sapeva di americano. Bob Capa mi sembrò, quindi, un buon nome. E così mi inventai che questo Bob Capa fosse un famoso fotografo americano giunto in Europa. Incominciai a muovermi con la mia piccola Leica, scattai foto e ci scrissi sopra Bob Capa, il che significava guadagnare il doppio.” Nato a Budapest il 22 ottobre 1913, Capa abbandonò, in giovane età, la terra natale a causa del proprio coinvolgimento nelle proteste contro il governo di estrema destra; militava nel Partito Comunista locale. L’ambizione originaria di Capa era di diventare uno scrittore, ma l’impiego presso uno studio fotografico a Berlino lo avvicinò al mondo della fotografia, dove collaborò con l’agenzia fotogiornalistica Dephot sotto l’influenza di Simon Guttmann. Nel 1933, con l’avvento del Nazismo, Capa che era di origini ebraiche, lasciò la Germania alla volta della Francia. A Parigi conobbe quella che diventerà la sua compagna Gerda Taro, una tedesca di origini ebraiche che diventerà una fotografa abilissima e la prima donna fotoreporter; in seguito morirà all’età di ventisette anni, investita incidentalmente da un carroarmato lasciando in Capa un profondo dolore. A causa delle difficoltà di trovare lavoro come fotografo freelance Capa, insieme alla compagna, da Parigi si sposta in Spagna, dal ‘36 al ‘39, dove documenta gli orrori della guerra civile e dove nel ’36 diviene famoso grazie alla famosa e controversa foto “Il miliziano colpito a morte”.
L’eterna diatriba sull’autenticità di questa foto ha creato nel tempo due schieramenti avversi. L’eventuale inautenticità della foto nulla toglierebbe al valore storico che essa ha acquisito come simbolo dei soldati lealisti morti durante la guerra civile spagnola. A sgombrare definitivamente il campo da questa lunga controversia, nel 2013 “Il Centro Internazionale di Fotografia” ha scoperto e diffuso un’intervista radiofonica, risalente all’ottobre del 1947, in cui Robert Capa spiega esattamente cos’è successo: “Ho scattato la foto in Andalusia, racconta mentre ero in trincea con 20 soldati repubblicani, avevano in mano dei vecchi fucili e morivano ogni minuto”. La foto è stata scattata mentre i soldati con cui viaggiava correvano a ondate verso una mitragliatrice fascista per abbatterla. Al terzo o quarto tentativo di assalto dei miliziani “ho messo la macchina fotografica sopra la mia testa – continua – nell’intervista e senza guardare ho fotografato un soldato mentre si spostava sopra la trincea, questo è tutto. Non ho sviluppato subito le foto le ho spedite assieme a tante altre. Sono stato in Spagna per tre mesi e al mio ritorno ero un fotografo famoso, perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa, aveva catturato un uomo nel momento in cui gli sparavano: si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato ed io non l’avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa”. In fuga dalle persecuzioni anti-ebraiche e in cerca di lavoro, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, il fotografo ungherese si trova a New York. Inizialmente fotografa per il Collier’s Weekly per poi passare a Life immortalando immagini memorabili, tra le sue foto più famose, divenute delle icone nel rappresentare le attività militari degli americani in Sicilia, come la foto di Sperlinga (in cui si vede il soldato americano accovacciato e il pastore ricurvo che gli indica la strada per Sperlinga), (oggi una targa sul luogo è a ricordo di quel momento) e lo sbarco in Normandia. In Sicilia gli americani stavano a Troina nell’interno dell’isola e avevano notevoli difficoltà ad espugnare il paese difeso da soldati italiani e tedeschi che opponevano una strenua resistenza. I combattimenti durarono sette giorni. La ritirata e la resa avvennero solo dopo feroci bombardamenti aerei che distrussero gran parte del centro abitato della piccola cittadina. Capa, disgustato, porterà con sé il suo convincimento sulla natura della guerra: “Un inferno, che gli uomini si sono fabbricati da soli”: un convincimento che gli eventi siciliani avevano confermato e rafforzato. Dei quattro rotoli di pellicola da 35 millimetri scattati durante il D-Day, il 6 giugno 1944, rimasero soltanto nove foto che Life pubblicò il 19 giugno (il resto andrà perduto per un errore di un tecnico nello sviluppo in laboratorio). Nel 1947, a Parigi, Capa fonda assieme a Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour e George Rodger e William Vandivert, l’agenzia cooperativa Magnum, diventata una delle più prestigiose agenzie fotografiche. Sempre in quell’anno egli scrive le sue memorie in un diario con il titolo “Slightly out of focus”, in cui narra le sue esperienze. In esso emerge, così come ebbe a dire lo scrittore e amico John Steinbeck “che egli sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perchè è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino”. Capa, morirà, si può dire come la sua amata Gerda, nello svolgimento del suo lavoro di ricerca il 25 maggio del 1954, in Indocina, al seguito di una squadra di truppe francesi dove saltò in aria dopo essersi inoltrato inavvertitamente in un campo minato.
Mary Titton
24 maggio
PRIMO PIANO
Linea ferroviaria Torino-Ivrea: 2 morti e una ventina di feriti.
Ieri sera, alle 23.20 circa, all’altezza del comune di Caluso, si è verificato un grave incidente ferroviario: il treno regionale 10027, partito alle 22.30 dalla stazione di Torino Porta Nuova, ha travolto un tir, fermo sui binari all’altezza di un passaggio a livello, un trasporto eccezionale con targa lituana che, “dopo aver sfondato le barriere di un passaggio a livello regolarmente funzionante, era fermo sulla sede ferroviaria”. Il macchinista avrebbe azionato il freno d’emergenza, ma non ha potuto evitare l’impatto violentissimo con il rimorchio del camion: il locomotore del treno, che viaggiava a 100-120 chilometri orari, ha deragliato e trascinato con sé altri due vagoni che si sono ripiegati su se stessi, finendo a ridosso di una casa cantoniera. Una delle due vittime è il macchinista, morto sul colpo, l’altra è uno degli addetti alla scorta tecnica del tir. La capotreno è in gravi condizioni: intubata e in coma farmacologico, ha riportato numerosi traumi da sindrome da schiacciamento e una frattura al bacino. Incastrati tra le lamiere, i feriti sono stati estratti dai vagoni uno ad uno, i più gravi sono stati trasportati con l’elisoccorso all’ospedale Cto di Torino, gli altri, invece, in ambulanza, negli ospedali di Chiavasso, Ciri, Ivrea e San Giovanni Bosco di Torino. Attivate le procedure previste per le maxi emergenze, sul posto sono intervenuti vigili del fuoco, carabinieri e 118, che ha allestito un ospedale da campo. Il tir, con targa lituana ma partito dalla Repubblica ceca, era diretto alla Bitux di Foglizzo, storica impresa di costruzioni, quindi dopo pochi chilometri, sarebbe giunto a destinazione, il passaggio a livello, in cui il mezzo pesante è rimasto incastrato finendo travolto dal treno che è poi deragliato, dista, infatti, una quindicina di chilometri da Foglizzo. Tra le ipotesi dell’ennesima “tragedia annunciata”, secondo il parere di un testimone, un difetto al funzionamento delle sbarre del passaggio a livello, oppure la eventualità che “l’autista del camion possa aver forzato il blocco mentre scendevano le sbarre”, come ha detto Giuseppe Ferrando, il procuratore capo di Ivrea che coordina le indagini.
DALLA STORIA
Joseph Brodskij.
Josif Aleksandrovič Broskij, noto anche come Joseph Brodskij, uno dei maggiori poeti del XX secolo, per autodefinirsi usava la formula lapidaria: “Io sono ebreo, poeta russo e cittadino statunitense”. Era invece molto di più. La sua poesia è espressione di un pensiero profondissimo, quello di una mente intelligente e sensibile che mal si accompagnava con il regime totalitario dell’Unione Sovietica in cui lo sventurato poeta, il 24 maggio 1940, era nato. Proprio per la sua arte poetica, ritenuta una minaccia dalla censura sovietica, che bollava il poeta di parassitismo sociale, con l’accusa “gravissima” di assenza di amore per la patria e per il suo popolo, Brodskij subì il carcere, la reclusione in ospedali psichiatrici, l’esilio e di essere come un “pigmeo con pantaloni di velluto a coste”! Arrestato il 13 gennaio 1964, durante il processo, due sedute furono stenografate da Frida Abramovna Vigdorova e furono poi “passate” in samizdat (la diffusione clandestina di scritti illegali perché censurati dalle autorità o ostili al regime sovietico). Eccone uno stralcio: “Giudice: Qual è la sua professione? Brodskij: Poeta, poeta e traduttore. Giudice: E chi ha riconosciuto che siete poeta? Chi vi annovera tra i poeti? Brodskij: Nessuno. (senza sfida). E chi mi annovera nel genere umano? Giudice: Avete studiato per questo? Brodskij: Per cosa? Giudice: Per essere un poeta! Non avete cercato di completare l’università dove preparano … dove insegnano … Brodskij: Non pensavo … Io non pensavo che ci si arrivasse con l’istruzione. Giudice: E come? Brodskij: Io penso che … (confuso) venga da Dio … Giudice: Avete richieste? Brodskij: Vorrei sapere perchè mi hanno arrestato. Giudice: Questa è una domanda non una richiesta. Brodskij: Allora non ho richieste.” Il 13 marzo 1964 Brodskij è condannato al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo: cinque anni di lavori forzati in esilio nel distretto di Konosa. Il processo al poeta dà l’impulso alla nascita del Movimento in difesa dei diritti umani in URSS e attira l’attenzione dell’Occidente sulle violazioni dei diritti umani in Unione Sovietica. La stenografia del processo, ad opera di Frida Vigdorova, viene diffusa sulle più importanti testate estere come il New leader, Le Figaro, Encounter e addirittura letta dalla BBC. Con la partecipazione attiva della poetessa Anna Achmatova, che Brodskij conobbe nell’agosto del 1961, fu condotta una campagna pubblica in difesa del poeta. Fu solo dopo il discorso al governo sovietico di Jean-Paul Sartre e di altri intellettuali di fama mondiale che la pena venne ridotta restringendola al periodo già scontato, consentendo a Brodskij di tornate a Leningrado. “L’impegno dei corifei della cultura sovietica non ha avuto alcuna influenza sulla decisione del partito. Decisivo fu invece l’avvertimento dell’amico dell’URSS Jean Paul Sartre, secondo il quale, al forum Europeo degli scrittori, la delegazione sovietica avrebbe potuto trovarsi in una situazione difficile a causa del caso “Brodskij”. Dopo il ritorno a Leningrado, Brodskij rimase in Russia sette anni durante i quali compone alcune opere che, malgrado la moltitudine di recensioni positive interne all’Unione degli scrittori vengono restituite all’autore. Ai lettori di Brodskij non rimasero che le traduzioni e al poeta, oltre ai rari interventi pubblici e alle letture a casa di amici, non resta che proseguire nella sua creatività poetica che culminerà nei versi inclusi più tardi nei libri editi negli USA. Però fuori dai confini dell’Unione Sovietica Brodskij è sempre più letto. I testi delle poesie e le bozze venivano consegnati segretamente agli editori statunitensi o spediti per posta diplomatica. Nel maggio 1972, l’OVIR, il dipartimento per i visti e gli stranieri dell’Unione Sovietica, pose Brodskij davanti alla scelta dell’emigrazione immediata oppure a prepararsi a subire quotidiani interrogatori, carcerazioni e reclusioni in ospedali psichiatrici e, a questo punto, il poeta non esita a lasciare l’Unione Sovietica. Privato della cittadinanza sovietica si reca a Vienna per conoscere Wystan Auden, che l’aveva ispirato negli anni dell’esilio. Subito dopo ottiene un posto come professore presso l’università del Michigan per insegnare fino al 1980 : “… per 24 anni, 12 settimane all’anno si presentava regolarmente davanti ad un gruppo di giovani americani e parlava con loro della cosa che amava di più in assoluto: della poesia … Che nome avesse il corso, non era poi così importante: tutte le sue lezioni erano lezioni di lettura lenta del testo poetico”. Dal 1982 fino alla morte insegnerà al Consorzio dei cinque college. La sua poesia è intima e speculativa, fedele alla tradizione che egli rielabora in modi personali, canta una memoria lucida e disincantata e ricca di suggestioni. Fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1987 con la motivazione “Per una produzione onnicomprensiva, intrisa di chiarezza di pensiero e intensità poetica”. Il 28 gennaio 1996 a New York, mentre si prepara a partire per iniziare un nuovo semestre all’università, muore d’infarto nel proprio studio. Sarà sepolto nell’isolotto di San Michele, a Venezia, una città che lui amava moltissimo.
Mary Titton
23 maggio
PRIMO PIANO
Il “Nobel” della tecnologia al fisico Tuomo Suntola.
Il “Nobel” della tecnologia 2018, ovvero il Millennium Technology Prize, è stato assegnato al fisico finlandese Tuomo Suntola, inventore della tecnica che ha reso più efficienti le memorie di smartphone e computer, permettendo comunicazioni più efficienti, comprese quelle dei social media. Il premio di un milione di euro, istituito nel 2004, è considerato l’equivalente, nella tecnologia, del Premio Nobel e viene assegnato ogni due anni dalla Technology Academy Finland a scienziati, che con le loro innovazioni “migliorano la qualità della vita delle persone”. Il prestigioso riconoscimento è andato a Suntola per l’invenzione di una nanotecnologia denominata ALD (Atomic Layer Deposition), la cui applicazione su larga scala, negli anni ’70, ha segnato l’inizio di una rivoluzione nell’elettronica e ha permesso di sostituire, nel 1974, negli ospedali gli schermi troppo ingombranti con schermi piatti elettroluminescenti. Dopo i computer, questa invenzione ha permesso, nel mondo dei telefoni cellulari e poi degli smartphone, di ottenere dispositivi sempre più miniaturizzati e potenti. Le ricadute di questa tecnica, in linea con lo spirito del premio, dedicato alle innovazioni che migliorano società e ambiente, hanno riguardato, oltre l’elettronica, anche altri settori, come la medicina, le energie sostenibili e lo spazio. Oggi la tecnologia Ald è utilizzata per il rilascio controllato di farmaci nel corpo umano, per migliorare l’efficienza dei pannelli solari, delle luci Led e delle batterie al litio, per le auto elettriche, attualmente è allo studio anche il possibile uso per imballaggi rispettosi dell’ambiente, per proteggere le lenti dei telescopi e per orologi e gioielli in argento a prova di corrosione. Si stima che il mercato globale di apparecchiature e prodotti chimici utili per le pellicole Ald sia di due miliardi di dollari e che il valore di mercato dei prodotti elettronici basati su questa tecnologia sia di almeno 500 miliardi di dollari. Il pioniere della miniaturizzazione ha così commentato: “Ricevere il Millennium Technology Prize è un grande onore per me, soprattutto perché questa innovazione si è dimostrata utile in tantissime applicazioni che hanno migliorato la qualità della vita dell’umanità”.
DALLA STORIA
Nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1992, alle 17,58 di un sabato quasi estivo, il tempo si fermò sull’autostrada A 29 che congiungeva l’allora aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Allo svincolo di Capaci nei pressi di Isola delle Femmine 500 Kg. di tritolo fecero saltare in aria le due Fiat Croma dove viaggiavano il Giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Per puro miracolo si salvò l’autista dell’auto di Falcone che sedeva sul sedile posteriore essendo proprio il giudice alla guida. Lievi ferite anche per gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello che erano sulla terza macchina che seguiva. Al passaggio del corteo infatti Giovanni Brusca aveva attivato il telecomando dalla collinetta a vista sull’autostrada e l’abitato, su cui attendeva insieme ad uno dei più pericolosi gruppi di fuoco di Cosa Nostra. Il boato fu devastante, tale da mandare letteralmente in pezzi l’asfalto in un inferno di fumo, di brandelli di carne umana e di lamiere. Giovanni Falcone rientrava quel pomeriggio da Roma dove negli ultimi tempi era stato distaccato presso la Direzione Generale degli Istituti di Pena. Gli spostamenti dovevano avvenire in segretezza poiché il livello di attenzione e la minaccia nei suoi confronti erano da tempo molto alti, ma era seguito da tempo e indubbiamente i mafiosi erano a loro volta ben informati. Forse l’attentato avrebbe dovuto avvenire a Roma dove già da febbraio si era spostato dalla Sicilia un nutrito commando per eseguire le direttive di Totò Riina e della Commissione. Poi evidentemente si pensò di agire per maggiore effetto mediatico direttamente sull’Isola. Certo è che la conferma da parte della Cassazione degli ergastoli inflitti al Maxi Processo e la controversa nomina di Falcone alla Direzione Nazionale Antimafia, sono stati gli opposti catalizzatori all’origine di una sentenza da parte di Cosa Nostra già in essere da quasi un decennio. Falcone investito in pieno dall’esplosione morirà di lì a poco subito dopo il trasporto in ospedale e fin da subito, saltati ormai già da tempo gli equilibri e i compromessi fra politica e mafia, si aprì una terribile stagione che avrebbe portato a distanza di neanche due mesi alla morte di un altro Giudice, Paolo Borsellino, vittima anche lui di un eclatante attentato dinamitardo il 19 luglio, sempre a Palermo. Una vera e propria notte della Repubblica iniziata già nel marzo precedente con l’uccisione a Mondello dell’Onorevole Salvo Lima esponente di spicco della corrente andreottiana in Sicilia. Un’esecuzione in pieno giorno a cui sarebbe seguita poi quella di un altro grande elettore DC, Ignazio Salvo, nel settembre dello stesso anno a Santa Flavia. Salvo, appunto, era soprannominato “l’intoccabile”. L’uccisione di Giovanni Falcone accelerò di colpo le votazioni in Parlamento per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro votato a stragrande maggioranza, il giorno dopo era a Palermo con tutte le più Alte Cariche dello Stato in una giornata contrassegnata da forti emozioni, da una contestazione molto dura e da una collera spontanea. L’attacco diretto allo Stato e alle Istituzioni incominciava proprio con la strage di Capaci, dopo un lungo decennio di morti ammazzati, di altri attentati, di cadaveri eccellenti che avevano contrassegnato la scalata di Totò Riina e dei Corleonesi ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Certamente comunque Cosa Nostra non era sola, pezzi infedeli dello Stato, delle Istituzioni e delle stesse Forze dell’Ordine portavano avanti a fianco dello stragismo criminale una fredda politica di destabilizzazione e di ricatto in uno scenario in cui si muovevano grandi interessi economico-finanziari, appalti, consorterie, massoni e servizi segreti, con grave pericolo per la tenuta democratica del Paese. Nei successivi processi di Caltanissetta le responsabilità più evidenti sarebbero state poi accertate, molti degli esecutori e dei mandanti condannati all’ergastolo e al 41 Bis, i corleonesi sconfitti proprio sul terreno militare che avevano cercato o su cui erano stati indotti e consigliati.
È difficile, logorante e complesso parlare degli ultimi 30 anni di mafia e del ruolo di Cosa Nostra nella vita e nella storia recente del nostro Paese. La sequenza dei morti ammazzati, dei veleni, delle vicende, è impressionante nel suo incalzare progressivo a partire dai primi anni ’80 quando la vecchia Cupola palermitana dei Bontade e degli Inzerillo viene resa perdente dalle raffiche di Kalashnikov dei corleonesi che ne assumono il posto prendendo il comando. Muore il Capo dell’Ufficio Istruzioni Rocco Chinnici, fatto saltare sotto casa da un’autobomba, e prima ancora il Procuratore Costa, il Giudice Terranova, il Commissario Boris Giuliano, il Capitano dei Carabinieri Mario D’Aleo, il Colonnello Basile, fino allo stesso Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Poi ancora, politici di nuovo corso come Piersanti Mattarella e l’ex Sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Palermo e la Sicilia sono pieni di cadaveri anche dei mafiosi e dei picciotti delle “famiglie” sconfitte e soppiantate, di cui il quotidiano L’Ora fornisce ogni giorno ai lettori una macabra contabilità. Il Pool di magistrati, nato su iniziativa proprio di Rocco Chinnici e poi reso pienamente operativo dal suo successore volontario Antonino Caponnetto, trasferitosi appositamente da Firenze, diventa un pericolo reale per l’Organizzazione. Grazie all’unificazione delle indagini e dell’attività di polizia giudiziaria, ad una visione finalmente d’insieme di tanti tentacoli diversi, la magistratura di Palermo, di Falcone, Borsellino, Di Lello, Ingroia (per citarne solo alcuni), mettono sotto pressione l’intera struttura criminale, i suoi traffici e i suoi affari. Cosa Nostra risponde con le armi e val la pena di ricordare la terribile estate del 1985 quando la Squadra Mobile di Palermo viene decapitata con le esecuzioni nel giro di pochi giorni di due dei suoi esponenti di spicco, il Capo della Squadra Catturandi Beppe Montana e addirittura quello della stessa Squadra Mobile, Ninni Cassarà, strettissimo collaboratore di Giovanni Falcone.
Francesco Malvasi
AUGURI MARY!
(Girasoli, Vincent van Gogh 1888-1889)
22 maggio
PRIMO PIANO
Cascia: La festa delle rose.
Nella cittadina di Cascia, in Umbria, si è ripetuta la tradizionale benedizione e distribuzione delle rose benedette, in occasione della festa di santa Rita, una delle Sante più invocate e venerate per la sua umanissima vicenda terrena e per i miracoli che le vengono attribuiti. L’evento si ripete da secoli ogni anno il 22 maggio, con l’accorrere di migliaia di devoti e turisti da varie parti del mondo, per rendere omaggio alla “Santa degli Impossibili”. Lungo il percorso del corteo in abiti medievali, rievocazione in costume della vicenda umana di Rita, al passaggio della statua di Santa Rita sono state lanciate centinaia di rose, mentre altre venivano prese dal piedistallo della statua e date alle persone assiepate lungo il tragitto. Sul sagrato della Basilica, dove viene impartita la benedizione, poi, i fedeli, a migliaia, levano in alto, rivolti al cielo, mazzi di rose, il fiore amato da Rita, il suo simbolo, che rinnova un miracolo del XV secolo. Santa Rita è detta, infatti, la santa della Rosa, perché, prima di morire nel monastero, dove era voluta entrare dopo la morte del marito e dei due figli, mandò una sua cugina a prendere nel suo orticello di Roccaporena, in pieno inverno, una rosa rossa e due fichi. La cugina, incredula, pensò che delirasse, ma trovò tra la neve una bellissima rosa rossa e i due fichi maturi sull’albero, segno interpretato come la salvezza dell’anima di suo marito e dei suoi figli. La vicenda umana di Rita, al secolo Margherita Lotti (Roccaporena, 1381 – Cascia, 22 maggio 1457), coglie gli aspetti più forti del Medioevo: amore ed odi, vita e morte, guelfi e ghibellini, in una inconsueta prospettiva tutta al femminile. E mentre a dominare questi eventi ci sono re, condottieri, capitani di ventura, eserciti, qui, a Cascia, protagonista è un’umile donna, piccola di statura, ma incrollabile nella sua fede e determinata nel proporre, in tempi di faide e vendette, ideali di pace: il suo esercito è la sua gente, la gente normale, i contadini, i pastori, gli artigiani, i mendicanti, le consorelle del Monastero, quella parte di umanità che la storia la subisce e che ne porta drammaticamente i segni. Per questo è divenuta così popolare ed è tanto amata.
DALLA STORIA
Arthur Conan Doyle: il padre di Sherlock Holmes.
“Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”.
(Sherlock Holmes parlando con Watson in “Il segno dei quattro”).
Arthur Conan Doyle viene ricordato quasi esclusivamente per aver ideato, alla fine del XIX secolo, la figura più celebre di investigatore della storia del romanzo poliziesco: Sherlock Holmes. Personaggio letterario perfettamente aderente, nelle pose e nel temperamento allo spirito britannico, compassato, distaccato e, ahimé, supponente diventa il protagonista ideale di romanzi e racconti appartenenti al genere letterario del giallo deduttivo, il cui iniziatore fu, nel 1841, Edgar Allan Poe con il suo Auguste Dupin (I delitti della via Morgue). Ma Conan Doyle dedicò i suoi sforzi di scrittore e di studioso anche ad altri campi. Scrisse romanzi di carattere storico e avventuroso: tra questi il ciclo del professor Challenger e “Il mondo perduto”, del 1912; “Hope”, dal suo diario di bordo sulla baleniera “Hope”, nel mare Artico, “Avventura nell’Artico”, “La mummia” che egli preferiva senz’altro ai suoi romanzi polizieschi. “Uno studio in rosso”, del 1887, pubblicato sullo Strand Magazine è il primo racconto in cui appare Sherlock Holmes e in cui il narratore, il buon dottor Watson, che in un certo senso è l’alter ego dell’autore stesso, presenta il detective e la sua sottile scienza della deduzione. Doyle continuò a inventare avventure del celebre detective, creando un modello destinato a esercitare un’influenza decisiva sugli autori successivi da Poirot in poi. Il successo di Sherlock Holmes fu enorme: nel 1890 “Il segno dei quattro” fu accolto in Inghilterra e in America con un favore che rimarrà celebre nella storia letteraria.
L’autore di tanto successo nacque a Edimburgo il 22 maggio del 1859 da una famiglia irlandese di antica nobiltà, ma con scarsi mezzi economici. Compì i primi studi presso una scuola di Edimburgo e alla Hodder School, nel Lancashire. Ma la sua formazione avverrà principalmente in una scuola cattolica diretta dai gesuiti, dove il giovane Arthur intimorito dal loro zelo, più tardi, si ribellerà ai loro insegnamenti. Nel 1876 entrò alla Edinburgh Medical School e nel 1879 pubblicò contemporaneamente la sua prima opera “Il mistero di Sasassa Valley”, racconto del terrore venduto al Chambers Journal e il suo primo lavoro medico su un sedativo che aveva sperimentato su di sé. Nel 1881 ottenne il baccellierato in Medicina e il Master in Chirurgia. Iniziò così a lavorare presso l’ospedale di Edimburgo, dove rimarrà per qualche tempo e dove avrà modo di conoscere il brillante e freddo dottor Joseph Bell che con il suo metodo scientifico e le sue abilità deduttive, gli ispirò in seguito il fortunato personaggio di Holmes, che ha così, nelle origini, un legame con il thriller medico. Bell aiutò effettivamente la polizia in alcuni casi (tra i quali quello di Jack lo squartatore) e diede il suo contributo alla nascita della medicina legale. Sherlock Holmes diventò il primo a rendere popolare la criminologia, cioè l’applicazione del metodo scientifico alle investigazioni criminali. Doyle imbarcatosi su una baleniera come medico di bordo, trascorse alcuni mesi nell’Oceano Artico e poi in Africa. Tornato in patria, aprì uno studio medico a Southsea, un sobborgo di Porthsmouth, senza troppa fortuna. Impiegò allora il tempo libero scrivendo racconti polizieschi che, pubblicati su vari giornali, raccolsero un discreto interesse di pubblico. Dopo il successo ottenuto con i romazi di Scherlock Holmes, abbandonò la professione medica e iniziò un’intensa attività giornalistica, come corrispondente nella guerra boera (nel 1903, in seguito all’appoggio da lui dato a questa guerra con i suoi articoli, era stato insignito del titolo di baronetto) e, più tardi, durante il primo conflitto mondiale. Uno dei principali interessi di Doyle fu infine lo spiritismo, al quale dedicò molti studi e sul quale scrisse “Storia dello Spiritismo”, del 1926 che esaminava il fenomeno a partire dalle origini e dal quale lo scrittore s’aspettava qualche riconoscimento come studioso. In realtà l’opera fu apprezzata solo in una ristretta cerchia di lettori e gli attirò invece un attacco della chiesa cattolica. Suo malgrado la fama dell’eclettico scrittore, giornalista (durante le Olimpiadi di Londra del 1908 Doyle scrisse per il Daily Mail un pezzo di grande risalto sul vincitore della maratona olimpica, conduceva battaglie, a mezzo stampa, con intraprendenza e abilità, a prescindere dai vantaggi che se ne potevano ricavare: il senso dell’onore era per lui più importante dell’opinione pubblica), e sportivo appassionato (praticava le arti marziali orientali) resterà indissolubilmente legata al personaggio di Scherlock Holmes. Ma come è possibile resistere alle fascinazioni che suscitano le storie di Holmes? Non si può, intrigano troppo! Ne “il mastino dei Baskerville”, forse il più celebre tra i suoi casi, Doyle prende spunto da un’antica leggenda dell’Inghilterra occidentale che narrava di un mastino infernale ululante di notte per la brughiera.
Nel “Segno dei quattro” si passa dalla grigia e nebbiosa Londra a un caldo arcipelago dell’Oceano Indiano: le isole Andamane. Con “La valle della Paura” veniamo trasportati dalle nebbie londinesi in cui si aggirano personaggi sospetti e, dai lindi e all’apparenza tranquilli villaggi della campagna inglese, addirittura in piena epopea “western” americana. Sherlock Holmes, con calma e lucidità impareggiabili, scioglie ogni nodo, chiarisce ogni mistero, come era solito dire “Elementare Watson!”.
…“Mi ero immaginato che Sherlock Holmes / si sarebbe precipitato nella casa mettendosi / senza indugio a studiare il mistero. / Niente sembrava più lontano dalle sue intenzioni. / Con un’aria indifferente che, date le circostanze, / mi parve quasi un’affettazione, / percorse lentamente su e giù il marciapiede osservando / distrattamente il suolo, il cielo, la casa dirimpetto …”
Tratto da “Uno studio in rosso”
Mary Titton
Nel 1938, il 22 maggio nasceva a New York Susan Strasberg, figlia di Lee Strasberg, fondatore dell’Actors Studio e dell’attrice Paula Miller, seconda moglie di Strasberg. Quest’ultima divenne nota per essere l’insegnante del Metodo Strasberg di Marilyn Monroe alla quale l’attrice confidava le sue insicurezze, affidandosi completamente, tanto da volerla sempre vicino durante le prove dei film (spesso in disaccordo con il regista per la forte influenza della Miller su Marilyn). Susan debuttò come attrice poco più che adolescente nel film Picnic, nel 1955, nel ruolo della sorella minore di Kim Novack, la protagonista. Diciottenne si aggiudicò una candidatura ai Tony Award per la sua interpretazione, in teatro, nel ruolo di Anna Frank nella pièce teatrale diretta da Garson Kanin e sceneggiata da Albert Hackett dal “Diario di Anna Frank”. In quell’occasione il padre Lee Strasberg commentò: “Quando abbiamo visto Susie in azione, siamo rimasti tutti sorpresi della sua grande sensibilità. Non so come abbia imparato tutto questo. Non ha mai avuto alcun addestramento formale”. Dopo lo spettacolo Lee, Paula, Susan e Marilyn Monroe avevano preso posto nel ristorante di Sardi. L’attore Franchot Tone, anche lui nella sala, si alzò e chiese a tutti i clienti di unirsi a lui in un brindisi, dicendo: “Piccola Susan, sei stata lanciata in una lunga e brillante carriera …”. Brook Atkinson, il critico teatrale, nel New York Times, la definì “una giovane donna snella e affascinante con un viso a forma di cuore, un paio di occhi infuocati e l’anima di un’attrice”. Susan, sebbene nella sua infanzia fosse stata circondata fa gente dello spettacolo, all’inizio fu troppo giovane per frequentare le lezioni di suo padre, poi, dopo il successo, non trovò più il tempo. Nel 1959, all’età di ventun anni, recitò nel film di Gillo Pontecorvo “Kapò”, in cui interpretava il ruolo della giovane ebrea deportata in un campo di concentramento nazista. Il film fu candidato all’Oscar nel 1960 come miglior film straniero e, la Strasberg, durante i mesi di lavorazione in Italia, divenne molto popolare nel nostro Paese. Susan di sé diceva: “l’unica cosa che mi è mancata è un’educazione universitaria”. Girò in seguito altri film, dal 1981 al 1992, senza raggiungere il successo iniziale e apparendo in diverse serie televisive. Divenuta anche lei insegnante di recitazione all’Actors Studio, usava dire a proposito del metodo Stanislavskij adottato dalla scuola di recitazione: “Non esiste alcun metodo. Il termine metodo in sé è privo di significato. Ci sono molti metodi, molte tecniche. Mio padre usava essenzialmente un metodo di insegnamento nella recitazione basato sulle idee originariamente proposte da Stanislavskij: l’autodisciplina e come pensare un ruolo usando l’immaginazione. Questo è tutto”. La Strasberg ha raccontato la sua vita nell’autobiografia best seller “Bittersweet” nella quale parla delle sue discusse relazioni sentimentali (una delle quali con l’attore Richard Burton) e le ansie dovute alla salute della figlia Jennifer Robin, nata con una disfunzione cardiaca. Susan che avrebbe preferito non sposare un attore perché “non c’è spazio per due ego”, sposò, infine, il giovane attore Christopher Jones che all’epoca stava assumendo l’LSD. Anche Susan, a quel tempo, si drogava. Per questo, la Strasberg riteneva che la responsabilità dei problemi della figlia fossero imputabili alla loro assunzione della droga. I due si separarono dopo un anno. L’attrice ha, inoltre, pubblicato “Marilyn and Me: sister, rivals, friends in cui narra la sua amicizia con lei che considerava come una sorella. Marilyn che per molti anni frequentò, facendone parte, la famiglia-clan degli Strasberg invidiava Susan, come quest’ultima raccontò, perché era fortunata ad avere dei genitori che si preoccupavano per lei. Susan Stranberg è morta a New York, all’età di sessant’anni in conseguenza di un cancro al seno.
21 maggio
PRIMO PIANO
Venezuela: Maduro rieletto presidente, affluenza al 46%.
Nicolas Maduro è stato eletto per la seconda volta alla presidenza del Venezuela e resterà in carica per altri sei anni. Lo ha annunciato la presidente del Consiglio nazionale elettorale (Cne), Tibisay Lucena, in un breve messaggio radiotelevisivo dopo lo spoglio di oltre il 96% delle schede. Il delfino di Hugo Chávez ha perso 1,7 milioni di voti dalla sua prima elezione nel 2013 (da 7,5 a 5,8 milioni), quando si impose su Henrique Caprile per poco più di 200mila voti. Nelle votazioni, anche a causa di un’opposizione divisa da rivalità interne, fuggita all’estero e ridotta al silenzio da Maduro con decreti e arresti domiciliari, è prevalsa l’astensione: alle urne si è recato, infatti, solo il 46% dei 20 milioni aventi diritto al voto, evidenziando il distacco della popolazione di un Paese ridotto alla fame, con ospedali al collasso, un indice di mortalità del 40 per cento, la produzione di petrolio ridotta al minimo, continue interruzioni di energia elettrica, fabbriche chiuse per mancanza delle materie prime. Il partito al potere ha mobilitato i suoi militanti, che vicino, e spesso davanti ai seggi, hanno richiesto, come dimostrazione di fedeltà, il “Carnet de la Patria”, la tessera annonaria che garantisce gratis una serie di prodotti alimentari. A chi ne era sprovvisto l’hanno promessa in cambio del voto, esercitando una pressione forte e palese, in violazione di una delle regole più elementari delle elezioni. Le contestazioni sono arrivate dal principale rivale di Nicolas Maduro, Henri Falcon, ex chavista e candidato in un partito di ispirazione socialista, che ha dichiarato “illegittima” la vittoria del presidente venezuelano, chiedendo nuove elezioni entro l’anno, mentre i suoi consiglieri e attivisti presenti ai seggi hanno denunciato oltre 350 irregolarità. I media locali, poi, hanno riferito che i 14 Paesi latino americani del cosiddetto Gruppo di Lima hanno deciso di ridurre le loro relazioni diplomatiche con il Venezuela, dopo le elezioni presidenziali, che non hanno raggiunto “gli standard internazionali per un processo democratico, libero, giusto e trasparente”. Nel comizio tenuto dopo la rielezione, Maduro, invece, richiamando l’idea di un governo di riconciliazione nazionale, ha detto: “Credo nella pace, nel dialogo, nel rispetto della Costituzione. Dobbiamo rispettare tutti, anche chi non la pensa come noi”, aggiungendo di voler essere “un presidente di tutti e per tutti”.
DALLA STORIA
Il leggendario volo di Charles Lindbergh. “Per me la cosa più importante della vita è il volo”.
Fin dai primi anni del Novecento quando inizia l’avventura più straordinaria mai compiuta dall’uomo, quella appunto del volo, un intraprendente aviatore statunitense, figlio di immigrati svedesi, compie il primo volo aereo transatlantico senza scalo in solitario. In realtà già nel 1919 due aviatori britannici avevano effettuato la traversata senza scalo dell’Oceano Atlantico, tra l’estremità orientale della costa canadese e quella occidentale dell’Irlanda, ma non in solitario. Il 20 maggio del 1927, dall’aeroporto Roosevelt Field, vicino a New York, il venticinquenne Lindbergh, pilota dell’aeronautica statunitense, partì alle 7.52 e, alla velocità media di 188 Km/h, sorvolando la tour Eiffel, arrivò al Champs de Le Bourget, vicino a Parigi, alle 22.22, dopo 33 ore e 30 minuti di volo (33 ore esposto al vento e, naturalmente, senza pressurizzazione!). Il suo aereo è un monoplano leggero (un velivolo improvvisato in maniera artigianale; oggi nessuno ci salirebbe neanche da fermo). Quel magico volo, agli albori dell’aviazione, lo consegna direttamente alla leggenda.
Lindbergh era convinto che il monoplano monomotore fosse il mezzo più adatto a quel tipo di volo, perché più affidabile e aerodinamico, rispetto ai tradizionali biplani plurimotore. Dopo numerosi rifiuti, trovò i finanziatori per la costruzione del velivolo che aveva in mente, affidata alla compagnia californiana Ryan Airlines. Il modello, un monomotore ad ala alta e con 240 CV di potenza, prese il nome di “Spirit of Saint Louis”, in onore della città del Missouri da cui provenivano i finanziatori. Ad attenderlo centocinquantamila persone in delirio e le massime autorità francesi, che gli conferirono la croce d’onore. Il ritorno in patria fu ancor più trionfale: accolto come un eroe dal presidente Calvin Coolidge e portato in trionfo per il paese, si vide assegnato il grado di colonnello. La sua impresa entrò nel vivo della stagione d’oro dell’aviazione, che da quel momento conobbe uno sviluppo incontenibile nel trasporto civile. Gli aerei senza armi, mitragliatrici e bombe potevano, così si pensava, sicuramente rendere utili servizi all’umanità; in tempo di pace gli aerei potevano trasportare persone e merci, ridurre le distanze tra le nazioni, sviluppare i commerci e così via. Lindbergh con la sua impresa rimpiccioliva il mondo! Quella pagina storica fu anche un fenomeno mediatico di massa che trasformò il protagonista in una vittima della sua stessa popolarità. Il suo nome è, infatti, legato anche alla triste vicenda del rapimento e dell’uccisione del figlioletto Charles August, uno dei primi casi di rapimento che ebbe risonanza internazionale. Il piccolo, di due anni di età, fu rapito in circostanze misteriose il 1° marzo 1932 dall’abitazione di campagna dei Lindbergh, nel paese natio della moglie. Anche se fu pagato il riscatto, il piccolo non venne restituito alla famiglia e fu ritrovato, privo di vita, il 12 maggio in una località del New Jersey a poche miglia di distanza da casa Lindbergh. Questo terribile fatto scosse enormemente l’opinione pubblica del tempo a tal punto che la rete telegrafica venne ampliata per consentire una maggior diffusione delle informazioni sul caso. Ispirò anche una serie di saggi e romanzi, il più famoso dei quali è sicuramente “Assassinio sull’Orient-Express”, scritto nel 1934 da Agatha Chrtistie. Lindbergh morì nel 1974. Nel 1954 il suo libro “The Spirit of St. Louis” ebbe il premio Pulitzer per la biografia e l’autobiografia.
Mary Titton
20 maggio
PRIMO PIANO
Addio a Tony Wolf, il famoso illustratore di libri per bambini.
Si è spento a Cremona, a 88 anni, il mitico illustratore Antonio Lupatelli, conosciuto dai bambini e dalle loro famiglie come Tony Wolf o con uno degli pseudonimi da lui utilizzati (Oda Taro, L’Alpino, Antony Moore). Nato nel 1930 a Busseto, in Emilia Romagna, Lupatelli si trasferì da bambino a Cremona, dove ha abitato tutta la vita e dove sono stati celebrati i suoi funerali nella Chiesa di San Michele. Molti e meravigliosi sono i personaggi da lui creati: Draguzzo e Draghetto, Ciccio Sprai, Teddy, Aldin, Pingu, Pandi, i protagonisti delle “Storie del bosco” e poi animali, gnomi, draghi, fate e folletti, che hanno popolato le pagine di tanti libri diffusi in Italia e in tutto il mondo. Dopo una lunga collaborazione con la casa editrice britannica Fleetway, ha realizzato per il Corriere dei Piccoli la serie Ciccio Sprai, su testi di Carlo Triberti, oltre ad alcuni adattamenti di favole celebri, come “Lo schiaccianoci”, poi ha disegnato libri per l’infanzia editi dai Fratelli Fabbri e da Mondadori. Negli anni ’80 è iniziato il lungo e fruttuoso sodalizio con Dami Editore, con cui ha prodotto più di duecento titoli, proseguito sotto il marchio Dami Giunti Editore: ricordiamo tra gli altri “Gli amici del bosco”, “Le più belle filastrocche”, la “Bibbia dei piccoli”, “Aldin, il magico orsetto”, senza dimenticare le storie di Pandi e dell’orsetto Teddy. Tony Wolf ha anche animato molte delle storie del pinguino Pingu, della sorellina Pinga e dell’amico Robbie, personaggio dell’omonima serie animata, realizzata in Svizzera e scritta dal regista Otmar Gutmann. Il disegnatore ha anche avuto una lunga collaborazione con l’editore Lo Scarabeo di Torino per cui ha disegnato molti mazzi di tarocchi tra i quali “I tarocchi degli gnomi”, famosi per essere il più piccolo mazzo di tarocchi mai pubblicato. Ai suoi disegni si ispirò lo scrittore Giordano Berti per scrivere la favola omonima (1988), per il gioco di società Gnomopoli e per il romanzo “Il monte dei folletti”, ambientato sull’Alpe di Monghidoro, con un’introduzione di Gianni Morandi. A Genova, nei Musei di Nervi, è aperta, fino a fine giugno, una mostra dei suoi popolari personaggi, con cui ha incantato generazioni di bambini.
19 maggio
PRIMO PIANO
Inghilterra: il matrimonio di Harry e Meghan.
Come in occasione delle nozze del principe Carlo e Lady D. e di quello più recente di William e Kate, il matrimonio di Harry e Meghan Markle, nel castello di Windsor, trasmesso anche in Italia da più canali televisivi e riportato dai media, ci ha fatto fare un salto di secoli e ci ha proiettato in un’atmosfera fiabesca. Pur nel rispetto delle rigide regole e della tradizione, il royal wedding sarà ricordato per la spontaneità e la tenerezza degli sposi, che si sono conquistati subito l’approvazione e la simpatia degli invitati, e per la ventata di modernità che Meghan ha portato nel protocollo di Corte. La sposa, infatti, elegantissima nell’abito bianco semplice e raffinato, in seta con scollo “a barchetta” di Givenchy, impreziosito dal lungo velo ricamato a mano con 52 fiori, ognuno a simboleggiare un Paese del Commonwealth, trattenuto da una preziosa tiara di brillanti appartenuta alla regina Mary, fa il suo ingresso da sola nella St. George Chapel, mentre il principe Carlo l’attende a metà navata, per scortarla lungo l’ultimo tratto, ma non per consegnarla ad Harry. E ancora Meghan, sorridente e sicura di sé, continua la rivoluzione contro secoli di tradizione, nel promettere sì “cura e fedeltà”, ma non “obbedienza”, essendo stata scelta di proposito la stessa formula per i due sposi, che si sono promessi amore “finché morte non ci separi, secondo la legge di Dio”, “nel bene e nel male, in ricchezza e povertà, in salute e malattia”. La ribalta è stata poi tenuta per 14 minuti da Michael Curry, il 65enne pastore afroamericano, che ha parlato a braccio del “potere dell’amore”, “potere di cambiare il mondo”, citando per prima cosa Martin Luther King e facendo riferimento anche alla schiavitù e al potere curativo della musica spirituale cantata dagli schiavi, parole che sono risuonate nuove e forti alle orecchie di qualche componente della famiglia reale e della inossidabile regina Elisabetta, in un completo verde acido con cappellino ornato di fiori viola. Dopo l’appassionato sermone del reverendo Curry, il Karen Gibson and The Kingdom Choir ha intonato una versione gospel del celebre brano di Ben E. King “Stand by me”. I neo sposi Harry e Meghan sono usciti dalla cappella di St. George accompagnati dall’inno britannico, God Save the Queen. Dopo un bacio veloce all’uscita dalla St. George Chapel, sono saliti a bordo della carrozza scoperta per il loro bagno di folla. Per le strade della cittadina di Windsor si sono radunate migliaia di persone, tra cui molti americani, tutti pronti ad accogliere con gioia la coppia reale. Il passaggio del corteo nuziale lungo la Long Walk è stata una vera festa, con Harry e Meghan che salutano e sorridono alla folla. Harry e Meghan due giovani, che, tenendosi per mano durante tutto il rito e scambiandosi sguardi d’intesa e risate sommesse, hanno deciso di mostrarsi “as they are”, rendendo la cerimonia molto intima e felice.
18 maggio
PRIMO PIANO
Congo: allarme per una nuova epidemia di Ebola.
Il ministro della Salute del Congo ha annunciato 11 nuovi casi confermati di Ebola e due morti legati alla malattia nel nordovest del Paese. Finora l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha registrato nella Repubblica democratica del Congo 44 casi, di cui 20 “probabili”, 21 “sospetti” e 3 confermati. Le morti sono 23. Il rischio che il virus Ebola si diffonda ulteriormente nella Repubblica Democratica del Congo (Drc) è passato da “alto” a “molto alto”, mentre l’Oms per ora giudica basso il rischio di diffusione internazionale al di là dei Paesi confinanti, anch’essi a rischio solo “moderato”. La diffusione del virus Ebola in Congo ha raggiunto una città di 1,2 milioni di abitanti, Mbandaka, porto molto trafficato sul fiume Congo, a circa 130 chilometri dal focolaio iniziale dell’epidemia, e crocevia verso la popolosissima capitale Kinshasa. Pensando ai dieci milioni di abitanti che vivono nella capitale in condizioni igieniche precarie, un analista del centro studi Chatham House di Londra, citato dal Guardian, ha detto che “se l’ebola dovesse raggiungere Kinshasa, sarebbe più che apocalittico”. La preoccupazione è grande perché nel 2014-2016 era stata proprio la diffusione nelle città a causare oltre 11.300 vittime in Guinea, Liberia e Sierra Leone. In Congo intanto si stanno monitorando 514 persone che potrebbero essere entrate in contatto con individui infettati da questo virus mortale, che dal 1976 ha causato 9 epidemie nel grande Stato centrafricano. I medici, in assenza di farmaci per curare e prevenire il contagio, cercano di tenere i pazienti in isolamento e rintracciare le persone con cui hanno avuto contatti. La prossima settimana, per la prima volta nel paese, è prevista la somministrazione delle dosi dei vaccini arrivati (finora 4.500), anche il con il sistema “ad anelli”, per cui vengono vaccinati pure i contatti stretti dei casi confermati.
DALLA STORIA
Margot Fonteyn.
La ballerina inglese Margot Fonteyn, tra le più grandi del suo tempo e non solo, nacque a Reigate, una cittadina nel Surrey il 18 maggio 1919 con il nome di Margaret Evelyn Hookham, detta “Peggy”, da padre inglese e madre irlandese. Era figlia illegittima di Antonio Fontes, un uomo d’affari brasiliano. All’inizio della sua carriera, Margaret trasformò il cognome Fontes in Fonteyn e il nome Margaret in Margot, da qui il nome d’arte. A causa del lavoro del padre la famiglia si trasferì in Cina dove Peggy, piccolissima, scoprì il mondo della danza. Al suo ritorno a Londra, nel 1933, studiò con l’insegnante russa Seraphina Astafieva e superò un’audizione per il Vic-Wells Ballet, in seguito Sadler’s Wells Ballet, poi Royal Ballet. Quest’ultimo, con sede presso la Royal House del Covent Garden a Londra, era una delle compagnie di danza più importanti del XX secolo e continua ad essere una delle compagnie di danza più famose al mondo fino ad oggi, universalmente conosciuta per i suoi valori artistici e creativi. Quando nel 1935 la prima ballerina del Vic-Wells Ballet, Alicia Markova si ritirò venne sostituita da Margot Fonteyn che diventerà la star della compagnia e musa ispiratrice di numerosi balletti del coreografo Sir Frederick Ashton, tra cui: “Ondine”, “Daphnis and Chloe” e “Sylvia”. La sua interpretazione, a ventisei anni, come prima ballerina nel ruolo di Aurora ne “La bella addormentata nel bosco”, di Cajkovskij passerà alla storia. In questa occasione, William Chappell, disegnatore al Sadler’s Wells Ballet commenò: “Lei stessa crea la musica con i suoi movimenti, con i suoi piedi … un innato senso musicale che rende indimenticabili le sue apparizioni in scena …”. Negli anni Quaranta Fonteyn danzò in coppia con il ballerino australiano Robert Helpmann. I due artisti, nel 1949, si recherano, con il Royal Ballet, negli Stati Uniti e, per anni, andarono in tournée riscuotendo enormi successi. Negli anni Cinquanta danzò con il ballerino inglese del Royal Ballet e co-direttore della compagnia, Michael Somes. All’età di trentacinque anni, nel 1954, le venne conferito il titolo di Dama (DBE Ordine dell’Impero Britannico). In occasione del balletto “Uccello di fuoco”, di Strawinsky, in scena al teatro della Scala, diretto da Nino Sanzogno, il poeta Eugenio Montale, in un articolo del Corriere della Sera dell’11 marzo 1955, commentò lo spettacolo con queste parole: “L’interesse maggiore è la presenza di Margot Fonteyn, danzatrice probabilmente impareggiabile … Vissuta fanciulla in Asia, sembra talvolta di intravedere nel gesto e nel ritmo della grande ballerina, basti osservare i suoi morbidissimi movimenti di abbandono e l’alato gioco delle sue braccia nel balletto, quando il mitico “uccello di fuoco” conosce l’amplesso del principe che lo tiene prigioniero, un riflesso di cadenze mimiche delle danze religiose asiatiche … Figura veramente da leggenda alata e morbidissima, acrobatica e tenerissima, appariva la danzatrice il cui virtuosismo quasi diabolico non soffoca mai lo spirito magicamente musicale di un corpo che sembra in ogni gesto e in ogni cadenza cantare misteriosamente. Le acclamazioni del pubblico sono state prorompenti e interminabili.” Ma la coppia artistica che segnerà per sempre la storia del balletto emerse negli anni in cui molti (compresa la direttrice del Royal Ballet, Dame Ninette de Valois) pensavano che Margot, alla soglia dei quarant’anni, stesse per ritirarsi. Nel 1961, il ballerino russo Rudolf Nureyev, in tournée per la prima volta in Europa con il balletto Kirov, chiese asilo politico alla Francia e abbandonò l’Unione Sovietica. L’incontro tra i due ballerini determinò tra loro un sodalizio perfetto, professionale e nella vita privata; furono amici e leali l’uno all’altra fino alla morte.
Il 21 febbraio 1962, Nureyev e Margot Fonteyn apparvero sul palco, per la prima volta insieme, in una rappresentazione di “Giselle” al Royal Opera House di Londra. Fu un grande successo. Durante le chiamate alla ribalta, Nureyev si inginocchiò davanti alla Fonteyn e le baciò la mano. La coppia diventò famosa per le ripetute chiamate alla ribalta e per i lanci di bouquet di fiori sul palco da parte del pubblico ad ogni rappresentazione. Nel 1963 Ashton fu coreografo del loro “Margherite and Armand”, al Covent Garden di Londra alla presenza della Regina Madre e la Principessa Margaret, acclamati dal pubblico, ballerini e coreografi, ricevettero ventuno chiamate alla ribalta; nessun’altra copia danzò questo balletto fino al XXI secolo. Debuttarono nel “Romeo e Giulietta” di Kenneth MacMillian, anche se il coreografo l’aveva concepito per Lynn Seymour e Christopher Gable. Fonteyn e Nureyev danzarono insieme per la versione filmata de “Il lago dei cigni”, così come “Les sylphides” e il pas de deux dello schiavo da “Il Corsaro”. Nel Corriere della Sera del 23 novembre 1992, Rudolf Nureyev commentava che Margot era veramente “Prima ballerina assoluta” (una nomina assegnata alla Fonteyn dal Royal Ballet quando, nel 1972, si ritirò dalle scene, un titolo che poche volte è stato attribuito ad una ballerina) e confidava che “Margot è stata la mia partner ideale. Avevamo temperamenti diversi e c’era anche una differenza di età di venti anni. Ma i nostri corpi, i nostri movimenti, i nostri piedi e le nostre mani riuscivano sempre a incontrarsi e a fondersi meravigliosamente, in una sorta di equilibrio che credo sia stato irripetibile”. Margot Fonteyn era famosa per la sua professionalità e la lealtà verso colleghi e amici. Il suo modo di danzare emergeva per il lirismo, la grazia, la passione e la musicalità. Non era tecnicamente molto dotata (i suoi piedi non erano eccezionali) ma aveva in sé qualcosa di magico che, in palco, la rendeva speciale. Negli ultimi anni di vita andò a vivere a Panama per stare accanto al marito paralizzato. La Fonteyn sposò Roberto Arias, un diplomatico panamense, nel 1955. Nel 1965, un rivale politico gli sparò, lasciandolo paralizzato. Per pagare le spese mediche del marito Margot fu costretta a danzare fino a 60 anni, nonostante un’artrosi al piede. Ammalatasi di cancro, vi morì nel 1991.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Il 18 maggio 1872 nasce, nel Regno Unito, Bertrand Russell. Laureato in filosofia e logica a Cambridge, Russell comincia la carriera di insegnante universitario nel 1908, nella stessa Università che ha frequentato, fino al 1916 quando viene allontanato a causa delle sue idee pacifiste. E, per le sue convinzioni pacifiste, paga duramente con due anni di carcere. Dal 1938 al 1944 vive negli Stati Uniti, dove insegna a Chicago e a Los Angeles, prima di essere riaccolto a Cambridge. In campo logico-matematico, Russell sviluppa il paradosso che porta il suo nome, confutando le teorie che riducono la matematica alla logica. È autore di scritti (consultati con particolare interesse dalla generazione della contestazione giovanile degli anni Settanta, in similitudine con l’attivismo civile) sulla storia della filosofia occidentale, sulla religione, sul perché si considera non cristiano e di libri di critica sociale come “ Elogio dell’ozio”, “La conquista della felicità” (nel libro :“ … Il mondo che io auspico dovrebbe essere libero da faziose incomprensioni e consapevole che la felicità per tutti nasce dalla collaborazione e non dalla discordia”. Scrive, inoltre, “I principi della matematica”, “L’ABC della relatività”, “La conoscenza umana”, “ Il culto dell’uomo”, “Misticismo e Logica” e molti altri ancora.
Russell, insignito nel 1950 del Premio Nobel per la Letteratura, “In riconoscimento ai suoi vari e significativi scritti nei quali si erge a campione degli ideali umanitari e della libertà di pensiero”, lega il suo nome alle principali battaglie civili di questo secolo, concludendo la sua intensa attività in favore della pace dando vita nel 1966 al noto “Tribunale Russell”, contro i crimini di guerra americani nel Vitenam. Il grande filosofo inglese muore nel 1970.
17 maggio
PRIMO PIANO
Pompei: ultimo eccezionale ritrovamento, il vicolo dei balconi.
A quasi duemila anni dall’eruzione del 79 d.C, quando la lava seppellì le città di Ercolano e Pompei, i nuovi scavi, avviati grazie al Grande progetto, i primi in una zona “vergine” di 66 ettari, lungo i quali si estendeva l’antica città romana, hanno riportato alla luce una serie di edifici con tre grandi balconi affaccianti sul vicolo, che la colata di lava ha lasciato quasi intatti, con i parapetti, i resti delle coperture in tegole e con le anfore del vino ad asciugare al sole in un angolo. “Per Pompei un’assoluta rarità”, ha dichiarato all’ANSA il direttore del Parco Archeologico, Massimo Osanna, informando che le case con i balconi verranno ricostruite e inserite in un percorso tutto nuovo che collegherà la via di Nola con il vicolo delle Nozze d’Argento, quello che prende il nome dalla monumentale villa privata, che, dopo una chiusura di decenni, verrà restaurata e restituita al pubblico. La ricca casa, appartenente ad un edile benestante, L. Albucius Celsus, rivela in ogni suo ambiete lusso e sontuosità, a partire dal grande atrio con le colonne corinzie alte sette metri e la vasca in tufo, alla sala del triclinio con le pareti dipinte che raccontano storie di amorini e pigmei, al lussuoso peristilio, dove sulle trabeazioni si rincorrono cervi, fino alla piccola “spa” privata con mosaici che riprendono il disegno di un acquedotto romano e alla latrina, piccola e attaccata alla cucina, ma con le pareti dipinte con raffinate decorazioni rosso pompeiano su un fondo color crema. Lo scavo è portato avanti, oggi, da circa 40 persone, tra architetti archeologi, archeobotanici, con tecnologie d’avanguardia: droni, laser scanner, microtelecamere infilate nella terra. Osanna sottolinea che gli archeologi del primo scavo, quello cominciato a metà del Settecento, hanno lasciato molte cose “preziose”, come un bacile di bronzo, abbandonato forse perché privo di una delle due maniglie, e tanti dipinti murali, come quello, ritrovato diviso in tre frammenti, che ritrae una splendida pantera fulva su fondo chiaro.
DALLA STORIA
Teresa di Lisieux.
Il 17 maggio 1925 veniva canonizzata da papa Pio XI Thérèse Françoise Marie Martin, talora chiamata anche santa Teresa di Lisieux o santa Teresina per distinguerla da Santa Teresa d’Ávila, una religiosa carmelitana mistica e drammaturga particolare, perché due anni dopo fu dichiarata patrona dei missionari, anche se non si spostò mai dal convento del Carmelo. La sua vita e soprattutto la sua vicenda interiore emergono dagli scritti autobiografici usciti postumi con il titolo “Storia di un’anima” e organizzati da sua sorella Paolina, Madre Agnese, in modo tale da designarli con i titoli “Manoscritto A”, “Manoscritto B”, “Manoscritto C”. Marie-Françoise-Thérèse Martin nacque in rue Saint-Blaise nella cittadina di Alençon, in Normandia, il 2 gennaio 1873, da Louis Martin, orologiaio, e da Marie Azélie Guérin, sarta esperta nel famoso punto d’Alençon. Thérèse, cacciatrice, dal greco, cresce in questa famiglia di cattolici ferventi che assistono ogni mattina alla messa delle 5:30, rispettano rigorosamente il digiuno e pregano secondo i ritmi dell’anno liturgico, inoltre praticano la carità, visitano i malati e gli anziani e all’occasione accolgono dei vagabondi alla loro tavola. Thérèse, anche se non è la bambina modello che dipingeranno più tardi le sue sorelle, è sensibile a questo tipo di educazione, così gioca a fare la religiosa, cerca spesso di fare piacere a Gesù e si preoccupa di sapere che egli sia contento di lei. Nell’agosto 1877, a quattro anni e mezzo, Thérèse perde sua madre per un tumore al seno e da questo lutto è profondamente segnata per il resto della sua vita. Sua madre le manca talmente che più tardi scriverà: «A partire dalla morte di mamma, il mio felice carattere cambiò completamente; io così viva, così espansiva, divenni timida e dolce, sensibile fino all’eccesso.» Nel novembre 1877 Louis con le sue figlie si trasferisce a Lisieux per essere più vicino a Isidore Guérin, fratello di sua moglie Zélie, nominato cotutore delle ragazze. Thérèse a Lisieux non è felice, risente del cambiamento di vita, all’animazione della bottega di Alençon, sempre piena di clienti e di operaie, succede il silenzio e la solitudine di questa dimora quasi nascosta dove non si riceve nessuno. Malgrado l’amore che le prodigheranno suo padre e Pauline, la sua «mamma», la vita è austera ai Buissonnets e Thérèse considera più tardi che si trattava del «secondo periodo della sua esistenza, il più doloroso dei tre». Thérèse ha un’intelligenza molto viva e una vita interiore intensa, segue, per circa due mesi, sul quotidiano La Croix lo svolgersi del processo di Enrico Pranzini, che aveva assassinato tre donne. Thérèse, in una sorta di sfida personale contro il male e quasi per provare la solidità della sua fede, il 13 luglio 1887, giorno della condanna di Pranzini, prese come compito quello di convertire il “grande criminale” coinvolgendo in quest’azione di preghiera anche sua sorella Celine. Gli sforzi di Thérèse furono in un certo senso ricompensati quando apprese dal giornale che il 31 agosto, sul patibolo, Pranzini si pentì delle sue azioni e baciò il crocifisso dopo un primo rifiuto. Già a nove anni Teresa sente l’attrazione per il Carmelo, dove sua sorella Pauline sta per entrare. Nel 1887 durante il pellegrinaggio a Roma per il giubileo sacerdotale di Leone XIII, a cui partecipano i Martin, nell’udienza pontificia a tutto il gruppo, sbigottisce i prelati chiedendo direttamente al Papa di poter entrare in monastero subito, la risposta di Leone XIII è cauta; ma dopo quattro mesi Teresa entra nel Carmelo di Lisieux, dove l’hanno preceduta due sue sorelle e prende il nome di Suor Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo. Gli anni seguenti sono quelli della maturazione della sua vocazione, Thérèse prega senza grandi emozioni sensibili ma con fedeltà, accetta in silenzio le critiche e comincia, su richiesta di Madre Agnese (sua sorella Paolina), a scrivere i suoi ricordi, che saranno pubblicati postumi, nel 1898, con il titolo “Storia di un’anima”.
(“Storia di un’anima”, 1940. Copertina del libro scritto dalla stessa Teresa. Librairie Office Central, Lisieux – Francia)
Compone anche brevi opere teatrali e cantici, tra cui il più noto è Vivere d’amore. La giovane carmelitana rende la santità evangelica alla portata di tutti inserendola nel normale modo di vivere, “la piccola via” da lei proposta consiste nel giungere al termine del cammino per così dire a mani vuote: nonostante la creatura si sia impegnata a eseguire e coltivare tutte le opere dell’Amore, le mani devono essere colmate solo da Dio stesso, l’Amore Misericordioso di Dio tutto avvolge, come un oceano in cui la goccia si perde, come un abisso dove è dolce precipitare. Il 9 giugno 1895, in occasione della festa della Santissima Trinità, Thérèse ha l’ispirazione di offrirsi vittima di olocausto all’Amore misericordioso, secondo l’uso dell’’epoca, seguito da alcune religiose, di offrirsi vittime della giustizia di Dio. La loro intenzione era di soffrire a immagine del Cristo, in unione con lui, per supplire alle penitenze che non facevano i peccatori. Nell’aprile del 1896 Teresa contrae la tubercolosi, malattia che nel giro di 18 mesi la porta alla morte. In questo periodo ha una crisi profonda della fede: si sente spinta all’ateismo e al materialismo e medita di abbandonare il monastero. Questi mesi sono stati da lei definiti come “notte della fede”. Le tenebre non la lasceranno più e persisteranno fino alla sua morte, che avverrà un anno più tardi. Ormai nelle tenebre, le sembra di ascoltare una voce interiore che pare prendersi gioco di lei e della felicità che lei attende con la morte, mentre, invece, la voce insinua che avanza sì, ma solo verso « la notte del nulla. » Malgrado ciò, ella vive questa notte come l’ultimo combattimento, l’occasione di provare, malgrado tutto, la sua irriducibile fiducia in Dio. Rifiutando di cedere a questa paura del nulla, moltiplica i suoi atti di fede, con ciò volendo significare che lei continua a credere malgrado il suo spirito sia invaso da obiezioni alla fede. Questo combattimento è stato tanto doloroso che ella ha sempre manifestato il desiderio di essere attiva e di fare molto bene dopo la sua morte. Muore il 30 settembre, verso le 19,20, il giorno dopo il suo corpo viene esposto nel coro, dietro le grate. Viene sepolta nel nuovo cimitero delle Carmelitane. È patrona dei missionari dal 1927 e, dal 1944, assieme a Giovanna d’Arco, anche patrona di Francia. Il 19 ottobre 1997, nel centenario della sua morte, è stata proclamata dottore della Chiesa, la terza donna a ricevere tale titolo dopo Caterina da Siena e Teresa d’Ávila.
Fonte: Diario Personale delle Ore. Progetto Editoriale Editions
16 maggio
PRIMO PIANO
Scoperto buco nero con una massa 20 miliardi maggiore del Sole.
L’Università Nazionale Australiana (Anu) ha annunciato sulla rivista Publications of the Astronomical Society of Australia di aver scoperto un nuovo ed enorme buco nero nell’Universo, con una massa di 20 miliardi maggiore rispetto a quella del nostro Sole e una velocità di espansione doppia rispetto a qualsiasi altra trovata prima. Christian Wolf, della Research School of Astronomy and Astrophysics dell’Ateneo e coordinatore della ricerca, ha dichiarato con grande stupore: “Questo massiccio buco nero emette quantità enormi di energia, composta principalmente da luce ultravioletta e da raggi x. Se fosse al centro della nostra via Lattea, brillerebbe dieci volte di più di una luna piena. Apparirebbe come una stella incredibilmente luminosa che farebbe scomparire dalla vista tutte le stelle del cielo.” È stato possibile individuare questo mostro cosmico utilizzando l’osservatorio della stessa Università, dotato di un telescopio SkyMapper da 2,3 metri. Gli astronomi che lo hanno scoperto, coordinati da Christian Wolf, lo descrivono come “un mostro che divora una massa equivalente al nostro Sole ogni due giorni”. Gli studiosi hanno guardato indietro fino a oltre 12 miliardi di anni fa, fino ai primi tempi bui dell’universo, quando secondo i loro studi l’enorme buco nero aveva dimensioni pari a 20 miliardi del nostro Sole, con un tasso di crescita dell’1% ogni milione di anni. “Questo buco nero cresce così rapidamente da brillare migliaia di volte più di un’intera galassia grazie a tutti i gas che risucchia continuamente, che causano forte frizione e grande calore”, ha sottolineato Christian Wolf. Buchi neri così grandi e di così rapida crescita sono molto rari.
DALLA STORIA
Jeffrey Dahmer: un insospettabile efferato assassino seriale.
Konerak Sinthasomphone figlio quattordicenne di immigrati del Laos scompare da casa il 16 maggio 1991 dopo aver accettato l’invito di un giovane incontrato al centro commerciale “Gran Avenue Mall” di Milwaukee, una cittadina nello Stato del Wisconsin. Il giovane, un ragazzo sulla trentina, dalla faccia d’angelo, biondo con gli occhi azzurri, gli offre del denaro per seguirlo a casa. L’adolescente accetta di posare in mutande per delle foto erotiche prima di venire drogato. Ma capisce che qualcosa non quadra così, radunando tutte le sue forze, riesce a scappare nella notte. Sono quasi le due quando viene notato da due diciottenni Sandra Smith e Nicole Childress. Le ragazze chiamano la polizia che interviene immediatamente alla segnalazione. Quando i poliziotti lo fermano Konerak, in evidente stato confusionale, riferirà dello strano ragazzo biondo e di come lo avesse attirato in casa. Gli agenti decidono di andare a dare un’occhiata, ma il sopralluogo si concluderà con un nulla di fatto. Konerak viene fatto sedere sulla poltrona e Jeffrey dirà loro che si tratta solo di una scaramuccia tra fidanzati e che il suo ragazzo aveva bevuto un po’ troppo. L’aspetto mite dell’uomo convince i due agenti che Konerak, in effetti, abbia esagerato con l’alcool e non volendo mettere il dito in discussioni tra omosessuali, lasciano la casa scusandosi con il serial killer. Konerak morirà strangolato come tutti gli altri. “Jeffrey Lionel Dahmer, il serial killer, era nato a Milwaukee nel 1960. Si trasferì nell’Ohio con la sua famiglia all’età di sei anni. Nel 1968 fu molestato sessualmente da un ragazzo vicino di casa, nella zona rurale di Bath. Questo episodio dell’infanzia, all’epoca non riferito, potrebbe avere un ruolo fondamentale per comprendere i crimini successivi; analogamente, i feroci litigi tra i suoi genitori (che in seguito divorziarono) dimostrano chiaramente a Dahmer che la casa non era un rifugio sicuro per un bambino. All’età di dieci anni Dahmer faceva “esperimenti” con animali morti: decapitava roditori, sbiancava con l’acido le ossa dei polli, inchiodava carogne di cane agli alberi, infilandone la testa sui pali. Nel giugno 1978, alcuni giorni dopo essersi diplomato al liceo, Dahmer varcò il confine e dai macabri “esperimenti” passò all’omicidio. All’epoca viveva da solo, dato che i suoi genitori dopo essersi separati se n’erano andati e nessuno dei due aveva portato con sé Jeff. La sua prima vittima fu un autostoppista, Steven Hicks, che Dahmer aveva poi invitato a casa sua per un drink e qualche risata insieme. Quando Hicks cercò di andarsene, Dahmer gli sfondò il cranio con un bilanciere, lo strangolò a morte, lo smembrò e seppellì il suo cadavere. Quel primo omicidio provocò a Dahmer uno shock che lo riportò ad una parvenza di normalità. Fece un breve tentativo al college, poi firmò per una ferma di sei anni, ma l’esercito lo congedò dopo nemmeno due anni: ne avevano abbastanza delle sue bevute. (Congetture successive sui suoi possibili collegamenti con vari omicidi irrisolti in Germania, commessi all’epoca in cui Dahmer soggiornò lì, non produssero prove concrete). Nel 1982 egli si trasferì a casa della nonna a West Allis, nel Wisconsin. Nell’agosto di quell’anno Dahmer fece registrare un arresto per oltraggio al pudore alla fiera di Stato. Analoghe accuse furono archiviate nel settembre 1986, quando due ragazzi accusarono Dahmer di essersi masturbato in pubblico. In quel caso fu riconosciuto colpevole di turbamento dell’ordine pubblico e condannato a un anno, con sospensione della pena e l’obbligo di ricorrere all’assistenza psicologica. Il 15 settembre 1987, Steven Tuomi sparì a Milwaukee: il mistero rimase irrisolto fino a quando Dahmer non confessò il suo delitto nel 1991. James Doxtator fu la vittima successiva, nel gennaio 1988, seguito da Richard Guerrero il 24 marzo. Nel settembre 1988, gli strani orari di Jeffrey e il tanfo dei suoi “esperimenti” erano diventati troppo per la nonna, che gli chiese di andarsene. Il 25 di quel mese egli trovò un appartamento a Milwaukee, North 25th Street. Il giorno dopo, Dahmer attirò nel suo appartamento un ragazzo laotiano, cominciò ad accarezzarlo e gli offrì del denaro perchè posasse nudo. Fu chiamata la polizia e Dahmer venne accusato di violenza sessuale. Riconosciuto colpevole nel gennaio 1989, rimase libero in attesa della sentenza formale prevista per maggio. Nel frattempo, il 25 marzo, Dahmer massacrò un’altra vittima, Anthony Sears. Condannato a un anno di prigione, Dahmer fu rilasciato dopo dieci mesi. La sfilata di morte riprese nel giugno 1990 con Edward Smith. La vittima di luglio fu Raymond Smith (nessuna relazione con Edward). Ernest Miller e David Thomas furono massacrati in settembre. Dahmer uccise Curtis Straughter nel febbraio 1991. Errol Lindsey entrò a far parte dell’elenco in aprile, seguito da Anthony Hughes a maggio. In quel periodo, Dahmer aveva concepito la bizzarra idea di creare degli “zombi”, giocattoli per il sesso con i quali convivere, obbedienti a ogni suo capriccio e desiderio. Al posto della pratica vudu, Jeffrey optò per un approccio più diretto. Trapanava il cranio della vittima prescelta, per versare attraverso la ferita dei liquidi corrosivi, nel tentativo di distruggere la volontà cosciente del soggetto. Inutile dire che lo strano approccio alla neurochirurgia ebbe un tasso di fallimento del cento per cento, poiché nessuno dei “pazienti” preferiti di Dahmer sopravvisse. Uno di loro, per l’appunto Konerak Sinthasomphone, del quale abbiamo parlato all’inizio di questa terrificante vicenda, riuscì quasi a fuggire. (Quando si diffuse la notizia dell’errore dei due poliziotti, nell’aver nuovamente affidato il ragazzo nelle mani assassine del serial killer, essi furono brevemente sospesi dal servizio e successivamente reintegrati, quando minacciarono di intentare una causa civile per diffamazione contro la municipalità). La mostruosa, malefica potenza continuò la sua avanzata: Matt Turner fu ucciso il 30 giugno; Jeremiah Weinberger il 7 luglio; Oliver Lacy il 15 luglio; Joseph Brandehoft quattro giorni dopo. Oltre a violentare, uccidere e smembrare le sue vittime, Dahmer si diede anche al cannibalismo con almeno un cadavere, anche se negò che questa fosse per lui una pratica abituale. Tracy Edward fu fortunato: il 22 luglio riuscì a fuggire dall’appartamento di Dahmer, con ancora le manette appese a uno dei polsi. Fermò una macchina di pattuglia e condusse la polizia all’appartamento di Dahmer, nel complesso di Oxford Apartments, dove contenuti in alcuni fusti, immersi nell’acido, e all’interno del frigo furono ritrovati i resti sezionati di 11 vittime. In un modo che ricordava un altro necrofilo del Wisconsin, Edward Gein, Dahmer aveva ricostruito nella sua stanza da letto un altare improvvisato, addobbandolo con candele e teschi umani. Il 22 agosto 1991, Dahmer fu accusato di 15 omicidi. Al suo processo, iniziato il 30 gennaio 1992, Dahmer si dichiarò colpevole ma infermo di mente. Due settimane dopo, il 15 febbraio, i giurati lo giudicarono sano di mente e responsabile delle sue azioni. La corte decretò 15 condanne consecutive all’ergastolo, comportanti per Dahmer un minimo di 936 anni di carcere. (Egli fu in seguito accusato dell’omicidio di Hicks, nell’Ohio, ma non fu mai processato per questo). In prigione, Dahmer rifiutò le misure di sicurezza detentiva offertagli, nonostante le numerose minacce di morte ricevute. Il 3 luglio 1994, un altro carcerato tentò di tagliargli la gola nella cappella della prigione, ma Dahmer uscì dall’incidente soltanto con qualche graffio e si rifiutò di sporgere denuncia. Cinque mesi dopo, il 28 novembre, stava pulendo un bagno vicino alla palestra della prigione, quando un detenuto del gruppetto afferrò una sbarra metallica da una macchina per gli esercizi e colpì Dahmer alla testa, uccidendolo all’istante. Un altro carcerato, il trentasettenne Jesse Anderson, fu ferito gravemente nel corso della stessa aggressione, e morì due giorno dopo. All’inizio si sospettò un movente razziale nell’omicidio, poiché il suo assassino, Scarver, come molte delle vittime di Dahmer, era nero, ma un esame più approfondito del caso consentì di stabilire che il killer era uno squilibrato, che si credeva “figlio di Dio” e aveva agito su ordine del “padre”.”
Fonte: Dizionario dei Serial Killer. Newton & Compton Editori.
Mary Titton
15 maggio
PRIMO PIANO
Striscia di Gaza: 60 morti e oltre 2.800 feriti tra i palestinesi.
Ieri, nella Striscia di Gaza, al confine con Israele, sono rimasti uccisi dal fuoco dell’esercito israeliano una sessantina di palestinesi, tra cui una bimba di otto mesi, che con i genitori si trovava sotto una tenda allestita dagli organizzatori della manifestazione, ed è morta, secondo il Ministero della Sanità della Striscia, per l’inalazione dei gas lacrimogeni sparati dall’esercito. Oltre 2800 sono stati i feriti, di cui 27 versano in gravi condizioni. Oggi, il giorno dopo il massacro dei manifestanti palestinesi al confine tra la Striscia di Gaza e Israele, in occasione del trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, si contano altre vittime: un palestinese di 51 anni, Nasser Ghorab, è stato ucciso dai proiettili delle forze israeliane a est del campo profughi di al-Bureij; almeno 46 manifestanti palestinesi sono rimasti feriti, invece, nei nuovi scontri con i militari israeliani lungo il confine tra il territorio costiero e Israele, nei pressi della Tomba di Rachele a Betlemme, nella città di Hebron, nella zona di Nablus e presso il checkpoint di Kalandia. Gli abitanti dei Territori palestinesi hanno osservato oggi uno sciopero generale, chiesto dal presidente Mahmoud Abbas, in occasione del settantesimo anniversario della Naqba (la catastrofe), ossia l’esodo dei palestinesi dalla loro terra in seguito alla formazione, nel 1948, dello Stato di Israele: la protesta, con la chiusura di negozi, uffici e scuole, prevede tre giorni di lutto per i palestinesi uccisi ed è anche organizzata contro il trasferimento a Gerusalemme dell’Ambasciata americana. Gli Stati Uniti hanno bloccato una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, elaborata dal Kuwait, che esprimeva sdegno e dolore per la morte dei civili palestinesi a Gaza, e chiedeva “un’indagine indipendente e trasparente delle Nazioni Unite per determinare la responsabilità”. Gli Usa attribuiscono, infatti, tutta la responsabilità dei morti di questi giorni ad Hamas e, schierati apertamente con Israele, ne difendono l’operato. L’intero mondo arabo ha, invece, condannato i fatti di Gaza e il trasferimento dell’Ambasciata Usa a Gerusalemme, da cui anche l’Ue, la Russia e l’Onu hanno preso le distanze. Intanto la Piattaforma delle Ong italiane nel Mediterraneo e in Medio Oriente, con più di 40 membri, tra cui Terre des Hommes, in una nota ha lanciato un “appello urgente” al premier Paolo Gentiloni e al ministro degli Affari esteri Angelino Alfano, affinché condannino “pubblicamente l’uso sproporzionato della forza” e chiedano “l’immediata cessazione dell’assedio della Striscia di Gaza, che da oltre dieci anni colpisce circa due milioni di persone costringendole a condizioni di vita insostenibili e a subire punizioni collettive”. La Piattaforma denuncia “la deliberata uccisione da parte di Israele di civili avvenuta ieri, 14 maggio, nella Striscia di Gaza”, sottolineando che tale episodio “non può restare impunito”. E Medici senza frontiere dichiara: “quello che è successo ieri è inaccettabile e inumano… è insopportabile vedere un così grande numero di persone disarmate che vengono colpite dagli spari in così poco tempo… nostre équipe mediche stanno lavorando 24 ore su 24, come accade ormai dal primo aprile assicurando interventi chirurgici e assistenza post-operatoria a uomini, donne e bambini. Continueranno a farlo ancora oggi e fino a quando sarà necessario.”
DALLA STORIA
Edward Hopper.
Il 15 maggio 1967 moriva a New York Edward Hopper, pittore famoso soprattutto per i suoi ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea. “Nighthawks”, “Morning Sun”, “Gas”: sono tre dei quadri più conosciuti dell’artista statunitense, le cui immagini hanno contribuito a cesellare una precisa idea di America, infinita, solitaria e perturbante. Stazioni di benzina deserte, lunghe strade vuote, negozi illuminati dai neon, case vittoriane. Tutti i soggetti dipinti da Hopper nella sua carriera sono diventati espressione della emergente modernità americana. Una società moderna contrassegnata da un sistema capitalista legato al consumo delle merci, dalla necessità di una nuova comunicazione volta a pubblicizzare i prodotti commerciali, dalla diffusione dei mezzi di comunicazione e dal linguaggio cinematografico che parla per immagini. Proprio per la vicinanza formale tra i suoi quadri che “congelano istanti di vita moderna” e i fotogrammi della pellicola, Hopper collaborerà con i registi del suo tempo da Hitchcock a Wenders, da Cronenberg a Lynch ecc. e, le sue immagini pittoriche, diventeranno simboli di riferimento della cultura americana postbellica come, ad esempio, il “Bates Motel” di “Psyco”. “… Il mio obiettivo nella pittura è sempre di usare la natura come mezzo per provare a fissare sulla tela le mie reazioni più intime all’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più: quando i fatti corrispondono ai miei interessi e alle immagini che mi sono creato in precedenza. Perché, io poi scelga determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione, ma credo che sia perché rappresentano il miglior mezzo per arrivare a una sintesi della mia esperienza interiore”. La vita di Hopper è sorprendentemente tranquilla e ordinata, non conosce cambiamenti improvvisi, né spostamenti geografici rilevanti, né tantomeno crolli psicologici. Mancano così anche punti di riferimento esterni atti a una suddivisione in periodi della vita dell’autore. A parte due brevi soggiorni in Europa, Hopper vive infatti dal 1908 a New York: per oltre cinquant’anni, fino alla morte, ha il suo studio all’ultimo piano al n° 3 di Washington Square North nel Village, a Manhattan. Senza lasciarsi troppo influenzare dal crescente successo degli anni Venti conduce una vita piuttosto modesta insieme alla moglie “Jo”, che sposa nel 1924 e che sarà l’unica modella per tutti i personaggi che avrebbe dipinto da allora in poi. Un po’ di cambiamento, a parte alcuni viaggi, glielo offrono le estati trascorse nel South Truro a Cape Code dove, dal 1933, Hopper e sua moglie hanno una casa con atelier. La sua stessa evoluzione artistica si compie senza tensioni particolari. Dopo gli inizi all’accademia d’arte segue un’attività come illustratore e disegnatore pubblicitario che gli permette un facile passaggio all’attività che più desiderava. Senza passaggi violenti e con coerenza trova inoltre la tecnica che più gli è congeniale, dedicandosi sempre più alla pittura ad olio. “Edward Hopper … ritrasse coloro che sembravano sopraffatti dalla società moderna, che non potevano rapportarsi psicologicamente agli altri e che, con gli atteggiamenti del corpo e i tratti facciali, indicavano di non avere mai avuto una posizione di autorità. … (M. Baigell da Arte Americana, 1930-1970. Milano 1992). Infatti di Hopper fu detto che l’artista “dipingeva il silenzio”. Nessuno come lui è riuscito a trasferire la dimensione della realtà metropolitana: la solitudine in mezzo a milioni di individui, l’incomunicabilità in mezzo al frastuono dei suoni nell’era della comunicazione, la frammentazione dei sentimenti sottoposti anch’essi alla legge del consumo e l’alienazione che deriva dalla velocità funzionale come termine di ogni cosa (perché il tempo è denaro), irrispettosa dei bisogni e dei tempi umani. Ma, nello stesso tempo, nella grande città, si prova, anche, un profondo senso di libertà come quello di potersi mescolare liberamente nella moltitudine senza necessariamente essere giudicati o osservati per come ci esprimiamo, come sarebbe necessariamente all’interno di una più piccola comunità. Forse ci si sente più vivi, provocati da una presenza continua di vitalità, assordante ma, nel contempo stimolante. Particolare spazio nelle sue opere trovano le figure femminili. Cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto o nella lettura, si offrono spesso seminude ai raggi del sole trasmettendo solitudine, attesa, inacessibilità. Una dimensione urbana confacente all’interiorità umana che nessuno come le donne sa coltivare. Hopper morì a 85 anni nel suo studio nel centro di New York. Oggi è considerato uno dei grandi maestri americani e come precursore della Pop art.
Mary Titton
(Nighthawks – I nottambuli. 1942. Art Institute of Chicago)
(Morning sun – Sole di mattina. 1952. Columbus Museum of Art Ohio)
(Gas – Benzina. 1940. Museum of Modern Art, New York)
(The House by the Railroad – La casa vicino alla ferrovia. 1925. Whitney Museum of American Art)
14 maggio
PRIMO PIANO
Caso Regeni: la madre di Giulio, Paola, inizia lo sciopero della fame.
Paola, la madre di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano dell’Università di Cambridge, rapito il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di piazzaTahrir, e ritrovato morto il 3 febbraio successivo, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani, ha cominciato lo sciopero della fame per protestare contro l’arresto di Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, direttore esecutivo dell’ong “Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf)”, che sta assistendo la famiglia Regeni al Cairo. Amal Fathy sarebbe accusata dalle autorità egiziane di terrorismo, reato che in Egitto può essere punito anche con l’ergastolo e perfino con la pena di morte. Amal è stata arrestata a pochi giorni dal viaggio al Cairo del sostituto procuratore della procura di Roma, Sergio Colaiocco, che da due anni e mezzo sta seguendo il caso. In una nota diffusa dalla signora Paola e dalla sua legale Alessandra Ballerini si legge: “Da donne siamo particolarmente turbate ed inquiete per il protrarsi della detenzione di Amal, moglie del nostro consulente legale Lofty direttore dell’Ecrf. Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità sulla scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio. Vi chiediamo di digiunare con noi, fino a quando Amal non sarà finalmente libera. Noi siamo la loro speranza”. Si tratta di un “digiuno a staffetta” per chiedere la liberazione immediata della donna. L’invito rivolto a chiunque sia disponibile a digiunare con loro, come ha confermato la stessa legale, è stato accolto da “tantissime persone”, tra cui la deputata di Leu Laura Boldrini.
DALLA STORIA
Edward Jenner inocula il primo vaccino contro il vaiolo.
II 14 maggio 1796 il biologo e medico inglese Edward Jenner sperimentò il primo vaccino contro il vaiolo su James Phipps, un bambino di otto anni, figlio del suo giardiniere. Sarah Nelmes, una lattaia locale, contrasse il vaiolo bovino e andò da Jenner per il trattamento. Il biologo colse l’occasione per testare la sua teoria. Egli, infatti, inoculò a James Phipps il materiale prelevato dalle lesioni dovute al vaiolo bovino che aveva colpito Sarah. Dopo un lieve rialzo febbrile ed aver sviluppato la lesione locale, come per altro preventivato, James recuperò prontamente la salute in un paio di giorni. Circa due mesi dopo Jenner inoculò a James su entrambe le braccia materiale prelevato da un caso di vaiolo, senza che si verificasse alcun effetto: il ragazzo era immune al vaiolo. Jenner inviò un articolo che descriveva le sue osservazioni alla Royal Society nel mese di aprile 1797. I contenuti di questo articolo sono sconosciuti. Non è mai stato presentato ufficialmente e non vi è alcuna menzione di esso negli atti della Società. Jenner spedì informalmente il suo articolo a Sir Joseph Banks, il quale si rivolse a Everard Home per riceverne un parere. Il suo rapporto, pubblicato per la prima volta nel 1799, era decisamente scettico e sollecitava ulteriori controlli e vaccinazioni. In effetti questi ulteriori studi furono eseguiti e nel 1798 Jenner pubblicò un’analisi di 23 “casi”, tra cui quelli di diverse persone a cui era stato inoculato vaiolo bovino che avevano resistito all’esposizione naturale. Non è noto quante persone abbia vaccinato Jenner inoculando il virus del vaiolo. In ogni caso Jenner concluse che l’inoculazione di vaiolo bovino era un’alternativa sicura alla inoculazione del virus del vaiolo umano, ma sostenne anche che l’effetto protettivo sarebbe durato per tutta la vita, previsione quest’ultima che si sarebbe poi rivelata errata. Jenner aveva notato che le mungitrici che si erano infettate con il vaiolo bovino, in seguito non sviluppavano più il vaiolo, il che mostrava come l’inoculazione di vaiolo bovino proteggesse contro il vaiolo. Jenner era nato e cresciuto a Berkeley, in Inghilterra, all’età di 13 anni era diventato apprendista del farmacista Daniel Ludlow e più tardi del chirurgo George Hardwick nella vicina Sodbury. Egli aveva osservato che le persone che si erano infettate con il vaiolo bovino durante il lavoro con il bestiame risultavano immuni al vaiolo. Anche se Jenner ebbe il dubbio di un nesso di causalità, quelle osservazioni non portarono a nulla. Dal 1770 al 1772 Jenner ricevette una formazione avanzata a Londra presso il St. Georges Hospital, come allievo privato di John Hunter, quindi tornò ad esercitare la medicina a Berkeley. Quando nella zona in cui esercitava Jenner si verificò un’epidemia di vaiolo, egli consigliò ai lavoratori di bestiame locale di inocularsi il vaiolo, ma gli stessi risposero che le precedenti infezioni da vaiolo bovino, di cui avevano sofferto, li avrebbero protetti dal vaiolo. Ciò confermò i sospetti di Jenner ed egli iniziò a studiare il vaiolo bovino, presentando anche un documento su di esso per la locale società medica. Il termine vaccino deriva dalla parola variolae vaccinae (cioè vaiolo della mucca) e fu ideato da Jenner per indicare il vaiolo bovino. Il termine vaccinazione sostituì presto la dizione inoculazione da vaiolo della mucca e fu usato per la prima volta in un documento che fu dato alle stampe da un amico di Jenner, Richard Dunning nel 1800. Inizialmente, il termine vaccino/vaccinazione fu riservato al solo vaiolo, ma nel 1881 Louis Pasteur propose di onorare la scoperta di Jenner utilizzando il nome anche per le nuove e future vaccinazioni. Prima dell’introduzione di un vaccino, la mortalità della forma grave di vaiolo era molto elevata, raggiungendo il 35% in alcuni focolai, ed attestandosi tra il 10-20% in Europa. Nei primi tempi di vaccinazioni empiriche, prima del lavoro di Louis Pasteur, che portò alla teoria dei germi e di quello di Lister su asepsi ed antisepsi, si verificarono numerosi casi di infezioni crociate. Si ritiene che William Woodville, uno dei primi vaccinatori e direttore dell’Ospedale di Londra per il Vaiolo abbia vaccinato circa 600 persone nella prima metà del 1799. Sfortunatamente il dr. Woodville, avendo inavvertitamente contaminato il materiale contenente vaiolo bovino, utilizzato per il vaccino, con materiale contenente il virus selvaggio, causò diversi casi di vaiolo tra le persone vaccinate ed almeno una morte. Woodville, al fine di proteggere la propria reputazione, arrivò ad accusare di inefficacia il metodo vaccinale di Jenner. Durante le prime fasi di vaccinazione furono diversi i medici e studiosi che morirono a causa dell’inoculazione di vaiolo. Comparvero anche i primi studi statistici ed epidemiologici, tra cui quelli eseguiti da James Jurin nel 1727 e Daniel Bernoulli nel 1766. Uno dei primi resoconti si deve al dottor John Fewster, della London Medical Society, che nel 1765 pubblicò un lavoro dal titolo “Il vaiolo bovino e la sua capacità di prevenire il vaiolo”. In questa pubblicazione Fewster riferiva che la variolazione non comportava alcuna reazione nelle persone che erano già state contagiate dal vaiolo bovino. Nel 1800 il lavoro di Jenner era stato pubblicato in tutte le principali lingue europee e aveva raggiunto Benjamin Waterhouse negli Stati Uniti, segno di una rapida diffusione e del profondo interesse suscitato. Nonostante una certa preoccupazione inerente alla sicurezza della vaccinazione, la mortalità con l’utilizzo di vaccini accuratamente selezionati era vicina a zero. Il vaccino del vaiolo fu presto in uso in tutta Europa e negli Stati Uniti. Anche se probabilmente non è stato il primo studioso a inoculare il virus del vaiolo bovino, Jenner è stato il primo a pubblicare i suoi studi fornendo anche informazioni sulla selezione di materiale idoneo per eseguire la vaccinazione. Riconoscendo questi suoi meriti gli autori del documento ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità intitolato “Il vaiolo e la sua eradicazione” hanno scritto: «La pubblicazione dei suoi studi e la promulgazione da parte di Jenner dell’idea di vaccinazione con un virus diverso da virus del vaiolo costituiscono lo spartiacque nel controllo del vaiolo per il quale, più di chiunque altro, Jenner merita il credito.»
IL PERSONAGGIO
Emma Goldman nata nella provincia russa di Kovno (ora Kaunas, Lituania), il 29 giugno 1869 e morta poi a Toronto, il 14 maggio 1940 rappresenta ancora oggi un’originale chiave di lettura della realtà contemporanea. L’intelligenza e la passione che hanno caratterizzato il suo attivismo in America, in Russia e nella Spagna repubblicana, si presenta come una delle voci più importanti nel rivendicare i diritti civili, dei lavoratori e verso le categorie più deboli del tessuto sociale. Sconvolta dalla tragica fine di cinque rivoluzionari che furono impiccati a Chicago, nel maggio del 1886, per colpire il movimento di emancipazione dei lavoratori, ammirata per il loro comportamento coerente e fiero, fece sue le loro idee dedicando la vita alla causa della giustizia. Anarchica, dunque, e femminista ante litteram affrontò argomenti quali il suffragio femminile, il matrimonio, le gabbie morali del puritanesimo, il dramma della prostituzione. Attraverso i suoi scritti si ripercorrono trent’anni di lotta contro l’oppressione di uno Stato che, complice della religione, ha imbrigliato le potenzialità femminili nell’immagine della donna come madre asservita. “Ho imparato che tutti gli uomini latini trattano ancora le loro mogli o le loro figlie come esseri inferiori e che le considerano semplici macchine da riproduzione, come facevano gli uomini dell’età della pietra … L’uomo più moderno si comporta come Adamo, con le sue inibizioni verso la donna… Devo ancora incontrarla, questa donna che vuole tanti bambini. Ciò non significa che io abbia mai negato il fatto che la maggior parte delle donne vogliono avere un bambino, sebbene anche questo sia sempre stato esagerato dai maschi. Ho conosciuto un discreto numero di donne che, pur essendo femminili fino all’osso, non possedevano quello che dovrebbe essere l’innato spirito materno o desiderio di avere figli. Vi sono senza dubbio delle eccezioni. Ma come si sa le eccezioni confermano la regola. Ammettiamo pure che ogni donna voglia diventare madre, a meno che non sia ottusa ed ignorante e che non abbia un carattere esageratamente passivo, una donna vuole tanti figli quanti decide di averne. Certamente le abitudini e le tradizioni giocano una parte di enorme importanza nel creare desideri artificiali che possono diventare quasi una seconda natura. La Chiesa, in particolar modo la Chiesa cattolica, ha fatto il possibile per convincere la donna che essa deve sottostare a ciò che ha ordinato Dio riguardo alla riproduzione. Ma forse ti interesserà sapere che fra le donne che si rivolgono a cliniche specializzate nel controllo delle nascite, le donne cattoliche, incuranti dell’autorità esercitata su di loro dal clero, rappresentano una percentuale molto alta.”(Lettera inviata al compagno anarchico Max Nettlau a proposito della contraccezione). Emma Goldman tenne diverse conferenze sull’emancipazione della donna, sull’uso dei contraccettivi e assieme a Voltairine de Cleyre precorse le idee di quel movimento che troverà poi il suo sviluppo negli anni Sessanta del XX secolo. “ La storia”, sciveva la Goldaman “ci ha insegnato che ogni classe oppressa ha ottenuto la sua liberazione dagli sfruttatori solo grazie alle sue stesse forze. È dunque necessario che la donna apprenda questa lezione, comprendendo che la sua libertà si realizzerà nella misura in cui avrà la forza di realizzarla. Perciò sarà molto più importante per lei cominciare con la sua rigenerazione interna, facendola finita con il fardello di pregiudizi, tradizioni ed abitudini. La richiesta di uguali diritti in tutti i campi è indubbiamente giusta, ma, tutto sommato, il diritto più importante è quello di amare e di essere amata. Se dalla parziale emancipazione si passerà alla totale emancipazione della donna, bisognerà farla finita con la ridicola concezione secondo cui la donna per essere amata, moglie e madre, debba comunque essere schiava o subordinata. Bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due mondi agnostici”. Nel famoso film “Reds” di Warren Beatty, tratto dal libro “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” del saggista socialista John Reed nel 1919, nel quale narra in chiave di reportage gli avvenimenti della Rivoluzione d’ottobre, l’anarchica Emma Goldman viene interpretata dall’attrice Maureen Stapleton che vinse, per questo ruolo, l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Si consiglia, per chi non l’avesse ancora fatto, la lettura del celeberrimo libro e la visione dell’altrettanto celeberrimo film (mumble … mumble).
È impossibile anche solo dare un’idea della vitalità mostrata da questa rivoluzionaria giovane, entusiasta e, a detta di chi la conobbe, affascinante. Tutti i principali centri degli Stati Uniti e del Canada la videro come un’appassionata oratrice: teatri stracolmi di gente a Boston, a New York, a Montréal, così come ovunque la chiamassero gruppi di lavoratori in lotta. A causa del suo instancabile attivismo divenne oggetto delle pericolose attenzioni della polizia e condannata a un anno di carcere sotto l’accusa di aver “incitato alla sovversione” un gruppo di disoccupati nel corso di un comizio. Da allora in poi anche la stampa cominciò ad occuparsi regolarmente di lei, delle sue attività, delle sue vicissitudini giudiziarie e le fu applicato il soprannome di Red Emme (Emma la Rossa).
13 maggio
PRIMO PIANO
Legge Basaglia: 40 anni fa la chiusura dei manicomi.
(Francisco Goya. La casa dei matti, 1812-1819)
Il 13 maggio 1978 fu approvata la legge 180, che stabilì la chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia, e istituì i servizi di igiene mentale pubblici. La riforma porta il nome dello psichiatra veneziano Franco Basaglia, che ne fu l’ideatore e il promotore, nella convonzione della necessità di ridare dignità al malato in quanto persona, riconoscendo i diritti e le necessità dei pazienti, seguiti e curati anche da strutture territoriali. Secondo Basaglia, che tentò con i suoi studi di integrare la rigida impostazione medica, di matrice positivista, con un nuovo approccio filosofico di stampo fenomenologico-esistenziale, la psichiatria non poteva “oggettivizzare” il malato in una diagnosi, piuttosto il medico doveva saper avvicinare il paziente mettendosi dalla sua parte, stabilire una relazione con lui con un ascolto attento e partecipe, prendendo in carico tutta la persona, il suo corpo e la sua mente, la sua storia e la sua vita. La Legge 180 ha rappresentato nel nostro Paese una svolta storica con la chiusura dei manicomi e l’istituzione dei servizi di igiene mentale pubblici, rendendo l’Italia un modello, ancora unico, in Europa. Da allora è cambiato il volto della malattia psichiatrica, ma restano, tuttavia, molte criticità da affrontare, soprattutto riguardo ai finanziamenti e al personale. Le sottolinea lo psichiatra Massimo Cozza, coordinatore del Dipartimento salute mentale (Dsm) ASL Roma 2 (il più grande d’Italia con circa 1,3 mln di abitanti), che afferma che la situazione è “a macchia di leopardo con grandi differenze regionali, in cui uno dei problemi resta la carenza di personale: quello dei Dsm è di 29.260 unità, sotto lo standard di 1/1.500 abitanti indicato dal Progetto obiettivo salute mentale 1998-2000, secondo il quale gli operatori dipendenti dovrebbero essere circa 40mila. Inoltre i fondi sono insufficienti”. In Italia solo le province di Bolzano e Trento e l’Emilia Romagna investono il 5% del budget sanitario in psichiatria, solo 6 superano la media nazionale del 3,5% e ben 7 regioni sono sotto il 3%. Tutto questo a fronte di un costante aumento dei malati: sono 6 milioni gli italiani affetti da un disturbo psichiatrico che necessiterebbe di terapie, oltre 800mila sono quelli in cura presso i Dipartimenti di salute mentale, mentre il personale – dai medici agli infermieri agli assistenti sociali – è insufficiente, soprattutto al Centro-sud: “In 6 regioni – afferma Carpiniello, presidente della Società italiana di psichiatria – si registra una carenza del 50% o più del personale. Si tratta di Molise, Abruzzo, Umbria, Basilicata, Calabria e Marche”, concludendo che a 40 anni dalla legge Basaglia, si rischia “il collasso del sistema”.
12 maggio
PRIMO PIANO
Torna il terrore degli attentati.
In una serata di primavera, intorno alle 21:00, nel cuore di Parigi, vicino al teatro dell’Opera, un uomo, gridando “Allah Akbar!” ha accoltellato i passanti. A Rue Monsigny, una piccola stradina nel secondo arrondissement, in un quartiere turistico ricco di bar, ristoranti e teatri, l’assalitore ha ucciso con il coltello un uomo di 29 anni e ha ferito altre 4 persone. Dei feriti due sono gravi, un uomo di 34 anni, trasportato d’urgenza al Georges Pompidou, e una donna di 54 anni, gli altri due, una 26enne e un 31enne, hanno riportato lievi ferite. Un poliziotto ha usato il fucile a impulsi elettrici per bloccare il terrorista, che ha minacciato la polizia; poi un secondo agente gli ha sparato due volte e lo ha ucciso. L’assalitore si chiamava Khamzat Azimov, era nato in Cecenia il 1 novembre 1997 ed era stato naturalizzato francese nel 2010, era incensurato, anche se schedato come a rischio radicalizzazione islamica (“S”), in quanto era in contatto con il marito di una donna partita per la Siria. Alcuni giornali francesi sostengono che avesse avuto rapporti, nel 2016, con un gruppo di giovani che voleva andare a combattere in Siria e per questo era finito nel database della polizia, inoltre, il 7% dei jihadisti francesi sono d’origine cecena. Secondo la stampa francese, l’uomo, con barba e capelli lunghi e vestito da jogging, è arrivato in metro sul luogo dell’attentato e nel compiere la sua folle azione ha urlato “Allah Akbar”. La tattica del coltello e quella della vettura-ariete sono le preferite da terroristi dell’Isis e da squilibrati, perché colpiscono di sorpresa e permettono di seminare panico e morti tra la gente. Immediata la reazione del presidente Emmanuel Macron: “la Francia paga ancora una volta il prezzo del sangue, ma non cede un millimetro ai nemici della libertà.”
11 maggio
PRIMO PIANO
Per Save The Children l’Italia è un paese “vietato ai minori”. Una realtà sorprendente! Non solo nei paesi del Terzo mondo, ma anche in Italia, settima potenza industriale, molti bambini vivono al di sotto della soglia di povertà, senza beneficiare dei mezzi d’istruzione e delle tecnologie moderne. È stato diffuso oggi, in occasione del lancio della campagna “Illuminiamo il futuro” per il contrasto della povertà educativa, il nuovo rapporto di Save The Children “Nuotare contro corrente. Povertà educativa e resilienza in Italia”. Secondo i dati Istat riferiti al 2016, in Italia un milione e 300 mila bambini e ragazzi, il 12,5% del totale, più di 1 su 10 vivono in povertà assoluta, oltre la metà non legge un libro, quasi 1 su 3 non usa internet e più del 40% non fa sport. Un paese il nostro, dunque, dove “i minori non riescono a emanciparsi dalle condizioni di disagio delle loro famiglie e non hanno opportunità educative e spazi per svolgere attività sportive, artistiche e culturali.” L’organizzazione ha avviato anche una petizione online su www.illuminiamoilfututo.it per chiedere il recupero di tanti spazi pubblici in stato di abbandono e degrado da destinare ad attività extra scolastiche gratuite per bambini e adolescenti, “luoghi che, se restituiti ai bambini, attiverebbero percorsi di resilienza, grazie ai quali potrebbe raddoppiare la possibilità di miglioramento”. Per sensibilizzare l’opinione pubblica su tale problematica, il 12 maggio partirà anche una settimana di mobilitazione con centinaia di eventi in tutta Italia, che vedranno la partecipazione di associazioni, scuole, enti e istituzioni culturali.
DALLA STORIA
Salvador Dalì. (11 maggio 1904 – 23 gennaio 1989). Genio eccentrico e perverso.
“Non c’è una cosa che si possa chiamare Arte. Vi sono soltanto gli artisti, uomini e donne, cioè, che hanno avuto il mirabile dono di equilibrare forme e colori fin quando non siano “a posto” e, cosa ancor più rara, che hanno un’integrità di carattere tale da rifiutare ogni soluzione parziale e sono pronti a rinunciare a tutti i facili effetti e a ogni superficiale successo pur di affrontare il travaglio e la fatica necessari a un lavoro sincero”. (Gombrich). Questo linguaggio artistico è come se fosse una continua tessitura e trasformazione di tradizioni, dove ogni lavoro accenna al futuro e ricorda il passato. Non c’è aspetto della storia più affascinante di questo: una catena vivente che collega l’arte degli esordi con il suo incontrovertibile processo evolutivo. L’artista “puro” non potrà mai essere un produttore d’arte ma colui che realizza, al meglio, un proprio disegno interiore nello sforzo di superare le forme ormai “risolte” della tradizione (anche se è in rotta con la tradizione, l’artista deve, però, ad essa lo stimolo che dà un senso al suo impegno). Il più noto dei movimenti moderni artistici, tra le due guerre mondiali, fu il Surrealismo. Il nome fu coniato nel 1924 per esprimere il desiderio di alcuni giovani di creare qualcosa che superasse la realtà stessa, qualcosa cioè, capace di trascendere nel suo significato ciò che vediamo usualmente. Questi artisti furono colpiti dagli scritti di Freud e dalle teorie secondo cui, quando il nostro autocontrollo è attenuato, prende il sopravvento la nostra parte irrazionale. Fu quest’idea a indurre il Surrealismo a proclamare che l’arte non può mai essere il prodotto della ragione pienamente desta. I surrealisti potevano ammettere che la ragione ci possa dare la scienza, ma affermavano che solo l’irrazionale può darci l’arte. Salvador Dalì, qualunque sia il giudizio espresso nei suoi confronti, non si può negare che occupi un posto del tutto singolare nella storia dell’arte moderna. La sua celebrità, oggetto di molte controversie, dipende da un lato dall’esibizionismo provocatorio di Dalì stesso, dall’altro dai critici che lo hanno spesso e volentieri condannato a causa dei suoi eccessi. “Nevrotico”, “pazzo”, “egoista” sono vocaboli usati non di rado per caratterizzarlo. Prescindendo dai campi specifici concernenti la sua influenza sull’arte del XX secolo, solo pochi mettono in discussione l’importanza del suo contributo che non è di minore portata rispetto a quello del suo connazionale Picasso. La forza rivelatrice del linguaggio pittorico e onirico di Dalì, soprattutto nel periodo compreso fra il 1929 e il 1939, è sorprendente. “Quando dipingo io, rumoreggia l’oceano. Gli altri invece sguazzano nella vasca da bagno”. (Dalì).
(“La nascita dei desideri liquidi”, 1932. Olio su tela. Collezione Peggy Guggenheim)
Già dalla prima infanzia mostrò di essere dotato di un’enorme fantasia; preoccupato unicamente di soddisfare il proprio egoismo, Dalì mise a nudo in modo cinico un’audacia e una violenza perverse, i cui dettagli non vengono taciuti nelle sue memorie. “All’età di tre anni volevo diventare cuoco. A sei anni desideravo essere Napoleone. Da allora la mia ambizione ha continuato ad aumentare costantemente”. (Dalì). Probabilmente il pittore catalano fu il primo surrealista (il manifesto surrealista venne pubblicato nel 1924, circa cinque anni prima dell’apparizione di Dalì sulla scena) che seguendo con accanimento le scoperte della psicanalisi, reclamò per sé il diritto di ogni essere umano alla propria pazzia. L’elaborazione del metodo “criticoparanoico”, che ha determinato in modo tanto estremo tutti gli aspetti del suo pensiero, rappresentò un contributo veramente rivoluzionario al Surrealismo, contrassegnando il carattere singolare della sua opera, nonché il suo curriculum di pittore. Capire questa sua evoluzione significa seguire le tracce di una grande fantasia creativa e di un grande talento artistico. André Breton, il noto ispiratore della corrente surrealista, aveva proposto già nel 1920 una “fedeltà nei confronti della pazzia, del sogno, dello sconnesso che si oppongono alla realtà”. L’universo immaginifico di Dalì, che egli definì come “concreto irrazionale” esercita in un osservatore sensibile, naturalmente privo di preconcetti, un’esperienza intensa ed emozionante.
(“Carro Fantasma”, 1933. Olio su legno. Collezione privata)
“Carro fantasma” è una delle opere più liriche fra quelle che hanno preceduto la serie “La spiaggia di Rosas”. Le due figure sul carro sono contemporaneamente parte delle strutture della città che si intravvede sullo sfondo, il che sta ad indicare come il carro abbia già raggiunto la meta.
(Telefono-Gambero, 1936. Londra, The Tate Gallery, Collezione Edward James)
Dalì creò per il suo mecenate Edward James numerosi oggetti surrealisti, tra cui il famoso telefono-gambero. Ciò mette in mostra la sua passione di animare cose morte.
Mary Titton
10 maggio
PRIMO PIANO
Papa Francesco a Nomadelfia, la comunità dove si vive la fraternità.
Questa mattina papa Francesco si è recato a Nomadelfia, in provincia di Grosseto, presso una comunità di cattolici, che cercano di vivere secondo il modello delle prime comunità cristiane, per rendere omaggio al suo fondatore Don Zeno Saltini, a lungo osteggiato dal Vaticano. Nomadelfia (neologismo derivante dai due termini greci nomos e adelphia, che significa “la fraternità è legge”) nasce, infatti, per volontà di don Zeno Saltini, figlio di agricoltori benestanti di Carpi che, ordinato sacerdote nel 1931, insieme ad altri preti e laici, nel 1947, raccoglie migliaia di ragazzi nell’ex campo di concentramento di Fossoli. La comunità raggiunge il numero di 1500 persone, delle quali 800 sono figli accolti e 150 ospiti senza casa e senza lavoro. Ne fanno parte, in questo periodo, anche Danilo Dolci e Giovanni Vannucci. Nel 1950 don Zeno propone un movimento politico “Movimento della Fraternità Umana”, per promuovere forme di democrazia diretta, cosa che suscita immediatamente una forte ostilità sia degli organi di governo, sia di numerose autorità ecclesiastiche. Nel 1950-51 la comunità viene soppressa per le pressioni del Ministro Mario Scelba sulla Santa Sede, e il 5 febbraio 1952 don Zeno riceve dal Sant’Uffizio una Intimatio con la quale gli viene ordinato di ritirarsi da Nomadelfia e di mettersi a disposizione della diocesi; allora per restare vicino ai suoi bambini, il fondatore chiede di lasciare il sacerdozio a papa Pio XII, che nel 1953 gli concede la “laicizzazione”, come la chiamava lo stesso don Zeno, “pro gratia”. Costretti dal Sant’Uffizio a lasciare Fossoli, i membri di Nomadelfia si trasferiscono in una tenuta vicino a Grosseto, nel 1961 si danno una nuova Costituzione come associazione civile, mentre don Zeno chiede alla Santa Sede di poter riprendere l’esercizio del sacerdozio e il 22 gennaio 1962 celebra la sua “seconda prima messa”. La comunità ancora oggi vive il Vangelo come la prima comunità degli apostoli, i suoi membri vivono in “gruppi familiari”, formati da quattro o cinque famiglie, che, in questa forma di coabitazione, condividono tutti gli aspetti della vita, imparando il sostegno reciproco e il perdono. Il gruppo familiare usufruisce di una casa centrale, dove si svolge la vita diurna del gruppo, e di una serie di piccoli appartamenti, destinati alla singola famiglia per la notte e i momenti di riposo. I membri, oggi circa 300, mettono tutto in comune e, se ottengono guadagni fuori dalla comunità, li versano alla stessa, che provvede poi a dare a ognuno i beni necessari; il disabile o l’anziano non viene assistito solo dalla famiglia, ma dalla comunità stessa, l’educazione obbligatoria ai bambini viene data da membri della comunità durante l’anno, poi i ragazzi sostengono da privatisti gli esami annuali. Sulla tomba di don Zeno, Francesco ha posato una pietra bianca con il proprio nome, che si aggiunge alle pietre lasciate dagli abitanti di Nomadelfia. Ogni sasso ricorda che ognuno è “pietra scartata”, di poco valore per il mondo, ma “grande davanti al Signore”. Papa Francesco, citando il passo degli “Atti” in cui si parla dei primi cristiani, che “avevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”, ha definito Nomadelfia “una realtà profetica che si propone di realizzare una nuova civiltà, attuando il Vangelo come forma di vita buona e bella”.
DALLA STORIA
10 maggio 1801: i pirati barbareschi dichiarano guerra agli Stati Uniti.
Le incursioni dei corsari barbareschi sulle coste dell’Europa continuarono fino agli inizi del XIX secolo, quando si fecero sempre più efficaci le operazioni militari contro di essi da parte degli Stati europei, Regno Unito, Spagna, Regno di Sardegna, Impero austro-ungarico e Francia, ma anche dei neonati Stati Uniti d’America. Nel 1784 il Congresso degli Stati Uniti approvò la spesa di 60.000 dollari da versare come tributo agli Stati barbareschi per proteggere le proprie navi mercantili dai loro attacchi ma, ciononostante, gli attacchi non cessarono. Seguirono due guerre conosciute come Prima e Seconda guerra barbaresca (1801-1805 e 1815). Nel 1815 gli Stati Uniti, vinta la guerra si liberarono dall’obbligo del tributo, mentre altre potenze europee erano ancora esposte agli attacchi dei corsari. Ma chi erano i corsari barbareschi che, di primo acchito, rimandano ai protagonisti “feroci e agguerriti” dei romanzi di Emilio Salgari, personaggi che con le loro scorribande hanno popolato l’immaginario e la fantasia di intere generazioni comparendo nei libri di avventura come “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, “Lo sparviero del mare” di Rafael Sabatini o “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson e così via? Il fenomeno della pirateria era sempre stato ben presente nel Mediterraneo, ben prima del VII in cui gli Arabi si affacciarono sulle sue coste orientali, rimettendo in discussione la secolare “talassocrazia” romana che aveva orgogliosamente fatto chiamare quel mare all’Impero Romano, Mare Nostrum. “Dalla loro prima comparsa nel mondo mediterraneo le popolazioni di religione musulmana hanno diretto le loro espansioni anche mediante vie marittime, sia verso l’occidente africano ed europeo, così come verso l’oriente, attraverso il mar Rosso, il golfo Persico e l’oceano Indiano e, in un secondo momento in direzione del Mediterraneo orientale, intraprendendo una gara di supremazia militare, religiosa ed economica con l’Impero Bizantino, che vide quest’ultimo perdere una ad una tutte le sue provincie nell’Africa settentrionale, in particolar modo l’Egitto. Se per buona parte le conquiste musulmane del primo periodo avvennero principalmente per via terra, dalla metà del VII secolo inizia la potenza marinara islamica con la creazione delle prime forze navali e con la fondazione della flotta islamica nel porto di Cartagine agli inizi del 700 d.C. In meno di un secolo l’Islam si era impadronito di tutta l’Africa settentrionale e di buona parte dell’Impero Bizantino. Il Mediterraneo veniva così a trovarsi diviso tra due forze rivali ed è normale che la nuova e più giovane forza musulmana si rivolgesse verso quelle terre che, abbandonate dal potere centrale di Bisanzio, erano sicuramente più deboli e meno pronte alla difesa. (Gabrielli, 1979). Nel Mediterraneo occidentale le prime fulminee conquiste furono la penisola iberica, le maggiori isole italiane, così come le coste tirreniche e ioniche d’Italia. … Queste incursioni saracene non avvennero senza scontri con le forze locali, fossero queste bizantine o delle nascenti repubbliche marinare italiane. Non possono essere passati sotto silenzio le incursioni di una flotta saracena con 73 navi e 11.000 uomini, che risalendo il corso del Tevere, giunse fino al saccheggio di San Pietro (Duchesne, pp. 99-101), così come quella che navigando lungo il Volturno distrusse e saccheggiò nell’881 l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno. (Simonetta Conti in “Civiltà del Mare. La Grande Storia della Marineria Italiana”, editore Progetto Editoriale Editions). …
Questi fatti fanno ben intendere quale fosse il più delle volte lo stato d’animo dei paesi litoranei delle coste nord del Mediterraneo, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, la Grecia e la Spagna mediterranea, di fronte al pericolo dei corsari barbareschi. I loro assalti, depredazioni, razzie di uomini, animali e ricchezze sono rimasti nell’immaginario collettivo italiano come il flagello che veniva annunciato dal suono delle campane che suonavano a martello e dal grido “mamma li turchi”. Nominalmente questi pirati (e a volte corsari) erano sudditi dell’imperatore ottomano, a capo di quelle che venivano chiamate “reggenze” e che si autogovernavano, e i personaggi più importanti divennero nel tempo, pascià, bey, dey, rais e altro. Tra le figure più importanti della marineria ottomana c’è un eccezionale uomo di mare, ammiraglio e cartografo ancora oggi ben conosciuto soprattutto dai cultori di Cartografia Storica, Piri Reìs. Di lui si è già parlato in questa rubrica il 9 aprile di quest’anno in riferimento alla sua famosa e “misteriosa” carta che porta il suo nome. Kair ed Din detto il Barbarossa, fu, invece, uno dei più importanti attori nella lotta contro le armate cristiane condotte da Andrea Doria. Alterne furono le vicende tra i due, con vittorie e sconfitte dall’una e d’altra parte, e di lui si ricordano soprattutto le spaventose incursioni sul territorio italiano. La lotta tra le due fazioni vanno dal 1526 fino alla sua morte avvenuta a Costantinopoli nel 1546. Thorgoud Rais, detto Dragut, nacque in Turchia intorno al 1485. Già da giovane iniziò la sua carriera come corsaro divenendo ben presto Rais (Capitano), collaborò con il Barbarossa del quale divenne il braccio destro. Nella primavera del 1540 avvenne il primo scontro con la flotta di Andrea Doria, e da quel momento ebbe inizio il lungo duello a distanza tra lui e l’ammiraglio genovese. Assaltò l’isola di Capraia catturandone quasi tutta la popolazione, che fu poi liberata da Giannettino Doria in una battaglia navale dove sorprese Dragut e catturò otto galeotte e due galee. Il corsaro fu mandato prigioniero come galeotto sulla nave di Andrea Doria, dove rimase per quattro anni, quando fu liberato previo riscatto. Nel 1553 divenne sultano di Tripoli, partecipò alla guerra di Corsica contro la Repubblica di Genova e nel 1565 all’assedio dell’isola di Malta. Alla sua morte il suo corpo fu trasportato a Tripoli, dove venne sepolto. Uccialì. Uluch Alì nacque in Calabria, col nome di Giovanni Dionigi Galeni, nel 1519. Catturato dal corsaro Barbarossa nel 1536 a Le Castella diventò musulmano, sposò la figlia di un altro calabrese convertito, Ja’far Pascià e iniziò la propria carriera di corsaro, con grande successo. Divenne Pascià di Algeri e bey di Tripoli. Subentrò a Dragut a capo della flotta ottomana, quando questi morì durante l’assedio di Malta nel 1565. Considerato il miglior ammiraglio della flotta turca, nell’ottobre del 1571 combatté a Lepanto e fu l’unico a portare in salvo una trentina di navi turche. Dopo questa battaglia ottenne dal Sultano il titolo di ammiraglio della flotta e l’appellativo di (Alì la Spada). Ricostruì la flotta distrutta a Lepanto e nel 1574 riconquistò Tunisi. Morì nel luglio del 1587 a Istanbul. Scipione Cicala, detto anche Cağaloğlu Yusuf Sinan Kapudan Paşa. Si tratta di uno dei più famosi rinnegati italiani. Figlio del visconte Cicala, comandante di nave e anche corsaro cristiano, venne catturato da Dragut e inviato a Costantinopoli. Convertito all’islamismo divenne ben presto un giannizzero. A lui si devono imprese sia marinare, ma soprattutto terrestri, in particolar modo nei Balcani. Compì anche incursioni sulle coste calabresi. Si ricordano soprattutto le grandi capacità politiche usate, in particolar modo, per aumentare il suo prestigio presso l’imperatore e le proprie ricchezze. (Lercari, 2010; Montuoro, 2009). Un primo, seppur non definitivo arresto, delle forze ottomane e barbaresche avvenne nel 1571 con la battaglia di Lepanto. Il 7 ottobre la flotta della Lega, comandata da Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, dal veneziano Sebastiano Venier e dal romano Marcantonio Colonna, con 207 galere, 6 galeazze e 30 navi con 80.000 uomini si scontrò nel golfo di Patrasso con l’armata ottomana composta da 220 galere e 60 fuste. La sconfitta ottomana fu enorme, si salvò solo il barbaresco Uccialì”. (Simonetta Conti).
La guerra “da corsa” non fu ovviamente arrestata dalla vittoria di Lepanto. … Gli unici veri difensori delle coste europee divennero alcuni ordini cavallereschi, quali L’Ordine dei Cavalieri di Malta e quello dei Cavalieri di Santo Stefano. La loro opera divenne sempre più forte e importante nel corso del XVII secolo. … Un problema strettamente connesso a quello della guerra da corsa fu la tratta degli schiavi che riguardava entrambe le parti opposte: il loro mercato foraggiava l’economia delle Reggenze. … Le ultime imprese dei pirati barbareschi, ai quali si erano, via via, unite genti di altre nazionalità: francesi, inglesi, olandesi, scozzesi e molti altri, videro contrapposte le loro forze a quelle degli americani, come già accennato, che insieme alle forze del Regno di Napoli dettero il colpo finale alla pirateria.
(La Battaglia di Lepanto, 1571, scontro aperto fra le forze cristiane e quelle musulmane. Dipinto Anonimo).
Mary Titton
9 maggio
PRIMO PIANO
40 anni fa l’assassinio di Peppino Impastato, il giornalista che sfidò la mafia.
Sono passati 40 anni dalla morte di Peppino Impastato, militante di Democrazia proletaria, giornalista, fondatore di Radio aut, ucciso dalla mafia a Cinisi (Pa) e fatto ritrovare in pezzi sui binari della ferrovia il 9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui le Brigate rosse fecero rinvenire il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro in via Caetani a Roma, drammatica coincidenza che oscurò la morte del giovane Impastato per mano della mafia. Peppino aveva 30 anni quando fu assassinato a seguito delle sue numerose denunce contro Cosa Nostra. Dopo aver rotto con la famiglia, che aveva tra i suoi membri alcuni mafiosi, (cento passi dividevano la sua casa da quella del boss Gaetano Badalamenti), Impastato nel 1965 fonda il giornalino “L’idea socialista” e aderisce al PSIUP, dal 1968 in poi partecipa col ruolo di dirigente alle attività dei gruppi comunisti e guida le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo in territorio di Cinisi. Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti ) e nel 1977 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, dai cui microfoni denuncia i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, da lui soprannominato “Tano Seduto”. Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni provinciali, ma viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio e il suo cadavere viene disteso sui binari della ferrovia con sotto una carica di tritolo, perchè Cosa Nostra vuole che la sua morte passi per un fallito attentato terroristico. E in un primo momento si pensò che fosse avvenuto proprio questo, salvo poi scoprire, grazie all’impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta, che in realtà si trattò di un delitto mafioso. Dopo vari depistaggi, a cui non furono estranee alcune forze dell’ordine, per il delitto sono stati condannati nel 2002 i mafiosi Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti. Numerose manifestazioni sono state organizzate per il quarantesimo anniversario della morte di questo giovane e coraggioso giornalista: il 9 maggio, alle 16:00, si svolge un corteo da Radio Aut (Terrasini) a “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” (Cinisi), dove c’è l’intervento anche di Susanna Camusso e un collegamento con la famiglia Regeni e l’avvocato Alessandra Ballerini. Sempre il 9 maggio c’è l’apertura straordinaria del casolare, dove fu ucciso Peppino Impastato, che sarà visitabile dal pubblico fino all’11 maggio, ogni giorno dalle 9:00 alle 13:00. Il casolare, insieme alla casa in cui Peppino viveva con la madre Felicia, nel 2014, è stato dichiarato di interesse culturale dall’Assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana. “La Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” ha organizzato anche un presidio nel casolare dove Impastato venne ucciso, durante il quale avverrà la premiazione dei vincitori del bando scuole. Il fratello di Peppino, Giovanni, sul sito della Casa Memoria scrive: “Nel quarantesimo anniversario dell’uccisione mafiosa di Peppino vogliamo passare il testimone coinvolgendo un’intera generazione con il suo messaggio, che non è stato solo di impegno civile e di lotta politica, ma anche un messaggio educativo per tutti i giovani che vogliono ancora cambiare il mondo… . Vogliamo coinvolgere la “Meglio Gioventù” con l’impegno, ma anche con l’aggregazione. Tra convegni, dibattiti, libri, musica e mostre e mobilitazione. Era questo quello che Peppino faceva, era così che metteva in movimento tanti ragazzi e ragazze della sua generazione e adesso toccherà ad una nuova generazione far sentire la sua voce e la voce di chi spera ancora e si impegna per la giustizia e la libertà.”
DALLA STORIA
Il 9 maggio 1978, dopo una prigionia di quasi due mesi, viene ucciso Aldo Moro.
La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”. (Elias Canetti).
“L’Affair Moro”, il libro che Leonardo Sciascia scrisse a caldo nel 1978, è particolarmente istruttivo e non ha che guadagnato con gli anni. Mentre, in una nobile gara di codardia, i politici italiani, nonché i giornalisti, si affannavano a dichiarare che le lettere di Moro dalla prigionia erano opera di un pazzo o comunque prive di valore perché risultanti da una costrizione, Sciascia si azzardò a leggerle, con l’acume e lo scrupolo che sempre aveva verso qualsiasi documento. Riuscì in tal modo, sulla base di quelle lettere, a ricostruire una intelaiatura di pensieri, di correlazioni, di fatti che sono, fino a oggi, ciò che più ci ha permesso di capire, o di avvicinarci a capire, un episodio orribile della nostra storia. Nell’ultima edizione del saggio (1983), Sciascia scriveva opportunamente: “questo libro potrebbe anche essere letto come “opera letteraria”. Ma l’autore, che fu membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, ha continuato a viverlo come “opera di verità”. Venne quindi ripubblicato (non più col rischio delle polemiche, ma del silenzio) con l’aggiunta della relazione di minoranza (di assoluta minoranza) presentata in Commissione e al Parlamento. Una relazione che l’autore voleva al possibile stringere, in modo che venisse letta da un maggior numero di persone: come di solito non hanno le voluminosissime relazioni che vengono fuori dalle inchieste parlamentari.
Quando Sciascia scrive nel giugno 1978 si era a conoscenza di sole 30 lettere (delle circa 80 spedite) e i dubbi sulla ricostruzione ufficiale non erano ancora usciti. Sorprende ancora di più allora, la lucidità e l’intelligenza dimostrata dal lavoro di Sciascia: l’analisi delle parole del presidente e di quelle del partito e degli uomini delle istituzioni. Scrive Sciascia: “Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa”. Sciascia si riferisce a un articolo scritto da Pasolini sulla Democrazia Cristiana il 1° febbraio 1975, pochi mesi prima di essere ucciso: “Il vuoto del potere in Italia”, raccolto negli “Scritti corsari” dove si parla delle lucciole e della loro scomparsa riferendosi alla trasformazione del partito di maggioranza di allora. La DC che inizialmente rappresentava la “continuazione del potere fascista” e che aveva permesso la trasformazione industriale del paese degli anni ’60 che aveva fatto sparire dalle campagne le lucciole. Continua Sciascia: “Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio). “Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”. Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi”. E ancora: “Nella fase di transizione, ossia “durante la scomparsa delle lucciole”, gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere”. Le lucciole. Il Palazzo. Il processo al Palazzo. E come se, dentro al Palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul “Corriere della Sera” di questo articolo di Pasolini, soltanto Aldo Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori. “Il meno implicato di tutti”, dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché “il meno implicato di tutti”. E appunto perché “il meno implicato di tutti” destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”. Per questa tragica correlazione degli eventi, Moro, pagherà il prezzo per tutto il partito. Sciascia riprende allora tutte le lettere note, che Moro scrisse dalla “prigione del popolo” e che, egli sostiene, se anche subirono un intervento censorio da parte delle Br, non furono scritte sotto dettatura. Lettere in cui si ritrova lo stesso Moro politico, i suoi stessi valori caritatevoli che gli facevano chiedere al suo stesso partito, quel gesto di umanità per portare avanti una trattativa per liberarlo. Furono queste lettere ad ucciderlo? Fin da subito, all’interno del suo partito e sui principali quotidiani, si iniziò a parlare di un Moro prima del rapimento e di un Moro dopo. Le lettere spedite “non erano a lui ascrivibili”. La trattativa non poteva essere accettata, per un senso dello stato: scrive Sciascia che “né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il senso dello Stato”. Ecco che il Moro uomo si trasforma, in una sorta di “santificazione” fatta dai suoi stessi compagni, nel Moro “statista”: “Moro non era stato, fino al 16 marzo, un “grande statista”. Era stato e continuò ad esserlo anche nella “prigione del popolo” un grande politicante”. Moro statista e non uomo dunque, per rendere meno pesante ai compagni e all’opinione pubblica la scelta della linea della fermezza che avrebbe comportato la sua condanna a morte. In barba a quei valori cristiani che il partito intendeva rappresentare. In una delle sue lettere Moro ricorda infatti ai suoi compagni di partito che non sarebbe stata la prima volta che lo Stato si piegava (in modo magari poco palese) ad una trattativa: «non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti e anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione …» Non ci fu nulla da fare: se si esclude il partito socialista, il fronte della fermezza non mostrò cedimenti. In una delle ultime lettere scrive: «Con queste tesi (la linea della fermezza) si avalla il peggiore rigore comunista ed a servizio dell’unicità del comunismo». E ancora: “… eccomi qui, sul punto di morire per aver detto di sì alla DC. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia …”. La condanna al suo partito: il mio sangue ricadrà su di loro. “Mia carissima Noretta, scriveva Aldo Moro alla moglie, resta pure in questo momento la mia profonda amarezza personale. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro. Ma non è di questo che voglio parlare; ma di voi che amo e amerò sempre, della gratitudine che vi debbo, della gioia indicibile che mi avete dato nella vita …”. Sciascia compie un altro lavoro di analisi: nelle sue lettere Moro, da persona intelligente quale era, avrà certamente cercato di fornire indizi sul luogo di detenzione. Nella lettera a Cossiga, ad un certo punto Moro scrive: “Penso che un preventivo passo della Santa Sede (…) potrebbe essere utile”. Veramente Moro intendeva portare avanti una trattativa col Vaticano. Forse, è parere dello scrittore, Moro riteneva di essere nei paraggi della Città del Vaticano, o comunque a Roma. Un altro esempio riportato da Sciascia è contenuto nel brano in cui lo statista dice di trovarsi sotto un “dominio pieno e incontrollato”: forse voleva lasciar intendere un condominio pieno e ancora non controllato dalle forze dell’ordine? Nella relazione di minoranza presentata da Sciascia emergono, lampanti, tutti gli errori nella ricerca del covo, nella condivisione delle informazioni, le incongruenze della versione ufficiale. I timori e le preoccupazioni del brigadiere Leonardi e dell’autista Ricci, per l’assenza dell’auto blindata (che secondo la moglie era stata richiesta), i pochi uomini per la scorta. Di tutte queste preoccupazioni, che sicuramente i due avranno condiviso coi loro superiori, non c’è traccia nei documenti ufficiali. La parata coreografica messa in atto, in tutto il paese, per trovare il covo dei brigatisti. Un’operazione quantitativamente grossa, ma di scarsa qualità: tutti i posti di blocco non hanno bloccato né i postini né il viaggio della Renault 4. Forse ci si poteva concentrare sulla città di Roma. Il falso comunicato numero 7, quello che indica il cadavere sul fondo del lago della Duchessa. Falso comunicato dello stato, o falso comunicato dei brigatisti stessi? La tipografia in via Foà, con la macchina per stampare che arrivava da un ufficio dei servizi segreti (ufficio R). Il pedinamento ad intervalli delle persone che frequentavano la tipografia. Il covo in via Gradoli che non viene perquisito il 18 marzo (perché gli agenti si trovarono una porta chiusa davanti), mentre venne scoperto (casualmente per una perdita d’acqua) il 18 aprile. Gradoli, la via che secondo la Questura, su domanda della moglie del presidente DC, non esisteva. Nonostante fossero noti i contatti dei Br con l’area dell’autonomia, questo non ha impedito i contatti tra Faranda e Morucci con Pace e Piperno, non sono stati pedinati volutamente o cosa? I verbali delle riunioni del gruppo politico tecnico operativo, presieduto dal presidente del Consiglio e dai capi delle forze dell’ordine e dei servizi, spariti. Era il gruppo che doveva decidere e vagliare sulle informazioni ricevute e coordinare le operazioni.
Nel 1980 Giorgio Gaber compose una canzone, “Io se fossi Dio” nella quale non risparmia davvero nessuno, riservando le invettive più feroci ai protagonisti, grandi e piccoli, della scena politica italiana del tempo. Nel brano Gaber condanna il terrorismo verso il quale si confessa sgomento, impaurito e incapace di dare un giudizio ma, lancia anche un’invettiva amareggiata e a tratti sardonica tesa a colpire ogni elemento della società italiana impregnato nella corruzione e nell’ipocrisia.
Io se fossi Dio
(e io potrei anche esserlo, sennò non vedo chi!)
Io se fossi Dio, non mi farei fregare dai modi furbetti della gente:
non sarei mica un dilettante!
Sarei sempre presente.
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
o, meglio ancora, a criticare, appunto …
cosa fa la gente.
Per esempio il piccolo borghese, com’è noioso!
Non commette mai peccati grossi!
Non è mai intensamente peccaminoso!
Del resto, poverino, è troppo misero e meschino
e pur sapendo che Dio è più esatto di una Sweda
lui pensa che l’errore piccolino non lo conti o non lo veda.
Per questo io se fossi Dio,
preferirei il secolo passato,
se fossi Dio rimpiangerei il furore antico,
dove si odiava, e poi si amava,
e si ammazzava il nemico!
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli,
sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio,
non sarei così coglione
a credere solo ai palpiti del cuore
o solo agli alambicchi della ragione.
Io se fossi Dio,
sarei sicuramente molto intero e molto distaccato
come dovreste essere voi!
Io se fossi Dio,
non sarei mica stato a risparmiare:
avrei fatto un uomo migliore.
Sì vabbe’, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene,
ed è per questo, per predicare il giusto,
che io ogni tanto mando giù qualcuno,
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino!
Io se fossi Dio,
non avrei fatto gli errori di mio figlio
e sull’amore e sulla carità
mi sarei spiegato un po’ meglio!
Infatti non è mica normale che un comune mortale
per le cazzate tipo compassione e fame in India,
c’ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna!
Che viene da dire:
Ma dopo come fa a essere così carogna?
Io se fossi Dio
non sarei ridotto come voi
e se lo fossi io certo morirei
per qualcosa di importante!
Purtroppo l’occasione di morire simpaticamente
non capita sempre
e anche l’avventuriero più spinto
muore dove gli può capitare
e neanche tanto convinto.
Io se fossi Dio
farei quello che voglio,
non sarei certo permissivo,
bastonerei mio figlio,
sarei severo e giusto,
stramaledirei gli inglesi come mi fu chiesto,
e se potessi
anche gli africanisti e l’Asia e poi gli Americani e i Russi;
bastonerei la militanza come la misticanza
e prenderei a schiaffi
i volteriani, i ladri, gli stupidi e i bigotti:
perché Dio è violento!
E gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro tutti!
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli,
sono troppo invischiato nei vostri sfaceli …
Finora abbiamo scherzato,
ma va a finire che uno prima o poi ci piglia gusto
e con la scusa di Dio
tira fuori tutto quello che gli sembra giusto.
E a te ragazza che mi dici che non è vero
che il piccolo borghese è solo un po’ coglione,
che quell’uomo è proprio un delinquente, un mascalzone,
un porco in tutti i sensi, una canaglia
e che ha tentato pure di violentare sua figlia …
Io come Dio inventato, come Dio fittizio,
prendo coraggio e sparo il mio giudizio
e dico: Speriamo che a tuo padre
gli sparino nel culo cara figlia!
così per i giornali diventa un bravo padre di famiglia.
Io se fossi Dio,
maledirei davvero i giornalisti e specialmente … tutti.
Che certamente non son brave persone
e dove cogli, cogli sempre bene.
Compagni giornalisti, avete troppa sete
e non sapete approfittare delle libertà che avete:
avete ancora la libertà di pensare,
ma quello non lo fate
e in cambio pretendete la libertà di scrivere,
e di fotografare.
Immagini geniali e interessanti,
di presidenti solidali e di mamme piangenti.
E in questa Italia piena di sgomento
come siete coraggiosi, voi che vi buttate
senza tremare un momento!
Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti,
e si direbbe proprio compiaciuti!
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano!
Sì vabbe’, lo ammetto:
la scomparsa dei fogli e della stampa
sarebbe forse una follia …
ma io se fossi Dio
di fronte a tanta deficienza
non avrei certo la superstizione della democrazia!
Ma io non sono ancora del regno dei cieli,
sono troppo invischiato nei vostri sfaceli …
Io se fossi Dio
naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente:
nel regno dei cieli non vorrei ministri
e gente di partito tra le palle,
perché la politica è schifosa e fa male alla pelle!
E tutti quelli che fanno questo gioco,
che poi è un gioco di forze, ributtante e contagioso
come la lebbra e il tifo…
E tutti quelli che fanno questo gioco
c’hanno certe facce che a vederle fanno schifo,
che siano untuosi democristiani
o grigi compagni del piccì.
Sono nati proprio brutti o, per lo meno, tutti
finiscono così.
Io se fossi Dio,
dall’alto del mio trono
vedrei che la politica è un mestiere come un altro
e vorrei dire, mi pare a Platone,
che il politico è sempre meno filosofo
e sempre più coglione;
è un uomo tutto tondo
che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo,
che scivola sulle parole
anche quando non sembra … o non lo vuole.
Compagno radicale,
la parola “compagno” non so chi te l’ha data,
ma in fondo ti sta bene,
tanto ormai è squalificata.
Compagno radicale,
cavalcatore di ogni tigre, uomo furbino
ti muovi proprio bene in questo gran casino
e mentre da una parte si spara un po’ a casaccio
e dall’altra si riempiono le galere
di gente che non c’entra un cazzo …
Compagno radicale,
tu occupati pure di diritti civili e di idiozia
che fa democrazia
e preparaci pure un altro referendum
questa volta per sapere
dov’è che i cani devono pisciare!
Compagni socialisti,
ma sì anche voi insinuanti, astuti e tondi!
Compagni socialisti,
con le vostre spensierate alleanze
di destra, di sinistra, di centro,
coi vostri uomini aggiornati,
nuovi di fuori e vecchi di dentro! …
Compagni socialisti fatevi avanti
che questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti!
Fatevi avanti col mito del progresso
e con la vostra schifosa ambiguità!
Ringraziate la dilagante imbecillità!
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli,
sono troppo invischiato nei vostri sfaceli …
Io se fossi Dio,
non avrei proprio più pazienza,
inventerei di nuovo una morale
e farei suonare le trombe per il Giudizio universale!
Voi mi direte perché è così parziale
il mio personalissimo Giudizio universale:
perché non suonano le mie trombe
per gli attentati, i rapimenti, i giovani drogati
e per le bombe.
Perché non è comparsa ancora l’altra faccia della medaglia.
Io come Dio, non è che non ne ho voglia.
Io come Dio, non dico certo che siano ingiudicabili
o addirittura, come dice chi ha paura, gli innominabili!
Ma come uomo, come sono e fui,
ho parlato di noi, comuni mortali:
quegli altri non li capisco, mi spavento,
non mi sembrano uguali.
Di loro posso dire solamente
che dalle masse sono riusciti ad ottenere
lo stupido pietismo per il carabiniere.
Di loro posso dire solamente
che mi hanno tolto il gusto
di essere incazzato personalmente.
Io come uomo posso dire solo ciò che sento,
cioè solo l’immagine del grande smarrimento.
Però se fossi Dio
sarei anche invulnerabile e perfetto,
allora non avrei paura affatto,
così potrei gridare, e griderei senza ritegno che è una porcheria,
che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia!
Ecco la differenza che c’è tra noi e “gli innominabili”:
di noi posso parlare perché so chi siamo
e forse facciamo più schifo che spavento.
Ma di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento.
Ma io se fossi Dio,
non mi farei fregare da questo sgomento
e nei confronti dei politici
sarei severo come all’inizio,
perché a Dio i martiri
non gli hanno fatto mai cambiar giudizio.
E se al mio Dio che ancora si accalora,
gli fa rabbia chi spara,
gli fa anche rabbia il fatto
che un politicante qualunque
se gli ha sparato un brigatista,
diventa l’unico statista!
Io se fossi Dio,
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio,
c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana
è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio,
un Dio incosciente enormemente saggio,
avrei anche il coraggio di andare dritto in galera,
ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora
quella faccia che era!
Ma in fondo tutto questo è stupido perché, logicamente …
io se fossi Dio,
la terra la vedrei piuttosto da lontano
e forse non ce la farei ad accalorarmi in questo scontro quotidiano.
Io se fossi Dio,
non mi interesserei di odio o di vendetta e neanche di perdono
perché la lontananza è l’unica vendetta
è l’unico perdono!
E allora va a finire che se fossi Dio,
io mi ritirerei in campagna
come ho fatto io …
Mary Titton
8 maggio
PRIMO PIANO
Trump annuncia il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare.
Il presidente americano Donald Trump, poco dopo le 14:00 (le 20:00 in Italia), ha ufficializzato il ritiro degli Usa dall’accordo con l’Iran sul nucleare, firmato il 14 luglio 2015 da Barack Obama e dai ministri degli Esteri di Pechino, Parigi, Berlino, Mosca e Londra oltre che dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, dicendo: “Non avremmo mai dovuto firmare l’accordo con l’Iran … è disastroso e imbarazzante … serve solo alla sopravvivenza di un regime” che “finanzia il terrore. Non riesce a fermare le ambizioni nucleari, permette ancora di arricchire uranio.” Il leader della Casa Bianca ha firmato davanti alle telecamere e ai fotografi un memorandum presidenziale per reintrodurre le sanzioni contro l’Iran, dichiarando di avere le prove “definitive” che Teheran ha violato l’intesa, come sostenuto da Israele, e minacciando ritorsioni economiche anche nei confronti di “tutti i Paesi che aiuteranno l’Iran sul nucleare”. L’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini, in seguito alla decisione di Trump, ha ribadito che l’accordo sul nucleare iraniano “è cruciale per la sicurezza della regione e del mondo intero” e l’“impegno dell’Unione europea” per il rispetto dell’intesa non cambia. Nelle ultime tre settimane Francia, Gran Bretagna e Germania, anche con le visite negli Usa del presidente francese Macron, della cancelliera tedesca Angela Merkel e del ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, hanno cercato di convincere Trump che lasciare l’accordo sarebbe un errore, ma inutilmente, visto che il presidente americano non rinnoverà le esenzioni all’Iran in scadenza il 12 maggio, aprendo la strada a possibili sanzioni alle banche dei Paesi che non ridurranno le importazioni di petrolio iraniano. Il presidente dell’Iran Hassan Rohani, in un incontro con esponenti del settore petrolifero, ha ammesso che il Paese, in seguito all’introduzione delle sanzioni, avrà “alcuni problemi per due o tre mesi”, ma ha anche minimizzato, dicendo che sarà in grado di superarli, e ha aggiunto che l’Iran vuole continuare a “lavorare con il mondo con un impegno costruttivo”, frase che sembra rivolta all’Europa, con la quale ha stretto una serie di accordi commerciali dopo l’intesa sul nucleare del 2015, che ora gli Usa non intendono più rispettare.
DALLA STORIA
SESSANTOTTO. 50° ANNIVERSARIO.
… Segue dal 7 maggio.
Parte seconda.
La carica contro le barricate viene ordinata verso le due di notte dal prefetto Grimaud, in pieno accordo con il ministro dell’Interno Fouchet: gli scontri durano cinque ore. I manifestanti e la polizia si scagliano bottiglie Molotov e granate; gli abitanti delle case borghesi simpatizzano apertamente per gli studenti. Anche le radio periferiche private si schierano con i manifestanti e si rivelano utilissime perché li tengono informati sugli spostamenti delle forze dell’ordine in tempo reale. La violenza usata dai poliziotti provoca lo sciopero generale di ventiquattro ore, in segno di protesta, indetto dalle confederazioni sindacali (Confédération général du travail-Cfdt e Force ouvrière) e dalla Fédération del L’education nationale per il 13 maggio, che è anche ricorrenza dell’elezione del genarle De Gaulle alla presidenza della Repubblica. La Francia si paralizza: in tutte le grandi città gli studenti e i lavoratori danno vita a manifestazioni di protesta. A Parigi sfilano oltre cinquecentomila persone: il corteo è guidato dagli studenti e dai loro leader Sauvageot, Geismar e Cohn-Bendit, mentre i lavoratori organizzati, al loro seguito, hanno alla testa vari politici e dirigenti sindacali. Lo stesso giorno viene riaperta la Sorbona, dove si riuniscono migliaia tra studenti e professori nelle varie aule e anfiteatri per discutere, tenere delle riunioni, approvare mozioni da portare avanti. Lo stesso avviene in tutte le università francesi. Prima la protesta è diretta contro lo stesso De Gaulle e da agitazione studentesca si trasforma in vera e propria crisi sociale. L’iniziativa passa nelle mani degli operai, con l’occupazione delle fabbriche, mentre gli studenti passano in secondo piano. Il 14 a Nantes scioperano le maestranze della Sud-Aviation, che viene occupata. Il giorno seguente tocca alle officine Renault di Cléon. L’agitazione si propaga per tutta la Francia con una rapidità fulminante, raggiungendo dimensioni assolutamente impreviste. A Cléon, i giovani operai sequestrarono il direttore delle officine nel suo ufficio insieme ad alcuni quadri, issando una bandiera rossa sul portale d’ingresso e decidendo l’occupazione a tempo indeterminato. Dalla Renault l’ondata di scioperi e di occupazioni si propaga ad altre industrie: il 17 maggio gli scioperanti sono oltre duecentomila e il fenomeno non sembra volersi arrestare; il 24 maggio ci sono nove milioni di scioperanti. Il paese è completamente bloccato. Ma si produce progressivamente anche la frattura tra gli studenti, che vogliono “tutto e subito”, e gli operai che fanno riferimento al Pcf e alla Cgt e sono disposti a raggiungere un accordo con il governo. Il 23 maggio, la Cgt precisa le proprie rivendicazioni: anzitutto l’aumento dello Smig (Salario minimo interprofessionale garantito) a seicento franchi, il pieno impiego, la riduzione progressiva dell’orario settimanale di lavoro a salario invariato, la libertà sindacale nelle fabbriche. Lo stesso giorno, il primo ministro Georges Pompidou dichiara di fronte all’Assemblea di essere pronto a incontrare e a dialogare con le organizzazioni sindacali. De Gaulle, il 24, di ritorno dalla Romania, indice un referendum per giugno, dal cui risultato fa dipendere la sorte della sua presidenza. Proprio mentre parla, migliaia di studenti e operai ricominciano a manifestare per le vie di Parigi e si scontrano con le forze dell’ordine in una battaglia ancora più violenta di quella del 10. Teatro degli scontri non è solo il Quartiere latino, ma anche la Bastiglia, la Gare de Lyon e la Nation e per poco non viene incendiata la Borsa. Anche a Nantes, dove gli operai continuano l’occupazione delle fabbriche, lavoratori e studenti si battono con la polizia per cinque ore. Manifestazioni di contadini registrano in provincia oltre duecentomila partecipanti. Per la prima volta dall’inizio delle agitazioni si hanno due morti, uno a Parigi e l’altro a Lione. A rue de Grenelle, al ministero degli Affari Sociali, le discussioni durano oltre 25 ore, interrotte esclusivamente da un colloquio tra Pompidou e Georges Séguy, il segretario generale della Cgt. All’alba del 27, il primo ministro rende note le proposte del governo e del padronato. Gli “accordi di Grenelle” non vengono avallati dai sindacati poiché vi sono numerose questioni in sospeso e Séguy, prima di pronunciarsi, desidera conoscere il giudizio dei lavoratori in proposito. Le concessioni padronali e governative vanno dall’aumento dello Smig da 2,22 a 3 franchi all’ora, all’aumento dei salari (il 7% il 1° giugno e dal 7% al 10% in ottobre), dalla riduzione dell’orario di lavoro da una a due ore settimanali, all’elaborazione di un progetto governativo sul diritto sindacale. La base delle organizzazioni sindacali, chiamata a discutere le proposte, rifiuta l’accordo. Per il governo è un insuccesso e la situazione rischia di diventare molto pericolosa. Alla crisi sociale fa seguito una crisi politica: il governo è a un passo dalla caduta. La giornata del 27 maggio segna il definitivo divorzio tra le viarie anime della sinistra. L’Unef e il Psu (Parti socialiste unitarie) organizzano un comizio allo stadio Charléty, con l’adesione della Cfdt: si ritrovano così in più di trentamila, pronti a dar vita a una grande forza di sinistra al di fuori del Pcf. André Barjonet (esperto economico che ha lasciato la Cgt, non condividendone più le posizioni) afferma in un discorso che è possibile una rivoluzione ma bisogna agire immediatamente. Viene notata la presenza di Pierre Mendès-France, già primo ministro della IV Repubblica, che si dichiara pronto ad assumere un incarico che gli venisse affidato dalla sinistra unita. Dal canto suo, il Pcf, dopo aver denunciato l’iniziativa di Charléty, organizza riunioni in vari luoghi di Parigi. Il governo intanto teme che la rivolta studentesca possa fungere da prologo a un eventuale colpo di mano comunista. Sinistra comunista e rivoluzionari di Charléty si scambiano accuse di tradimento. Ma la stanchezza dell’opinione pubblica, la divisione tra le varie componenti della sinistra, che propongono soluzioni molto differenti alla crisi in atto, giocano in favore del governo. La inspiegabile scomparsa, per tutto il 29 maggio, del generale De Gaulle fa temere una svolta autoritaria. La sua riapparizione, il giorno seguente, dopo un incontro a Baden-Baden con il generale Massu, comandante in campo delle truppe francesi di stanza in Germania, dà il via alla riscossa gollista. Vengono sciolte le Camere; il referendum preannunciato viene annullato; si dà il via agli “accordi di Grenelle”; si alimenta, anche attraverso i mass media, il timore di una minaccia comunista. Viene organizzato un enorme raduno agli Champs-Elysées: partecipano almeno un milione di persone a sostegno del generale De Gaulle. Altre imponenti manifestazioni di sostegno al governo si hanno il 31 maggio in tutta la provincia. Finalmente, il 1° giugno, ricompare la benzina, dopo un lungo periodo. I lavoratori tornano in fabbrica. Il 23 giugno si svolge il primo turno delle elezioni legislative: i gollisti guadagnano il 6%, ottenendo il 43,65% dei voti. Tutti gli altri partiti subiscono un calo sostanzioso. Al secondo turno, una settimana dopo, la Udr (Unione per la difesa della repubblica), il partito gollista, giunge alla maggioranza assoluta. A sinistra, tra Pcf e Fgds si perdono cento seggi. “Le joli mai” è davvero finito.”
7 maggio
PRIMO PIANO
È morto il regista Ermanno Olmi.
(Mostra del Cinema di Venezia, 1965)
È morto a 86 anni, all’ospedale di Asiago, il regista Ermanno Olmi. Nato il 24 luglio 1931 a Treviglio, in provincia di Bergamo, da una famiglia contadina di profonde convinzioni cattoliche, giovanissimo si trasferisce a Milano, dove si iscrive all’Accademia di Arte Drammatica per seguire i corsi di recitazione. Olmi, pur non avendo nessuna esperienza alle spalle, tra il 1953 e il 1961, realizza decine di documentari, il lungometraggio “Il tempo si è fermato” (1959), il film “Il posto”, tutti caratterizzati dall’attenzione al quotidiano, alle vicende del mondo operaio, agli umili. In queste opere sono già evdenti quelli che saranno i temi tipici della sua produzione cinematografica matura: i sentimenti delle persone semplici, il rapporto con la natura, la solitudine e le sue conseguenze, tutti permeati da una forte vena intimista, come “E venne un uomo” (1965), un’attenta e partecipe biografia di papa Giovanni XXIII, priva di scontati agiografismi. Nel 1977 Olmi firma il suo capolavoro: “L’albero degli zoccoli”, che si aggiudica la Palma d’oro al Festival di Cannes e il Premio César per il miglior film straniero. Il film, che utilizza la lingua lombarda nelle sue varianti bergamasca e milanese e si avvale come attori di contadini e gente della campagna bergamasca, è ambientato in una cascina vicino a Bergamo, abitata alla fine dell’Ottocento da quattro famiglie contadine: un piccolo mondo contrassegnato dal lavoro nei campi e dalla preghiera, che il regista ritrae con realismo e senza sentimentalismi, quel mondo contadino, nel quale Olmi è nato e cresciuto e al quale è sempre rimasto legato. Trasferitosi da Milano ad Asiago, dove da quel momento risiederà, Olmi fonda nel 1982 a Bassano del Grappa la scuola di cinema Ipotesi Cinema. Sempre nel 1982 dirige “Camminacammina”, allegoria sulla favola dei Re Magi e torna a girare documentari per la Rai, oltre ad alcuni spot televisivi. Colpito da una malattia invalidante e da conseguente depressione, il regista resta lontano dal set per un lungo periodo, vi torna solo nella seconda metà degli anni Ottanta con la parabola “Lunga vita alla signora!” (Leone d’Argento) e con “La leggenda del Santo bevitore” ( Leone d’Oro a Venezia), tratto dal romanzo di Joseph Roth, che il critico e amico Tullio Kezich (poi suo cosceneggiatore nel film) gli aveva fatto conoscere. Per questo film Olmi si avvale di attori professionisti, come Rutger Hauer e Anthony Quayle; replicherà l’esperienza cinque anni dopo, dirigendo Paolo Villaggio ne “Il segreto del bosco vecchio”, tratto dal romanzo di Dino Buzzati. Nel 2001 dirige “Il mestiere delle armi”, film storico in costume, di respiro rosselliniano, sugli ultimi giorni della vita di Giovanni dalle Bande Nere, opera che si aggiudica 9 David di Donatello 2002; nel 2003 gira “Cantando dietro i paraventi”, fiaba pacifista in costume interpretata da Bud Spencer assieme a un cast di attori orientali. Dopo lo spirituale Centochiodi del 2007, con l’ex modello Raz Degan nella parte di un intellettuale che perde la fede, dichiara che non girerà più film di finzione, ma tornerà al suo antico e primario amore, il documentario; l’anno successivo, Venezia gli tributa il Leone d’Oro alla Carriera, consegnatogli direttamente da Adriano Celentano. Del 2014 è “Torneranno i prati”, ambientato nelle trincee dell’altopiano di Asiago durante la prima guerra mondiale, mentre nel 2017 esce il documentario “Vedete, sono uno di voi”, dedicato a Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Il suo nome rimane però legato soprattutto a “L’albero degli zoccoli”, dice Paolo Taviani, amico fraterno del regista: “ L’albero degli Zoccoli è una delle poche opere che regge il confronto con quelle del cinema italiano del dopoguerra, il nostro secondo rinascimento. È un capolavoro del cinema italiano e non solo italiano.”
DALLA STORIA
SESSANTOTTO. 50° ANNIVERSARIO.
“Maggio francese”, di Gianluigi Masedu. Tratto da “Le voci del ’68. Editori Riuniti
“Gli avvenimenti del maggio 1968 costituiscono un punto di riferimento e un’ispirazione per il movimento studentesco che proprio in Francia raggiunge i livelli più significativi di mobilitazione e di partecipazione, di elaborazione politica e di espressione estetica. La Francia verso la seconda metà degli anni ’60, dopo la guerra in Algeria e la rielezione del generale De Gaulle alla presidenza della Repubblica nel 1965, sta vivendo un periodo di tranquillità e di sviluppo economici. Ma i giovani universitari sono insofferenti di fronte a un sistema economico e sociale considerato oppressivo e a schemi culturali che sembrano ormai decrepiti. A partire dal 1966 gli “arrabbiati” (enragés) ottengono la maggioranza dei consensi nei vari istituti di rappresentanza degli studenti, come l’Unef (Union nationale des étudiants de France). Si cerca di far emergere l’opposizione nei confronti delle istituzioni universitarie i loro regolamenti autoritari, ormai anacronistici. Si verificano incidenti provocati, principalmente, da piccoli gruppi più impegnati e attivi come L’Internazionale situazionista, protagonista delle azioni più clamorose a Strasburgo e a Nanterre tra ottobre e novembre. Dal gennaio del 1968, la situazione comincia a riscaldarsi sempre più e gli episodi degni di nota aumentano in modo esponenziale, mettendo già in luce quelli che saranno i protagonisti del maggio, come nel caso dell’“affaire Missoffe” a Nanterre, che vede protagonista Daniel Cohn Bendit, soprannominato presto “Dany il rosso”. I mass media cominciano a dare grande spazio agli eventi studenteschi. Sempre a Nanterre, durante una manifestazione il 26 gennaio, si scontrarono studenti e funzionari: il decano Grappin, ex partigiano e reduce dei campi di concentramento, viene definito “nazista”. In occasione della festa di San Valentino il 14 febbraio, i residenti delle città universitarie scendono in sciopero contro i regolamenti interni: scoppiano molti incidenti, soprattutto nelle città di provincia. Il ministro concede le visite autorizzate nei pensionati femminili, fino ad allora proibite, ma solo fino alle undici di sera. In marzo, all’inquietudine degli studenti si aggiunge quella degli uomini del cinema con l’“affaire Langlois”. Il 22 dello stesso mese, ancora a Nanterre, a seguito dell’arresto di alcuni studenti accusati di vandalismo contro un’agenzia dell’American Express durante una manifestazione in favore del Vietnam, viene occupato il palazzo dell’amministrazione universitaria. Duecento studenti danno vita al Movimento 22 marzo, protagonista degli eventi di maggio. Il consiglio di facoltà immediatamente sospende i corsi fino al 1° aprile. Alla ripresa, viene messa a disposizione degli studenti, in seguito alla richiesta formulata dai loro responsabili, un’aula per le discussioni, ma il movimento la rifiuta per occupare un grande anfiteatro dove, di fronte a oltre mille studenti, si tiene una riunione imponente, cui prende parte anche K.D. Wolff, rappresentante dell’associazione studentesca Sds e collaboratore di Rudi Dutschke, il leader del movimento studentesco in Germania, Berlino. Da questo momento in avanti, l’agitazione riprende più forte di prima. I muri vengono ricoperti di graffiti, i comizi si moltiplicano ovunque. Gli studenti di sociologia del secondo anno votano a maggioranza la proposta di boicottare gli esami parziali. La frattura fra le due parti, corpo accademico e istituzioni da una parte e studenti dall’altra, diventa insanabile il 3 aprile all’annuncio del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’educazione nazionale, Alain Peyrefitte, del futuro ricorso a misure di selezione per l’entrata nelle facoltà. L’agitazione si propaga a macchia d’olio, anche a causa delle violenze e provocazioni degli studenti di estrema destra. L’escalation di incidenti porta il 2 maggio alla chiusura della facoltà di Nanterre da parte del decano Grappin, che segna l’inizio del vero e proprio maggio francese, “le joli mai”. Il giorno successivo, il 3, l’evacuazione forzata del cortile della Sorbona, ove si sta tenendo un comizio di protesta da parte di qualche centinaio di studenti di Nanterre e di Parigi, con alcuni arresti è la scintilla che fa esplodere la rabbia studentesca. Iniziano gli scontri con la polizia. Sorgono le barricate e vengono incendiate le prime auto nel Quartiere latino, in una battaglia di oltre sei ore che porta al fermo di quasi seicento studenti con ventisette convalide in arresto. Il tentativo di repressione della protesta, inizialmente attuata da piccoli gruppi, procura ai rivoltosi la simpatia e la solidarietà della maggioranza degli studenti e di parti consistenti dell’opinione pubblica, in primo luogo degli intellettuali. Il presidente De Gaulle e il primo ministro Pompidou, quest’ultimo assente per una serie di viaggi in Afghanistan e Iran, si dimostrano subito incapaci di qualsiasi reazione oltre gli interventi repressivi. Presidiato il Quartiere latino con ingenti schieramenti delle forze di polizia, domenica 5 maggio si procede immediatamente a condannare per direttissima tredici degli studenti arrestati due giorni prima, quattro dei quali alla reclusione, senza il beneficio della condizionale. La sentenza fa salire ancora di più la tensione e contribuisce a coinvolgere masse di studenti liceali e universitari. Alle agitazioni di Parigi fanno eco le manifestazioni che si moltiplicano in tutte le università e scuole superiori del paese. Sul versante politico, non si comprendono la portata e le motivazioni della protesta: anche il Partito comunista (Pcf) si contrappone al movimento studentesco, attribuendo a “gruppuscoli di anarchici” il disegno di destabilizzare il paese. Il 6 maggio l’Unione degli studenti organizza una manifestazione di solidarietà per i condannati del giorno precedente. Già alle otto del mattino il Quartiere latino è in stato d’assedio, ogni via d’accesso è bloccata da autocarri carichi di agenti in assetto di guerra. Gli studenti cominciano a radunarsi a gruppi, sono centinaia, diventano migliaia a St. Germain-des-Prés. A mezzogiorno sono più di diecimila lungo le strade di Parigi e si dirigono verso il Quartiere latino. Alle tre del pomeriggio si hanno i primi scontri, che durano per tutta la notte. Il risultato di questa guerriglia urbana, nella quale si registrano barricate, auto rovesciate, lacrimogeni, sono oltre quattrocento arresti, mentre ci sono non meno di seicento studenti e trecento agenti feriti. L’8 maggio, il ministro Peyrefitte annuncia la riapertura della Sorbona solo a determinate condizioni. Le richieste avanzate dagli studenti per porre termine agli scontri, invece, prevedono, in primo luogo la liberazione di chi è arrestato o in stato di fermo, quindi la riapertura della Sorbona e l’evacuazione totale delle forze di polizia dal Quartiere latino. La mancata accettazione delle richieste fa aumentare l’intensità degli scontri e il numero dei rivoltosi. Il 10 è la giornata più calda: per tutta la mattina sfilano enormi cortei che, nel pomeriggio cominciano a confluire nella place Edmond Rostand. Si tratta di oltre cinquantamila tra studenti universitari e liceali, molti più dei partecipanti alle manifestazioni dei giorni precedenti. Il selciato è divelto per recuperare sassi pesanti da lanciare, si rovesciano le automobili per alzare barricate. Alle dieci di sera se ne contano nel solo Quartiere latino più di duecento, alcune delle quali di oltre due metri di altezza. continua …
6 maggio
PRIMO PIANO
Hawaii: Terremoto ed eruzione del vulcano Kilauea.
Una scossa di terremoto del 6.9, la più forte mai registrata dal 1975 ad oggi, ha fatto tremare Big Island, nelle Hawaii, dove da giorni si susseguono sismi di grande entità, collegati all’eruzione del vulcano Kilauea. Secondo la portavoce dell’Osservatorio vulcanologico delle Hawaii, Janet Babb, i numerosi terremoti registrati finora sull’isola, incluso quello di magnitudo 6.9, sono dovuti al movimento del vulcano che si adatta allo spostamento del magma. Lava incandescente e vapori hanno invaso una zona residenziale nei dintorni di Pahoa, sull’isola grande, e si stanno muovendo verso la costa hanno bruciato terreni e boschi, mentre la forza eruttiva del vulcano ha fatto aprire grandi crepe nel terreno. Intanto le autorità hanno ordinato l’evacuazione di oltre 1.700 persone dall’area più vicina alla lava, mettendo in guardia i residenti contro il pericolo del gas solforico per gli anziani e le persone con problemi respiratori. Finora due abitazioni sono state inghiottite dalla lava. Circa 10mila persone abitano nella zona interessata e l’istituto di geofisica Usa USGS ha avvertito che “nuove colate di lava potrebbero avvenire senza che sia possibile predirle”. Le autorità hanno inoltre evacuato tutti i visitatori dal Parco nazionale che si trova sull’isola a causa delle frane provocate dal terremoto lungo i sentieri e hanno chiuso i campus dell’Hawaii Community College a Hilo. Nel frattempo, l’Osservatorio dei terremoti continua a monitorare la situazione. L’Ente da giorni aveva annunciato i segni di una possibile attività, ma tutto è precipitato quando il cratere del Kīlauea è crollato, innescando terremoti e lava lungo nuove camere sotterranee. Il terremoto dei giorni scorsi di magnitudo 6.9, il più grande delle Hawaii in più di 40 anni, ha fatto segnare il picco di una quantità significativa di sismi di ingente entità collegati all’eruzione.
5 maggio
PRIMO PIANO
Duecento anni dalla nascita di Karl Marx, il padre del comunismo.
Già da qualche mese la nascita di Karl Marx, avvenuta il 5 maggio del 1818, viene celebrata a Treviri, sua città natale, con varie iniziative ed eventi: ai semafori per indicare l’alt c’è una figura stilizzata in rosso di Marx fermo con le braccia allargate, mentre per il via libera c’è un Marx verde che cammina con un libro sotto braccio; al Rheinisches Landesmuseum la grande esposizione “Karl Marx – 1818-1883. Vita. Opere. Tempo”, inaugurata dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker, resterà aperta dal 5 maggio al 21 ottobre; inoltre è stata scoperta una enorme statua di Marx, alta 5,5 metri, opera dello scultore cinese Wu Weishan e dono della Repubblica popolare cinese, dove il padre del comunismo è stato celebrato con un discorso solenne del presidente Xi Jinping, che, nel Palazzo del Popolo di Pechino, enfatizzando il richiamo al pensiero marxista, ha affermato che l’autore de “Il Capitale” resta “il tutore rivoluzionario del proletariato e dei lavoratori nel mondo intero (…) e il più grande pensatore dei tempi moderni”. In Russia la situazione, oggi, è un po’ diversa: secondo un sondaggio del centro demoscopico statale Vtsiom, commissionato in occasione del bicentenario della nascita dell’autore de “Il Capitale”, la maggioranza dei russi non conosce i contenuti della dottrina marxista. I dati evidenziano anche una frattura generazionale: tra chi ha più di 60 anni il 70% dice di conoscere “bene” chi sia Karl Marx, la percentuale cala però al 25% fra i giovani di un’età compresa fra i 18-24 anni, il 7% di loro dichiara di “non sapere”chi sia. Il 66% degli intervistati ha avuto poi difficoltà a rispondere riguardo alle sue teorie, mentre il 16% ha detto di non sapere nulla del marxismo. Dati piuttosto sorprendenti riguado a colui che fu l’autore, insieme con Engels, del Manifesto del partito comunista, edito nel 1848, e de “Il Capitale”, testo-chiave del marxismo, di cui il 1° Libro fu pubblicato quando Marx era ancora in vita (1867), mentre gli altri due uscirono postumi e che persino la Chiesa, nella persona dell’ arcivescovo di Monaco e Frisinga, il cardinale Reinhard Marx, rivaluta invitando a guardare in modo più imparziale alla sua filosofia, anche perché “la dottrina sociale cattolica ha un significativo debito di riconoscenza nei confronti del padre della dottrina marxista”.
4 maggio
PRIMO PIANO
Nobel per la letteratura: per il 2018 non sarà assegnato.
Quest’anno, per la prima volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il premio Nobel per la Letteratura non verrà assegnato a causa dello scandalo delle molestie sessuali che ha coinvolto la stessa Accademia e di quello legato a reati finanziari. L’Accademia ha preso la decisione durante la riunione settimanale tenuta a Stoccolma e ha reso noto che il premio verrà assegnato l’anno prossimo insieme a quello del 2019. Tutto è cominciato a novembre scorso, quando 18 donne hanno accusato di aggressioni sessuali il fotografo francese Jean-Claude Arnault, che gestiva un progetto culturale finanziato dall’Accademia svedese ed è marito di un membro dell’Accademia stessa, la poetessa e scrittrice Katarina Frostenson, che successivamente è stata rimossa. Arnault ha negato le accuse, la Bbc, invece, sostiene che diversi incidenti sarebbero avvenuti in sedi di proprietà dell’Accademia. Anche la principessa ereditaria Victoria di Svezia sarebbe coinvolta nello scandolo: tre persone hanno raccontato di aver visto Arnault molestare la principessa durante un evento dell’Accademia nel 2006; una delle sue assistenti sarebbe allora intervenuta per soccorrerla, “lanciandosi sul fotografo e allontanandolo con la forza”.
DALLA STORIA
Keith Haring (4 maggio 1958 – 16 febbraio 1990).
(Keith Haring nel suo Pop Shop di New York)
Negli anni Ottanta, tra gli esponenti più singolari del graffitismo di frontiera, emerge sulla scena un artista che, con il proprio segno, trasformerà il linguaggio visivo del XX secolo. Il pittore statunitense è Keith Haring e i suoi lavori, soprattutto omini stilizzati bidimensionali e in movimento, ma anche cani, angeli, mostri, televisori, computer, figure di cartoon e piramidi, sono familiari anche a chi non sa niente di lui perché i suoi disegni lineari, essenziali nel concetto, si ricordano facilmente come fossero i personaggi di un marchio particolarmente originale e accattivante; diventeranno uno dei simboli più creativi della cultura di quel lontano decennio e dell’arte pop. Fin da piccolo Haring rivelò un grande interesse per il disegno e venne incoraggiato dal padre, di professione fumettista che, avendo intuito le inclinazioni e il talento artistico del figlio, gli insegnò i rudimenti del disegno per realizzare fumetti. “Mio padre realizzava per me personaggi dei cartoni animati e questi erano simili a come disegnavo io, con un’unica linea e un contorno fumettistico”, con queste parole Haring si espresse a John Gruen, la cui biografia rimane la più completa fonte primaria per la comprensione dell’artista statunitense. Dopo il diploma di scuola superiore Haring, refrattario alle tradizionali scuole di grafica, proseguì da solo la sua ricerca artistica. Alla fine degli anni Settanta, a New York, il giovane artista entrò in contatto con il mondo della controcultura. Frequentò assiduamente il Club 57, popolare locale tra gli artisti dell’underground newyorchese con i quali condivise un’intensa attività di studio e di svaghi che solo una grande città può offrire e, in particolare, una città come New York al centro delle avanguardie. Si riconobbe omosessuale, fece parte della Factory di Andy Warhol, incontrò Jean Michel Basquiat, altro grande interprete del graffitismo metropolitano, realizzò diverse opere fondendo le influenze esercitate dal poster Truisms di Jenny Holzer con la tecnica di William S. Burroughs e Brion Gysin. Strinse amicizia con i più significativi esponenti della street art, tra cui Lee Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Le opere di Haring hanno come segno distintivo uno stile immediato e coloratissimo che ricordano quello usato dalla grafica pubblicitaria e l’adozione di una spessa linea di contorno ridotta all’essenziale che circoscrive le figure. Questi elementi creativi veicolano, in modo semplice, chiaro e immediatamente intellegibile i messaggi che Haring intendeva comunicare, nel suo impegno politico e civile, su temi come il razzismo, il capitalismo, l’ingiustizia, l’apartheid, il riarmo nucleare, la droga e l’AIDS, ma anche messaggi che hanno come argomento l’amore, la felicità, la gioia e il sesso. “Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare”. A tale proposito, nell’aprile del 1986, Haring, aprì il Pop Shop, aiutato da fan e mentori, tra cui Andy Warhol, un negozio a Soho che vendeva gadget recanti le immagini della sua arte, finalizzato ad una più ampia visualizzazione della sua opera. “Arte per tutti” e ciò era possibile soltanto portando l’arte al di fuori dai musei e dalle gallerie e ignorando le regole imposte dal mercato. Un’arte che è stata celebrata dalla critica e dal pubblico e nei musei di tutto il mondo e che ha influenzato le generazioni successive di artisti “dimostrando che le immagini (a cominciare dalle prime che realizzò nella metropolitana) hanno lo stesso potere delle parole e la forza dei simboli”. “Un giorno viaggiando in metropolitana, ho visto un pannello che doveva contenere un messaggio pubblicitario. Ho capito subito che quello era lo spazio più appropriato per disegnare. Sono risalito in strada fino ad una cartoleria e ho comprato una confezione di gessetti bianchi, sono tornato in metropolitana e ho fatto un disegno su quel pannello. Era perfetto, soffice su carta nera; il gesso vi disegnava sopra con estrema facilità”. Haring lavorò anche in ambiti umanitari, dedicando molte opere a ospedali, organizzazioni di beneficienza e orfanotrofi. Fondò, inoltre, la “Keith Haring Foundation”, che si propone di continuare la sua opera di sostegno alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS. L’ultima opera pubblica che eseguì prima di morire, a causa delle complicanze legate all’AIDS, all’età di trentun anni, fu “Tuttomondo”, sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio; si tratta di uno dei “progetti più importanti che … abbia fatto”.
(Keith Haring mentre disegna il murale sulla parete del convento di Sant’Antonio a Pisa)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Icona dell’eleganza più raffinata, Audrey Hepburn, all’anagrafe Edda Van Heemstra Hepburn-Ruston, nasce il 4 maggio 1929 a Bruxelles. Dopo il divorzio dei genitori si stabilisce con la madre in Olanda. Ama la danza e sogna di diventare come Margot Fonteyn. La nota la scrittrice francese Colette la vuole in una commedia, “Gigi”, tratta da un suo romanzo. È un trionfo. Ma la sua stella diventa grande con il primo film da protagonista, nel 1952, “Vacanze romane”. Due anni dopo eccola in “Sabrina” di Billy Wilder con Humphrey Bogart e William Holden. Hollywood la consacra con “Guerra e Pace” (del 1956, in cui recita con il marito Mel Ferrer da poco sposato); “Arianna” (1957, al fianco di Gary Cooper); “Colazione da Tiffany” (1961, di Blake Edwards) e “My Fair Lady” (1964, con Rex Harrison). Intanto il matrimonio con Ferrer traballa. Prima di incontrare il medico italiano Andrea Dotti, che il 18 gennaio 1969 sposa, ha una fuga d’amore con Peter O’ Toole, suo partner in “Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966). Abbandonato il cinema s’impegna come ambasciatrice dell’Unicef. Incontra qui Robert Wolders, l’uomo che le sta vicino fino alla morte, avvenuta il 20 gennaio 1993.
3 maggio
PRIMO PIANO
3 maggio: Giornata mondiale per la libertà di stampa.
Il 3 maggio è il World Press Freedom Day, la venticinquesima Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, indetta dall’ONU per ricordare i giornalisti uccisi e minacciati a causa del loro lavoro. Tanti sono i giornalisti che subiscono quotidianamente minacce e intimidazioni, in Italia, secondo i dati dell’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione, nel 2018 sono già 76, mentre, secondo i dati di Reporters sans frontières (Rsf), erano almeno 29 i giornalisti e gli operatori dei media uccisi nel mondo all’inizio del 2018, prima del duplice attentato in Afghanistan, che ha appesantito il bilancio con almeno altri nove morti. Gli ultimi tragici casi sono stati quelli della reporter maltese Daphne Caruana Galizia, uccisa in un attentato nell’ottobre 2017, e del giornalista slovacco Jan Kuciak, assassinato insieme con la fidanzata Martina Kušnírová e trovato senza vita nella sua abitazione di Veľká Mača, distretto di Galanta, il 22 febbraio 2018. Emblematici e sempre attuali, poi, i casi di Ilaria Alpi, uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio insieme con il suo cineoperatore Miran Hrovatin, e di Maria Grazia Cutuli, assassinata in Afghanistan nel 2001. Celebrazioni si sono svolte in tutto il mondo in collaborazione con l’Onu: la principale ad Accra in Ghana. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in un video messaggio ha sostenuto che “una stampa libera è essenziale per la pace, la giustizia e i diritti umani di tutti ed è fondamentale per costruire società trasparenti e democratiche… e i crimini contro i giornalisti devono essere perseguiti”. Di qui la necessità di promuovere una stampa libera e indipendente e di proteggere coloro che sentono la responsabilità e il dovere di informare, raccontando verità spesso scomode, anche mettendo a repentaglio la loro vita.
DALLA STORIA
James Brown (Barnwell, 3 maggio 1933 – Atlanta, 25 dicembre 2006).
Nel 2003, durante la cerimonia di premiazione dei BET Awards, Michael Jackson ebbe l’occasione di consegnare a James Brown il prestigioso BET Lifetime Archievement Award, un riconoscimento speciale destinato alle personalità che hanno cambiato il modo di concepire la musica. Durante la consegna del premio, Jackson disse: “Chi è il genio? Un genio è colui che dà l’ispirazione, l’uomo che cambia. Non potevo rifiutarmi di consegnare questo premio stasera perché nessuno mi ha influenzato più di quest’uomo. Fin da quando ero un bambino di sei anni, lui era l’intrattenitore più grande di tutti! E lo è ancora oggi! Perciò, sono profondamente onorato di consegnare a James Brown questo prestigioso Premio, nessuno lo merita più di quest’uomo”. James Brown era veramente un genio, una delle figure più importanti ed influenti della musica del XX secolo. Oltre ad essere stato un pioniere nell’evoluzione della musica gospel e rhythm and blues, del soul, del funk, del rap e della disco music rivoluzionò i classici assetti melodici, spostando per la prima volta l’accento ritmico sulla prima e sulla terza misura della battuta, anziché, come era tipico, sulla seconda e sulla quarta. Ma quello che colpiva era la sua esplosiva presenza scenica: le sue esibizioni dal vivo provocavano uno scombussolamento del sangue, erano travolgenti. Sul palco, Brown sprigionava una prorompente energia, una forza fisica insolita che si esprimeva con spaccate spettacolari e salti ad effetto. Era un ballerino bravissimo e sorprendeva il pubblico coi suoi passi vibranti, originali, innovativi, uno dei suoi segni distintivi; maestro nel moonwalk (ereditato, in seguito, da molti artisti ed eseguito in modo magistrale da Michael Jackson) James Brown, in scena, consegnava tutto se stesso, fino all’ultima goccia del suo essere. Lo si può vedere oggi, su You Tub, nelle sue performances più famose, ma quella corrente eccitante e le trovate geniali, come quella di crollare sulle ginocchia a sottolineare l’intensità della performance, nei video, certo perdono di efficacia. Mick Jagger, lo dice sempre: “mi ha insegnato a stare sul palco”. Nel 2014 il cantante dei Rolling Stone gli ha dedicato un film “Get on Up” prodotto insieme ad altri e diretto da Tate Taylor. La pellicola ripercorre la vita dell’artista, a partire dalla povera infanzia fino alla consacrazione mondiale. Come tutte le grandi storie di artisti, James non è nato da una famiglia ricca, ma al contrario è cresciuto in una baracca nel South Carolina. La sua non è stata un’infanzia felice: lavorò fin da bambino come lustrascarpe, nei campi di cotone e raccogliendo le mance dei soldati neri di stanza in città. Dopo che la madre lo abbandonò, il padre, incapace di crescerlo, lo diede in affidamento alla zia che gestiva un bordello per il quale, il bambino non ancora decenne, fu incaricato di procurarne i clienti. Probabilmente fu in questo periodo che Brown forgiò il carattere; vide intorno a sé un mondo fatto di difficoltà e durezza e dovette imparare a cavarsela da solo, se voleva sopravvivere; doveva lottare ogni giorno e nessuno lo avrebbe fatto per lui. Cominciò ad esibirsi in qualche piccolo locale della zona, ma allo stesso tempo commetteva piccoli reati. A 16 anni fu arrestato per rapina a mano armata e fu recluso in riformatorio con una condanna da scontare di 12 anni. Fortunatamente ne fece solo tre, grazie all’intervento della famiglia di B. Byrd (per molto tempo seconda voce del futuro “Padrino del Soul”, sia sul palco che in studio) che gli fece ottenere il rilascio sulla parola a condizione che non tornasse ad Augusta o nella contea di Richmond. Fece qualche passo nello sport, in particolare nel pugilato e nel baseball, ma dovette ritirarsi dall’agonismo a causa di un incidente ad una gamba. Si dedicò allora a tempo pieno alla musica, in particolare, si appassionò al gospel, che ascoltava in chiesa fin da piccolo, allo swing, al jazz ed al rhythm & blues. Esordì alla fine degli anni Quaranta nel quartetto vocale dei Gospel Starlighters destreggiandosi anche alla batteria, all’organo e al pianoforte. Nel libro “I giorni del Rock”, di Ernesto Assante, Ed. White Star, l’evento del 24 ottobre 1962 che consacrò definitivamente Brown come un artista eccezionale, ci fa calare, con particolare suggestione, nell’atmosfera di quel momento storico per la musica e mette in evidenza la forte e carismatica personalità dell’ “Universal James”: “James Brown aveva imboccato la via verso il successo alla fine degli anni ’50, sull’onda del rock’n’roll, che aveva aperto nuove opportunità per i musicisti di colore, ma le cose non erano facili: scavalcare lo steccato, fare il crossover, uscire dal mercato della black music per entrare nell’universo del pop statunitense bianco era complicatissimo. Brown, però, sapeva di avere i numeri per farlo, sapeva che la sua miscela di r’n’b, soul e gospel aveva tutte le carte in regola per piacere al pubblico dei ragazzi, a quella gioventù che si stava mettendo in movimento e che aveva bisogno del suo ritmo. Brown sapeva come conquistare quel pubblico perché, negli anni, aveva messo a punto uno show assolutamente esplosivo, imbattibile, costruito con meticolosa attenzione, sera dopo sera, in una interminabile serie di concerti in ogni angolo d’America. Non a caso si era guadagnato l’appellativo di “The Hardest Working Man In Show Business”. Fu però il 24 ottobre del 1962 che Brown salì in scena all’Apollo Theater, nel cuore di Harlem, per cambiare le sorti della propria carriera e quella della popular music, con una performance assolutamente travolgente, che l’avrebbe spinto là dove nessun artista di colore era mai arrivato.
La fama, nel mondo del r’n’b l’aveva già raggiunta, era popolarissimo, amato e osannato dalle platee nei suoi concerti, aveva scalato le classifiche black con “Please, Please, Please”, ma questa fama non aveva trovato corrispondenza nel mercato discografico bianco, che non era ancora riuscito a conquistare davvero. Perché nessun disco riusciva, in nessun modo a catturare la forza, l’energia, il travolgente entusiasmo dei suoi spettacoli dal vivo: ma Brown decise che le cose dovevano cambiare e che lo avrebbe fatto in quella serata, registrando uno straordinario disco live. Per prepararsi aveva stressato fino all’estremo la sua band, i Famous Flames, pronti a tutto, perfettamente strutturati, in grado di non commettere nemmeno il più piccolo errore (Brown aveva istituito un rigido sistema di multe all’interno della band per “punire” eventuali sbagli decurtando la paga), che in quest’occasione non sarebbe stato assolutamente tollerato. Perché la serata era di quelle “win or lose”, senza mezzi termini, e la possibilità della sconfitta non era stata in realtà nemmeno presa in considerazione. Perché a rischiare tutto, anche economicamente, era proprio James Brown che, non essendo riuscito a convincere la casa discografica per la quale lavorava, la King Records, della bontà del suo progetto, aveva deciso di finanziare lui stesso la registrazione del disco, certo del successo dell’operazione. James Brown aveva ragione: lo show fu perfetto e l’album che venne realizzato, Live at The Apollo, pubblicato nel 1963, è ancora oggi considerato uno dei dischi più importanti della storia della musica popolare del Novecento, un album essenziale per chiunque ami la musica, il soul, il rock. Sì, il rock, perché nessuno degli artisti che di lì a poco avrebbero rivoluzionato il mondo della musica con nuove melodie elettriche non avrebbe potuto prescindere da quell’album, da quel modo si stare in scena, di coinvolgere il pubblico, di trasformare un concerto in un evento. L’album rimase in classifica la bellezza di 66 settimane consecutive, vendendo più di un milione di copie, a un pubblico che non era più quello della race music, ma quello bianco e nero che avrebbe incoronato James Brown re del r&b e del soul”.
2 maggio
PRIMO PIANO
Scuola: Episodi di bullismo e cyber-bullismo.
In questi ultimi giorni si sono moltiplicati nelle scuole gli episodi di bullismo, che hanno riguardato ragazzi più deboli presi di mira dai cosidetti bulli, ma anche professori, insultati e minacciati da alcuni studenti, che ne hanno così minato il ruolo formativo. Il caso più recente è quello delle minacce ad un professore dell’Itc di Lucca, dove un alunno, tra le le risate dei compagni di classe, intima al suo insegnante di Italiano e Storia di inginocchiarsi, mentre tutta la scena viene ripresa dagli stessi alunni, ragazzini del biennio tra i 14 e i 15 anni, e postata in rete, prima nei gruppi Whatsapp e poi su Facebook. In queso caso sono stati presi provvedimenti disciplinari, che hanno portato a tre bocciature e due sospensioni.Troppo spesso, però, la pericolosità sociale di tali atteggiamenti viene sottovalutata. Già negli scorsi mesi si erano verificati diversi gravi episodi: sempre a Lucca due mesi fa, nel Liceo Paladini, un’insegnante era stata aggredita da un suo alunno, che le aveva messo le mani al collo; lo scorso 20 marzo, in un Istituto di Firenze, un ragazzo ha preso a pugni la professoressa dopo che l’insegnante gli aveva chiesto di consegnare il cellulare; a febbraio, in un Istituto tecnico commerciale di Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, un 17enne ha sfregiato con un coltello la docente che lo sollecitava a sostenere l’interrogazione.Tali comportamenti negativi sono, poi, amplificati attraverso la Rete, dove vengono postati e visti da una platea enorme, che può approvare cliccando su “mi piace”, e dove per le modalità con cui viene fruita la rete (un accesso ogni 6 minuti nell’arco di quasi 24 ore) trascinano con sé una scia lunga giorni, mesi, anche anni. Si parla nella fattispecie di cyber-bullismo, contro cui il 17 maggio 2017 è stata approvata in via definitiva dalla Camera una legge ad hoc. Certamente tali episodi, alla ribalta della cronaca, rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno, che, in casi sempre più frequenti, mostra come oggi sia saltato nella scuola quel rapporto relazionale, fatto di stima e rispetto reciproco, tra docente e discente, che è sempre stato alla base, fin dall’antichità, dell’apprendimento. I provvedimenti disciplinari, in simili casi, sono sicuramente giusti e necessari, ma la scuola oggi deve anche interrogarsi su come si possa recuperare una relazione costruttiva tra docente e alunni e proporre un percorso educativo e formativo volto a prevenire simili situazioni e a far maturare nei ragazzi una coscienza democratica e civile.
DALLA STORIA
La Vergine delle rocce di Leonardo: un quadro “a chiave”.
(La riproduzione realizzata da Progetto Editoriale Editions)
“Il genio di Leonardo, la sua incredibile attività di ricerca e di rappresentazione sono diventati, mai come oggi, un punto di riferimento irrinunciabile che permette di intraprendere un’esplorazione appassionante e piena di sorprese fin nelle profondità del suo pensiero. Un percorso di conoscenza che ha la valenza di un viaggio senza tempo, lì dove il grande Maestro Vinciano sembra indicare frontiere nuove e inaspettate: un andare oltre quasi a voler trascendere la realtà, rendendo la percezione di ognuno incerta e coinvolta. Leonardo infinito, oltre se stesso in una proiezione fantastica del divenire lungo una strada disseminata di indizi, di sorprese, di autentiche rivelazioni.” Questa la presentazione da parte di Francesco Malvasi, editore di Progetto Editoriale, della riproduzione delle più importanti Opere di Leonardo da Vinci e di uno splendido e raffinato volume antologico, che offre la possibilità per un eccezionale percorso artistico e conoscitivo di questo poliedrico artista, scienziato e inventore del Rinascimento, figlio primogenito del notaio venticinquenne Piero da Vinci, di famiglia facoltosa, e di Caterina, una donna di estrazione sociale inferiore, frutto di una relazione illegittima fra i due, morto il 2 maggio 1549 ad Amboise, dove volle essere sepolto nella chiesa di San Fiorentino. Intensa e affascinante fu la sua indagine e la sua sperimentazione in ogni campo: dall’ingegneria all’idraulica, all’anatomia, alla geologia, agli studi sul volo, alla pittura, che per Leonardo è scienza, rappresentando «al senso con più verità e certezza le opere di natura». Leonardo utilizzò la tecnica della prospettiva aerea in alcuni suoi capolavori come la Gioconda e la Vergine delle Rocce. L’artista si rifece anche agli studi dello scienziato arabo Alhazen, secondo il quale da ogni minuscola particella di un oggetto ipoteticamente osservato si staccano “scorzettine”, cioè informazioni luminose che viaggiano nell’aria fino a raggiungere la nostra retina, dove le immagini si fissano capovolte. Tanti i capolavori leonardeschi che meriterebbero di essere ammirati e debitamente illustrati, dalla Dama con l’Ermellino, alle diverse Madonne, alla celeberrima Gioconda, al Cenacolo, oggetto di analisi e commento da parte nostra in un precedente articolo del 13 aprile 2017: oggi vogliamo soffermarci ad individuare alcuni aspetti della Vergine delle rocce, la cui riproduzione è nel Catalogo di Progetto Editoriale e la cui prima versione è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (199×122 cm), databile al 1483-1486 e conservato nel Musée du Louvre di Parigi, mentre la seconda versione è conservata alla National Gallery di Londra. La scena raffigura l’incontro tra il piccolo Gesù e Giovanni Battista, un episodio che non è narrato nei vangeli canonici, ma deriva principalmente dalla Vita di Giovanni secondo Serapione e, per certi particolari come l’ambientazione in un paesaggio roccioso, da episodi tratti dai vangeli apocrifi. La scena si svolge in un umido paesaggio roccioso, orchestrato architettonicamente, in cui dominano fiori e piante acquatiche, descritti con minuzia da botanico; da lontano si intravede un corso d’acqua. Al centro Maria allunga la mano destra a proteggere il piccolo san Giovanni in preghiera, inginocchiato e rivolto verso Gesù Bambino, che si trova più in basso, a destra, in atto di benedirlo e con il corpo in torsione. Dietro di lui si trova un angelo, con un vaporoso mantello rosso, che guarda direttamente verso lo spettatore con un lieve sorriso, coinvolgendolo nella rappresentazione, e con la mano destra indica il Battista, rinviando lo sguardo verso il punto di partenza in una moltitudine di linee di forza. La mano sinistra di Maria si protende in avanti come a proteggere il figlio. Due cavità si aprono ad arte nello sfondo, rivelando interessanti vedute di speroni rocciosi e gruppi di rocce irte, che a sinistra sfumano in lontananza per effetto della foschia, secondo la tecnica della prospettiva aerea di cui Leonardo è considerato l’iniziatore. In alto invece il cielo si fa cupo, quasi notturno, con l’incombere minaccioso della grotta, punteggiata da innumerevoli pianticelle. Già lo storico dell’arte, Carlo Pedretti, rilevava una serie di elementi inquietanti nella tavola, come la fisionomia ambigua dell’angelo, definito “un’arpia”, mentre Bramly, saggista francese, riferendosi all’inconsueta posizione della mano sinistra di Maria, la descrive come “l’artiglio di un’aquila”. Giulio Carlo Argan lo vedeva come un quadro “a chiave”, cioè carico di significati ermetici più che simbolici. Si sa per certo che nel 1483 Leonardo accettò di dipingere per la Confraternita dell’Immacolata Concezione la parte centrale di un trittico. Fu consegnata l’8 dicembre di quell’anno, ma l’artista aveva disatteso l’iconografia richiesta per contratto. L’opera fu rifiutata, acquistata da Ludovico Sforza per presunti poteri magici (proteggeva contro la peste), poi confiscata da Luigi XII. In Francia il dipinto dalla tavola su cui era stato eseguito fu trasferito su tela. Quella di Londra, forse terminata intorno al 1508, viene considerata una seconda versione di bottega, ma con interventi di Leonardo e con un’iconografia più classica. In entrambe però i quattro personaggi del dipinto, Gesù, il Battista, l’angelo, la Vergine sembrano allontanare l’oscurità, ma i loro gesti sono ambigui, particolarmente nella versione del Louvre. La mano sinistra della Vergine sembra proteggere e allo stesso tempo minacciare il Bambino Gesù; la mano destra intorno a San Giovanni appare contratta. Siedono su un prato dove compaiono l’iris, che allude alla pace, l’edera, simbolo di fedeltà, l’anemone rosso segno di tristezza e morte. Ma chi è Gesù e chi è il Battista? Chi benedice chi? E vero che Leonardo aveva aderito alla setta dei Giovanniti, che consideravano il Messia non Gesù ma Giovanni Battista? Mistero, come il disegno. Per gli storici e i critici è sicuramente di Leonardo la tela esposta a Parigi, al Louvre, quella londinese è considerata autografa soltanto parzialmente. Anche per questo da anni viene attentamente studiata, sottoposta ad accurati esami. L’ultimo mezzo usato è uno scanner a raggi infrarossi, una tecnologia con cui solitamente si cercano i carri armati sui campi di battaglia, che ha permesso di individuare lo schizzo di un disegno incompiuto che raffigura una donna inginocchiata con un braccio allungato e lo sguardo rivolto verso il basso. E forse un’adorazione di Gesù e per Luke Syson, uno degli esperti della galleria londinese, è sicuramente di Leonardo. Recentemente, nella versione del Louvre, sarebbe stato scoperto un cane con guinzaglio sotto la selva che sovrasta le figure umane, secondo quanto annunciato da Silvano Vinceti, presidente del Comitato Nazionale per la Valorizzazione dei Beni Storici, che sottolinea: “Quel cane è l’atto di accusa di Leonardo Da Vinci contro la corruzione del Papato dell’epoca”.
1 maggio
PRIMO PIANO
Festa del lavoro.
Come ogni anno, anche il 1° maggio 2018 è stato celebrato in molte parti del mondo. In Italia l’attenzione è stata focalizzata sulla sicurezza sul lavoro, perché solo nel 2017 le morti bianche sono state 1029 e nel primo trimestre del 2018 ventidue in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La manifestazione nazionale di Cgil, Cisl e Uil, a Prato, è stata, infatti, dedicata alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro con lo slogan “Sicurezza: il cuore del lavoro”. Il tema è tornato nelle dichiarazioni dei leader sindacali: Furlan: “Tredicimila morti negli ultimi dieci anni sono il tributo che abbiamo pagato e che non vogliamo pagare più. Basta, non si può e non si deve morire di lavoro.”; Barbagallo: “Morti sul lavoro come a inizio ‘900.”; Camusso: “Più investimenti su sicurezza.” I sindacati hanno scelto quest’anno una realtà complessa come Prato per la sua storia industriale, i suoi tessuti capaci di conquistare i mercati del mondo, ma anche per una estesa Chinatown, che è ancora in grande misura una sacca di lavoro nero e di sfruttamento di manodopera clandestina, e per i gravi incidenti verificatisi. A Roma, in Piazza San Silvestro il sindacato Ugl ha dato vita all’iniziativa “Lavorare per vivere” e nell’intera piazza del centro sono state installate 1029 sagome bianche per ricordare le vittime sul lavoro. La data del 1 maggio fu scelta per i gravi incidenti conosciuti come rivolta di Haymarket, avvenuti a Chicago nei primi giorni di maggio del 1886, quando fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. La protesta durò tre giorni e culminò appunto, il 4 maggio, con un massacro. In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale, riuniti a Parigi nel 1889, e fu ratificata in Italia due anni dopo. Nel 1947 la ricorrenza venne funestata in Italia, a Portella della Ginestra (Palermo), quando si suppone che la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina. Altre fonti sostengono che tale sparatoria fu organizzata dai “servizi segreti”, al fine di poter accusare e screditare agli occhi dei cittadini Salvatore Giuliano con la sua banda. Il 1º maggio 1955 papa Pio XII istituì la festa di San Giuseppe lavoratore, perché tale data potesse essere condivisa a pieno titolo anche dai lavoratori cattolici. Dal 1990 i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL, in collaborazione con il comune di Roma, organizzano un grande concerto, rivolto soprattutto ai giovani: si tiene in piazza San Giovanni, dal pomeriggio a notte, con la partecipazione di molti gruppi musicali e cantanti. Quest’anno ha visto, tra gli altri, la partecipazione di Gianna Nannini e Max Gazzè.
30 aprile
PRIMO PIANO
Elezioni regionali in Friuli: vince il candidato del centrodestra Massimiliano Fedriga.
Il candidato del centrodestra, Massimiliano Fedriga, ha vinto le elezioni regionali per la presidenza della Regione Friuli Venezia Giulia con il 57,1% dei voti. L’affluenza alle urne, rimaste aperte dalle 7 alle 23, è stata pari 49,65%. Il neo governatore, candidato del centrodestra ed esponente della Lega, già senatore, ringrazia così i suoi elettori in un post su Facebook: “Grazie alla mia gente, grazie alla mia terra. Ora al lavoro, ascoltando e costruendo.” Poi nella trasmissione “Gioco a premier” di Radiouno ha commentato così la situazione politica nazionale: “L’abbiamo detto e lo ribadiamo: con i 5 stelle è possibile ragionare sulla decina di punti sui quali ci troviamo d’accordo e su questo imbastiamo la discussione.” Sergio Bolzonello, candidato del centrosinistra, ha raggiunto il 26,8% per cento dei voti, più distaccato il candidato del M5s, Alessandro Fraleoni Margera, con l’11,07 per cento. Sergio Bolzonello ha chiamato Fedriga per complimentarsi per la sua vittoria. “Ho appena sentito Massimiliano Fedriga al telefono – ha detto il candidato del centrosinistra alla presidenza del Friuli Venezia Giulia – e mi sono complimentato per il risultato che ha ottenuto, io ora starò all’opposizione con lo spirito di chi sa di lasciare una Regione in ottima salute e che tale dovrà rimanere nei prossimi 5 anni.”
DALLA STORIA
Edouard Manet.
Edouard Manet nasceva a Parigi il 23 gennaio 1832 e, sempre a Parigi, moriva il 30 aprile 1883. Suo padre era un magistrato, capo del personale al Ministero della Giustizia. Edouard seguì studi classici e venne indirizzato alla carriera di ufficiale di marina. Respinto agli esami convinse il padre a permettergli di dedicarsi alla pittura. Dal 1850 al 1856 studiò dall’accademico Thomas Couture: nel frattempo frequentò il Louvre e viaggiò in Italia, Olanda, Germania e Austria. Nel 1859 presentò il “Bevitore d’assenzio” al Salon, che venne rifiutato. Nel 1861 la giuria del Salon accettò e lodò il “Chitarrista spagnolo”. Il 23 ottobre 1863 sposò Suzanne Leenhoff; nello stesso anno “Colazione sull’erba” venne bocciata al Salon e Manet la presentò allora al Salon des Refusés, provocando uno scandalo e feroci polemiche che si ripeterono ancora più accese e violente due anni dopo, quando il Salon espose la sua “Olympia”. Questi due dipinti, da cui si è soliti fare iniziare la pittura moderna, attirarono su di lui l’ammirazione entusiastica dei giovani, scontenti degli insegnamenti tradizionali del Salon, che si riunirono al caffè Guerbois e alla Nouvelle Athéneas. Senza averne l’intenzione Manet si trovò nella scomoda e per lui imbarazzante posizione di leader del gruppo impressionista, anche se non partecipò a nessuna delle otto mostre da loro organizzate. Negli anni seguenti continuò a preferire i quadri di figura, ritratti e scene di genere, tra cui il suo ultimo grande capolavoro, “Al bar delle Folies-Bergère, del 1881.
(“La colazione sull’erba”. 1863, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay)
Per questo celebre dipinto Manet si rifà a due opere antiche, il “Concerto campestre” di Tiziano (allora attribuita a Giorgione) e il particolare del “Giudizio di Paride”, una stampa di Marco Antonio Raimondi, tratta da un disegno di Raffello. La donna in primo piano è Victorine Meuret; accanto a lei il fratello di Manet, Gustave e, con la barba, lo scultore olandese Ferdinand Leenhoff fratello della moglie dell’artista, Suzanne, forse identificabile nella seconda donna in fondo. Rifiutato al Salon del 1863, il quadro viene esposto al Salon des Refusés voluto da Napoleone III dopo i reclami per la selezione alquanto severa operata dalla giuria del Salon ufficiale. Il clima, già teso, si fa incandescente quando i settemila visitatori che si accalcano il giorno dell’inaugurazione si trovano di fronte a quello che la critica, scandalizzata, definisce un vero e proprio oltraggio alle regole della prospettiva e della morale.
(“Olympia”. 1863, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay)
Il modello è la Venere d’Urbino di Tiziano, che Manet aveva copiato nel 1856. La donna ha i tratti di Victorine Meuret e guarda direttamente lo spettatore con un atteggiamento provocante, di sfida. Al posto delle due ancelle sullo sfondo il pittore ha messo una negra, come nella “Grande odalisca” di Ingres. Questa ha in mano un mazzo di fiori, interpretato come il dono dello spasimante, in attesa dietro la tela verde dell’anticamera. Anche la sostituzione del cagnolino, ai piedi della Venere di Tiziano, con un gatto nero, viene vista come un ulteriore simbolo erotico. Fin dal suo apparire al Salon del 1865 il quadro suscita un enorme scandalo tra i critici che, pur accettando i nudi mitologici (in verità più audaci di questo), non tollerano quella che ai loro occhi non è altro che una prostituta in attesa del cliente. Il titolo deriva dai versi di un poema di Zacharie Astruc, “La fille des îles che accompagnano il catalogo del Salon.
(“Bar alle Folies-Bergère”. 1881, olio su tela, Londra, Courtauld Institute Galleries)
Le Folies-Bergère erano inizialmente un circo, poi sono state trasformate in pista da ballo e caffè-concerto. Il locale è infine diventato uno dei più famosi teatri di varietà al mondo. La donna al centro della composizione si chiama Suzon ed è davvero una delle cameriere del bar, che accetta di posare nello studio di Manet. La sua espressione un po’ assente, forse annoiata o forse pensierosa e malinconica, contrasta con il clima di festa e di divertimento che ha reso celebre in tutto il mondo le Folies-Bergère. La natura morta davanti a lei, in particolare il bicchiere con i fiori, è una delle più belle mai eseguite in quegli anni. In primo piano spiccano le bottiglie di champagne, simbolo per eccellenza della bella vita parigina. Alle spalle della cameriera, nel grande specchio, si vede l’elegante e lussuosa sala: la donna vestita di bianco è Méry Laurent, il grande amore di Mallarmé. Accanto a lei Manet ha ritratto altri suoi amici, compagni di tante serate spensierate.
29 aprile
PRIMO PIANO
Pompei: Trovato lo scheletro di un bimbo nelle Terme centrali.
Durante un intervento di consolidamento nel complesso delle Terme centrali dell’antica città di Pompei è stato rinvenuto lo scheletro di un bambino quasi completo, mancante solo di una porzione del torace destro, della mandibola e di parte degli arti superiori ed inferiori. Lo scheletro, fa sapere una nota del Parco Archeologico, è emerso durante la pulizia di un ambiente di ingresso: sotto uno strato di circa 10 centimetri sono affiorati prima il piccolo cranio e poi le ossa, che hanno permesso di formulare le prime ipotesi circa l’età del fanciullo, che, in fuga dall’eruzione, aveva trovato ricovero nelle Terme Centrali. Incrociando la misura della lunghezza delle ossa con i dati dello sviluppo dentario sarà possibile determinare con maggiore precisione l’età del bambino, al momento stabilita tra i 7 e gli 8 anni. Non sarà possibile, almeno in questa fase, stabilire il sesso del piccolo, in quanto i caratteri di dimorfismo tipicamente maschili o femminili non son ancora definiti in età infantile. Tali determinazioni saranno possibili solo in una seconda fase di analisi sul Dna, qualora si presenti in un buono stato di conservazione. Il ritrovamento è straordinario sia per la inaspettata scoperta nel corso di un intervento in un complesso già scavato nell’800, sia per la posizione del corpo, immerso nel flusso piroclastico (mix di gas e materiale vulcanico). Normalmente nella stratigrafia dell’eruzione del 79 d.C. è presente nel livello più basso il lapillo e poi la cenere che sigilla tutto, in questo caso il lapillo non è riuscito ad entrare né a provocare il crollo dei tetti, mentre è penetrato direttamente il flusso piroclastico dalle finestre, nella fase finale dell’eruzione. Lo scheletro è stato rimosso e trasferito al Laboratorio di ricerche applicate del Parco Archeologico. Il direttore Massimo Osanna, felice per la scoperta, ha spiegato: “Un team di professionisti specializzati quali archeologi, architetti, restauratori ma anche ingegneri, geotecnici, archeobotanici, antropologi, vulcanologi lavora stabilmente, fianco a fianco e con il supporto di risorse tecnologiche all’avanguardia, per non lasciare al caso nessun elemento scientifico, e dunque ricostruire nella maniera più accurata possibile un nuovo pezzo di storia che, attraverso gli scavi, ci viene restituito.”
28 aprile
PRIMO PIANO
È morto il piccolo Alfie.
Alfie si è spento la scorsa notte all’ospedale Alder Hey di Liverpool, dove era ricoverato. Il piccolo, contro tutte le attese, ha resistito da “guerriero”, come ha detto papà Tom, respirando da solo per quattro giorni. La vicenda del bimbo britannico di 23 mesi affetto da una patologia neurodegenerativa, non ancora individuata con certezza, negli ultimi giorni era stata al centro di un caso diplomatico, che ha visto coinvolti l’Italia e la Città del Vaticano da una parte e la magistratura dell’Inghilterra dall’altra. È stata una durissima battaglia legale, durata quasi sei mesi, che ha visto contrapposti i medici, convinti che lo stop ai supporti vitali fosse nell’interesse del piccolo, e i genitori determinati a impedirlo, senza spuntarla. E non sono serviti neppure gli appelli del Papa e la concessione della cittadinanza italiana per motivi umanitari, decisa il 23 aprile, data la disponibilità del Bambino Gesù di Roma e del Gaslini di Genova di continuare a dare assistenza al piccolo su richiesta del papà e della mamma. La sera dello stesso 23 aprile – in esecuzione di quanto stabilito dalla giustizia britannica e a dispetto delle proteste degli Evans e di un esercito di sostenitori (denominato Alfi’s Army) radunato di fronte all’ospedale di Liverpool, ma soprattutto online – i medici hanno infine staccato la ventilazione assistita. Dopo una giornata trascorsa apparentemente senza novità, con i genitori, Tom e Kate, ormai rassegnati alla fine delle speranze di un trasferimento in Italia e impegnati a dialogare con i medici dell’ospedale sulla possibilità di riportarlo a casa, è avvenuta la crisi fatale per il bambino. I medici dell’ospedale, in un messaggio di cordoglio per la morte del piccolo indirizzato ai genitori, dopo mesi di scontri legali, definiscono la vicenda di Alfie “un viaggio devastante” per loro. Mariella Enoc, presidente dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che aveva dato la disponibilità ad accoglierlo, dalla Siria, dove si trova con i medici del Bambino Gesù, per la formazione di una nuova generazione di medici siriani, ha detto: “In questo momento provo un grande dolore per la morte di questo bambino, che è stato tanto amato da due giovani genitori coraggiosi, che sono contenta di aver conosciuto. Dobbiamo continuare a lavorare tutti insieme e a investire sulla ricerca scientifica, perché si possa dare una possibilità a questi bambini e una risposta a queste famiglie. Dobbiamo però anche iniziare una vera riflessione comune, a livello internazionale. Dobbiamo mettere insieme scienziati, clinici, pazienti, famiglie e istituzioni, perché non si ripetano più questi scontri e queste battaglie ideologiche, ma si possano trovare percorsi condivisi che sappiano integrare la dimensione scientifica e quella umana.”
27 aprile
PRIMO PIANO
Incontro storico fra i leader delle due Coree: “La guerra è finita.”
La storica stretta di mano tra Kim Jong-un e Moon Jae-in si è svolta alle 9:30 (le 2:30 in Italia) sulla linea di demarcazione del villaggio di Panmunjom: Kim ha raggiunto il confine avendo a fianco i suoi collaboratori e indossando il tradizionale abito scuro in stile Mao, Moon lo ha atteso sorridente sul cordolo di cemento che segna il confine. Kim, primo leader della famiglia al potere da circa 70 anni a calpestare il territorio sudcoreano, a sorpresa ha sollecitato Moon a riattraversare il confine, cosa fatta tenendosi per mano e immortalata dai flash dei fotografi. Moon Jae-in e Kim Jong-un hanno convenuto sull’impegno di completare la denuclearizzazione della penisola coreana, concordando anche di ridurre gli arsenali convenzionali a sostegno degli sforzi per ridurre le tensioni militari e rafforzare la pace nella penisola. “La guerra è finita” è stato l’annuncio dato nella dichiarazione congiunta del presidente sud-coreano Moon Jae-in e del leader nord-coreano Kim Jong-un al termine del summit che si è svolto alla Peace House di Panmunjom. Al termine del vertice intercoreano Kim Jong-un ha detto: “Non ripeteremo gli errori del passato … Siamo una stessa famiglia e dobbiamo garantire un futuro di pace alle nostre popolazioni.” Nella dichiarazione redatta dai due leader si esprime anche l’impegno a completare la denuclearizzazione della penisola coreana, a ridurre gli arsenali convenzionali e a organizzare una riunione delle famiglie divise nei due versanti della Corea. I due paesi si sono impegnati a trasformare entro il 2018 l’armistizio siglato nel 1953 in un vero e proprio trattato di pace e il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha detto che in autunno si recherà in visita a Pyongyang. Moon e Kim hanno anche piantato un pino a sud del confine di Panmunjom, simbolo dei migliori auspici per la penisola, scoprendo una roccia su cui sono scolpiti i nomi dei leader e la frase “qui piantiamo pace e prosperità”. Alla base dell’albero, germogliato nel 1953, i due leader hanno sistemato il terreno del monte Halla nell’isola di Jeju e del monte Paektu, i punti più a sud e più a nord della penisola. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “plaude” allo storico summit e, in una nota del portavoce, “saluta il coraggio e la leadership che hanno che hanno portato a impegni e azioni concordate nella Dichiarazione di Panmunjom per la pace, la prosperità e l’unificazione della penisola. E conta sulle parti perché attuino rapidamente tutte le azioni concordate per la riconciliazione inter-coreana, un dialogo sincero, progressi per una pace sostenibile e denuclearizzazione della penisola”.
DALLA STORIA
Antonio Gramsci: “un monumento del pensiero”.
“Quel cervello, diceva il Duce, non deve pensare, va spento”. La notte dell’8 aprile 1926, a Roma, veniva arrestato, per ordine di Mussolini, Antonio Gramsci fondatore e segretario del Partito Comunista Italiano. Iniziava così il lungo calvario dell’esponente comunista tra confino e carcere, condannato, in quest’ultimo, a 20 anni; infine, logorato dalla detenzione e dall’assenza di cure, malato, rilasciato solo in seguito ad un’amnistia, quando ormai era troppo tardi, moriva, colpito da un’emorragia cerebrale, nella clinica Quisisana di Roma, il 27 aprile del 1937, all’età di 46 anni. Ma cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’unanime riconoscimento del valore dei suoi scritti e di essere stato uno dei massimi studiosi del Novecento italiano, senza che vi sia più distinzione tra chi si riconosce nelle sue posizioni e chi ne è avversario. L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale; il coraggio di rivendicare ad oltranza, senza flettere, malgrado le sofferenze e l’isolamento, i suoi principi; la coerenza, il rigore morale e la forte resistenza alla persecuzione politica. La sua opera è un’impresa ancor più importante, considerando che la realizzò nella solitudine del carcere fascista e, come testimonia un saggio importante dello storico Mauro Canali dal titolo “Il tradimento: Gramsci, Togliatti e la verità negata”, edito da Marsilio, abbandonato e osteggiato tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista. Nel “Tempo e la Storia”, una rubrica di RAI Storia, nella puntata dedicata ad Antonio Gramsci, il professor Canali racconta e commenta i punti fondamentali della vita, dell’impegno intellettuale e politico del leader sardo: il 1919, la fondazione del giornale “Ordine Nuovo” che, nel 1924 diventerà l’Unità; il 1926, l’arresto; il 1937 l’amnistia che lo farà uscire, appunto, pochi giorni prima della morte. Gramsci, da intellettuale militante, diventa tra i fautori della scissione dal Partito Socialista; è un capo politico, invitato anche in Russia alla Terza Internazionale e un uomo che riflette sulla Rivoluzione Russa, ma anche sulle peculiarità italiane del modello “comunista”, a costo anche di scontri vivaci con altri esponenti del partito, come Togliatti. Il dibattito viene però bruscamente interrotto dall’arresto da parte della polizia fascista. Invano, per lui, si muove persino Stalin che arriva a proporre a Mussolini la sua libertà in cambio di quella di alcuni sacerdoti trattenuti in Russia. In carcere continua a interrogarsi sul futuro del Comunismo e giudica negativamente il nuovo corso dell’Internazionale che annovera ora, tra i nemici, anche i socialisti e i socialdemocratici. Una riflessione che trova spazio nelle sue Lettere e, soprattutto, nei Quaderni, che comincia a scrivere nel 1929.
Canali parla in trasmissione dei dati emersi, documentati da una ricerca capillare e puntigliosa basata su ricerche d’archivio, condotta per anni dallo studioso e ben circostanziata nell’analisi storiografica del suo libro, dei rapporti ormai deteriorati tra Togliatti e Gramsci, ancor prima dell’arresto di quest’ultimo nel novembre del ’26. “A quell’epoca, sullo sfondo c’era lo scontro all’interno del gruppo bolscevico dopo la morte di Lenin: Stalin e Bucharin, da una parte, Trockij, Zinoviev e Kamenev, dall’altra. Gramsci aveva inviato a Togliatti, rappresentante del Pcd’I nella III internazionale, un documento per i dirigenti sovietici nel quale lasciava trapelare il suo dissenso per il comportamento della maggioranza staliniana del Comitato Centrale del Pcus nei confronti dell’opposizione e auspicava un riavvicinamento ideologico con personalità che godevano di prestigio mondiale e andavano annoverate fra i “nostri maestri”. Lo storico, professor Francesco Perfetti, da il Giornale.it, così riassume il libro di Canali: “Togliatti, già folgorato dalla stella di Stalin, non consegnò il documento ritenendolo inopportuno ed ebbe con Gramsci un duro scambio di lettere. Fu il primo tradimento nei confronti di Gramsci. Non fu, però, il solo. Subentrato a Gramsci nella guida del Pcd’I, Togliatti fece imboccare al partito la strada della subordinazione allo stalinismo e di un sostanziale disinteresse per la sorte del leader comunista, il quale cominciò a nutrire dubbi e sospetti su di lui. Nel febbraio del 1928, a istruttoria ancora aperta, Gramsci, detenuto a San Vittore in attesa di giudizio, ricevette da Ruggero Grieco, collaboratore di Gramsci a “Ordine Nuovo” e anch’egli tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, una lettera che lasciava intendere come egli fosse il capo del partito e avvalorava di fatto le accuse. Il giudice istruttore la commentò così: “onorevole, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”. Quella lettera non fu un gesto di leggerezza o di stupidità, ma, per usare le parole di Gramsci, un “atto scellerato”, dietro il quale si poteva supporre una subdola mano ispiratrice. Che fosse quella di Togliatti, Gramsci lo sospettò subito e lo fece notare alla cognata Tatiana sostenendo che la lettera non era “tutta farina del sacco di Grieco”. Anni dopo, egli avrebbe ribadito all’economista Piero Sraffa i suoi sospetti sulla responsabilità di Togliatti sia nella vicenda della lettera che aveva aggravato la sua situazione processuale sia nel boicottaggio alle trattative per la sua liberazione avviate dal governo sovietico con l’intermediazione di padre Tacchi Venturi. Poi giunsero la “svolta” del 1930 decisa da Togliatti, Longo e Secchia in ossequio alle direttive della III Internazionale, l’espulsione di Bordiga, Tresso, Leonetti e Ravazzoli dal partito e la campagna contro il “socialfascismo”. Dal carcere Gramsci lanciò la proposta di una Costituente antifascista per una mobilitazione congiunta di comunisti e socialisti. Le strade di Togliatti e di Gramsci erano ormai divaricate. Del resto poco aveva fatto il partito per il detenuto se non mandargli qualche finanziamento che la cognata Tatiana otteneva tramite un misterioso personaggio che Canali ha identificato in Riccardo Lombardi, il futuro esponente del Partito d’Azione e, poi, nell’Italia repubblicana, del Psi. Il dissenso di Gramsci nei confronti del partito trovò riscontro nel suo isolamento. I compagni incarcerati lo evitavano e lo guardavano con ostilità. Su questo punto c’è una testimonianza di Sandro Pertini che ricordò un episodio avvenuto in una fredda giornata invernale quando, dopo una nevicata, i carcerati si misero a tirare palle di neve. Racconta Pertini: “una palla s’infranse sul muro al quale Gramsci si appoggiava, e ne uscì fuori un sasso. Io gli ero accanto e lo udii dire: “Avevano messo un sasso nella palla di neve per colpire me”. È un episodio più che eloquente sull’isolamento di Gramsci”. Eppure, gli studiosi comunisti continuarono a ribadire, nel dopoguerra, l’esistenza di un rapporto organico fra Gramsci e il partito, fino al punto da sostenere che egli inoltrò la domanda di libertà condizionale seguendo le direttive dei vertici del partito. Canali dimostra, carte alla mano, che le cose andarono diversamente: non fu Gramsci a “rispettare le norme indicate dal partito”, ma, fu, viceversa, “il partito a rincorrere l’iniziativa di Gramsci, per non farsi trovare spiazzato” da una decisione “presa in assoluta autonomia”. C’era una logica nella negazione della verità. Era necessario occultare e rimuovere l’eterodossia di Gramsci per poter affermare, nell’Italia postfascista, l’esistenza di una linea di continuità Gramsci-Togliatti che consolidasse la rappresentazione mitica e unitaria della storia del Pci. Il regista di questa operazione fu lo stesso Togliatti che fece un uso strumentale, certo funzionale ai suoi disegni politici, degli scritti gramsciani, I Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, gestendone la pubblicazione destrutturata e mutilata. Fu, in sostanza, come dimostra il libro di Canali, proprio Palmiro Togliatti, scaltro e intelligente, a operare il “tradimento” di Antonio Gramsci e del suo pensiero”.
(Foto segnaletica di Gramsci del 1933)
Mary Titton
26 aprile
PRIMO PIANO
Cernobyl 32 anni dopo.
Sono passati 32 anni da quando, il 26 aprile 1986, il reattore numero quattro della centrale di Chernobyl, circa 100 km a nord della capitale Kiev, esplose durante un fallito test di sicurezza e bruciò per 10 giorni, rilasciando nell’atmosfera elementi radioattivi (circa il 50% di iodio e il 30% di cesio, con radioattività tra i 50 e i 250 milioni di Curie), che contaminarono tre quarti d’Europa. Le autorità – all’epoca l’Ucraina era una delle repubbliche sovietiche federate sotto il controllo di Mosca – cercarono di nascondere l’incidente. La Svezia fu la prima a lanciare l’allarme dopo che gli scienziati rilevarono, il 28 aprile, un picco dei livelli di radiazione. Quasi 350.000 persone che vivevano in un raggio di 30 chilometri dall’impianto furono evacuate. Circa 600.000 cittadini sovietici che divennero noti come “liquidatori” – per lo più lavoratori di emergenza e impiegati statali – furono inviati, con poca o nessuna attrezzatura protettiva, a ripulire e costruire un sarcofago in cemento sopra il reattore danneggiato. Il numero di morti direttamente causati dall’incidente è ancora oggetto di dibattito, con stime che variano da circa 30 a 10.000. Nel novembre 2016 è stata eretta sui resti del reattore una seconda massiccia cupola metallica, che, secondo le stime ufficiali, ha fatto scendere i livelli di radiazioni del 90% in un anno. Al contrario di quello che si pensa, la Zona non è completamente disabitata, sebbene la vita presente sembra essersi fermata ai tempi dell’Unione Sovietica. Nella città di Chernobyl, che dista tredici chilometri dalla centrale “Vladimir Lenin”, abitano oggi circa duemila persone, tutti addetti che lavorano all’interno della Zona: guardiani, poliziotti, pompieri, medici, guardie forestali e tecnici che tengono sott’occhio il nuovo sarcofago. Ognuno vi è ammesso a turno e per periodi di tempo prestabiliti, variabili da un giorno a tre settimane, a seconda del tipo di lavoro effettuato. La durata dei turni, inoltre, è strettamente correlata allo stato di salute della persona, che viene monitorata quotidianamente e in maniera precisa da medici specializzati e dosimetristi. Abitano tutti nel centro deserto della città e tornano regolarmente nelle rispettive case e famiglie, fuori dalla Zona, a Slavutych e dintorni, per liberarsi non solo dalle eventuali radiazioni, ma anche da quel clima depresso e nostalgico che avvolge la città. A più di trent’anni dalla catastrofe nucleare che l’ha resa famosa, la Zona di esclusione di Chernobyl è oggi meta di un turismo estremo, che non raggiunge ancora quello di massa. Una destinazione insolita, per non dire pericolosa, considerando la radioattività che continua ad avvolgere la Zona. Guide ed esperti dicono che la Zona di esclusione potrà ripopolarsi e tornare “sana” non prima del 2080, eppure la vita in queste città-fantasma continua.
DALLA STORIA
26 aprile 1937: il bombardamento di Guernica.
(Un’immagine di Guernica rasa al suolo dai tedeschi)
Guernica è una cittadina basca che la sera del 26 aprile del 1937 subì un bombardamento aereo ad opera dell’aviazione militare tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente come esperimento. Il bombardamento di Guernica fu un’incursione aerea compiuta dalla Legione Condor con il supporto dell’Aviazione Legionaria, che devastò la città, anche se miracolosamente l’Assemblea Basca e il Gernikako Arbola sopravvissero. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale Franco, che aveva come alleati gli italiani e i tedeschi, cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi al legittimo governo. La cittadina di Guernica non era teatro di azioni belliche, ma la furia distruttrice del primo bombardamento aereo della storia si abbatté sulla popolazione civile uccidendo soprattutto donne e bambini. Il bombardamento fu effettuato nel pomeriggio, a mercato chiuso: alle 16.30 nel cielo della cittadina, simbolo del nazionalismo basco, appare il primo aereo tedesco, quello del “barone nero” Rudolf von Moreau, “eroe” della Legione Condor, inviata da Adolf Hitler in Spagna agli ordini del generale Wolfgang von Richtofen per aiutare il futuro dittatore Francisco Franco a soffocare nel sangue la Repubblica. Il suo Heinkel 51 fa un primo passaggio a bassa quota, poi torna e sgancia le prime tre bombe. Subito dopo inizia la strage. A ondate di 15-20 si scagliano su Guernica gli aerei tedeschi, supportati dagli italiani della Aviazione Legionaria di Benito Mussolini, facendo piovere centinaia di bombe sugli abitanti terrorizzati. Il bombardamento a tappeto dura tre interminabili ore. Gli Heinkel 51, gli Junker 52, i Dornier 17, i Messerschmidt 109 tedeschi, con il supporto dei Fiat CR32 italiani, sganciano 31 tonnellate di bombe. Franchisti, nazisti e fascisti sostennero poi di avere voluto colpire obiettivi strategici, il ponte di Erreteria e una fabbrica di armi, che però non furono nemmeno toccati. Secondo una delle versioni dell’evento tramandate, il mercato sarebbe stato uno dei luoghi più devastati e sanguinosi. Quel giorno il mercato era stato sospeso, come misura prudenziale proprio per la vicinanza del fronte alla cittadina, che era comunque affollata da civili (soprattutto donne e bambini, mentre gli uomini abili al servizio militare erano al fronte). Si trattò di un’azione di guerra, che portò, probabilmente volutamente, anche ad un attacco “terroristico” contro la popolazione civile. È ormai storicamente accertato che la distruzione della città fu causata dal bombardamento nazista, mentre la tesi riportata dai franchisti, di essere stata provocata da miliziani anarchici in ritirata, è stata abbandonata negli anni settanta. Le autorità della Repubblica Federale tedesca hanno riconosciuto ufficialmente, dopo la Seconda guerra mondiale, la responsabilità della tedesca Luftwaffe nella distruzione tramite bombardamento aereo della cittadina basca. Quando la notizia di un tale efferato crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso era impegnato alla realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decise così di realizzare un pannello che denunciasse le atrocità del bombardamento su Guernica.
(“Guernica” di Pablo Picasso posizionata nel Padiglione Spagnolo dell’Esposizione)
L’opera di notevoli dimensioni (metri 3,5×8) fu compiuta in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato. L’ordine con cui deve essere letta l’opera d’arte è da destra a sinistra, poiché il lato destro era vicino all’entrata del luogo per cui è stata progettata, cioè il padiglione della Repubblica Spagnola all’Esposizione Universale di Parigi. Il quadro è un dipinto di protesta contro la violenza, la distruzione e la guerra in generale. La presenza della madre con il neonato in braccio, di un toro, simbolo dell’irrompere della brutalità, e di un cavallo, che somiglia a un asino, simbolo del sacrificio nella corrida, ricorda la composizione del presepe natalizio, che risulta però sconvolto dal bombardamento. La lampada a olio in mano ad una donna, posta al centro dell’opera, indica l’involuzione tecnologica e sociale che ogni guerra, insieme alla distruzione, porta con sé; la colomba a sinistra, richiamo alla pace, ha un moto di strazio prima di cadere a terra; il cavallo simboleggia la follia della guerra, mentre il toro rappresenta la Spagna. La violenza, lo stupore, l’angoscia e la sofferenza sono deducibili esplicitamente guardando, sulla sinistra dell’opera, la madre che grida al cielo disperata, con in grembo il figlio ormai senza vita;
le fa da contraltare l’altra figura apparentemente femminile a destra, che alza disperata le braccia al cielo. In basso nel dipinto c’è un cadavere che ha uno stigma sulla mano sinistra come simbolo di innocenza, in contrasto con la crudeltà nazi-fascista, e stringe nella mano destra una spada spezzata, da cui sorge un pallido fiore, quasi a dare speranza per un futuro migliore. La gamma dei colori è limitata: vengono utilizzati esclusivamente toni grigi, neri e bianchi, così da rappresentare l’assenza di vita e l’alta drammaticità dell’evento. Il senso drammatico nasce dalla deformazione dei corpi, dalle linee che si tagliano vicendevolmente, dalle lingue aguzze che fanno pensare ad urli disperati e laceranti, dall’alternarsi di campi bianchi, grigi, neri, che accentuano la dinamica delle forme contorte e sottolineano l’assenza di vita a Guernica. Questo quadro doveva rappresentare una sorta di manifesto che esponesse al mondo la crudeltà e l’ingiustizia delle guerre. I colori sono il bianco e nero perché, secondo Picasso, la guerra è sofferenza, ma nell’opera, se guardiamo bene, c’è una lampadina che simboleggia la speranza. Il dipinto venne ospitato per molti anni al Museum of Modern Art di New York e tornò in patria nel 1982 a nove anni dalla morte dell’autore e a sei da quella di Francisco Franco, passando prima per il Casón del Buen Retiro, poi per il Prado, infine per il museo Reina Sofia dal 1992. Durante gli anni ’70 fu un simbolo per gli spagnoli sia della fine del regime franchista che del nazionalismo, così come lo era stato prima, per tutta l’Europa, della resistenza al nazionalsocialismo.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Il 26 aprile 1798 nasceva in Francia Eugène Delacroix, considerato il maggiore pittore romantico francese, a tal punto da guadagnarsi l’appellativo di “Principe dei Romantici”. Artista prolifico, dal carattere appassionato, considerò l’arte pittorica come una missione alla quale dedicò tutta la vita: “Una passione immensa, raddoppiata da una volontà formidabile”, come dirà di lui Charles Baudelaire. Formatosi sui precetti neoclassici avrebbe poi abdicato dalla sua formazione accademica e intrapreso entusiasticamente quella da autodidatta, scandalizzando gli intenditori preferendo i veneti e Rubens, quest’ultimo, per lo stile sfarzoso e ricco di colori. Questo giovane dagli occhi e dai capelli neri, anticonvenzionale, aveva già fatto discutere tutta Parigi con la presentazione del suo dipinto “La libertà che guida il popolo”.
(Eugène Delacroix, “La libertà che guida il popolo”, olio su tela, 1830. Museo del Louvre)
Del Romanticismo, insomma, Delacroix incarnò la passione per l’esotismo, lo slancio creativo, la forte fascinazione per le “sublimi forze” della natura e le loro manifestazioni spesso violente, la rivalutazione del Medioevo (rivissuto attraverso gli scritti di Lord Byron e di Walter Scott) e l’insofferenza agli schematismi accademici, da lui ritenuti inadeguati e mortificanti. All’età di trentaquattro anni intraprese un viaggio per visitare quello che chiamava “L’Oriente mediterraneo” che sognava da anni. Quel favoloso Oriente, che tante volte aveva immaginato, si rivelava ora ai suoi occhi come un mondo di incanti. “Il pittoresco qui abbonda” raccontava, “è un luogo fatto per pittori … La bellezza è dappertutto, non la bellezza raffigurata nei quadri alla moda, ma qualcosa di più semplice e primordiale”. Soprattutto la luce lo impressionava, nitida e chiara a cui non era abituato, una luce che rivelava la natura dura e aspra del paesaggio del deserto, dove “perfino l’ombra prende dei riflessi turchesi”. Disegnerà tutto quello che vede e consegnerà, giorno per giorno, le sue impressioni, descrivendo i paesaggi, le strade sassose, l’abbigliamento degli uomini e delle donne, l’architettura delle case: “Come potrò rendere”, scriveva “questa strana sinfonia di profumi, questi sentori d’ambra, di chiodi di garofano e di spezie, queste fragranze che si sovrappongono”. Il viaggio durerà cinque mesi e proprio in quei taccuini troverà, da lì in poi, la fonte d’ispirazione per la sua arte. Il quadro “Fantasia araba” mostra uno dei frutti del suo viaggio.
(Eugène Delacroix, “Fantasia araba”, olio su tela, 1833. Musée Fabre, Montpellier)
“Ogni particolare del quadro è una negazione di tutto ciò che avevano predicato pittori classici come Davide e Ingres. Non c’è traccia, in esso, di contorni nitidi, i nudi non sono modellati in toni accuratamente graduati di chiaroscuro, non ci sono preoccupazioni di equilibrio o di moderazione, e il soggetto non è né patriottico né edificante. Delacroix vuole soltanto farci partecipare a uno stato d’animo concitato e teso, a farci sentire con lui il piacere di quel dinamismo e di quella drammaticità, dalla cavalleria araba che avanza al bel purosangue che si impenna in primo piano”. (E. H. Gombrich). Delacroix morirà a Parigi il 13 agosto 1863.
25 aprile
PRIMO PIANO
25 aprile 2018: Celebrazioni per la Festa della Liberazione.
Le celebrazioni per il 73mo anniversario della Festa della Liberazione si sono aperte all’Altare della Patria con il Presidente della Repubblica Mattarella e le più alte cariche dello Stato, tra cui i due neo presidenti delle Camere, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, e il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Mattarella si è poi spostato in Abruzzo, dove ha reso omaggio alla Brigata Maiella, formazione partigiana che qui si è costituita il 5 dicembre 1943, e che, unica nel suo genere, è stata insignita della medaglia d’oro al Valor militare. Il Presidente ha detto che “La nostra Costituzione, sigillo di libertà e democrazia, si collega al grande moto di rinnovamento espresso dalla Resistenza, che che ha mosso i primi passi in Abruzzo”, aggiungendo anche che “… La Patria, che rinasceva dalle ceneri della guerra, si ricollegava direttamente al Risorgimento, ai suoi ideali di libertà, umanità, civiltà e fratellanza. Non fu, dunque, per caso, che gli uomini della brigata Maiella scelsero per se stessi la denominazione di patrioti. La stessa dei giovani che andavano a morire in nome dell’Unità d’Italia.” In Abruzzo, infatti, come ha ricordato Mattarella, avvennero, tra il 1943 e il 1944, alcuni dei combattimenti più drammatici e sanguinosi della guerra per liberare l’Italia dal nazifascismo, tanto che Ortona venne soprannominata “la Stalingrado d’Italia”. In tutto il Paese si sono svolte in questa giornata manifestazioni per celebrare la liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista: a Roma l’Anpi ha organizzato, assieme ad altre associazioni, un corteo unitario per le vie della Capitale, ma la Comunità ebraica ha scelto di non prendere parte alla manifestazione, a causa della presenza della Comunità Palestinese di Roma con kefiah e bandiere, e si è riunita in una zona diversa da quella scelta dai partigiani. Cerimonie di commemorazione anche alle alle Fosse Ardeatine e in via Tasso.
24 aprile
PRIMO PIANO
Ancora bombe e sangue in Siria.
A Damasco continuano i raid sul campo profughi palestinese di Yarmu, dove le forze governative stanno cercado di sconfiggere i ribelli filo-Isis, che da tre anni vi si sono asserragliati. Per questo, nemmeno la presenza di migliaia di civili intrappolati ha fermato l’assedio attraverso il quale Assad sta cercando di smantellare il controllo dell’area da parte dei miliziani jihadisti e qaedisti. Nelle immagini è ben visibile il fumo denso che sale dalle case del quartiere, mentre le forze governative sono impegnate a bombardare l’area con attacchi aerei e colpi di artiglieria. Dopo vari tentativi, il regime è riuscito ad aprire un varco nel lato meridionale del campo tra Hajar al-Aswad, roccaforte jihadista confinante con Yarmuk, e il sobborgo di Babila, controllato da miliziani anti-governativi non jihadisti. È stata la rete televisiva Al-Manar, che fa capo agli Hezbollah libanesi, a documentare l’avanzata delle forze governative, che ora si stanno schierando nei sobborghi meridionali della capitale per tagliare i rifornimenti e intrappolare i miliziani del sedicente Stato Islamico, che occupano ancora diverse aree nella zona. L’obiettivo di Bashar al-Assad è quello di costringere gli estremisti ad arrendersi o ad evacuare i distretti occupati. Intanto a Bruxelles è in corso la seconda Conferenza internazionale sulla Siria promossa per il 24 e 25 aprile dall’Unione Euopea: durante la prima giornata della conferenza sul futuro del Paese, Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, ha affermato: “La Siria non è una scacchiera, non è un gioco geopolitico, la Siria appartiene ai cittadini siriani, sono i siriani che devono decidere da soli il futuro del Paese.” Ha aggiunto, poi, che l’approccio comune di Ue e Onu è “la ricerca di una soluzione pacifica, il ruolo della diplomazia, il dialogo e il rispetto per gli esseri umani.”
DALLA STORIA
Il Genocidio Armeno.
Antonia Arslan, nel 1999, scriveva: “L’armenità è come una traccia esile di flauto, che l’orecchio appena percepisce ai confini dell’udito; come due profondi orientali occhi neri sotto sopracciglia foltissime, intravisti in filigrana dietro i paesaggi consueti. È il tan estivo, la bevanda di yoghurt acqua e sale che disseta come nessun’altra, e che solo da noi si beveva; sono i dolci di miele e d’ambrosia, sono i berek di sfoglia squisita ripieni di tutto. L’armenità è sapere che in ogni dove c’è uno simile a te, che ha una simile storia alle spalle; che due s’incontrano in un qualsiasi caffè del vasto mondo, scoprono che il loro nome termina in “ian”, incominciano diffidenti a parlare e si scoprono presto cugini. E si raccontano, e ciascuno prende piacere della storia dell’altro, e la riconosce. L’armenità è sentire in se stessi l’eco e il ricordo delle vaste pianure d’Anatolia e dei morti che ancora le abitano, e là hanno lasciato le flebili voci del loro rimpianto. Dopo i massacri del 1894-96 e del 1909, è l’estate del 1915 a segnare il destino degli Armeni, come popolo-vittima del primo genocidio del Ventesimo secolo, tragico emblema che, non riconosciuto, permetterà il reiterarsi del male, in mille orride forme, lungo tutto il corso del secolo scorso che si avvia alla conclusione. Parlare degli Armeni, oggi, è necessario non solo per loro. Un trauma implacabile lega carnefici e vittime: e finché il governo turco non riconoscerà che laggiù, in quei lontani anni, un governo poi defenestrato, quello dei Giovani Turchi, ha compito un’efferata pulizia etnica, non può entrare a fronte alta nel consesso delle nazioni europee. Questo va detto, e riaffermato con forza: la Turchia è un grande Paese, non gliene può venire che un bene dal compiere, come ha fatto la Germania, un gesto di sincero pentimento. Saper “chiedere scusa” è un atto da forti”. Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana con origini armene, con queste immagini sul filo del ricordo e della nostalgia ha voluto dare voce alla sua identità armena. Professoressa di Letteraura italiana moderna e contemporanea ha curando testi sul genocidio armeno e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia, ha, inoltre, tradotto le raccolte: “Il canto del pane” e “Mari di grano” del grande poeta armeno Daniel Varujan, tra le prime vittime del genocidio. Tra le testimonianze raccapriccianti dei sopravvissuti c’è anche la testimonianza di Ruben Sevak (anche lui ucciso due giorni dopo) e altri tre testimoni oculari che hanno descritto la tortura e la morte di Varoujan. “Dopo essere stato arrestato e incarcerato, fu comunicato che stava per essere portato in un villaggio. Lungo la strada, un funzionario turco e il suo assistente, accompagnati da cinque “poliziotti” armati, fermarono il convoglio. Dapprima trascinarono via due prigionieri, conducendo gli altri nudi attraverso i boschi circostanti. Poi li legarono uno ad uno ad uno agli alberi e cominciarono a scorticarli vivi con i coltelli. Le loro urla venivano udite da testimoni nascosti anche a svariati chilometri”. La notte del 24 aprile 1915 iniziava l’orrendo e sistematico sterminio del popolo armeno nei territori dell’Impero ottomano.
I primi arresti vennero eseguiti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò l’indomani e nei giorni seguenti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al parlamento furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Friedrich Bronsart von Schellendorf, tedesco e Maggiore Generale dell’Impero Ottomano nell’ottica degli stretti rapporti che questi ultimi avevano con l’Impero Prussiano, viene dipinto come “l’iniziatore del regime delle deportazioni armene”. Arresti e deportazioni furono compiuti in massima parte dai “Giovani Turchi”. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.200.000 persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimeto. Queste marce furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in collegamento con l’esercito turco, secondo le alleanze ancora valide tra Germania e Impero Ottomano (e oggi con la Turchia) e si possono considerare come “prova generale” ante litteram delle più note marce della morte perpetrate dai nazisti ai danni dei deportati nei propri lager durante la Seconda guerra mondiale. Altre centinaia di migliaia furono massacrate dalla milizia curda e dall’esercito turco. Il governo turco rifiuta di riconoscere il genocidio ai danni degli armeni ed è questa una delle cause di tensione tra Unione Europea e Turchia e anche la Santa Sede. Nel 2015, nel Centenario del massacro degli armeni, Papa Francesco ribadiva che: “La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, che generalmente viene considerata come il primo genocidio del Ventesimo secolo, ha colpito il vostro popolo armeno, prima nazione cristiana”. Bergoglio citava la dichiarazione comune fatta da Papa Giovanni Paolo II e Karekin II, Catholicos della Chiesa, il 27 settembre 2001 sull’immane massacro. Una posizione, quella della Santa Sede, che il governo di Ankara giudica “lontana dalla realtà storica” definendo “inaccettabili” le parole del Pontefice. Bergoglio ha insistito sulla necessità di ricordare le vittime: “Ricordarle è necessario, anzi, doveroso, ha aggiunto, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!”. Oggi il genocidio è riconosciuto da circa venti Paesi. Tale genocidio viene commemorato dagli armeni il 24 aprile.
Mary Titton
23 aprile
PRIMO PIANO
Impiantato un mini-cuore artificiale: secondo intervento al mondo.
Un mini-cuore artificiale ha salvato la vita di una bimba di 3 anni, affetta da miocardiopatia dilatativa ed in lista per trapianto di cuore. L’intervento è stato eseguito dal dottor Antonio Amodeo e dalla sua équipe all’ospedale Bambino Gesù di Roma, che ha ottenuto un’autorizzazione straordinaria per l’utilizzo di una pompa cardiaca miniaturizzata (l’Infant Jarvik 2015) del diametro di 15mm e 50 grammi, la cui sperimentazione clinica partirà prossimamente negli Stati Uniti. La piccola aveva già subito l’impianto di un Berlin Heart, un cuore artificiale che necessita di una consolle esterna, collegata con cannule al torace. Era inoltre stata colpita da un’emorragia cerebrale dalla quale si sta lentamente riprendendo. Successivamente, sperando nel recupero della funzione cardiaca, era stata tentata la rimozione del Berlin Heart, ma senza successo, era stata quindi nuovamente legata a un sistema temporaneo di circolazione assistita, anche a causa di un’ infezione. A questo punto la sola speranza per salvarla era un mini-cuore (Infant Jarvik 2015), il primo dispositivo miniaturizzato di assistenza ventricolare intracorporeo per i bambini sotto i 25 chili di peso, in attesa di trapianto a causa di anomalie cardiache congenite o insufficienze cardiache gravi, per i quali i dispositivi già esistenti non risultano purtroppo appropriati. L’intervento, il secondo al mondo dopo quello del 2012 sempre al Bambin Gesù, è stato eseguito il 2 febbraio scorso, ma la notizia è stata diffusa solo ora, trascorso il tempo necessario per poter dichiarare “buone” le condizioni della piccola, in attesa del trapianto cardiaco.
DALLA STORIA
Aprile 1748, inizia lo scavo di Pompei.
(Villa dei Misteri. Scavi di Pompei)
Nel mese di aprile del 1748, ebbe inizio lo scavo di Pompei. All’inizio fu trovata la prima grande pittura murale. Poi apparvero i primi morti: uno scheletro disteso le cui mani cercavano ancora di afferrare alcune monete d’oro e d’argento scivolate al suolo. Successivamente, nei lunghissimi anni degli scavi, i rinvenimenti sbalordirono il mondo intero; l’impresa poteva paragonarsi al prodigio di una resurrezione. Le case, i templi di Iside, l’anfiteatro, rimasero come erano stati abitati, ancora pieni di vita. Nelle stanze da studio c’erano le tavolette di cera, nella biblioteca i rotoli di papiro, nelle botteghe gli utensili, nei bagni gli strigili. Sui banchi delle taverne giacevano ancora le stoviglie e il denaro gettato in fretta dall’ultimo avventore. Sulle pareti delle bettole si leggevano versi di amanti languidi o disperati, su quelle delle ville si scoprirono pitture che come scrisse Venuti (erudito, autore di testi sui primi scavi di Ercolano) erano “assai più belle delle opere di Raffaello”. “Non conosco niente di più interessante …”, disse Goethe di Pompei. Era come se una bacchetta magica avesse toccato improvvisamente due città viventi, Ercolano e Pompei; e la legge del tempo, la legge del divenire e del trascorrere, avesse perso la sua validità.
(Il restauro dei calchi di Pompei)
Ma cosa accadde in quel lontano giorno del 79 d.C.? Verso la metà d’agosto di quell’anno si erano cominciati ad avvertire i segni di un’eruzione del Vesuvio, fenomeno che, del resto, si era già verificato con frequenza. Nelle ore antimeridiane del 24 agosto si delineò l’inizio di una catastrofe eccezionalmente grave. Con un boato spaventoso la cima del monte si squarciò. Un pino di fumo si schiuse nella volta del cielo e, fra i lampi e boati, si rovesciò sulla terra una pioggia di lapilli e di cenere che oscurò la luce del sole. Gli uccelli cadevano fulminati nel volo, gli uomini fuggivano gridando terrorizzati, gli animali si nascondevano. Torrenti d’acqua si riversarono sulle strade e non si sapeva se venissero dal cielo o dalla terra. Le città furono sepolte nella piena attività di un giorno di sole. Ma la loro fine avvenne in due maniere diverse. Una valanga di fango, formata di cenere, lava e acqua torrenziale si rovesciò su Ercolano, penetrò nelle strade e nei veicoli, ingrossando sempre più, fino a coprire i tetti, e varcando porte e finestre; la città si riempì come una spugna si riempie d’acqua e tutto quanto non poté salvarsi in rapida fuga fu sommerso. Diversa fu la sorte di Pompei. Nessun torrente di fango diede qui il segno che nella fuga era l’unico mezzo di salvezza. Cominciò con una leggera pioggia di cenere, che ci si poteva scuotere di dosso; poi caddero i lapilli, a cui seguirono massi di pomice del peso di parecchi chilogrammi. La gravità del pericolo si profilò lentamente e quando già era troppo tardi. Cortine di vapori solforosi scesero sulla città, penetrarono nelle fessure e nelle connessure, filtrarono sotto il panno che gli uomini che respiravano sempre più a fatica, si premevano sul viso. E se correvano all’aperto in cerca di aria e di libertà, i lapilli li colpivano così fitti da farli retrocedere terrorizzati. E appena rientravano in casa erano seppelliti sotto il crollo del tetto. Alcuni rimasero illesi per breve tempo: riparati sotto i pilastri delle scale, stretti gli uni agli altri, resistettero ancora per una paurosa mezz’ora. Poi i vapori solforosi penetrarono anche lì e li soffocarono. Quarantotto ore dopo, il sole brillava di nuovo, ma Pompei ed Ercolano avevano cessato di esistere. In un raggio di diciotto chilometri la campagna era distrutta, il suolo ricoperto. Particelle di cenere avevano raggiunto l’Africa, La Siria, l’Egitto. Solo una tenue colonna di fumo saliva ancora dal cratere. E il cielo era tornato azzurro!
(Affresco di Pompei raffigurante il Vesuvio prima dell’eruzione del 79 d.C.)
Fonte: “Civiltà sepolte”. Ceram. Einaudi.
Mary Titton
22 aprile
PRIMO PIANO
Earth Day 2018.
La giornata mondiale della Terra, voluta dalle Nazioni Unite, prevede, dal 22 al 25 aprile, molte iniziative volte a sensibilizzare i cittadini in 192 paesi del mondo sull’importanza del riciclo e sulle risorse rinnovabili. Nata il 22 aprile 1970, come movimento universitario per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra, nel tempo, la Giornata della Terra è divenuta un avvenimento educativo ed informativo. I gruppi ecologisti la utilizzano come occasione per valutare le problematiche del pianeta: l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ecosistemi, le migliaia di piante e specie animali che scompaiono e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturali). Si insiste su soluzioni che permettano di eliminare gli effetti negativi delle attività dell’uomo, soluzioni che includono il riciclo dei materiali, la conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, il divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, la cessazione della distruzione di habitat fondamentali, come i boschi umidi, e la protezione delle specie minacciate. A Roma per cinque giorni sarà presente il “Villaggio per la Terra”, tra la terrazza del Pincio e Villa Borghese, con il concerto di domenica sera, ma anche con mostre, esibizioni artistiche, osservazioni scientifiche e creazione di murales, tornei di calcio balilla e dama, talk show e manifestazioni sportive. Quest’anno l’imperativo numero uno dell’Earth Day è la lotta all’inquinamento da plastica. Con 8 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono nei nostri oceani, i pesci nel 2050 saranno superati dai detriti delle micro-plastiche, le barriere coralline dimezzate e le isole di rifiuti sintetici saranno grandi tre volte la Francia. Immagine emblematica è quella, diffusa una decina di giorni fa, della carcassa di un capodoglio trovato morto su una spiaggia di Cabo de Palos, promontorio della regione mediterranea della Murcia in Spagna, con 30 chili di plastica nello stomaco. Per l’Onu ogni cittadino dovrebbe imparare a dire addio ai monouso, riciclare, ridurre le quantità di plastica e impegnarsi singolarmente in questa battaglia per il cambiamento. La giornata senza plastica del WWF è una guida che aiuta a cambiare stile di vita seguendo tutte le fasi di una giornata “tipo”, dalla colazione alla ginnastica in palestra, dall’ufficio alla spesa. I suggerimenti per uscire dall’ uso esagerato della plastica si basano su tre regole fondamentali: no al monouso, occhio all’etichetta per detergenti e cosmetici, sì al refill (prodotti alla spina). Se impariamo a restituire alla Terra quello che le abbiamo tolto, un giorno ci ripagherà. Significativa è la storia di Afroz Shah, il giovane avvocato indiano, che da solo ha iniziato a ripulire le spiagge di Mumbai, permettendo alle tartarughe di ritornare dopo 20 anni di assenza.
21 aprile
PRIMO PIANO
Sentenza trattativa Stato-mafia.
La sentenza per la cosiddetta trattativa Stato-mafia giunge dopo quasi cinque anni di processo, circa 220 udienze e oltre 200 testimoni. La Corte di Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha comminato diverse condanne pesanti: gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni sono stati condannati a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Per lo stesso reato sono stati condannati a 12 anni l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, a 28 anni il capo mafia Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e a 12 anni il boss Antonino Cinà. L’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, per le stesse imputazioni, ha avuto 8 anni. Massimo Ciancimino, accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia dell’ex capo della polizia De Gennaro, ha avuto 8 anni. L’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimionianza, è stato invece assolto. Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci. I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci milioni di euro alla Presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile. La parte lesa del processo sulla trattativa è infatti il governo, intimidito e minacciato dalle uccisioni e dalle stragi attuate dai corleonesi, dopo che diventarono definitivi gli ergastoli del Maxi processo istruito da Falcone e Borsellino. Vittorio Teresi, il Pm del pool che ha istruito il processo sulla trattativa Stato-mafia e ha coordinato il pool per tutta la durata, dopo la lettura del dispositivo, ha detto: “Questo processo e questa sentenza sono dedicati a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia. È stata confermata la tesi principale dell’accusa che riguardava l’ignobile ricatto fatto dalla Mafia allo Stato a cui si sono piegati pezzi delle istituzioni. È un processo – ha concluso – che andava fatto ad ogni costo. C’erano delle ipotesi d’accusa e avevamo il dovere di procedere. Le carte ci dicono che abbiamo lavorato bene e che si trattava solo di rispondere a esigenze di giustizia e verità per i fatti accaduti nel paese tramortito dalla violenza nel 1992 e 1993.” Anche il sostituto procuratore nazionale Nino Di Matteo, dopo la sentenza, ha così commentato: “Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica.”
20 aprile
PRIMO PIANO
Il Papa sulla tomba di don Tonino Bello, profeta della “ Chiesa del grembiule”.
Il Papa si è recato in Puglia ad Alessano, per pregare sulla tomba di don Tonino Bello, il “vescovo scomodo” morto venticique anni fa, il 20 aprile 1993, a causa di un male incurabile, e del quale è in corso la causa di beatificazione. Dopo essersi raccolto per alcuni minuti in preghiera sulla tomba del sacerdote, che venne nominato vescovo nel 1982 da Giovanni Paolo II e fu presidente di Pax Christi, Papa Francesco ha parlato a 20 mila fedeli, invitandoli a “non cedere alla tentazione di accodarsi ai potenti di turno”; ha lanciato poi un nuovo appello per la pace nel Mediterraneo da questa terra così cara al vescovo di Molfetta, una terra che egli «chiamava “terra-finestra”, perché dal Sud dell’Italia si spalanca ai tanti Sud del mondo, dove i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno. Siete una finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia, ma siete soprattutto una finestra di speranza perché il Mediterraneo, storico bacino di civiltà, – ha auspicato il Pontefice – non sia mai un arco di guerra teso, ma un’arca di pace accogliente». Di don Tonino, definito “profeta di speranza per i nostri tempi”, impegnato per la pace nei Balcani durante la Guerra del Kosovo, sempre vicino agli ultimi, pronto ad accorciare le distanze, ad offrire una mano tesa, Francesco invita a seguire l’esempio, per essere “Chiesa del grembiule”, come il vescovo amava definirla per intendere che doveva essere aperta e accogliente, pronta a servire i poveri e i sofferenti, per dare loro dignità. Una Chiesa, ha ribadito Bergoglio, molto vicino al sentire di don Tonino, “estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé, non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso …”
DALLA STORIA
“Dracula” by Bram Stoker.
Bram Stoker, divenuto celebre come autore di Dracula, uno fra i più conosciuti romanzi gotici del terrore, nacque a Clontarf, un villaggio costiero vicino a Dublino, l’8 novembre 1847 e vi morì il 20 aprile 1912. Il romanzo scritto in forma di stralci di diari e di lettere riprende il mito del vampiro, lanciato nella letteratura da John William Polidori. Stoker realizza una storia dalle atmosfere cupe, in cui la minaccia assilla i protagonisti, in un crescendo di emozioni che conduce alla scoperta dell’orrore rappresentato dal tetro vampiro. Il tema del vampirismo fu affrontato già da Goethe nel 1797 nella sua ballata “La sposa di Corinto”. Successivamente, nel 1819, su un periodico inglese venne pubblicato un racconto intitolato “The Vampire”, recante la firma di George Gordon Byron. In realtà il vero autore era appunto J.W. Polidori, medico personale e intimo amico di Lord Byron. L’idea del racconto aveva preso forma già nel 1816: nell’estate di quell’anno Lord Byron ospitava a Villa Diodati, la sua villa sul lago di Ginevra, Percy Bysshe Shelley, la sua futura moglie Mary Wollstonecraft Godwin e lo stesso Polidori. La compagnia, costretta in casa dalla pioggia, si dilettava nel leggere storie tedesche di fantasmi, quando insieme decisero di scrivere ciascuno un racconto dell’orrore. Il maltempo non si protrasse a lungo e gli unici a tener veramente fede al loro impegno furono Mary e Polidori: la prima col suo Frankenstein; il secondo dando vita al “Vampire Lord Ruthven”. Fu così che la figura di quest’ultimo ispirò largamente il “Dracula” di Stoker, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto fisico: “Il volto aquilino, decisamente aquilino; il naso sottile con una gobba pronunciata e narici stranamente arcuate; la fronte nobile e spaziosa, i capelli radi sulle tempie, ma abbondanti sulla testa. Le folte sopracciglia quasi si congiungevano sul naso, e i ciuffi parevano arricciarsi tanto erano abbondanti. La bocca, per quel che si scorgeva sotto i folti baffi, era rigida, e con un profilo quasi crudele. I denti, bianchi e stranamente aguzzi, sporgevano dalle labbra il cui colore acceso rivelava una vitalità stupefacente per un uomo dei suoi anni. Le orecchie erano pallide, appuntite; il mento ampio e forte, le guance sode anche se scavate. Tutto il suo volto era soffuso d’un incredibile pallore”. “Creatura diabolica, come tutti i servi di Satana il vampiro è un seduttore”. Bram Stoker impiegò sette anni a scrivere il romanzo. Suo padre Abraham Stoker (da cui ereditò il nome, affettuosamente abbreviato in Bram per tutta la vita) era un impiegato statale che lavorava nell’ufficio della segreteria del castello di Dublino. Bram era un bambino assai delicato, gracile e malaticcio, al punto che non ce la fece a reggersi in piedi fino all’età di sette anni. Tuttavia, a forza di cure affettuose e di volontà, riuscì egregiamente a superare i malanni dell’infanzia e divenne un uomo così atletico e robusto da potersi in seguito definire con le seguenti parole: “Credo di poter dire che, nella mia persona, rappresento la sintesi dell’educazione universitaria mens sana in corpore sano”. Stoker si laureò a pieni voti in matematica al Trinity College di Dublino, ma dopo aver lasciato la scuola sviluppò un grande interesse per la letteratura e soprattutto per il teatro. Accettò di lavorare gratuitamente come critico teatrale per il The Evening Mail, dove tenne una rubrica acquistandosi fama di severissimo stroncatore e, nello stesso tempo, seguì per qualche anno le orme di suo padre, esercitando l’oscuro mestiere di impiegato dell’amministrazione pubblica. Poi, a ventinove anni, conobbe il famoso attore Henry Irving, dotato di una voce “sibilante e terribile” e specializzato nella versione scenica di Frankenstein: l’incontro cambiò le loro vite. Stoker seguì Irving a Londra, dove in breve divenne suo confidente e consigliere, nonché l’eccellente organizzatore del suo teatro, il Lyceum, ben contento di trovare un tale sbocco per il suo talento burocratico e organizzativo. Nel frattempo, si diede a sfornare decine di racconti e di testi teatrali (stilisticamente tutti oscillanti tra il feuilleton e il grand-guignol e piuttosto di scarso rilievo), nonché una breve raccolta di storie per bambini, “Under the Sunset” edita nel 1881. Per ventotto anni, ovvero fino alla morte di Irving, avvenuta nel 1905, Stoker fu, in pratica, l’insostituibile segretario del grande attore. Nei sette anni che gli restarono da vivere si dedicò completamente all’attività letteraria (Dracula, uscito con enorme successo nel 1897, gli aveva largamente assicurato la tranquillità economica), pubblicando, tra l’altro, i romanzi “The Lady of Shroud” (1909) e “The Lair of the White Worm” (1911), oltre a un’opera in due volumi dedicata alla memoria del suo celebre amico scomparso, “Personal Reminiscences of Henry Irving” (1906). “Nel 1897, in occasione della pubblicazione di Dracula”, l’anziana signora Charlotte Stoker scriveva a suo figlio Bram: “Mio caro, è splendido, molto al di sopra di quanto hai scritto fino a oggi. Sono sicura che ti situerà parecchio in alto tra gli scrittori della nostra epoca. Nessun libro dopo il Frankenstein di Mrs. Shelly, nessun altro libro si avvicina al tuo per originalità, o per la capacità di suscitare terrore”. Nel suo legittimo orgoglio di madre la signora Stoker aveva proprio visto giusto: il libro di suo figlio era un capolavoro, “un capolavoro del genere se non proprio letterario”, ma senz’altro un capolavoro, il cui successo era destinato a durare e a crescere nel tempo (ne fu addirittura stampata un’edizione in paperback destinata alle truppe americane durante l’ultimo conflitto mondiale), uno di quei pochi libri che divengono un fatto di costume, impongono un gusto, entrano a far parte dell’immaginario collettivo. (Introduzione di Riccardo Reim del libro di Stoker, edizione 1993 Newton Compton, “Dracula, la storia del vampiro più famoso di tutti i tempi”). Come scrive Paola Faini, ricercatrice di Lingua e Letteratura inglese: “Nosferatu, il signore delle tenebre, il burattinaio che tiene in mano i fili delle vite altrui, povere vite di comuni mortali, l’unico che non ha voce (se non indirettamente) nel romanzo, e, volutamente, perché egli è l’ignoto nella vita umana, l’ancestrale paura dell’uomo, la materializzazione di una potenza del Male che inconsciamente si teme, a volte assai più di quanto si riesca a credere nella forza del Bene.” Come afferma Leonard Wolf, uno dei maggiori studiosi del mito di Dracula come personaggio storico e letterario e autore di eruditi testi sull’argomento: “Il potere e l’eredità del libro sono presenti dappertutto”, si vedano a questo proposito la sterminata filmografia sul Conte (basterà ricordare che il primo film tratto dal romanzo di Stoker è il capolavoro “Nosferatu” di F.W. Murnau, del 1922)
e i suoi numerosi epigoni, nonché le innumerevoli riduzioni o derivazioni a fumetti”. Più che un genere, Dracula è ormai una dimensione. Stoker affermò che l’idea definitiva del libro gli venne da un incubo causato da una scorpacciata di gamberi in insalata in compagnia dello studioso ungherese Arminius Vambery: addormentandosi, sognò un vampiro che sorgeva dalla tomba per recarsi a compiere i suoi orribili misfatti. Ma nota giustamente Leonard Wolf che “il sogno di un inglese non basta a costruire un capolavoro della narrativa” e, infatti, Stoker, proprio sotto la guida di Vambery, si documentò scrupolosamente (non si dimentichino i suoi studi di matematica), trascorrendo ore e ore a consultare i libri e le mappe del British Museum finchè non trovò tutto quello che gli serviva per “costruire” il suo romanzo: le autentiche tradizioni del folklore sui vampiri”, (il vampirismo è vecchio quanto il mondo e le leggende sui “succhiasangue” e sui “morti viventi” sono antiche e terribili, alimentate dalla superstizione e spesso dall’ignoranza), “un sinistro personaggio realmente vissuto circa quattro secoli prima, Vlad Dracul o più correttamente Draculea (significa figlio del diavolo) detto Vlad Tepes l’Impalatore, “tepes” in romeno significa “palo”, fu un uomo dalla fama sinistra, terribile e senza scrupoli che governò la Valacchia brevemente nel 1448, poi dal 1456 al 1462 e parte del 1476. Fu uno dei tiranni più sanguinari d’Europa e l’impalamento era il suo metodo preferito per procurare la morte. In una stampa della metà del secolo XV lo si vede seduto a banchetto in mezzo a una cerchia di impalati.
Infine una terra dove potere, in modo storicamente attendibile, ambientare il tutto, ovvero la Transilvania, “la terra oltre la foresta”. Per un personaggio come quello di Dracula nessuna regione d’Europa poteva meglio adattarsi che la Transilvania, terra che fino alle pulizie etniche del XX secolo era un crogiuolo inestricabile di nazioni, popoli, religioni e credenze provenienti da tutti gli angoli del continente europeo e asiatico. “Stoker scrisse così l’ultimo grande romanzo gotico, o meglio seppe creare”, forse senza rendersene pienamente conto, “il ponte tra l’orripilante romantico e il thrilling moderno”, mettendo in crisi le floreali ed efferate certezze dello Stile Moderno.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Il 20 aprile 1884 nasceva a Perknik, villaggio dell’Anatolia, Daniel Varujan, il poeta contadino armeno che, nel 1908, diede il via, con alcuni autori quali: G. Zarian, H. Oshagan, A. Parseghian e K. Parseghian a un movimento letterario, “Rinascimento Armeno”. Il poeta, morto a soli trentuno anni, nel pieno della sua maturità letteraria, fu tra le prime vittime del genocidio armeno. Nel 1886, Vanujan, si recò con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, scomparso durante le epurazioni volute dal sultano Abdul Hamid. Dotato di ingegno eccezionale, dopo i primi studi nella metropoli turca, proseguì la sua educazione a Venezia, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti (1906), e successivamente a Gand. Influenzato dalla crisi religiosa europea di fine Ottocento, attraversò una profonda crisi esistenziale, durante la quale si rifugiò nei miti indoeuropei precristiani della sua tradizione. Di nuovo in Turchia, si sposò e trovò lavoro come precettore nel paese natale. La sua fama di letterato e poeta crebbe dopo la pubblicazione de “Il cuore della stirpe” (1909) e “Canti pagani” (1913). Nel 1912 si trasferì a Costantinopoli, dove ottenne un posto di direttore di scuola e si dedicò con tutte le sue energie alla rinascita della cultura e della lingua armena, diventando l’anima del movimento che faceva capo alla rivista Navasart. Tre anni dopo, arrestato con altri scrittori, intellettuali e uomini politici armeni, Varujan venne deportato verso l’interno ed ucciso il 28 agosto 1915, nel pieno della sua feconda maturità letteraria. Daniel Varujan, di cui ogni bambino armeno conosce a memoria qualche poesia, è ancora poco conosciuto in Italia, malgrado la traduzione de “Il canto del pane” uscita nel 1992 presso l’editore milanese Guerini, a cura di Antonia Arslan, che ha anche curato la più recente raccolta “Mari di grano” (Paoline, 1995), comprendente “Il canto del pane ed altre liriche”. Tra i grandi rappresentanti del simbolismo europeo, Varujan riuscì a fondere i diversi orizzonti poetici entro cui si formò la nativa dimensione orientale e quella occidentale in una sintesi originalissima. Vi si esprimono con vigore e plasticità di immagini, specie nei canti dopo la conversione, sensualità e mistica, corpo e anima, fisicità pagana e spirito cristiano. Nella poesia qui riportata, tratta da “Il canto del pane”, Varujan, commenta Antonia Arslan, arriva a una sconcertante visione mistica, approdo di un itinerario della mente che, percorrendo le tappe della vita più elementare, quella del contadino, ha ridato ordine a un mondo sconvolto e, nominandolo, lo ha raccontato in poesia.
Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro/ l’anima sacra del contadino riposa sull’aia./ Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare./ L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama. Cantano di lontano i grilli. Nelle acque del lago/ questa notte si celebrano le nozze segrete delle naiadi./ La brezza agitando il salice sulla sponda del ruscello/ risveglia i canti su accordi sconosciuti. Nel profumo del serpillo, disteso in cima a un covone/ io lascio che ogni raggio tocchi il mio cuore,/ e m’inebrio del vino della grande botte dell’Infinito/ dove un passo sconosciuto schiaccia le stelle cadenti. È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro, /naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti;/ conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta,/ da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo./ È dolce per me sollevarmi sulle ali del silenzio,/ ascoltare soltanto il respiro imperturbabile dello Spazio,/ finché i miei occhi si chiudano in un sonno magico,/ e sotto le mie palpebre rimanga l’Infinito con le sue stelle.
19 aprile
PRIMO PIANO
L’astrofisica italiana, che ha “ascoltato” le onde gravitazionali.
(L’astrofisica Marica Branchesi e il chirurgo Giuliano Testa sono i due italiani nella classifica tra le 100 persone più influenti al mondo)
Secondo la rivista americana Time, l’astrofisica italiana Marica Branchesi, 41 anni, è tra le 100 persone più influenti al mondo per la rilevazione delle onde gravitazionali, le increspature nel tessuto dello spazio-tempo già teorizzate da Einstein. Originaria di Urbino, dopo la laurea in Astronomia a Bologna, si è dedicata con tenacia allo studio delle onde gravitazionali, che fino a poco tempo fa erano solo un’idea concepita dalla mente di Einstein e un sogno di un manipolo di visionari, senza prospettive di successo. Dopo decenni di osservazione senza risultati, in due anni e mezzo, grazie a una sequenza di splendide rilevazioni, si è arrivati a parlare di una “nuova astronomia”. Dice Marica Branchesi: “Grazie a sfide tecnologiche superate con anni e anni di lavoro e grazie all’universo. Le fusioni fra buchi neri o quelle fra stelle di neutroni che danno origine alle onde gravitazionali si sono rivelate più diffuse del previsto. Abbiamo raccolto molti dati e li stiamo ancora analizzando, inclusi quelli sulla formazione di metalli pesanti, oro incluso, durante i fenomeni più estremi.” Entrata a far parte della collaborazione Virgo nel 2009, oggi lavora al Gran Sasso Science Institute dell’Aquila e fa parte del team di Virgo, l’antenna gravitazionale di Càscina (Pisa), gestita dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Il suo ruolo è stato quello di favorire l’unione tra l’astronomia osservativa e la fisica strumentale utilizzata per captare le onde gravitazionali, aprendo così la strada all’astronomia multimessaggero, ossia alla nuova astronomia basata su segnali provenienti da fonti diverse, che rende possibile una nuova immagine dell’universo. Lo scorso dicembre Nature l’aveva già segnalata tra fra i 10 scienziati del 2017, oggi Time la iserisce nella categoria “Pioneers” con un ritratto firmato da Jeffrey Kluger. Secondo la scienziata italiana, anche giovane madre di due bimbi piccoli, per la ricerca si aprono prospettive entusiasmanti: “Abbiamo molte novità in programma. Le antenne gravitazionali, sia in Italia che negli Stati Uniti, sono in pausa per dei miglioramenti. Alla fine del 2018 o all’inizio del 2019 raggiungeranno una sensibilità molto più alta. Potranno rilevare le onde gravitazionali in un volume di universo quattro volte più grande. Un nuovo strumento verrà inaugurato presto in Giappone. Si sta lavorando anche per gli strumenti di prossima generazione che amplieranno il nostro orizzonte di mille volte. Sarà osservabile praticamente tutto il cosmo. Un ottimo sito dove posizionarli è in Sardegna, in una miniera di metalli dismessa. Costruire le antenne sottoterra aiuterà a ridurre i tremori sismici che disturbano le misurazioni … Credo che il nostro entusiasmo, letteralmente alle stelle, sia contagioso.”
DALLA STORIA
La Venere di Milo.
Il 19 aprile 1820 si compì il destino della Venere di Milo: una delle più celebri statue greche fu riportata alla luce nella piccola isola di Milo, nel Mar Egeo, da un contadino di Plaka che si chiamava Yorgos Kentrotas. Non è del tutto chiaro perché il contadino si fosse messo a scavare proprio nella zona archeologica, dove poi fu trovato un antico teatro: c’è chi dice che aveva bisogno di pietre per la sua casa. Ma il fatto che fosse in compagnia di due militari francesi, arrivati sull’isola un paio di giorni prima, a bordo della nave Estafette, tra cui un ufficiale di nome Olivier Voutier, appassionato di storia, rende questa ipotesi poco plausibile. Forse è solo una parte della storia: probabilmente il contadino era effettivamente alla ricerca di pietre per la sua abitazione quando incontrò i due marinai, che, alla ricerca di manufatti da portare in patria come trofei, gli proposero di scavare per loro. Qualunque fosse il motivo, la pala di Kentrotas incontrò presto su qualcosa di grande e massiccio. Era il busto nudo di una donna, il naso era andato distrutto come parte delle braccia di cui restavano soltanto gli avambracci, su cui, come sul collo, erano evidenti i segni di ornamenti metallici, probabilmente gioielli, andati anch’essi perduti. Emozionati, i due ufficiali pregarono il contadino di continuare a scavare e dopo poco fu trovata anche la seconda metà della statua, le gambe coperte da un drappeggio, i due pezzi, però non combaciavano, mancava un piccolo frammento tra le due metà. Ci volle un terzo scavo per poter avere la statua completa. I militari francesi raccontarono a tutti la loro scoperta, anche ai marinai appena arrivati con un’altra nave francese, la Chevrette. A bordo di questa vi era un giovane ufficiale, Julius Dumont d’Urville, umanista, colto, in grado di parlare, oltre al francese, l’inglese, lo spagnolo, il tedesco e il greco. Dumont si mostrò particolarmente interessato al racconto di Voutier e chiese di essere accompagnato dal contadino. I tre il 19 aprile tornarono da Kentrotas e Dumont rimase folgorato dalla statua, riconoscendone immediatamente l’enorme valore. L’ufficiale francese voleva acquistare immediatamente il manufatto, ma il capitano della Chevrette si oppose fermamente: sulla nave non c’era posto e il viaggio prevedeva la traversata di mari burrascosi, troppo pericolosi per garantire l’integrità della statua. Julius scrisse allora un particolareggiato rapporto sul ritrovamento, corredandolo di disegni, e lo inviò all’ambasciatore francese a Costantinopoli, suggerendo l’acquisto della Venere. Il 22 aprile Dumont d’Urville arrivò di persona nella capitale turca e convinse definitivamente l’ambasciatore, che insieme all’ufficiale partì alla volta dell’isola. Il contadino di Plaka, avendo bisogno di soldi, pensò bene di vendere la statua, approfittando dell’assenza dei francesi. L’ambasciatore arrivò a Milo giusto in tempo per vedere la statua imbarcata su un’altra nave. Per impedire che venisse soffiata loro sotto il naso, ai francesi non restò che pagare profumatamente. La statua arrivò così nella sua nuova patria in pezzi, nel trasporto venne perduto anche l’ultimo pezzo del braccio sinistro e, prima di essere presentata al re, venne sottoposta a un pesante restauro: oltre ad essere ricomposta e ripulita le venne anche ricostruito il naso, ma non le braccia. Tuttavia i restauratori effettuarono accurati studi su quale sarebbe dovuta essere la loro posizione: il braccio destro doveva incrociarsi davanti al petto e reggere il drappo che copriva le gambe della dea, mentre il sinistro era probabilmente proteso in avanti con in mano la mela d’oro consegnatagli da Paride nel decretarla la più bella dell’Olimpo. Accolto con tutti gli onori alla corte di re Luigi XVIII, il prezioso reperto fu donato dallo stesso sovrano al Museo del Louvre, che lo catalogò come Venere di Milo, dal nome dell’isola dov’era stata rinvenuta. La celebre statua per la posa ricorda le statue di Prassitele, ma l’iscrizione ritrovata sotto il basamento (oggi andato perduto) l’attribuisce allo scultore dell’età ellenista (323 a.C. – 31 a.C.) Alessandro di Antiochia. L’Afrodite di Milo, meglio conosciuta come Venere di Milo, una delle più celebri statue greche, conservata da allora al Museo del Louvre di Parigi, è una scultura di marmo pario alta 202 centimetri, priva delle braccia e del basamento originale. La grande fama raggiunta dall’opera nel XIX secolo non fu dovuta soltanto alla sua bellezza e alla sua perfezione, ma anche alla “propaganda” delle autorità francesi. Nel 1815, infatti, la Francia dovette restituire la Venere de’ Medici agli italiani, dopo che questa era stata portata in Francia da Napoleone Bonaparte, la Venere di Milo, dunque, venne “sponsorizzata” dai francesi per rimpiazzare la perdita dell’altra opera. Celebrata da artisti e critici, la Venere di Milo fu da molti considerata una delle più significative rappresentazioni della bellezza femminile: Afrodite si leva col busto nudo fino all’addome e le gambe velate da un fitto panneggio. Il corpo esprime una misurata tensione che richiama un tipico chiasmo di derivazione policletea. Il modellato è reso con delicate suggestioni chiaroscurali, col contrasto tra il liscio incarnato nudo e il vibrare della luce nei capelli ondulati e nel panneggio increspato della parte inferiore. Non si conosce precisamente quale episodio mitologico della vita di Venere venga rappresentato: si ritiene possa essere una raffigurazione della Venus Victrix che porge il pomo dorato a Paride: tale interpretazione ben si accorderebbe con il nome dell’isola dove è stata ritrovata (milos, in lingua greca, significa infatti “mela”). Del resto, alcuni frammenti di un avambraccio e di una mano recante una mela sono stati ritrovati vicino alla statua stessa. In generale comunque colpisce l’atteggiamento naturale della dea, ormai lontana dalla compostezza delle Veneri classiche dei secoli precedenti.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
La pittura di Ferdinando Botero, diversamente dalla critica che lo giudica, con sussiego, un pittore inadeguato ai tempi o insufficiente o non sufficientemente artista, piace al pubblico di tutto il mondo. Lo attesta il fatto che il pittore colombiano, nato a Medellín, il 19 aprile 1932, è l’artista più ricco del mondo, non tanto perché le sue tele siano in assoluto le più pagate, ma perché i suoi dipinti piacciono al punto che ognuno ne vorrebbe possedere uno. Negli ambienti snob e quelli soprattutto legati alla critica d’avanguardia, Botero è visto con orrore; gli si rimprovera che la sua decorazione è priva di tensione drammatica e, le sue famose figure opulente, disegnate con un tratto semplice, sono considerate più vicine all’arte di un illustratore o a quella di un pittore fumettista. “Un artista è attratto da certi tipi di forme senza saperne il motivo. Prima adotto una posizione per istinto e solo in un secondo tempo cerco di razionalizzarla o anche di giustificarla”. Con queste parole Botero descrive cosa lo spinge a dipingere e aggiunge: “Credo che l’arte debba dare all’uomo momenti di felicità, un rifugio di esistenza straordinaria, parallela a quella quotidiana”.
Invece gli artisti preferiscono lo shock e credono che basti provocare scandalo. La povertà dell’arte contemporanea è terribile, ma nessuno ha il coraggio di dire che il re è nudo” e conclude: “Occorrono occhi freschi, liberi da ogni pregiudizio. Fortunatamente l’arte ha una grande dote, quella di essere inesauribile. È un processo senza fine, nel quale non si smette mai di imparare”. Secondo Botero, il dipingere deve essere inteso come una necessità interiore, un bisogno che porta ad un’esplorazione ininterrotta verso il quadro ideale. Caratteristica della sua pittura, oltre ai suoi soggetti smisuratamente “grassi” e un po’ irreali, è il colore, generalmente steso in campiture piatte ed uniformi, senza contorni e senza ombreggiature perché esse “sporcherebbero l’idea del colore che desidero trasmettere”. I loro sguardi sono sempre persi nel vuoto, gli occhi non battono, sembra quasi che osservino senza guardare. Eppure queste figure di donne e uomini dipinte con forme generose accentuano la plasticità tridimensionale e identificano la peculiarità dello stile figurativo dell’artista colombiano, che nella sua lunga carriera di pittore e scultore ha saputo dosare la tradizione precolombiana e il barocco latino americano con la pittura classica italiana.
18 aprile
PRIMO PIANO
Governo: Incarico esplorativo alla Casellati.
Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, questa mattina, ha conferito alla Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, un mandato esplorativo ben definito alla ricerca di una possibile maggioranza di governo con “il compito di verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare tra i partiti della coalizione di Centrodestra e il Movimento Cinque Stelle e di un’indicazione condivisa per il conferimento dell’incarico di Presidente del Consiglio per costituire il Governo”, come recita la nota del Quirinale letta dal segretario generale Ugo Zampetti, al termine del colloquio tra la seconda e la prima carica dello Stato. La Casellati, in una breve dichiarazione al termine del colloquio con Mattarella, ha detto: “Assumo questo incarico con lo stesso spirito di servizio con cui ho assunto quello di Presidente del Senato. Sarete informati del calendario degli incontri che avverranno in tempi brevi.” Poi ha incontrato a Montecitorio il Presidente della Camera Roberto Fico e a Palazzo Chigi il premier uscente Paolo Gentiloni. Mattarella ha chiesto alla Presidente del Senato di riferire entro la giornata di venerdì, quindi la Casellati ha un paio di giorni per cercare una possibile maggioranza di governo. Il suo è davvero un compito arduo, in quanto, in base al quadro uscito dalle urne, nessuna forza politica ha la maggioranza per governare da sola e ognuna resterà probabilmente ferma sulle posizioni già espresse, nelle consultazioni, al Presidente della Repubblica. Il M5s, primo partito, “è pronto a sottoscrivere un contratto di governo solo con la Lega non con tutto il Centrodestra”, Salvini, leader della Lega, nonostante il pressing di Di Maio, non è disponibile a lasciare la coalizione di Centrodestra, con cui si è presentato alle elezioni, il Pd, terza forza in campo, non è disponibile ad alleanze con nessuno dei due.
DALLA STORIA
A Princeton, il 18 aprile 1955, muore Albert Einstein.
Einstein, nato nel 1879 a Ulm in Germania, ha dato alla fisica moderna il contributo di una creazione geniale che rimarrà nei secoli futuri una delle pietre miliari nella storia del pensiero umano. Nel 1905, con la memoria “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”, gettò le basi della teoria speciale della relatività, fondata sulla costanza della velocità della luce nel vuoto quale limite superiore dell’osservabilità di qualsiasi fenomeno. Uno dei risultati che Einstein aveva dedotto da questa teoria, cioè che massa ed energia sono equivalenti, doveva avere quarant’anni dopo una terrificante conferma, con una forza di distruzione mai conosciuta: lo scoppio della prima bomba atomica. Pochi sanno che in questo avvenimento Einstein ebbe una parte fondamentale. Si deve al suo diretto intervento se il Presidente Roosevelt mise a disposizione i colossali capitali necessari per quelle ricerche che dovevano portare alla bomba di Hiroshima. Nel 1939 i fisici Fermi e Szilard erano pervenuti a importanti risultati nel campo della fisica atomica, in particolare nella disintegrazione dell’uranio e avevano intuite le tremende possibilità derivanti dall’impiego dell’energia atomica per scopi bellici. Tuttavia essi sapevano che non sarebbero stati ascoltati a meno che la questione non venisse direttamente presentata da un’alta personalità mondiale; Fermi e Szilard conferirono con Einstein. Einstein non desiderava immischiarsi in questioni militari, né tantomeno desiderava incoraggiare la costruzione dell’arma più terribile che fosse mai stata costruita dall’uomo. Tuttavia Einstein sapeva bene che se la Germania fosse giunta per prima in possesso dell’energia atomica, non avrebbe esitato ad usarla come strumento di dominazione del mondo. Pochi giorni dopo Einstein scriveva al Presidente Roosevelt: “Alcuni recenti lavori di Enrico Fermi e di Leó Szilard, che mi furono presentati manoscritti, mi convincono che l’elemento uranio possa essere usato come nuova ed importante fonte di energia nel prossimo avvenire. Una sola bomba di questo tipo che esplodesse in un porto potrebbe assai facilmente distruggere l’intero porto insieme al territorio circostante”. Tralasciando i lavori, del resto notevoli, che egli ha compiuto sulla teoria dei moti browniani, sulla teoria statica dei campi gravitazionali e il poderoso contributo apportato alla teoria dei quanti (si deve ad Einstein l’ipotesi del “fotone”), non si può trascurare, per la sua immensa portata “La teoria della relatività generale”. Essa comprende una nuova teoria della gravitazione con le sue più brillanti conseguenze e previsioni: spiegazione dell’accelerazione secolare nei perieli dei pianeti; deflessione dei raggi luminosi in un campo gravitazionale; spostamento delle righe dello spettro verso il rosso ecc. Negli ultimi anni della sua vita Einstein lavorava a una “teoria generalizzata della gravitazione”, tendente a legare in un’unica relazione le due teorie della relatività e dei quanti. Einstein avvertiva tuttavia: “A causa di difficoltà matematiche non ho ancora trovato il modo pratico di controllare i risultati della mia teoria con una dimostrazione sperimentale”. Il grande fisico francese, Louis de Broglie, cui si devono, fra l’altro, le idee nuove che stanno alla base della meccanica ondulatoria, espresse così il suo giudizio sull’opera di Einstein: “Per tutti gli uomini colti, siano essi o meno votati a qualche ramo della Scienza, il nome di Albert Einstein evoca lo sforzo intellettuale geniale, che capovolgendo i dati più tradizionali della fisica è riuscito a stabilire la relatività delle nozioni di spazio e di tempo, l’inerzia dell’energia e l’interpretazione in qualche modo puramente geometrica delle forze di gravitazione. È infatti questa un’opera ammirevole, paragonabile alle più grandi opere che s’incontrano nella storia delle scienze, ad esempio quella di Newton; di per se stessa, basterebbe ad assicurare al suo autore una gloria imperitura”. Nel libro “Come io vedo il mondo”, di Einstein è riportato il suo testamento spirituale, un messaggio contro la guerra atomica. Pochi mesi dopo la morte del grande scienziato e proprio alla vigilia dell’incontro dei “Quattro Grandi”, a Ginevra, Bertrand Russell rese pubblico questo “Testamento spirituale”, affidatogli da Einstein stesso negli ultimi suoi giorni di vita e sottoscritto da altri sette studiosi di fama internazionale: Bridgeman (Stati Uniti), Premio Nobel per la fisica e professore all’Università di Harvard; L. Infeld (Polonia), professore all’Università, autore di “Evoluzione della fisica” e de “Il problema del movimento”; H.I. Muller, già titolare di cattedra a Mosca e in India e professore all’Università americana di Indiana, Premio Nobel per la fisiologia e la medicina; C.S. Powell (Gran Bretagna), professore di Fisica all’Università di Londra; lo stesso Bertrand Russell, Premio Rotolatt; Hideki Kukawa (Giappone), professore all’Università di Tokio, Premio Nobel per la fisica. Tra i firmatari della solenne dichiarazione relativa alle armi nucleari si trova anche Frederic Joliot Curie, che aderiva tuttavia all’ammonimento con due riserve. Per motivi di spazio è possibile riportarne solo le frasi iniziali: “In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione stessa dell’esistenza dell’umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai governi di tutto il mondo affinché si rendano conto e riconoscano pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse tra loro. Nella tragica situazione che l’umanità si trova di fronte, noi riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi in conferenza per accertare i pericoli determinati dallo sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del progetto annesso. Parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella Nazione, Continente o Fede, ma come esseri umani, membri della razza umana, la continuazione dell’esistenza della quale è ora in pericolo. Nel 1933 le persecuzioni politiche e razziali del nazismo indussero Einstein a lasciare l’Europa. Emigrò negli Stati Uniti d’America ed entrò a far parte dell’Institut Advanced Studes di Princeton, dove morì il 18 aprile 1955.
Mary Titton
17 aprile
PRIMO PIANO
Individuata nel cervello la “culla” della schizofrenia.
I ricercatori del Centro per i sistemi di neuroscienze e cognitivi (Cncs) dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Rovereto hanno pubblicato sulla rivista Neuroimage lo studio intitolato “Disrupted modular organization of primary sensory brain areas in schizophrenia”, in cui spiegano che nel cervello “la culla” della schizofrenia, ossia l’insieme delle aree coinvolte nelle distorsioni della percezione, tipiche della malattia, si trova nei primi livelli del processo di elaborazione sensoriale. La schizofrenia è una grave e cronica malattia del cervello, caratterizzata da uno scollamento dalla realtà: il paziente ha difficoltà a distinguere tra esperienze reali e non reali, a pensare in modo logico, ad avere reazioni emotive adeguate al contesto sociale. La teoria, più accreditata fino ad oggi, sosteneva che le allucinazioni e le alterazioni della percezione, tipiche della schizofrenia, avessero origine nella corteccia frontale, l’area del cervello che controlla le funzioni cognitive elevate come il linguaggio e la programmazione delle azioni. Mettendo, però, a confronto le immagini dell’attività del cervello, rilevate con la tecnica della risonanza magnetica funzionale, in 94 persone sane e in altrettante malate di schizofrenia, i ricercatori del Centro di Rovereto hanno scoperto che le aree della corteccia frontale non sono alterate, ma che avvengono alterazioni della percezione iniziale del segnale che si riverberano sulle funzioni cognitive superiori, alterandole. Questo cosa significa? La ricercatrice Cécile Bordier spiega che quanto scoperto indica che “la comunicazione è già alterata ad un livello molto basso dell’elaborazione del segnale”. Si è visto così dove ha origine il malfunzionamento della comunicazione tra le aree della corteccia cerebrale, chiamato frammentazione della connettività funzionale. Questa scoperta, come spiega Angelo Bifone, uno dei ricercatori dello studio sopracitato, “è il primo passo per programmare terapie farmacologiche più mirate”.
DALLA STORIA
Il 17 aprile 1969 il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco Alexander Dubček veniva deposto.
Il 17 aprile 1969 il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco Alexander Dubček veniva deposto. Dubček, protagonista della primavera di Praga, era il simbolo delle speranze di apertura e di democratizzazione dei paesi dell’est. Figlio di operai, nel 1925 seguì la famiglia trasferitasi in Urss. Membro del Partito comunista dal 1939, partecipò ai movimenti di Resistenza contro i nazisti e, nel 1944, all’insurrezione slovacca. Nel 1962 venne eletto segretario del Partito comunista slovacco. Nel 1966, in occasione del XIII Congresso, convinto della necessità di un allontanamento dal modello sovietico e dai suoi principi, rigidamente seguiti fino allora dal segretario Antonín Novotný chiese una maggiore democrazia all’intero del partito e criticò gli effetti pesanti della burocrazia sull’economia, che non riusciva a riprendere le antiche tradizioni industriali della Cecoslovacchia. Diventò quindi il personaggio di riferimento del dissenso sia all’interno del partito che nel paese, attaccò il segretario Novotný verso la fine del 1967 e ne prese le funzioni, sostituendolo il 5 gennaio 1968. Una volta leader del partito si fece promotore di una sua democratizzazione e dell’introduzione di una maggior democrazia nel sistema politico del paese stesso, puntando soprattutto a rendere autonoma dall’Urss la politica estera. Introdusse riforme economiche con accenni di liberalizzazione, permise la libera discussione e la differenziazione delle posizioni nel partito. La politica di Dubček chiamata “nuovo corso” per gli elementi di forte novità che conteneva, conquistò una moltitudine di consensi all’interno ma incontrò l’opposizione anzitutto dell’Urss, che vedeva messa in discussione la sua funzione consolidata di paese guida del blocco comunista e degli altri membri del Patto di Varsavia, timorosi che l’effetto della “primavera di Praga” si propagasse in tutto l’est comunista. Dopo vari momenti di grande tensione, viaggi di Dubček in Urss, missioni di politici russi e degli altri paesi “fratelli” a Praga, la Cecoslovacchia fu occupata dalle truppe del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968. Dubček restò ancora, formalmente, segretario del partito, fino a quando Gustáv Husák (membro dell’apparato di partito fedele ai sovietici, lo sostituì, il 17 aprile 1969. Venne eletto presidente dell’Assemblea nazionale, ma le critiche sempre più pesanti per la condotta tenuta durante i mesi precedenti provocarono il suo allontanamento dalla carica. Dopo un altrettanto breve periodo passato in qualità di ambasciatore presso la Turchia, venne espulso dal partito nel giugno 1970. Costretto per molti anni a fare umili lavori come la guardia forestale, Dubček tornò alla ribalta e venne riabilitato nel 1990, dopo la caduta del muro di Berlino. Tornò quindi a essere presidente dell’Assemblea nazionale cecoslovacca, carica che riprese dal 1990 fino alla morte, avvenuta in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale.
IL PERSONAGGIO
(Karen Blixen all’aeroporto di Copenhagen, 1957)
Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke, è stata una scrittrice danese, nota con vari pseudonimi, il più famoso dei quali è Karen Blixen. Nata in Danimarca il 17 aprile 1885, Karen, con la madre Ingeborg Westenholz, il padre Wilhelm Dinesen, a cui era molto affezionata, i fratelli Thomas e Anders e le due sorelle, visse un’infanzia felice a Rungsted, un piccolo paese sul mare, posto tra Copenaghen e Elsinoire, un porto battuto dai venti freddi del Nord. Nella vocazione letteraria di Karen profonda fu l’influenza del padre, che trasmise alla piccola Tanne, il soprannome famigliare di Karen, il linguaggio segreto della natura, unito all’anelito alla libertà e alla propensione a raccontare storie. Il padre, appartenente a una famiglia di proprietari terrieri e gentiluomini di campagna, imparentati con la più alta nobiltà del regno, si suicidò, però, quando lei aveva solo dieci anni. Di carattere estroverso e romantico, Karen sviluppò, all’inizio, un forte interesse per la pittura e, dal 1903 al 1906, frequentò l’Accademia delle Belle Arti di Copenaghen, poi quelle di Parigi, nel 1910, e di altre città europee, ma alla fine lasciò perdere. Il 2 dicembre 1913, insieme con il cugino, il barone svedese Bror von Blixen-Finecke, col quale nel frattempo si era fidanzata, partì per l’Africa, per acquistare una fattoria e vivere, così, lontano dalla civiltà. Nel 1914 sposa il cugino Bror a Mombasa ed insieme acquistano una piantagione di caffè ai piedi delle colline di N’Gong, vicino a Nairobi, vi si trasferiscono e iniziano l’avventura da tanto tempo sognata. Dopo il divorzio, nel 1921, Karen resta da sola a dirigere la piantagione, che ormai è divenuta la sua ragione di vita. Una grande crisi del mercato del caffè la costringe, però, nel 1931, a chiudere la fattoria e a far ritorno in Danimarca il 31 agosto dello stesso anno. Karen non tornerà mai più nella sua amata Africa e si dedicherà con passione alla scrittura, componendo il suo capolavoro, “La mia Africa”, una specie di diario, dove racconta i suoi anni passati in Kenya e i suoi rapporti con la natura e con i nativi del posto, dei quali ammira il modo di vivere. Il tema dominante dell’opera è il sentimento profondo che lega Karen all’Africa, alla popolazione locale, e alla natura. L’amore per il popolo Kikuyu viene raccontato anche attraverso la figura di Kamante, un ragazzo indigeno che la Blixen cura e che diventa il suo braccio destro nella fattoria; il rapporto idilliaco con la natura africana è, invece, simboleggiato soprattutto da Lulu, un’antilope addomesticata da Karen. Nel romanzo la Blixen suggerisce che l’Africa sia superiore all’Europa in quanto più pura e più vicina al mondo che Dio aveva preparato per gli uomini. Negli anni che trascorse in Danimarca la scrittrice passò lunghi periodi in ospedale a causa di una grave malattia venerea, la sifilide, trasmessale dal marito, e negli ultimi tempi fu costretta a dettare i suoi romanzi alla segretaria a causa della malattia che non le consentiva più di lavorare alla scrivania. Morì il 7 settembre 1962, all’età di settantasette anni. I suoi ricordi africani, le fotografie e le lettere del suo amato Denys Finch Hatton, suo compagno dopo la separazione dal marito, la sua scrivania e molti oggetti personali sono conservati nella sua casa, divenuta museo nel 1991 grazie agli introiti de “La mia Africa”, il film del 1985 diretto da Sydney Pollack, ispirato all’omonimo romanzo autobiografico. Nel museo si possono ammirare anche diversi quadri dipinti dalla stessa Blixen.
(Casa Museo Blixen, Nairobi Kenya)
16 aprile
PRIMO PIANO
La giornata della ricerca italiana nel mondo.
Si apre, oggi, alla Farnesina la prima edizione della Giornata della Ricerca Italiana nel Mondo, istituita nel febbraio scorso con specifico decreto dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, d’intesa con il Maeci e il Ministero della Salute proprio per valorizzare il lavoro e i risultati delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori nel mondo. Come data della celebrazione è stato scelto il 15 aprile, giorno di nascita, nel 1452, di Leonardo da Vinci. La giornata è stata dedicata ai ricercatori e alle ricercatrici italiani che lavorano in organizzazioni come la Nasa e l’Eso o in istituti come il Max Planck e il Mit e scrivono su Nature e Science, proprio per promuovere e valorizzare il loro lavoro e divulgare i risultati delle loro ricerche nel mondo. Si punta a sottolineare il valore della ricerca italiana e dei nostri ricercatori, la qualità del nostro sistema educativo e il know-how tecnologico nazionale. Grazie alla ricerca italiana, ad esempio, è possibile vedere la danza delle tempeste e dei cicloni su Giove, immagini inedite e stupefacenti del pianeta rosso, riprese dalla sonda Juno della Nasa, che ha a bordo un’attrezzatura chiamata Jiram, messa a punto da Alberto Adriani, dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziale di Roma, un fisico ricercatore italiano, che, come molti altri, lavora in organizzazioni come la Nasa.
DALLA STORIA
La Maja desnuda e La Maja vestida.
La Maja desnuda e La Maja vestida sono due dipinti a olio su tela, realizzati da Francisco Goya (Fuendetodos, 30 marzo 1746 – Bordeaux, 16 aprile 1828), pittore spagnolo e artista originale, che ha anticipato con le sue opere e il suo stile molte tendenze dell’arte dell’ Ottocento. La Maja Desnuda è stata dipinta in un periodo compreso fra il 1790 e il 1800, anno della sua prima segnalazione documentata, come appare dal diario di Pedro González de Sepúlveda, incisore e accademico, il quale la cita come facente parte nel 1800 della collezione d’arte di Manuel Godoy. La Maja vestida fu invece dipinta da Goya tra il 1802 e il 1805, probabilmente su committenza dello stesso Manuel Godoy, manca però il documento della sua commissione. L’identità della protagonista dei due celebri dipinti rimane, per certi versi, ancora avvolta nel mistero: molti studiosi hanno ipotizzato che fosse la duchessa de Alba, la nobile donna spagnola famosa per la sua bellezza, legata da un forte rapporto di intima amicizia con Francisco Goya; altri critici ritengono che la modella della Maja desnuda fosse l’amante di Godoy, Pepita Tudó. In ogni caso, date certe somiglianze fisiche tra le due donne, è probabile che Goya abbia ritratto Pepita evocando, in qualche modo, la duchessa e immortalando dunque quest’ultima. Alcuni esperti hanno persino formulato la tesi, oggi definitivamente smentita dai raggi X, che la testa della Desnuda, la quale non sarebbe – secondo costoro – in armonia con il corpo, fosse stata dipinta per coprire il volto di Pepita, perchè non sarebbe stato conveniente per Godoy tenersi in casa il ritratto dell’amante nuda: da qui l’ordine a Goya di cambiare il volto della Desnuda e di realizzare anche una versione casta dello stesso dipinto. Joaquín Ezquerra del Bayo, nel suo libro “La Duquesa de Alba y Goya” afferma, basandosi sulla somiglianza della postura e sulle dimensioni delle Maja, che si sarebbe potuto, mediante un ingegnoso meccanismo, sostituire la Vestida con la Desnuda in un gioco erotico svolto nella stanza più segreta, dove Godoy custodiva, salvati dai roghi dell’Inquisizione, numerosi altri nudi, tra cui la Venere allo specchio di Velázquez, già a lui pervenuta dalla duchessa de Alba. Il nudo artistico in quell’epoca non era assolutamente accettato dalla Chiesa, che, grazie all’alleanza con la Monarchia spagnola, aveva un potere eccezionale e lo esercitava per mezzo dell’Inquisizione. Così tutti i quadri che presentavano scene di nudo integrale vennero distrutti perché reputati oltraggiosi, Manuel Godoy, però, facendo valere la propria importanza, riuscì in un primo tempo a evitare questa triste fine ai due laovri realizzati da Goya. Successivamente caduto in disgrazia, nel 1807 la sua intera collezione venne confiscata e fu consegnata al re Ferdinando VII, che, essendo grande alleato della Chiesa, mostrò le opere all’Inquisizione: l’autore delle due Maja, Francisco Goya, dovette difendersi dalle accuse mossegli dal Tribunale dell’Inquisizione. La Desnuda fu comunque sequestrata perché “oscena” e praticamente eliminata dalla vista di chiunque fino all’inizio del XX secolo. Dal 1910 entrambi i quadri sono esposti al Museo del Prado, a Madrid. La Maja Desnuda è un dipinto audace e rivoluzionario per l’epoca: è la prima volta, infatti, che una donna nuda appare in un’opera senza essere una dea o un personaggio mitologico, come Venere o altre donne del mondo greco-romano. Goya ha qui ritratto, ispirandosi a Tiziano, una donna reale, sdraiata, il cui corpo nudo è messo in risalto da una fonte di luce, proveniente dal basso a sinistra, e il cui sguardo malizioso appare piuttosto conturbante. Tutta la composizione emana un sottile erotismo: il volto è affilato, leggermente truccato, mentre i capelli neri, arricciati cadono morbidi sul corpo della donna e sul divano, il damasco dell’alcova, dalle diverse sfumature di verde, contrasta col bianco rosato dell’incarnato, in modo tale che la Maja sembra brillare di luce propria, sospesa nello spazio oscuro che la circonda. La Maja vestida rispetto all’altra presenta alcune differenze, probabilmente frutto delle scelte del pittore, che qui ha impiegato pennellate svelte, pastose e molto leggere, tocchi più casuali e meno rifiniti, colori molto più accesi: la giacchettina e l’alcova sono resi in modo molto sommario, i merletti e la biancheria sono modificati e semplificati, lo spazio in fondo è piatto, privo di quell’illuminazione diffusa che, nella Desnuda, dà risalto al corpo nudo, in primo piano. Anche il viso è molto diverso, tanto che qualche critico ha pensato che non si tratti in realtà della stessa modella: le guance sono pienotte, il mento tondo, gli occhi truccati e il velo bianco si stringe talmente alla figura, in particolare ai fianchi e al seno, da farla sembrare quasi più nuda della Maja desnuda. La fascia ai fianchi è di seta luminosa, la giacchettina gialla e nera non è il classico bolero e le sue scarpe dalla punta lunga e affusolata sono tipiche delle ricche signore. Sembra quasi che il pittore abbia voluto ritrarre una donna aristocratica che amava vestirsi come le giovani popolane. Questo, insieme con gli abiti disegnati con l’unico scopo di far risaltare la sensualità del corpo, rende il dipinto carico di ambiguità: il travestimento diventa fonte di erotismo e lascia allo spettatore il compito dello svelamento.
15 aprile
PRIMO PIANO
Formula 1: nel Gp di Cina vince Ricciardo, terzo Raikkonen, Vettel ottavo.
Sul circuito di Shanghai l’australiano Daniel Ricciardo, su Red Bull, ha preceduto il finlandese Valtteri Bottas, su Mercedes, e Kimi Raikkonen, su Ferrari, e ha vinto il Gp della Cina, terza prova del Mondiale 2018 di Formula 1. Al quarto posto si è classificato il campione del mondo Lewis Hamilton, con la Mercedes, grazie ad una penalità di 10 secondi inflitta all’olandese della Red Bull, Max Verstappen, che lo ha preceduto al traguardo, per una manovra scorretta su Vettel. Dopo due vittorie consecutive, Sebastian Vettel ha chiuso all’ottavo posto, pagando la “toccata” di Verstappen, che ha fatto andare in testa coda sia la Red Bull sia la Ferrari e a Sky Sport ha così commentato: “Avrei potuto aspettare un po’ di più. Ho bloccato le posteriori, ma certo non volevo colpire Vettel. Gli ho chiesto scusa ma più di così non potevo fare. Certo ho avuto un inizio di stagione da schifo, devo cercare di fare meglio dalle prossime gare.” Il tedesco della Ferrari ha dovuto incassare: “Le gare sono così. Sono cose che succedono, è stato negativo per entrambi. Non c’è molto da aggiungere. Ho perso bilanciamento con tantissimo sovrasterzo, era difficile stare in pista, cercavo solo di sopravvivere. Le gare a volte ti fanno un favore, altre volte vanno storte …” Raikkonen, terzo con la Ferrari, dal podio del Gp di Cina: “Se avessi avuto gomme soft, nel finale forse sarei riuscito ad attaccare Bottas, ero più veloce, ma quando lo avvicinavo poi non riuscivo a fare di più.”
14 aprile
PRIMO PIANO
Siria: nella notte lanciati missili da Usa, Gran Bretagna e Francia.
Alle 21:00 negli Stati Uniti, le 3:00 del mattino in Italia, Trump ha annunciato in televisione una serie di attacchi mirati contro il presunto arsenale di armi chimiche del governo di Assad. In azione mezzi aerei e navali di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, con l’appoggio della Nato. È stata un’operazione durata poco più di un’ora, nel corso della quale sono stati colpiti tre obiettivi legati alla produzione o stoccaggio di armi chimiche: un centro di ricerca scientifica a Damasco, un sito a ovest della città di Homs e un laboratorio a Barzeh (Damasco). I missili sono partiti da alcuni bombardieri e da almeno una delle navi militari americane nel Mar Rosso. In azione anche fregate e caccia francesi e britannici. Trascorsa qualche ora dall’intervento militare, Trump ha espresso su Twitter la sua soddisfazione per i risultati e ha ringraziato gli alleati: “Un attacco perfettamente eseguito la notte scorsa. Grazie alla Francia e alla Gran Bretagna per la loro saggezza e le capacità dei loro eserciti. Non ci poteva essere risultato migliore. Missione compiuta!”. La premier britannica Theresa May ha chiarito che lo scopo dell’azione “non è un cambio di regime”, ma dissuadere Assad dal fare uso di armi chimiche e ammonire che non ci può essere “impunità” al riguardo. Anche il presidente francese Macron ha spiegato che “la linea rossa fissata dalla Francia nel maggio 2017 è stata oltrepassata”. La prima reazione di Damasco è stata rivolta a sminuire i risultati degli attacchi: se i raid sono finiti qui, hanno affermato fonti del governo di Assad, i danni sono limitati. Anche Mosca, che sarebbe stata preventivamente avvisata dei raid per evitare vittime fra i militari russi e la popolazione civile, ha ridimensionato le conseguenze degli attacchi, sostenendo che ben 71 dei 103 missili lanciati sono stati intercettati e distrutti dai sistemi di difesa siriani, “fabbricati in Unione Sovietica oltre 30 anni fa”. Il leader russo Vladimir Putin ha parlato di “atto di aggressione” e ha chiesto e ottenuto per oggi una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Anche Teheran, l’altro grande alleato di Assad, ha fatto sapere che “gli Stati Uniti e i loro alleati sono responsabili per le conseguenze regionali che seguiranno all’attacco” e la guida suprema Khamenei ha definito Trump, Macron e May “criminali”. Il segretario generale dell’Onu Guterres invita alla “moderazione e alla responsabilità”, mentre il segretario generale della Nato, Stoltenberg, invece, ha dato il suo sostegno all’operazione. Sono di delusione, poi, secondo la Bbc, le prime reazioni di alcune delle maggiori milizie ribelli siriane anti-Assad, ai raid occidentali: secondo Mohammad Alloush, di Jaish al-Islam, fazione islamico-radicale, sostenuta dagli Usa, i cui miliziani sono stati gli ultimi ad abbandonare Duma dopo la sconfitta nella Ghuta, è stato un “attacco insignificante”.
13 aprile
PRIMO PIANO
Basilicata: acqua contaminata nel mar Jonio.
La Procura della Repubblica di Potenza ha fatto eseguire il sequestro di tre vasche di raccolta delle acque di falda e della condotta di scarico per evitare che continui il flusso nel mare Jonio di acqua contaminata proveniente dall’impianto nucleare Itrec di Rotondella (Matera). I reati ipotizzati nell’inchiesta sono: inquinamento ambientale, falsità ideologica, smaltimento illecito di rifiuti e traffico illecito di rifiuti. Nell’impianto nucleare di Rotondella sono custodite, dagli anni Sessanta, 64 barre di uranio provenienti da Elk River (Stati Uniti): il sito è in fase di decommissioning e il sequestro “non bloccherà queste attività”. L’impianto è gestito dalla Sogin e il sequestro riguarda anche l’impianto “ex Magnox”, che si trova nella stessa area. Le indagini sono cominciate dal “grave stato di inquinamento ambientale causato da sostanze chimiche” cancerogene (cromo esavalente e tricloroetilene), usate per il riprocessamento di barre di uranio-torio. Tali sostanze chimiche, utilizzate per il trattamento delle barre di uranio/torio, sono state scoperte dagli investigatori proprio nella falda acquifera sottostante il sito: secondo quanto emerso dalle indagini, l’acqua contaminata “non veniva in alcun modo trattata”, le acque contaminate erano sversate “tal quale” nel mar Jonio, dove, attraverso una condotta, dopo aver percorso alcuni chilometri, si immettevano direttamente. Lo smantellamento dell’Itrec “obbligherà i responsabili dei siti – sotto la diretta vigilanza della Procura della Repubblica di Potenza – ad adottare le indispensabili misure a tutela dell’ambiente e della salute pubblica, che fino ad oggi non erano state prese”. Qualche giorno fa le associazioni “Cova Contro”, Movimento “Policoro Futura” e “Mediterraneo No triv” hanno inviato una comunicazione alla Sogin, ad Arpa Basilicata, a Ispra, alla Regione Basilicata e alla Prefettura di Matera per interrompere le attività di taglio del monolite nell’Itrec di Rotondella, chiedendo chiarimenti sia “sulle analisi radiochimiche sul percolamento di liquido radioattivo dal monolite dell’agosto 2014”, sia sulla “conformazione delle falde sotto tutto il sito Itrec”, sia sul piano di emergenza esterno che non sarebbe stato aggiornato.
DALLA STORIA
Il massacro di Katyn.
Il 13 aprile 1943, una rivelazione raccapricciante sconvolgeva la Polonia. Finalmente si sapeva che cosa era accaduto delle migliaia di ufficiali polacchi catturati dai russi nel 1939. Essi dormivano sotto gli alberi della foresta di Katyn. Questi dispersi erano ricercati da tre anni dal governo polacco e dalla Croce Rossa internazionale. Il generale Sikorski, nel corso di una sua visita a Mosca, aveva sottoposto la questione a Stalin. “Penso” aveva risposto questi scherzando “che i vostri polacchi debbano essere fuggiti attraverso la Manciuria …”. Quando i tedeschi, nel febbraio del 1943, scoprirono presso Smolensk otto fosse comuni, il popolo polacco non ebbe dubbi sui responsabili dell’immane assassinio. Stalin aveva semplicemente attuato la spietata logica del regime decapitando l’intera classe politica polacca, uccidendo tutti gli ufficiali con un colpo di pistola alla nuca, per accelerare i tempi delle sanguinose operazioni. Non solo, alla fine si conta che abbia sistematicamente eliminato 21.857 cittadini polacchi prigionieri di guerra e deportato le loro famiglie nei gulag, ai confini della Siberia, dove morirono per il freddo, la fame e le impossibili condizioni di vita e di lavoro eliminandone così anche la discendenza. I due regimi di sangue, quello tedesco di Hitler e quello russo di Stalin, che si erano accordati la spartizione della Polonia con il trattato Molotov-Ribbentrop, gareggiavano nell’orrore. Paradossalmente a denunciare questi orribili massacri fu proprio la propaganda tedesca quando la Germania invase il territorio sovietico con l’operazione Barbarossa che causerà la repentina perdita della guerra. Fu perciò radio Berlino, il 13 aprile 1943, ad annunciare al mondo l’orribile strage. Il massacro verrà confermato esattamente quarantasette anni dopo, dal leader sovietico, promotore della Perestrojka, Michail Gorbacev. Di fronte a fatti del passato così disumani o, a quelli più recenti, come lo sterminio di civili nella guerra attualmente in corso in Siria e così via, davanti a tanta disumana efferatezza, si resta sgomenti. Ci si chiede come possa avere origine un male così assoluto che sembra provenire da meccanismi automatici come potrebbe avere un maligno robot eterodiretto. Soltanto quando un individuo non ha pensiero o volontà propri, entrano nella sua interiorità i pensieri automatici come, ad esempio, “il pensiero e la volontà di popolo”. Se si riflettesse si comprenderebbe che in realtà un popolo non ha volontà, un popolo non ha pensieri, perché un popolo non è un essere umano e soltanto un essere umano singolo può, nel mondo dell’umano, avere una vera volontà e un vero pensare. Quando citiamo: “Questo popolo ha voluto la “guerra” e quest’altro la “pace” siamo nella pura astrazione. Il popolo non esiste in quanto entità vera e propria. Il popolo si riconduce a una somma di relazioni tra individui umani: è questa la realtà di un popolo; ma ciò che origina queste relazioni sono gli individui singoli, gli esseri dotati di Io nell’esercizio del libero arbitrio. Il male e il bene cosiddetti collettivi sono dunque rispettivamente la somma delle persone che omettono di essere libere, e la somma delle persone che “avverano” a grado a grado, la libertà. La coscienza morale è una conquista umana e, semplicemente, la sua omissione è la forza che produce la disumanità o più banalmente il male.
Mary Titton
12 aprile
PRIMO PIANO
Istat: Un milione di famiglie senza lavoro.
Anche se il numero delle famiglie senza redditi da lavoro scende (-1,4%) nel 2017 rispetto al 2016, risulta ancora sopra il milione, precisamente 1milione 70mila. Le tabelle Istat indicano un andamento inverso nel Sud Italia, dove si registra un aumento del 2,2% annuo, con 600 mila nuclei privi di un reddito da impiego (oltre la metà del totale in Italia). Si tratta di famiglie dove tutti i componenti attivi sono disoccupati, quindi il reddito, se c’è, deriva da altre fonti, rendite o pensioni, e non da un impiego. In oltre mezzo milione di famiglie, precisamente 545 mila, con e senza figli, la donna risulta occupata a tempo pieno o part time, mentre l’uomo non porta a casa alcun reddito da lavoro, essendo disoccupato o inattivo, ovvero fuori dal mercato, e senza una pensione legata a una carriera lavorativa. Le tabelle Istat indicano che il tasso di occupazione per le donne single tra i 25 e i 64 anni è del 70,1%, ciò significa che sette su dieci hanno un lavoro. Valore non distante da quello degli uomini soli (76,8%). Le cifre segnalano una situazione ben diversa nel caso si viva in coppia, con il coniuge o il convivente. I dati indicano per le donne una discesa di quasi 20 punti percentuali, (51,7% senza figli e 52,7% con figli). Fino a due bambini il tasso resta comunque sopra il 50%, ma con tre o più cala decisamente (41,9%). Ecco spiegato come il tasso medio di occupazione femminile, nella stessa fascia d’età, sia sensibilmente più basso di quello maschile (55,5% contro 79,6%). È questo il quadro che emerge dalle tabelle dell’Istat aggiornate al 2017.
DALLA STORIA
I favolosi anni ’50!
12 aprile 1954: viene inciso un brano da Bill Haley & His Comets per la Decca, (la casa discografica di Bing Crosby, Pat Boone e Fats Domino. La stessa che nel ’62 rifiutò i Beatles). Ha la struttura di un blues in 12 misure ed inizia così: one, two, three o’ clock, four o’ clock. Five, six, seven o’clock, eight o’ clock e il mondo impazzisce! Ebbene si, è proprio “Rock Aroud The Clock” e Bill Haley (all’anagrafe William John Clifton Haley), bandleader del gruppo Bill Haley & His Comets è il primo ad interpretarla passando alla storia come il primo “re”, il primo grande divo “bianco” e padre fondatore del rock and roll. “Rock Around the Clock” è uno dei brani più conosciuti della storia della musica. Nine, ten, eleven o’ clock, twelve o’clok, rock. We’re gonna rock around the clock tonight; si dice che in ogni minuto, in qualche parte del mondo, qualcuno stia cantando “Rock Around The Clock”. La canzone venne scritta nel 1952 da Max C. Freedman, un signore di 59 anni e co-firmata da James E. Myers con lo pseudonimo di Jimmy De Knight. Inizialmente pubblicata come lato B di “Thirteen Women (and Only One Man in Town)” raggiunse il successo quando, l’anno successivo, fu inserita nella colonna sonora del film “Il seme della violenza” (con Glen Ford e Sidney Poitier alle prese con un gruppo di studenti ribelli) vendendo più di un milione di dischi e arrivando al primo posto nelle classifiche statunitensi, del Regno Unito e, per parecchie settimane di seguito, in Germania.
Come racconta Katia Ricciardi nel suo articolo su Repubblica: “L’assolo di chitarra elettrica, considerato tra i più famosi del rock, è eseguito da Danny Cedrone. Secondo quanto riportato da Jim Dawson nel libro “Rock Around the Clock”, Cedrone non aveva partecipato alle prove della band. Aveva suonato solo una sera a casa sua, un dopo cena come tanti altri a Philadelphia, almeno così ricordano la moglie Millie e la figlia Marie. Quando arrivò il giorno della registrazione non sapeva cosa sarebbe venuto fuori. Qualcuno tra i Comets gli suggerì di ripetere l’assolo di “Rock the Joint”. Ma lui improvvisando registrò un capolavoro. Fu pagato 21 dollari per quella session. Haley non voleva assumere nessun chitarrista stabile nella band, ma collaborò ancora con Cedrone il 7 giugno del 1954 per “Shake, Rattle and Roll”. Dieci giorni dopo, il 17 giugno, il chitarrista morì cadendo dalle scale rompendosi l’osso del collo. Al suo posto la band prese Franny Beecher che divenne un membro ufficiale. Cedrone non vide mai quello che causò il suo assolo di chitarra”. Il successo fu devastante. “Un’onda d’urto che investì la gioventù d’allora e “Rock Around the Rock” divenne il manifesto della ribellione di quei bravi ragazzi anni Cinquanta che a colpi d’anca disarcionarono la generazione precedente con tutti i suoi tabù. Nuovi ragazzi, posseduti, dai capelli impomatati fuori posto, con le gonne sollevate da un ballo senza mattoni e senza più regole. Gente scomposta”.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Il 12 aprile di ottantacinque anni fa nasceva a Barcellona Maria de Monserrat Viviana Concepción Caballé i Folch, per tutti Monserrat Caballé. Soprannominata dagli appassionati d’opera “La Superba”, condivide, unitamente a Maria Callas, “La Divina” e a Joan Sutherland, “La Stupenda”, la palma del più famoso soprano del dopoguerra. In oltre cinquant’anni di carriera ha interpretato circa centotrenta ruoli operistici, cantando in tutti i principali Teatri del mondo, lavorando con i più importanti registi e direttori internazionali e producendosi parallelamente in una intensa e acclamata attività concertistica. È tra i pochi artisti in grado di cantare perfettamente in lingua inglese, francese, tedesca e italiana ed il suo repertorio comprende oltre novanta autori diversi, dal 1700 ai giorni nostri. Nel 1988 fece un’incursione nella Rock Opera, registrando con l’amico Freddie Mercury l’album intitolato “Barcelona”. Il singolo omonimo diventò l’inno dei Giochi Olimpici del 1992. Sempre per i giochi cantò nell’album “Barcelona Games” con Placido Domingo e José Carreras. Ancora nell’ambito della musica leggera nel 1997 registrò l’album “Friends for life”, in cui duetta con vari musicisti. Nel 2013 si è ritirata definitivamente dalle scene.
11 aprile
PRIMO PIANO
Scoperto il meccanismo che genera la morte cardiaca improvvisa.
(Tracciato che rileva la Sindrome di Brugada)
Uno studio dell’Irccs del Policlinico San Donato, pubblicato sulla rivista Journal of the American College of Cardiology, descrive per la prima volta l’anomalia elettrica che causa la fibrillazione ventricolare e la morte improvvisa in giovani considerati sani, ma affetti da Sindrome di Brugada. Le anomalie della Sindrome di Brugada sono rappresentate da gruppi di cellule “elettricamente” anomale, raggruppate come isole circondate da tessuto sano. Tali isole si presentano in strati concentrici, “come una cipolla”, afferma Carlo Pappone, direttore della unità operativa di Aritmologia dell’Irccs Policlinico San Donato, “con un cerchio centrale caratterizzato da cellule più aggressive e predisposte a generare un arresto cardiocircolatorio.” Una nota dell’Irccs chiarisce: “In questo lavoro si dimostra che, indipendentemente dai sintomi, la malattia è presente sin dall’infanzia sulla superficie epicardica del ventricolo destro, sottolineando come il rischio di sviluppare aritmie ventricolari potenzialmente fatali sia presente per tutto l’arco della vita.” Il dottor Pappone spiega poi la metodologia adottata: “Sono stati arruolati sia pazienti sopravvissuti a un arresto cardiaco sia pazienti con sintomi sfumati. In entrambi i gruppi, le isole di tessuto anomalo sono risultate essere piuttosto simili quando sollecitate dalla somministrazione di ajmalina, farmaco che simula in laboratorio ciò che può accadere durante la vita di questi pazienti: cellule dormienti che all’improvviso durante la febbre o dopo pasto abbondante o durante il sonno, possono ‘esplodere’ generando la completa paralisi elettrica del cuore con conseguente arresto e morte improvvisa.” Proprio quello che è successo a Davide Astori, il capitano della Fiorentina, scomparso improvvisamente per cause sconosciuto e incomprensibili, anche se nel suo caso era stata esclusa la sindrome di Brugada. Questo studio, secondo Pappone, dimostra che “i sintomi e l’elettrocardiogramma non sono sufficienti, da soli, ad identificare i pazienti a rischio, poiché spesso il primo sintomo può essere la morte improvvisa”. Al Dipartimento di Aritmologia dell’Irccs Policlinico San Donato sono state sviluppate tecnologie innovative in grado di effettuare una mappatura del cuore estremamente accurata. “Si tratta di un software – spiega l’Irccs – in grado di riconoscere in modo automatico la distribuzione delle aree anomale e di particolari sonde in grado di emettere impulsi di radiofrequenza che ‘ripuliscono come un pennello’, la superficie anomala del ventricolo destro, rendendolo elettricamente normale.” Secondo Pappone “questo studio evidenzia la possibilità di eliminare quelle isole di tessuto elettricamente anomale, utilizzando delle onde di radiofrequenza di breve durata, con lo scopo di riportare quelle cellule a un corretto funzionamento elettrico. Sino ad ora, 350 pazienti sono stati sottoposti a tale procedura, mostrando la completa normalizzazione dell’elettrocardiogramma anche dopo la somministrazione di ajmalina”.
DALLA STORIA
11 aprile 1987: muore Primo Levi.
Quando Primo Levi morì Claudio Magris, che ieri abbiamo ricordato in questa rubrica in occasione del suo anniversario di nascita, scrisse queste parole: “Se questo è un uomo” è un libro che reincontreremo al giudizio universale, offre un’immagine quasi volontariamente attenuata dell’infamia che il testimone Levi racconta scrupolosamente, come pure sarebbe stato logico e comprensibile, vi allude pudicamente, quasi per rispetto a chi è stato annientato dallo sterminio dal quale egli in extremis si è salvato. In questa tranquilla sovranità egli incarnava la regalità sabbatica ebraica intrecciata alla sua confidenza di scienziato con la natura e con la materia di cui siamo fatti; ed è dunque questa religiosa autonomia della contingenza temporale, quale che essa sia, l’unica che è concesso all’uomo di vivere”. Primo Levi venne trovato morto l’11 aprile 1987 alla base della tromba delle scale della propria casa di Torino, in Corso Re Umberto 75, a seguito di una caduta: rimane il dubbio se la caduta, che ne ha provocato la morte, sia dovuta a cause accidentali o se sia stato un suicidio. Questa ipotesi appare avvalorata dalla difficile situazione personale di Levi, che si era fatto carico della madre e della suocera malate. Il pensiero e il ricordo del lager avrebbero, inoltre, continuato a tormentare Levi decenni dopo la liberazione, sicché egli sarebbe in qualche modo una vittima ritardata della detenzione ad Auschwitz. Il suicidio di Levi rimane comunque un’ipotesi contestata da molti, poiché lo scrittore non aveva dimostrato in alcun modo l’intenzione di uccidersi e anzi aveva dei piani in corso per l’immediato futuro. Magris, nel parlare dell’abiezione dei lager nazisti nel celeberrimo libro “Danubio”, durante la visita al campo di concentramento di Mauthausen, scrive: “… Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche e le camere a gas. Soltanto chi è stato a Mauthausen o ad Auschwitz può cercare di dire quell’orrore radicale; Thomas Mann o Brecht sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una storia di Auschwitz le loro pagine sarebbero state edificate letteratura d’appendice rispetto a “Se questo è un uomo”.
Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure le vittime, bensì i carnefici, Eichmann o Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, probabilmente perché, per dire cos’era veramente quell’inferno, lo si può soltanto citare alla lettera, senza commenti e senza umanità. Un uomo che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore, lo shock di quella mostruosità. Forse per questo è quasi imbarazzante incontrare per caso, a un inoffensivo e amabile pranzo, un sopravvissuto dei Lager, scoprire sul braccio del nostro gentile o antipatico vicino di tavola il numero di matricola del campo; c’è sempre un divario paralizzante fra la sua inimmaginabile esperienza e l’insufficienza dei gesti e delle parole con le quali egli vi accenna, facendola apparire quasi una routine. Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a morte e l’impiccagione, Rudolf Höss. La sua autobiografia, “Comandante ad Auschwitz”, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la stessa possibilità di raccontarle. Nella pagina di Höss lo sterminio sembra narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e all’infamia; la penna registra imperturbabile ciò che accade, l’ignominia e la viltà, gli episodi di bassezza e d’eroismo fra le vittime, le dimensioni immani del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea per un attimo, sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati. Höss non è il solito burocrate, pronto a seconda degli ordini a salvare o ad assassinare con eguale efficienza; non è un torturatore come Mengele, non è neppure Eichmann, che racconta e rielabora la propria vicenda perché interrogato dagli israeliani, tentando di non pagare il fio dei suoi delitti. Höss scrive dopo la condanna a morte, senza che nessuno glielo chieda; la molla che lo spinge a scrivere è oscura, non si lascia spiegare dal desiderio di nobilitare la propria figura, perché l’autoritratto che ne risulta è certo quello di un criminale e il libro sembra obbedire a un’imperiosa esigenza di verità, a un bisogno di ribadire la propria vita, dopo averla vissuta, di protocollarla con precisione, di passarla impersonalmente agli atti. Per questo il libro è un monumento, la registrazione della barbarie, preziosa contro i reiterati e abietti tentativi di negarla o almeno di smussarla, sfumarla. Il comandante di Auschwitz, assassino di centinaia e centinaia di migliaia di innocenti, non è più abnorme del professor Faurisson, che ha negato la realtà di Auschwitz. … Adorno ha detto che dopo i campi di sterminio è impossibile scrivere poesia. Quella sentenza è falsa, e infatti è stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse scrivere “dopo Maidanek”; è falsa anche perché non c’è stato soltanto il nazionalsocialismo, e pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, o gulag o Hiroshima la rima fiore-amore era, è, altrettanto problematica. La sentenza è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio estremo di annullamento dell’individuo, di quell’individualità senza la quale non c’è poesia. … Mentre sono ancora sulla scala (la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen), ho davanti agli occhi una fotografia di un uomo senza nome, probabilmente dall’aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi, l’espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato nel cuore dell’inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita”.
Mary Titton
10 aprile
PRIMO PIANO
Terremoto di magnitudo 4.6 nelle Marche
Alle 5:11 di questa mattina una forte scossa di terremoto di magnitudo 4.6, con epicentro a 2 km da Muccia, in provincia di Macerata, ed ipocentro a 9 km di profondità, a distanza di 2 anni, ha fatto ripiombare quelle popolazioni nella paura. La scossa è stata registrata dall’ Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e, oltre che nelle Marche, è stata chiaramente avvertita anche in Umbria, nel Lazio e in Abruzzo, fortunatamente senza danni alle persone. La scossa, come ha riferito il sindaco, Mario Baroni, a Muccia ha fatto crollare il campanile della chiesa Santa Maria di Varano del Seicento. A Pieve Torina 4 famiglie che vivevano nelle casette sono state evacuate per precauzione. Oltre 10 repliche sono state registrate finora nel Maceratese, tra cui due di magnitudo 3.5 alle 5:46 e alle 6:03. Quest’ultima, secondo i dati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, ha avuto l’ ipocentro a 2 km da Pieve Torina (Macerata). Le altre sono comprese tra 2 a 2.6, lo sciame sismico ha visto anche una trentina di scosse di minore intensità, tra lo 0,9 e l’1,9. La zona interessata dai terremoti di questi ultimi giorni si era attivata tra il 26 e il 30 ottobre 2016, quando sono avvenuti alcuni dei più forti eventi sismici della sequenza: quelli del 26 ottobre di magnitudo Mw 5.4 e magnitudo Mw 5.9 e quello del 30 ottobre 2016 di magnitudo Mw 6.5. Se si considera l’evoluzione temporale della sequenza sismica complessiva e l’energia rilasciata da tutti gli eventi sismici, si nota che negli ultimi mesi del 2017 sono stati localizzati una media di 30-40 eventi al giorno. Ai primi di marzo 2018 la sismicità è aumentata superando in un caso i 100 eventi al giorno e anche in questi primi giorni di aprile ha superato i 140 eventi al giorno. Questo aumento di sismicità è prevalentemente concentrato proprio nel settore più settentrionale del sistema di faglie attivato nel 2016, vicino ai comuni di Muccia, Pieve Torina e Pievebovigliana, sempre in provincia di Macerata. Gli esperti non sono sorpresi: “Il terremoto di questa mattina – spiegano – coinvolge le stesse faglie del sisma del 24 agosto e del 30 ottobre 2016. Lo scenario che si prospetta e che stiamo studiando è classico dei terremoti dove il cosiddetto “after shock” e la durata è imprevedibile. Basti pensare che per il sisma dell’Aquila si sono registrate scosse anche di magnitudo 5 per tre anni di seguito.” Secondo il direttore dell’Ingv “non è prevedibile se ci saranno altre scosse di magnitudo elevata, ma di certo stiamo monitorando la zona anche per vedere se vengono interessate altre faglie. In quanto alla sicurezza – conclude – l’esperienza ci dice che ci sono casi in cui le sequenze sismiche sembrano essere finite e poi invece riprendono anche diversi anni dopo.”
DALLA STORIA
Kahlil Gibran, il “Folle”. La filosofia che “rende l’uomo libero”.
Il 10 aprile 1931, all’età di 48 anni, moriva a New York Khalil Gibran, poeta, pittore e filosofo noto soprattutto per aver scritto “Il Profeta”, una raccolta di poesie in prosa legate da un filo comune narrativo, nel quale si inseriscono tematiche differenti come lo spirito, la mente, la natura. Nel libro, per ogni argomento, un personaggio fa una domanda al Profeta, il quale risponde per metafore e analogie con un testo di tipo poetico e religioso. Durante gli anni Sessanta, “Il Profeta” fu popolarissimo nella controcultura americana la quale, ispirandosi a un nuovo modello di società, incentrato sui temi della pace, della solidarietà, dell’amore e della libertà, in antitesi con il sistema politico americano razzista (Ku Klux Klan), guerrafondaio (Vietnam) e falsamente democratico, si riconosceva negli scritti di natura spirituale dell’autore libanese. La maggior parte dei primi scritti di Gibran fu in arabo, ma dopo il 1918 pubblicò esclusivamente in inglese. In America le sue opere vennero esposte in centinaia di gallerie, mentre la sua fama superava i confini del continente americano arrivando presto in tutto il mondo. Una collezione di un centinaio di opere d’arte è conservata al Telfair Museum of Art di Savannah (Georgia). Il suo primo libro in questa lingua fu “Il Folle”, un breve volumetto di aforismi e parabole scritti in cadenza biblica, tra poesia e prosa.
In una rara edizione de “Il Folle”, del 1989 si trova un’interessante presentazione a cura del dott. Marcello Carosi, profondo conoscitore e studioso della Scienza dello Spirito di Rudolf Steiner: “Il Folle” è la prima opera di Kahlil Gibran, pubblicata in inglese nel 1918, seguita dalle pubblicazioni di “Il Precursore”, 1920 e di “Il Profeta”, 1923. Si può riconoscere in questo un “trittico”, che rappresenta chiaramente la successione dei passi sul sentiero che conduce alla ricerca e alla conquista della vera libertà e della suprema saggezza. Il primo passo è appunto quello dell’essere che vive e soffre per l’acquisizione della “Coscienza del Sé e che apparirà come “folle”, proprio perché “alienato”, vale a dire: fuori delle contraddizioni, illusioni, incoerenze, vanità, ipocrisie e, anche, empietà e iniquità dettate dalla “ragione comune” vissute con la “coscienza ordinaria”. “L’aspetto della “follia”, quale viene reso manifesto in questa opera di Kahlil Gibran, non tanto come espressione di irrazionalità e stravaganza, quanto come rivelazione di una ricerca cosciente e responsabile di un modo di vita corrispondente al conseguimento di una suprema saggezza, trova il suo riscontro soprattutto nel mondo cristiano ortodosso, dagli inizi fino ai nostri giorni … Ne “Il Viandante” la follia, intesa come alterità a un pensiero precostituito e omologato, è ben rappresentata con la seguente metafora: “Fu nel giardino di un manicomio che io incontrai un giovane con un volto pallido e piacente e pieno di meraviglia. E io mi sedetti accanto a lui sulla panca, e dissi: “Per quale motivo siete qui?”. Ed egli mi guardò con stupore e disse:” È una domanda inopportuna, eppure vi risponderò. Mio padre vorrebbe fare di me una riproduzione di se stesso; così pure vorrebbe mio zio. Mia madre mi vorrebbe l’immagine del suo insigne genitore. Mia sorella vorrebbe elevare per me ad esempio perfetto da seguire il marito navigatore. Mio fratello ritiene che dovrei essere come lui, un bravo atleta. E pure i miei insegnanti, il dottore in filosofia, e il maestro di musica, e l’esperto in logica, anche loro erano risoluti, e ognuno non mi vorrebbe altro che un’immagine del proprio volto riflessa in uno specchio. Per tale motivo sono venuto in questo luogo. Io lo trovo più assennato. Per lo meno posso essere me stesso”. Poi, all’improvviso, si voltò verso di me e disse: “Ma, ditemi anche voi siete stato spinto a questo luogo dall’educazione e dai buoni consigli?”. Ed io risposi: “No, io sono un visitatore”. Ed egli disse: “Oh, voi siete uno di quelli che vivono nel manicomio dall’altra parte del muro”. Non più acquiescenza alle tradizioni, alle leggi, ai costumi, alle autorità, ai comandamenti, ma affermazione di un Io autocosciente. Una piena coscienza espressa nell’azione, così, come si coglie nell’esempio di Cristo. “Mutate la mente”, “raddrizzate i sentieri distorti”, predicherà Giovanni, il precursore e il Cristo preciserà: “Lasciate ogni ricchezza, liberatevi anche dai legami della famiglia, abbandonate parenti e amici, e seguitemi”. Non solo, ma i cristiani delle origini puntualizzeranno l’insegnamento: “Lasciati perseguitare, ma tu non perseguitare; lasciati calunniare, ma tu non calunniare; lasciati oltraggiare, ma tu non oltraggiare; lasciati crocifiggerti, ma tu non crocifiggere. Sii l’amico di tutti, ma, nel tuo spirito, resta solo”. Così, fra gli altri, Isacco di Ninive. Follia pura, rispetto alla comune convinzione religiosa e morale dei contemporanei. Questa la motivazione della scelta di Kahlil Gibran. Nell’esame dell’opera, che descrive le vicende attraversate durante il percorso di una siffatta “iniziazione”, incontriamo, per prima, la descrizione della modalità, per cui il libro ha acquisito la qualifica di “Folle”. Ma dopo il “perché” e il “come”, conviene precisare il “che cosa” comporta questo cammino iniziatico, vissuto come “follia”. Si tratta del conseguimento dell’evoluzione spirituale dell’uomo, mediante il superamento delle imperfezioni morali dell’anima o “corpo astrale”, secondo le definizioni della Scienza dello Spirito antroposofica, causate da manifestazioni interiori del pensare, del sentire e del volere promosse da impulsi egoistici e materialistici, superamento ottenibile col contemporaneo accoglimento da parte dell’Io cosciente delle verità universali, secondo il modello del Cristo, il quale, con la sua comparsa, rese possibile, appunto, il lavoro cosciente attorno al corpo astrale. … “Pertanto solo l’Io allevato all’indipendenza può essere in realtà il portatore dell’Amore, però non nell’aspetto pre-cristiano di anima-di-gruppo, e neppure nella risoluzione di un Io-globale, poiché la mèta finale dell’uomo è “la comunità degli Io divenuti autonomi e liberi”. Saggezza, quindi, come conquista della Verità, praticata in solitudine, ma con umiltà fertile e creatività relativa al divino nell’uomo, e non sapienza ghermita, per cui l’uomo si indurisce in se stesso, con alterigia e presunzione”.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
(Claudio Magris in una foto di Danilo De Marco)
Claudio Magris, germanista e critico, nasce a Trieste il 10 aprile 1939. Finissimo letterato, di vastissima e straordinaria cultura, è uno dei massimi scrittori italiani contemporanei. Saggista profondo e dotato di grande sensibilità ha contribuito, con numerosi studi, a diffondere in Italia la conoscenza della cultura mitteleuropea. Magris è Professore universitario e collabora al “Corriere della Sera” e a diversi altri quotidiani e riviste. Ha pubblicato numerosi libri, fra i quali: “Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna”, 1963, “Lontano da dove”, 1971, “Dietro le parole”, 1978, “Itaca e oltre”, 1982, “Illazioni su una sciabola”, 1984, “L’anello di Clarisse”, 1984 “Stadelmann”, 1988 “Un altro mare, 1991 e “Microcosmi”, 1997. “Danubio”, del 1986 è forse il suo capolavoro. Si tratta del taccuino dello scrittore giuliano scrupolosamente annotato, durante un viaggio lungo il corso del Danubio, in compagnia di cari amici. “Danubio” è contemporaneamente il diario di un viaggio, un trattato di filosofia e un testo di storia. Trovandosi nella cittadina di Ulm, in Germania, Magris, nel libro scrive: “A Ulm è nato un grande fiore dell’interiorità tedesca. Hans e Sophie Scholl, i due fratelli arrestati, condannati a morte e uccisi nel 1943 per la loro attiva lotta contro il regime hitleriano, erano di Ulm e oggi una scuola superiore porta il loro nome. La loro storia è l’esempio della resistenza assoluta che Ethos oppone a Kratos; hanno saputo ribellarsi a quella che a quasi tutti sembrava un’ovvia e inevitabile accettazione dell’infamia. Come ha scritto Golo Mann, combattevano a mani nude contro l’immane potenza del Terzo Reich, affrontavano l’apparato politico e militare dello stato nazista muniti soltanto del loro ciclostile, col quale diffondevano i proclami contro Hitler. Erano giovani, non volevano morire e spiaceva loro lasciare la seduzione delle belle giornate, come disse tranquilla Sophie il giorno dell’esecuzione, ma sapevano che la vita non è il supremo valore e che diventa amabile e godibile quando è posta al servizio di qualcosa che è più di essa e che la rischiara e riscalda come un sole. Per questo andarono sereni incontro alla morte, senza paura, ben sapendo che il principe di questo mondo è già giudicato”. Magris, pluripremiato per la sua opera letteraria, veniva dato per favorito per la vincita del premio Nobel per la letteratura 2007, assegnato poi alla scrittrice inglese Doris Lessing.
9 aprile
PRIMO PIANO
Siria: una crudeltà infinita.
Nella notte la base aerea Tayfur vicina ad Homs, nella Siria centrale, è stata colpita da un raid missilistico, attribuitio da varie fonti a Israele. Secondo i media panarabi degli Emirati Arabi Uniti (Sawt ad Dar), dell’Arabia Saudita (Ikhbariya) e dell’Iran e degli Hezbollah (al Mayadin), il raid non è da collegarsi all’attacco chimico di sabato a Duma, ultima roccaforte dei ribelli nella Ghouta orientale, in cui sono morte circa 100 persone, suscitando la forte condanna dell’Occidente, Usa in testa, che ha accusato Damasco. Secondo le stesse fonti, sarebbe uno dei raid periodici condotti da Israele contro basi iraniane e di Hezbollah in Siria. Per il raid contro la base aerea, i media di Stato siriani hanno inizialmente puntato il dito contro Washington, per poi accusare Israele. “L’attacco israeliano all’aeroporto T-4 è stato condotto da caccia F-15 che hanno sparato diversi missili dal territorio libanese”, ha affermato l’agenzia di stampa Sana, citando fonti militari. Queste accuse sono state sostenute da Mosca: per il ministero della Difesa russo sono stati due caccia dello Stato ebraico a sparare dallo spazio aereo libanese 8 missili, di cui 5 sono stati intercettati dalla difesa siriana. L’ipotesi israeliana era già circolata: a febbraio l’aviazione israeliana aveva lanciato un attacco contro la stessa base aerea siriana T-4, dalla quale era partito un drone iraniano che aveva sorvolato lo Stato ebraico prima di essere intercettato e abbattuto. Alla notizia dell’attacco, il Pentagono ha immediatamente smentito qualsiasi responsabilità, sottolineando che “in questo momento, il dipartimento della Difesa non sta conducendo attacchi aerei in Siria. Tuttavia – ha proseguito il portavoce – continuiamo a monitorare da vicino la situazione e sosteniamo gli sforzi diplomatici in atto per portare alle loro responsabilità coloro che usano armi chimiche, in Siria e altrove.” La Francia da subito si è schierata con forza con Washington nel condannare l’attacco chimico a Duma di cui gli Usa ritengono Damasco responsabile, Macron, in una telefonata, ha concordato con Trump che il regime di Assad deve essere chiamato a rispondere “per le continue violazioni dei diritti umani”. La tensione sulla Siria rimane altissima.
DALLA STORIA
La carta dell’Atlantico, 1513: un viaggio nel mistero.
La parte, arrivata fino a noi, della Carta dell’Atlantico di Piri Re’is. (La Carta è stata realizzata in fac-simile da Progetto Editoriale)
Il 9 novembre del 1929, durante i lavori di ristrutturazione del palazzo di Topkapi Sarayi di Istambul, dimora per secoli dei Sultani di Costantinopoli, nella zona degli harem, fu rinvenuta un’antica mappa geografica, disegnata su pelle di gazzella, firmata dall’Ammiraglio Piri Re’is e datata 1513. Solo nel 1953 l’istituto Idrografico della Marina Militare degli Stati Uniti si rese conto dell’eccezionalità della scoperta: la “carta” riportava, con assoluta esattezza, il profilo dell’Antartide antecedente alla grande glaciazione avvenuta oltre 6.000 anni prima della nostra era. Basti pensare che il Polo Sud fu avvistato e scoperto solo 300 anni dopo, nel 1818. Non solo, ma sulla mappa venivano indicate, con incredibile precisione, impensabile per quei tempi, distanze longitudinali incalcolabili fino all’invenzione del cronometro a metà del ‘700. Inoltre erano tratteggiate, con bellissimi colori, le sorgenti andine del Rio delle Amazzoni, le isole Falkland e intere catene montuose all’epoca del tutto sconosciute. Un vero mistero, reso ancor più fitto dagli studi del Capitano Arlington Mallery esperto geologo della Difesa Americana, del professor Charles Hapgood, membro della Royal Geographic Society e docente all’Università del New Hampshire, nonché del MIT, l’Istituto di Tecnologia del Massachuttes, avanguardia nel mondo della ricerca scientifica e sperimentale. Infatti dalle rilevazioni geosismiche più volte effettuate il risultato era che le planimetrie combaciavano in maniera sorprendente con i territori disegnati sulla carta, in assoluta mancanza però, per quei tempi sconfinatamente lontani, delle sofisticate tecnologie moderne, necessarie per rendere possibile questa mappatura nel 1513 e, a maggior ragione, ancora prima nel tempo. La Comunità Scientifica Internazionale ha dovuto prendere atto, negli ultimi venti anni, di questo vero e proprio paradosso della geografia e della storia. Questa straordinaria Carta dell’Atlantico fu opera dunque di Piri Re’is, celebre Ammiraglio della flotta di Solimano il Magnifico. Di origine greca, nato in Turchia, a Gallipoli sulle rive dello stretto dei Dardanelli intorno al 1470, fu prima pirata lungo le coste del Mediterraneo, per poi passare, con grandi onori, al servizio del Sultano, a capo della marina da guerra della Mezzaluna. Uomo molto colto, oltre alla sua lingua di origine conosceva il greco, l’italiano, lo spagnolo, il portoghese e l’arabo, fu un grande appassionato di geografia e di antiche mappe. Realizzò per volere di Solimano II il famoso Kitab-i-bahriye, libro di navigazione ed atlante del Mediterraneo, considerato uno dei più importanti reperti storici della cartografia moderna. Piri Re’is affermò sempre di aver lavorato alla Carta dell’Atlantico servendosi di remote mappe sorgenti, probabilmente trafugate dalla leggendaria Biblioteca di Alessandria d’Egitto, e di non aver mai varcato le mitiche Colonne d’Ercole. In un’annotazione di suo pugno, a margine della carta, rivela che gran parte delle indicazioni le aveva tratte da una mappa segreta per mezzo della quale Cristoforo Colombo avrebbe navigato verso il Nuovo Mondo. Proprio un ex marinaio di Colombo, catturato in battaglia agli inizi del ‘500, gli avrebbe fornito una copia dell’originale e molti dettagli in merito. Probabilmente, secondo diversi autorevoli studiosi, la Carta dell’Atlantico era solo una parte di una più vasta mappa mondiale che comprendeva anche il resto dell’Africa, l’Europa, il Mediterraneo, l’Oriente e finanche il Pacifico! Queste ipotesi si basano sullo studio trigonometrico dei criteri di costruzione proprio della “parte” arrivata fino a noi. Piri Re’is portò con sé il suo segreto essendo stato successivamente decapitato, a seguito di controverse circostanze politiche e militari, per ordine del Sultano, al Cairo fra il 1554 e il 1555. Con lui scomparve anche la sua leggendaria collezione di carte geografiche.
IL PERSONAGGIO
Per secoli e secoli migliaia di persone hanno guardato cavalli galoppare, hanno assistito a corse ippiche e a cacce, hanno posseduto pitture e stampe sportive con cavalli lanciati alla carica nelle battaglie o in corsa dietro ai segugi. Nessuno fra tanti sembrò aver mai notato come “effettivamente appaia” un cavallo in corsa. Pittori e incisori li hanno sempre rappresentati con le zampe protese, quasi librati in alto nell’impeto della corsa, così come li dipinse il celebre pittore francese Géricault in una famosa rappresentazione delle corse di Epsom.
(“The 1821. Derby at Epsom”. Olio. Théodore Géricault. Louvre, Paris)
Ebbene, Eadweard Muybridge, con l’avvento della fotografia, catturò il movimento. Il fotografo inglese, conosciuto come l’inventore del movimento in fotografia, dimostrò che pittori e pubblico avevano avuto torto: nessun cavallo lanciato al galoppo si è mai mosso al modo che a noi pare “naturale”. Esso ripiega le zampe via via che si staccano dal suolo e, se si riflette per un momento, ci si rende conto che non potrebbe fare diversamente. Di origini britanniche, Muybridge era nato il 9 aprile 1830. Trasferitosi poi negli Stati Uniti, all’età di trent’anni, si avvicinò per la prima volta alla fotografia. Fu però nel 1872 che, spinto dalla richiesta del governatore della California, avviò il suo studio del movimento verificando se, nel galoppo, tutte e quattro le zampe del cavallo fossero contemporaneamente alzate da terra, come le ritraevano i dipinti dell’epoca. Grazie all’uso di 24 fotocamere collegate ad altrettanti fili lungo il percorso, Muybridge ottenne una sequenza di immagini che documentavano con assoluta precisione il movimento dei cavalli. Quegli scatti da un lato confermavano che per alcuni istanti l’intero corpo del cavallo al galoppo è sollevato dal suolo, ma indicavano anche che l’estensione delle zampe appariva del tutto diversa da quella catturata dagli artisti. Dal galoppo del cavallo Muybridge, con la pionieristica tecnica della cronofotografia, passò a studiare il volo degli uccelli, il movimento di vari animali dello zoo di Filadelfia, fino ad arrivare a studiare quello dell’essere umano. Sono famosi i suoi ritratti di uomini e donne nudi disposti sullo sfondo di una griglia disegnata, mentre corrono o salgono le scale, o trasportano secchi d’acqua. Il suo lavoro fu precursore della biomeccanica e della meccanica degli atleti e le sue immagini hanno anticipato la nascita del cinema.
8 aprile
PRIMO PIANO
F1: Vettel vince il Gp del Bahrain.
La Ferrari di Sebastian Vettel ha vinto il Gran Premio del Bahrain, seconda la Mercedes di Valtteri Bottas, terza quella di Lewis Hamilton. Per il tedesco è il bis del successo dell’esordio, in Australia. Partenza emozionante: Bottas supera Raikkonen, Vettel parte senza intoppi, Perez si gira, mentre Verstappen, partito 15°, guadagna posizioni su posizioni e insidia Hamilton. Al secondo giro c’è la fine delle Red Bull: Ricciardo si ferma per problemi tecnici, mentre Verstappen viene toccato nel duello con Hamilton e fora la posteriore sinistra. Virtual safety car, con l’olandese che rientra ai box, riparte, ma poi si ritira. Al segnale di ripartenza Hamilton si porta rapidamente al quarto posto, all’inseguimento del terzetto che intanto ha preso qualche secondo di margine. Vettel è il primo, al 18° giro, a cambiare le gomme. Al passaggio successivo tocca a Raikkonen, quindi a Bottas. Hamilton aspetta e sul rettilineo del 26° giro viene sorpassato agevolmente da Vettel. Il britannico rientra quindi ai box e monta le medie (stessa scelta di Bottas, le Ferrari invece sono sulle soft). Al 36° giro Kimi Raikkonen, in quel momento terzo, rientra ai box per sostituire le gomme, ma nel ripartire la sua vettura investe un meccanico che finisce a terra ed è subito soccorso. è così costretto al ritiro per l’errore nella sostituzione del pneumatico posteriore sinistro, il meccanico, portato al centro medico del circuito di Sakhir, ha una frattura alla tibia e al perone. Kimi dichiara di non avere colpe, perché il semaforo, che il pilota è tenuto a guardare, gli dava il verde. Con Hamilton, precipitato a circa 20″ (errata la strategia di ritardare il cambio), l’unico ostacolo per Vettel è Bottas. Dai box arriva l’ordine di tirare fino alla fine con i pneumatici soft, che al traguardo avranno 40 giri. È una scommessa che Vettel riesce a vincere, resistendo fino a gli ultimi passaggi, incalzato sempre più da vicino da Bottas. Così il primo posto sul podio è suo.
7 aprile
PRIMO PIANO
Germania: Furgone sulla folla a Münster, 3 morti e 20 feriti.
È di almeno 3 morti e 20 feriti, 16 dei quali in gravi condizioni, il primo bilancio di quanto avvenuto nelle prime ore del pomeriggio nel centro d Münster, in Germania, quando un furgone è piombato sulla folla nel centro della città della Renania Settentrionale-Vestfalia. Il furgone usato per l’attacco si sarebbe scagliato contro i tavoli all’aperto del ristorante Kiepenkerl, nel centro storico, travolgendo i clienti seduti. Sedici feriti, secondo quanto riferisce la Bild, sarebbero in gravi condizioni. L’attentatore, secondo quanto confermato dalla polizia, si sarebbe ucciso a colpi di arma da fuoco. Secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung, si tratterebbe di un tedesco con problemi psichici, Jens R., che già nel 2014 e nel 2016 si era fatto notare per instabilità psichica, non ci sarebbero quindi indicazioni di una matrice terroristica. La polizia si è limitata ad affermare: “Niente speculazioni” e ha esortato gli abitanti della città ad evitare il centro per permettere ai soccorsi di operare. Sempre la polizia tedesca sarebbe in cerca di altri due presunti terroristi. Lo riporta l’edizione online del Rheinische Post. Nel frattempo, dalle regioni vicine stanno affluendo a Münster rinforzi per le forze di polizia locali e tutta la zona è stata recintata. Certamente l’allerta è massima dopo l’attentato a un mercatino di Natale avvenuto nel centro di Berlino il 19 dicembre 2016, quando un autoarticolato con targa polacca, proveniente dall’Italia, piombò sulla folla, provocando 12 morti e 56 feriti.
6 aprile
PRIMO PIANO
Misteriose morti di missionari cristiani tra Corea del Nord e Cina.
(Photo credit should read WANG ZHAO/AFP/Getty Images)
Nel nordest della Cina i missionari cristiani corrono seri pericoli, almeno 10 sono morti negli ultimi anni. I sospetti ricadono sul governo nordcoreano che considera la religione cristiana alla stregua dell’imperialismo occidentale guidato dagli Stati Uniti, ma anche sulle autorità cinesi, che ne hanno imprigionati e espulsi centinaia. Sono decine i missionari cristiani impegnati in un lavoro che mette loro stessi e i convertiti coreani in pericolo di vita, secondo le testimnianze raccolte dai reporter di Associated Press sono almeno 10, negli ultimi anni, i missionari e i sacerdoti cristiani morti in circostanze misteriose su questa frontiera. Secondo il reverendo Kim Kyou Ho, capo di un griuppo cristiano che opera a Seul e gestisce un memoriale per questie vittime, il governo della Corea del Nord è coinvolto in queste morti sospette, d’altra parte sono centinaia i missionari imprigionati o espulsi dalle autorità cinesi, che non tollerano il proselitismo degli stranieri sul proprio territorio. La tragica storia di Li Baiguang, un avvocato cinese impegnato nella difesa dei diritti umani, e in particolare dei cristiani, è significativa. Li aveva subito numerose minacce prima di morire, il 26 febbraio scorso, in un ospedale militare cinese in cui era entrato, a detta dei parenti, per un banale dolore allo stomaco. Amnesty International e altre organizzazioni che si battono per i diritti civili hanno chiesto un’indagine indipendente su questa morte sospetta. Anche la “mamma” missionaria di frontiera dice di essere controllata sia dai nordcoreani sia dai cinesi, ma da venti anni diffonde il Vangelo tra le donne della Corea del Nord che passano legalmente il confine per andare a visitare i parenti che vivono e lavorano in Cina. Tra i missionari uccisi in circostanze misteriose c’è quella del reverendo Han Chung-ryeol, un sacerdote cristiano di origini coreane, che mandava avanti una chiesa di frontiera a Changbai, una città al confine con la Corea. Nell’aprile del 2016 fu trovato morto, pugnalato più volte e con il cranio fracassato. Anche in questo caso i sospetti portavano verso Pyeongyang. La polizia cinese ha recentemente comunicato alla famiglia di aver visionato un filmato, registrato da una telecamera di sorveglianza, che mostra tre uomini e una donna, sospettati di essere agenti nordcoreani, attraversare il confine poco prima e poco dopo l’assassinio del sacerdote. Lo ha raccontato al reporter dell’Associated Press Songshi, la sorella di Han. Le autorità cinesi le hanno detto che quelle del Nord non rispondono alla richiesta di estradizione dei sospetti. Il governo nordcoreano ha, invece, inoltrato una lettera all’ufficio per gli affari religiosi di Changbai, in cui si dice che per l’omicidio hanno arrestato Zhang Wenshi, uno dei diaconi della chiesa di Han, condannandolo a 15 anni di lavori forzati.
DALLA STORIA
Laura e l’amore impossibile del Petrarca.
(Laura de Noves in un disegno conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana)
Laura, con il cui nome Petrarca gioca attraverso il senhal, moltiplicandone i significati: “lauro”, “l’auro”, “aura” , domina con la sua bellezza e la sua fisicità, ma anche con la sua assenza e la sua lontananza il “Canzoniere”, dedicato all’amore infelice del poeta per lei. Alcuni critici l’hanno identificata con Laura de Noves, nata nel 1310 da Audiberto ed Ermessenda de Noves ad Avignone e unitasi in matrimonio il 16 gennaio 1325 con il marchese Ugo di Sade, altri ritengono che non sia mai esistita e sia stata soltanto un espediente poetico con un riferimento al laurus, l’albero sacro al dio Apollo, in cui Dafne si trasformò per sottrarsi alle lusinghe del dio. L’identificazione della Laura petrarchesca con Laura de Noves ci viene fornita dallo stesso Petrarca nella Familiare II, nella quale il poeta testimonia l’esistenza della giovane donna ad uno scettico Giacomo Colonna. Tutto quello che si sa di lei, immagine mitizzata dall’amore ideale, deriva dalle parole dello stesso Petrarca, che nel nome di Madonna Laura scrisse il suo “Canzoniere”, opera formata da 366 componimenti di varie forme metriche, prevalentemente sonetti e canzoni. È lo stesso Petrarca a indicarci le circostanza dell’innamoramento per Laura, nel sonetto:
“Era ‘l giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo Factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro. “
Petrarca, infatti, vide per la prima volta Laura il 6 aprile 1327, venerdì santo, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, e se ne innamorò all’istante, tanto che continuò a celebrarla in ogni sua poesia. L’intera vicenda di questo amore impossibile è ripercorsa dal poeta in chiave retrospettiva, a conversione avvenuta, quando parla del “mio primo giovenile errore” ed è dominato dal “dissidio interiore” tra l’amore per Laura e la tensione spirituale verso Dio, dal complesso e doloroso conflitto tra desiderio e morale, che permane irrisolto, nonostante la preghiera alla Vergine (“Vergine bella che di sol vestita”), che non rappresenta il compimento di un itinerario di conversione felicemente realizzato, tipicamente medievale, ma, al massimo, un proposito per il futuro. Il passato è continuamente rivisitato dal desiderio e dall’inconsolabile ricordo del Petrarca, Laura è rievocata nel tempo con la sua bellezza e la sua fisicità e, pur conservandone alcuni tratti, non è più la donna-angelo dello Stil novo, ma una creatura terrena, che con la bellezza e il fascino del suo corpo continua ad attrarre il poeta:
“Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ‘n mille dolci nodi gli avolgea,
e ‘l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;
e ‘l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro che, pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.”
E ancora:
“Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
————
Da’ be’ rami scendea
(dolce nella memoria)
una pioggia di fiori sovra ‘l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch’ oro forbito et perle
eran quel dì, a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l’onde;
qual, con un vago errore
girando, parea dir: Qui regna Amore.”
Nemmeno la morte, avvenuta il 6 aprile 1348 a causa della peste, può scomporre la serenità e la bellezza del corpo di Laura, tanto che “morte bella parea nel suo bel viso” (“Trionfo della morte”). Con la morte la figura di Laura subisce una trsfigurazione, il suo rifiuto alla passione e la sua lontananza in terra si traformano ora in presenza consolatrice e pietosa:
“Deh, perché inanzi ’l tempo ti consume?
– mi dice con pietate – a che pur versi
degli occhi tristi un doloroso fiume?
Di me non pianger tu, ché ’ miei dí fersi
morendo eterni, et ne l’interno lume,
quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi.”
IL PERSONAGGIO
La Fornarina, il cui vero nome è Margherita Luti, è “la donna che Raffaello amò fino alla morte”, per dirla con le parole del Vasari. Si presume perciò che la Fornarina, che deriva il soprannome dalla professione del padre fornaio, sia stata l’amante del pittore Raffaello Sanzio, di cui parla il Vasari a proposito del ritratto della “Velata”. In quanto tale potrebbe essere stata la modella di alcuni altri dipinti raffaelleschi, tra cui “La Fornarina” e, con maggior verosimiglianza “La Madonna Sistina”. Si dice che appena l’Urbinate giunse a Roma, amò splendide donne, modelle che posavano nelle seriche vesti di Madonne e Sante, nelle tuniche di olimpiche divinità, ninfe ed eroine. È peraltro noto che Raffaello era “persona molto amorosa e affezionata alle donne” e dedito ai “diletti carnali”, come si deduce dai sonetti ritrovati accanto a suoi disegni di carattere sacro. Si dice che l’artista conducesse una vita sessualmente disordinata, o “fuor di modo” (Vasari), tanto che si ipotizza che anche la sua scomparsa, avvenuta a soli trentasei anni, sia imputabile all’eccesso della sua “ars amatoria”. Eppure, quando vide Margherita, nuda nel Tevere, non lontano dal Vaticano, folgorato da improvvisa passione se ne innamorò perdutamente tanto che ancora una volta la volle con sé nelle sale della Farnesina, come musa, modella e amante. In realtà non sapremo mai la verità su fatti e circostanze così personali, come l’intensità dei loro sentimenti, e l’identità inconfutabile della Fornarina, possiamo solo constatare che nell’Ottocento Margherita suggestionò l’immaginario romantico, venendo addirittura definita musa ispiratrice del pittore. Nel 1897 lo studioso Antonio Valeri scoprì un documento, che attestava il ritiro nel monastero di Sant’Apollonia a Trastevere di Margherita, avvenuto pochi mesi dopo la morte di Raffaello. Si è ipotizzato che Raffaello e Margherita si fossero sposati segretamente e che lei, morto il marito, avesse per questo deciso di ritirarsi a vita monastica.
5 aprile
PRIMO PIANO
Canada: Le orme di una famiglia di 13.000 anni fa.
Le impronte di piedi umani scoperte al largo delle coste canadesi del Pacifico risalgono all’ultima Era glaciale e attestano una migrazione, avvenuta 13.000 anni fa, attraverso il ponte di terraferma che allora univa i due continenti: un bambino camminava scalzo vicino al mare, insieme ai suoi genitori, dopo un viaggio lunghissimo, iniziato in Asia e terminato sulle coste del Canada. Secondo gli archeologi canadesi autori della scoperta, può darsi che il gruppetto preistorico fosse appena sceso da una zattera di fortuna per raggiungere una zona più asciutta poco più a nord o a nordovest. Già precedenti studi avevano chiarito che nell’ultima Era glaciale, finita circa 11.700 anni fa, alcuni gruppi di uomini, per sfuggire al freddo glaciale, erano migrati dall’Asia nelle Americhe, raggiungendo la costa occidentale dell’attuale British Columbia in Canada, ma finora era stato difficile trovare tracce archeologiche a supporto di tale ipotesi. Questa volta le orme dei nostri antenati, grandi e piccole, aiutano a delineare con più chiarezza il quadro delle prime migrazioni. Gran parte delle spiagge del Canada lungo la costa del Pacifico è, oggi, coperta da rigogliose foreste, accessibili solo via mare e difficili da studiare. Adesso, grazie agli scavi fatti sui sedimenti delle spiagge di Calvert Island, dove il livello del mare è 2-3 metri più basso rispetto alla fine dell’Era glaciale, i ricercatori, guidati da Duncan McLaren, hanno riportato alla luce 29 impronte umane, di almeno 3 dimensioni diverse. L’analisi al radiocarbonio ha permesso di datarle a 13.000 anni fa e i gli esami fotografici e digitali hanno mostrato che probabilmente appartenevano a due adulti e a un bambino, tutti scalzi. L’uomo era, quindi, presente sulla costa canadese 13.000 anni fa. Questi dati si aggiungono alle altre prove a supporto dell’ipotesi che l’uomo in quel periodo si sia spostato lungo le coste, per muoversi dall’Asia al Nord America. La scoperta si deve ai ricercatori dell’Università canadese di Victoria ed è stata pubblicata sulla rivista Plos One.
DALLA STORIA
Il 5 aprile Jakob Roggeveen sbarca sull’Isola di Pasqua.
“Questo minuscolo granello di terra perso nei mari deserti e infiniti del Pacifico sudorientale”, come veniva descritta l’isola di Pasqua da William Mulloy (il principale esperto di archeologia di questa particolare isola) è, infatti, un fazzoletto di terra a forma di triangolo rettangolo imprigionato dall’oceano a cinque o sei ore d’aereo dalla terra più vicina. Dal XIX secolo i suoi abitanti la chiamano Rapa Nui (Grande roccia), nome coniato dai marinai tahitiani che la ritenevano somigliante all’isola di Rapa, in Polinesia, a 3850 chilometri in direzione ovest. Eppure, in qualche modo, questo granello di terra minuscolo e remoto ha dato vita a una delle culture preistoriche più affascinanti e misteriose del mondo; una cultura impressa ormai nell’immaginario collettivo per via delle sue immense statue di pietra (moai), uniche al mondo. Quelle statue sono diventate una delle “icone” con cui rappresentiamo il mondo antico. L’isola di Pasqua viene generalmente dipinta come un luogo strano, eccentrico e misterioso; è un’idea che ritorna nei titoli dei libri e dei programmi televisivi più in voga. Nessuno può fare a meno di provare sgomento e meraviglia nel contemplare il nudo paesaggio delle colline ondulate; gli ampi crateri con i laghi disseminati di giunchi; le centinaia di enormi statue barcollanti sparse in ogni parte dell’isola; le cave abbandonate; le rovine di quelle che una volta erano piattaforme, case, strutture di altro genere; e l’arte rupestre, ricca e abbondante. L’isola di Pasqua è stata definita il museo all’aperto più grande del mondo; tutta la superficie, in realtà, può essere considerata un enorme sito archeologico. Secondo stime approssimative, sull’isola di Pasqua ci sono da 800 a 1000 moai; il numero definitivo è ancora incerto, dal momento che le perizie non sono ancora terminate. È molto probabile, infatti, che ce ne siano ancora parecchi nascosti dai detriti e dal terreno, nella zona della cava dell’isola. Più di 230 statue vennero innalzate sugli ahu (piattaforme), ognuno dei quali è in grado di reggere una fila che può comprendere da una a quindici statue. A differenza di quanto recitano le credenze popolari, le statue non sono affatto identiche tra loro; è impossibile, infatti, trovarne due che siano perfettamente uguali in altezza, larghezza o peso. Comunque, al di là di queste differenze, un moai “classico” è formato da una testa umana, elegantemente stilizzata all’interno di un rettangolo allungato e dalla parte superiore del corpo, fino all’addome. Al di sotto della fronte sporgente c’è il naso, lungo e diritto o concavo, poi il mento prominente e appuntito; i lobi delle orecchie, invece, spesso sono molto allungati e hanno delle incisioni che li fanno sembrare perforati, con dischi inseriti all’interno. Le braccia sono strette lungo i fianchi, mentre le mani, con le dita (senza unghie) lunghe e affusolate che sembrano quasi toccarsi, si appoggiano sull’addome sporgente. Che cosa spinse gli isolani a creare queste straordinarie figure che dominano il paesaggio? C’è chi pensa che le statue, innalzate sulle piattaforme lungo la costa, servissero a segnare una sorta di confine sacro tra due mondi, tra “casa” e “fuori”. Come fecero gli isolani a trasportare le statue attraverso lunghe distanze e a sollevarle poi sulle piattafome? Erano davvero privi di corde e legname, come pensavano i primi visitatori, che giunsero sull’isola dall’Europa? Le risposte sono diverse e contradditorie, tanto numerose quanto grande è la varietà di studiosi che lavorano alla soluzione di questo enigma. Ulteriori indizi dello sviluppo culturale dell’isola arrivano dal culto dell’uomo-uccello, che è sopravvissuto fino alla fine del XIX secolo. L’uomo-uccello era considerato il rappresentante in terra del dio creatore Makemake e assumeva inevitabilmente una forte connotazione simbolica per una popolazione così isolata, per la quale era impossibile andare via e ritornare a proprio piacimento, come fanno invece gli uccelli. Il tema, indubbiamente singolare, dell’uomo-uccello si ritrova nell’arte rupestre, così diffusa sull’isola di Pasqua, soprattutto nei pressi del villaggio di Orongo, che era il centro del culto. Perfino in qualche moai si notano particolari che richiamano gli uccelli.
Ma come nacque un culto così misterioso? Diversi studiosi hanno cercato di trovare risposte a questa serie di indovinelli nel Rongorongo, il “testo” degli isolani, strani caratteri disposti su linee parallele, inciso su una serie di tavole di legno. Secondo la leggenda, Hotu Matua, (Grande Genitore), il primo colonizzatore di Rapa Nui portò con sé sessantasette tavole incise. Oggi ne sono arrivate a noi ventinove, sparse nei musei di tutto il mondo. Negli ultimi quarant’anni, si è svolta un’intensa attività archeologica interessata a trovare le risposte ai numerosi interrogativi che ancora restano indecifrabili intorno a questa isola unica. Ad esempio il dilemma delle origini degli isolani. Da dove sono arrivati e quando? Quanti erano in principio? Come e perché si misero in viaggio verso l’isola? Che cosa portavano con sé e come sopravvissero? Il primo ad avvistare l’isola fu presumibilmente il pirata Edward Davis a bordo del suo battello, nel 1687. Il primo a sbarcare invece fu l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua del 5 aprile 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua. I primi studiosi che visitarono Rapa Nui, come Katherine Routledge, dopo un esame completo e obiettivo delle prove a disposizione conclusero che i colonizzatori di Rapa Nui erano arrivati dalla Polinesia e non dall’America del Sud come sosteneva l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl, uno dei più noti archeologi a condurre ricerche negli anni Cinquanta sull’isola. “Quando l’argomento è la misteriosa isola di Pasqua, nessuna conoscenza umana può ritenersi certa o definitiva”, conclude Padre Sebastian Englert che visse, a partire dal 1935, per oltre trent’anni, sull’isola di Pasqua. Il missionario effettuò il primo completo studio sulle piattaforme dell’isola.
Fonte: “Ultimi giorni di Rapa Nui”. Paul Bahn – John Flenley. Ed. Piemme
Mary Titton
4 aprile
PRIMO PIANO
Fusione nucleare: a Frascati la macchina sperimentale DTT.
Sarà costruita a Frascati, nel Lazio, la macchina sperimentale Divertor Test Tokamak (DTT), farà parte del Centro di eccellenza internazionale per la ricerca sulla fusione nucleare e dovrà fornire risposte sulla fattibilità scientifica e tecnologica della produzione di energia dalla fusione. La relazione approvata dal Consiglio di amministrazione dell’Enea contiene la graduatoria finale delle nove località candidate a ospitare il laboratorio scientifico–tecnologico: il Lazio è al primo posto con il sito di Frascati (Roma), seguito da Cittadella della Ricerca (Brindisi) e Manoppello (Pescara). Le altre regioni candidate sono Campania, Emilia Romagna, Toscana, Liguria, Piemonte e Veneto. Il presidente dell’Enea, Federico Testa, ha detto: “Oggi è l’Italia che vince perché investe sulla conoscenza e sull’energia sostenibile con un progetto che garantisce prospettive scientifiche e occupazionali positive per tutti e, in particolare, per i giovani.” La macchina Dtt, considerata l’anello di collegamento con i grandi progetti internazionali, come il reattore sperimentale Iter, in costruzione in Francia, dovrà fornire risposte scientifiche ai problemi complessi della fusione, che dovrebbe produrre energia, come avviene in una stella, per poi utilizzarla nella vita di ogni giorno. Il progetto prevede investimenti per 500 milioni di euro con un ritorno di almeno due miliardi. L’ingegner Aldo Pizzuto, direttore del settore fusione nucleare dell’Enea, spiega che “la fusione è una reazione assolutamente sicura dal momento che la ‘cenere’ prodotta è elio, un gas assolutamente innocuo, al contrario della fissione che produce scorie radioattive a lunga vita di decadimento. Anche dal punto di vista sicurezza, la situazione è molto diversa dal momento che la reazione di fusione si fermerebbe automaticamente in caso di funzionamento anomalo del reattore.”
DALLA STORIA
Cinquant’anni fa veniva assassinato il Reverendo Martin Luther King.
Il 4 aprile 1968 a Memphis, Tennessee, fu assassinato uno degli uomini-simbolo del ‘900: Martin Luther King. Leader del Movimento per i diritti civili, e icona della lotta non violenta, sapeva che la sua morte non avrebbe fermato la battaglia per l’uguaglianza dei diritti tra bianchi e neri. Il suo impegno civile è condensato nella Letter from Birmingham Jail (Lettera dalla prigione di Birmingham), scritta nel 1963, e in Strength to love (La forza di amare), che costituiscono un’appassionata enunciazione della sua indomabile crociata per la giustizia e per l’abbattimento nella società americana degli anni Cinquanta e Sessanta di ogni sorta di pregiudizio etnico. Nato il 15 gennaio 1929, il Reverendo King era cresciuto ad Atlanta nella Auburn Avenue, la zona borghese della città, dove frequentò le scuole elementari: la Younge Street Eementary School e la David T. Howard Elementary School, nella quale si diplomò nel 1940. In seguito frequentò la scuola sperimentale dell’università di Atlanta prima di entrare al Booker T. Washington High School. A quattordici anni, come racconta nella sua biografia, di ritorno da un viaggio in autobus a Dublin, dove aveva sostenuto una gara oratoria poi vinta, fu costretto assieme ad altri a cedere il suo posto a dei passeggeri bianchi saliti a bordo lungo il percorso, rimanendo in piedi per oltre 140 chilometri; tale evento, come lui stesso avrebbe poi affermato, rimase indelebile nella sua memoria. Inizialmente scettico sulla scelta suggeritagli dal padre di diventare pastore battista come lui, iniziò il suo percorso di studi religiosi solo nell’autunno del 1948 al Crozer Theological Seminary di Chester, in Pennsylvania, una scuola principalmente composta da bianchi e, ricevuto l’8 maggio 1951, il baccalaureato in teologia, a venticinque anni, Martin Luther King Jr. diventò il pastore in una delle città nel profondo Sud dell’America, dove la situazione razziale era tra le più gravi, entrando a far parte della sede locale del NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e diventò vicepresidente del Consiglio dell’Alabama per i rapporti umani. Tutta la vita e l’operato di King sono stati volti a combattere, con il metodo della reazione passiva e della non violenza, già attuato da Gandhi in India contro l’Impero britannico, la discriminazione nei confronti dei neri, molto forte nell’America di quegli anni, che oggi ci pare quasi impossibile fosse concepita e praticata nel paese della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. A partire dall’episodio di Rosa Parks, accusata di aver violato le leggi sulla segregazione e arrestata a Montgomery per essersi rifiutata di lasciare il suo posto, ancora uno di quelli di mezzo, messi a disposizione di tutti, per far sedere un uomo bianco, King si è sempre speso per l’eliminazione delle discriminazioni razziali e l’uguaglianza dei diritti, partecipando a cortei e manifestazioni, come quelle del 1963 a Birmingham, in Alabama, guidando il 28 agosto 1963 verso Washington la celeberrima “marcia per il lavoro e la libertà” e finendo molte volte in prigione. Affermò sempre il metodo della non violenza, criticato da Malcom X, l’attivista portatore di una linea aggressiva, che fu ucciso il 21 febbraio 1965 e, secondo il pastore, era una vittima del sistema che induce a far sentire gli afroamericani dei nessuno e a reagire senza comprendere la differenza fra il non opporre resistenza e opporre una resistenza non violenta. King incontrò John Kennedy il 19 settembre 1963 dopo l’attentato dinamitardo contro una chiesa di Birmingham, dove persero la vita quattro bambine afroamericane, il 22 lo stesso reverendo tenne un’omelia per le bambine morte e, quando il 22 novembre 1963 l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy scosse l’America, King nel suo discorso affermò che l’odio è contagioso come un virus che deve essere fermato e disse: “Più che chiedersi chi l’abbia ucciso ci si doveva chiedere cosa lo avesse ucciso”. Insignito il 14 ottobre 1964 del Premio Nobel per la pace, il Reverendo affermò che non si trattava di una premiazione alla singola persona, ma che ad ottenere il premio «Nobel» erano state tutte le «nobili» persone che avevano lottato nel movimento per i diritti civili. Unanimemente riconosciuto apostolo instancabile della resistenza non violenta, eroe e paladino dei reietti e degli emarginati, “redentore dalla faccia nera”, proprio per le sue battaglie non violente e le sue convinzioni che la violenza porti solo ad altra violenza, il 4 aprile 1968, alle ore 18:01, fu ucciso da un colpo di fucile di precisione alla testa, un proiettile calibro 30-06, mentre si trovava da solo sul balcone al secondo piano dell’hotel Lorraine a Memphis. Ad essere accusato del crimine fu James Earl Ray, quarantenne in fuga dalle prigioni del Missouri. Confessò il delitto e fu condannato a 99 anni di reclusione, poi, ritrattò. La famiglia King sostenne che l’omicidio fosse stato frutto di una cospirazione. I funerali si svolsero ad Atlanta. Il feretro fu trasportato in un carretto di legno trainato da due muli della Georgia, un tributo alla lotta contro la povertà a cui stava dedicando l’ultima fase della sua vita. “Esattamente un anno prima dell’assassinio King aveva fatto un sermone contro la guerra che aveva portato a raffreddare i rapporti con il partito democratico. Era costantemente sorvegliato dall’ Fbi, diretta da John Edgar Hoover che aveva infiltrato una persona fra i suoi collaboratori. Negli ultimi mesi di vita, King parlava della morte e temeva per la sua vita”. Celebre, e purtroppo sempre attuale, anche per il nostro tempo, in cui la discriminazione assume altre forme, per esempio nei confronti dei profughi, è rimasto il discorso che Martin Luther King tenne il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington e nel quale pronunciò più volte le indelebili parole “I have a dream” (Io ho un sogno), in cui esprimeva la speranza che egli coltivava, assieme a molte altre persone, che ogni uomo venisse riconosciuto uguale ad ogni altro, con gli stessi diritti e le stesse prerogative.
(Coretta Scott King bacia il marito ad una convention)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Nello stato dell’Ohio, a Marion nasceva il 4 aprile 1927 il giornalista, scrittore e critico letterario Robert Slatzer, uno degli amici più fidati di Marilyn Monroe. Slatzer scrisse due libri su Marilyn, “The life and curious death of Marilyn Monroe” (1974) in cui rivelò di aver sposato l’attrice segretamente, quasi come fosse un gioco, a Tijuana, in Messico il 4 ottobre 1952, ma che il loro legame fu subito interrotto per volontà di Darryl F. Zanuck, all’epoca capo dei 20th Century Fox Studios, preoccupato per l’immagine della diva che si stava affermando. Nel secondo libro, dal titolo “The Marilyn Files”, Slatzer sostiene che nella tragica fine dell’attrice ci sarebbe lo zampino dei servizi segreti. Marilyn sarebbe stata uccisa per non far emergere il rapporto sentimentale che la legava al presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy e a qualcosa che Kennedy stesso le avrebbe rivelato: un segreto di stato terribilmente scottante che l’intelligence volle, con la sua morte, seppellire definitivamente. Dalla ricostruzione di Bob Slatzer: Bob Kennedy quella sera era a Los Angeles ed andò a parlare con Marilyn. (dato confermato). Bob le disse che la loro storia era finita. Marilyn reagì male e minacciò una conferenza stampa in cui avrebbe reso pubbliche molte cose. Bob fece intervenire gli uomini della sicurezza che somministrarono il PB ed il CI. Nella camera da letto, in disordine, non fu rinvenuta acqua senza la quale sarebbe stato impossibile ingerire tutte le pastiglie di Nembutal che, secondo la versione ufficiale, l’attrice avrebbe preso per suicidarsi. La governante disse che tra le persone che arrivarono con la polizia c’era anche Peter Lowford, cognato di JFK (dato confermato). La governante disse che Marilyn teneva un diario rosso che sparì e non fu mai trovato (dato confermato). In alcune interviste Slatzer raccontò che lui e Marilyn si incontrarono sul set della Fox quando lei aveva appena iniziato le riprese di “Niagara”, il film che la rese famosa. Da allora restarono legati l’uno all’altra da una profonda amicizia in cui, spesso, Marilyn si rifugiava nei momenti più difficili della sua vita. Dicono che a differenza dell’ex marito Joe Di Maggio, che dopo circa vent’anni smise di deporre rose sulla tomba dell’attrice, lui non smise mai di porre delle rose bianche sulla tomba dell’amica.
3 aprile
PRIMO PIANO
Il volo della colombina a Firenze.
Lo Scoppio del Carro è una manifestazione della tradizione popolare laico-religiosa, che si svolge a Firenze la domenica di Pasqua. Il brindellone, una torre pirotecnica posizionata su un carro, viene trainato da una coppia di buoi per le strade del centro storico di Firenze e posizionato tra il Battistero e il Duomo. Al culmine della cerimonia, l’arcivescovo accende dall’altare del Duomo un razzo a forma di colomba che, tramite un meccanismo a fune, percorre tutta la navata centrale della chiesa e raggiunge all’esterno il carro, facendolo scoppiare. Quest’anno il tradizionzle Scoppio del Carro, nel giorno di Pasqua, ha fatto registrare alcuni imprevisti: prima il Brindellone si è impigliato in due cavi all’altezza di Borgo Ognissanti e di via della Vigna, rallentando così il percorso verso il Duomo, poi la colombina è volata fino al Brindellone, ma si è bloccata qui, senza tornare indietro verso l’altare. Nonostante questo, il razzo a forma di colombina è riuscito a incendiare il carro, dando avvio allo spettacolo pirotecnico che non ha dato problemi, anche se la colombina è rimasta leggermente annerita dalle scintille del carro. Secondo la tradizione il volo interrotto è segno di cattivi auspici per la città, Eugenio Giani, presidente del Consiglio regionale ed esperto della tradizione fiorentina ha detto: “Non succedeva dal 1966 che la colombina si incastrasse sul carro, era l’anno dell’alluvione.” Migliaia le persone presenti in piazza Duomo per questa cerimonia sacra, che affonda le sue radici ai tempi delle Crociate, quando la liberazione di Gerusalemme fu celebrata a Firenze con la distribuzione ai cittadini del fuoco benedetto. Tanti i fiorentini e tanti i turisti, ma anche tante le autorità, dal sindaco Nardella, che ha annunciato di candidare a patrimonio Unesco la tradizionale manifestazione, al vicepresidente viola Gino Salica. Tutti hanno seguito lo spettacolo assiepati attorno alle transenne della piazza. Alta è stata l’allerta terrorismo: moltissimi militari e agenti di polizia, in divisa e in borghese, hanno presidiato l’area della manifestazione. Come da tradizione, pochi minuti prima dello Scoppio del Carro, si sono tenuti i sorteggi per le semifinali del torneo del Calcio Storico, in programma a giugno. La prima semifinale del 9 giugno sarà quella tra Rossi e Azzurri, il giorno successivo toccherà a Verdi e Bianchi.
DALLA STORIA
Una storia “privata”.
C’è la Storia con la S maiuscola, fatta di eventi, di guerre, di personaggi, che ne hanno segnato il corso, e, a partire dal XX secolo, con Les Annales, la microstoria, quella che Jacques Le Goff ha chiamato “la nouvelle histoire”, attenta agli uomini comuni e alla vita quotidiana. Basti pensare ai romanzi di Vittorini, Pavese, Pratolini o ai film del Neorealismo, in cui piccole storie di gente comune s’inseriscono nell’immane tragedia dell’occupazione nazista e della Liberazione. In quest’epoca drammatica vive la sua adolescenza a San Miniato e la sua giovinezza a Firenze Enrichetta Ulivelli, che nel corso della sua vita ha affidato alla poesia pensieri, emozioni, ricordi, capaci di creare nel lettore echi e suggestioni che si dilatano all’infinito. Enrichetta Ulivelli nacque a Varese il 1 gennaio 1923 da una ricca famiglia borghese e, nonostante abbia abitato nell’infanzia in un sontuoso palazzo in piazza Montegrappa, la fredda cittadina di provincia con i suoi giardini, le sue chiese, il Sacro Monte, ritorna raramente nelle sue poesie mentre frequente è la presenza, quasi mitizzata come un eden felice, di San Miniato, il paese paterno e della villetta con il bersò di gelsomini, dove Enrichetta visse una giovinezza “lieta” e “pensosa”, con l’allegra comitiva degli amici e con la dolcissima sorella Margherita, morta mentre “beltà splendea” nei suoi occhi grandi e vellutati. Un mondo mitico: i primi corteggiamenti, le passeggiate con le amiche per il Corso dominato dalla “rossa Rocca del celebre Fedrico II”, “il poetico Viale delle Rose”, le corse in bicicletta nella tenuta di San Rossore, la frequenza all’Istituto Magistrale, dove aveva insegnato Giosuè Carducci, la partecipazione in divisa da giovane italiana, cantando in coro “Faccetta nera”, le adunate imposte dal regime per far ascoltare i discorsi del Duce. Un mondo che ritorna spesso nelle poesie di Enrichetta e che niente ha potuto scalfire: né l’orrore della guerra vissuta a Firenze, con i continui bombardamenti, le retate dei tedeschi e la loro terribile ritirata, né gli immancabili dolori della vita. Poi le gioie dell’amore, coronato dal matrimonio e dalla maternità e il trapianto, nell’immediato dopoguerra, in un paesino del Sud con tradizioni, usi, costumi, pur apprezzabili, ma completamente diversi e infine in una cittadina di provincia, dove i sogni, i desideri, le illusioni, “all’apparir del vero”, sono stati chiusi in un cassetto. Non sono state tarpate, però, le ali della poesia che ha continuato a spaziare dai temi autobiografici (i ricordi dell’infanzia e della giovinezza) al fascino di lontane terre d’Oriente, alla malia di incontri amorosi, al calore degli affetti, al ricordo di luoghi e persone, in uno stile vario e personale, a volte rispettoso della metrica tradizionale con rime ed assonanze, a volte ermetico e modernissimo, in cui dominano le parole con i loro echi suggestivi e la loro pregnanza.
IL PENSIERO
Luminoso, come un girasole nel sole
è il mio pensiero.
Luminoso come luce calda, avvolgente
che non potrà mai perire.
Luminoso come finestra
aperta su paesaggio
maestoso, infinito,
nel pulsare continuo del tempo,
nel suo susseguirsi e incalzare
il giorno, la notte e all’inverso.
Distesa infinita di idee, sogni
nel mare incessante della vita.
Come acqua chiara di ruscello
in cui si specchia la
vanità fugace di ogni uomo.
Enrichetta Ulivelli
IL PERSONAGGIO
Il 3 aprile 1955 la American Civil Liberties Union (ACLU), organizzazione non governativa orientata a difendere i diritti e le libertà individuali negli Stati Uniti, annunciava che avrebbe sostenuto il poeta ed editore Lawrence Ferlinghetti che si apprestava a pubblicare il poema “Howl” (L’urlo) di Allen Ginsberg. Ne seguì un caso giudiziario che si concluse positivamente due anni dopo: il giudice Clayton Horn assolse Ferlinghetti dalle accuse di oscenità, dichiarando che censurare il poema avrebbe comportato una limitazione anticostituzionale della libertà d’espressione. Il libro di “importanza sociale riedificante”, le sue idee di cambiamento hanno avuto risonanza attraverso i decenni, è diventato uno dei poemi americani più popolari al mondo. Il poema, suddiviso in tre parti più una nota addizionale, è composto da lunghi versi carichi di anticonformismo, slancio vitale e liberazione omosessuale. Un urlo di dolore che descrive lo sgretolamento e il disagio di chi vive nei sobborghi e nelle periferie della città moderna. “E’ una lunga, profonda e geniale descrizione della vita di questi desperados moderni”. (Fernanda Pivano). La poetica di Ginsberg, in alcune sezioni, scorre al ritmo del bebop, l’avanguardia jazz degli anni Cinquanta; la poesia, infatti, segue lo stesso ritmo di una performance Jazz, durante la quale i musicisti tornano sempre sulla stessa nota per poi prendere una strada improvvisata. Mentre, in altri versi, il poema si snoda in ritmi mantrici come nel caso dei termini, usati come mantra, “Moloch!” e “Holy”. Le visioni ricordano quelle di Rimbaud e il ritmo del respiro, in una serie di rapidi versi whitmaniani dalla forte carica espressiva, è preso come unità di pensiero ed espressione. L’“Urlo” fu letto per la prima volta nella Six Gallery di San Francisco, dal poeta stesso. Nel 1955, a San Francisco, esisteva un movimento letterario, che poi venne chiamato Poetry Renaissance of San Francisco del quale Kenneth Rexroth era il fulcro. Ginsberg e Rexroth organizzarono una serata letteraria in questa piccola galleria d’arte nei pressi dell’Embarcadero dove erano presenti più di cento persone della comunità bohèmienne di San Francisco, della Marina County e della Bay Area. C’era anche Jack Kerouac che in seguito descriverà questa serata nel romanzo “I vagabondi del Dharma”. Quando Ginsberg si lasciò trasportare dalla lettura di “Howl”, come se cantasse un inno, emozionato fino alle lacrime, successe un pandemonio. Finalmente i singoli poeti non erano più soli, entità separate alla deriva, ma sentivano di essere diventati un gruppo. Un gruppo di rottura con la tradizione letteraria americana e di rottura contro l’alienazione che l’establishment americano imponeva con la massiccia propaganda di un’ideologia fasulla, quella dell’American way of life, nella quale al benessere così tanto pubblicizzato, corrispondeva una squallida realtà fatta di cambiali da pagare a fine mese. Si era formato un gruppo di poeti beat, la Beat Generation. Quest’ultima che è stata precursore della rivoluzione del Sessantotto, era giunta sicuramente a realizzare negli animi di un vasto pubblico una grande opera di liberalizzazione da vecchi e arrugginiti dogmi sociali. Ginsberg aveva risvegliato le coscienze di una generazione dal conformismo americano del secondo dopoguerra. In Italia, “Urlo” fu pubblicato nel 1965 da Mondadori, all’interno della raccolta Jukebox all’idrogeno, tradotto da Fernanda Pivano.
Il DayByDay riprenderà martedì 3 marzo.
AUGURI A TUTTI PER UNA SERENA PASQUA!
30 marzo
PRIMO PIANO
Gaza: scontri al confine, uccisi otto palestinesi, centinaia i feriti.
Almeno otto palestinesi sono morti al confine tra Israele e la Striscia di Gaza: è il bilancio della Marcia del Ritorno, la protesta lungo la frontiera convocata da Hamas in memoria delle terre palestinesi confiscate. Il Ministero della Salute di Gaza parla di oltre mille feriti. L’esercito israeliano ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza, davanti a cui hanno manifestato 17.000 palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. La protesta, che secondo gli organizzatori doveva essere pacifica, ha l’obiettivo di realizzare il “diritto al ritorno”, la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori, che attualmente appartengono a Israele. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell’arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha arringato la folla, assicurando che “è l’inizio del ritorno di tutti i palestinesi”. Scontri sono scoppiati anche in Cisgiordania – all’ingresso di Ramallah e nel quartiere di Bab a-Zawiya a Hebron. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l’esercito è intervenuto perché ha “identificato alcuni terroristi che cercavano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti”. Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l’intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell’Anp a Ramallah, ha chiesto “un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane.”
DALLA STORIA
La missione salvifica di Cristo.
(Il Cristo di San Juan de la Cruz, Salvador Dalì, 1951)
“In tre giorni distruggerò questo tempio, in tre lo riedificherò” aveva detto ai suoi discepoli il figlio di Maria, Gesù, l’Esseno consacrato, Figlio dell’Uomo, erede spirituale del Dio di Mosè, di Ermete e di tutti gli antichi figli di Dio. Ha egli realizzato quella temeraria promessa, quella parola di iniziato e iniziatore? Sì, quando si considerino le conseguenze che l’insegnamento del Cristo, avallato dalla sua morte e dalla sua resurrezione spirituale, hanno avuto su tutta l’umanità e sono contenute nella sua promessa di un futuro di vita eterna. La sua parola e il suo olocausto hanno gettato le fondamenta di un tempio invisibile, più solido e più indistruttibile di qualsiasi tempio di pietra; ma la promessa è valida e si compie solo se ogni uomo, in ogni secolo, opera a questo scopo. Il tempio di cui parla Gesù è quello dell’umanità redenta. Un tempio morale, sociale e spirituale. Il tempio morale è la rigenerazione dell’anima umana, la trasformazione dei singoli attraverso un ideale umano esemplificato nella persona di Gesù la cui perfetta armonia e pienezza di virtù ne rendono difficile la definizione. Equilibrio della ragione, intuizione mistica, calore umano, potenza di parola e di azione, sensibilità spinta fino alla sofferenza, amore prorompente fino all’olocausto, coraggio che non indietreggia davanti alla morte, nulla di ciò mancava in lui. In ogni goccia del suo sangue c’era audacia sufficiente a creare un eroe; ma oltre a tutto questo quale divina dolcezza! La profonda unione tra eroismo e amore, fra volontà e intelletto, fra Eterno Mascolino e Eterno Femminino fanno di lui l’espressione più alta dell’ideale umano. La sua dottrina morale, che ha per scopo ultimo l’illimitato amore fraterno, l’alleanza universale fra gli uomini, fluisce spontaneamente dalla sua immensa personalità. I diciotto secoli di lavoro dopo la sua morte hanno avuto come risultato quello di far penetrare questo ideale nella coscienza di ogni essere umano. Nel mondo civile non esiste uomo che, più o meno chiaramente, non ne abbia nozione. Possiamo affermare che il tempio morale voluto dal Cristo è fondato su basi incrollabili nel cuore e nella mente dell’umanità attuale. Non analogamente accade per il tempio sociale. Un tempio che presuppone l’instaurazione del regno di Dio, della legge provvidenziale nelle istituzioni strutturate della società. Un tempio ancora tutto da costruire. L’umanità vive ancora in stato di guerra, dominato dalla Forza e dalla Fatalità. La legge del Cristo che regna nella coscienza morale non è ancora passata nelle istituzioni. Le nazioni non hanno mai smesso di convivere in uno stato di guerra aperta o di pace armata. Se la legge del Cristo si è fatta strada nelle coscienze individuali e, fino a un certo punto, nella vita sociale, è però ancora la legge pagana e barbara che governa le nostre istituzioni politiche. Attualmente il potere politico poggia ovunque su basi insufficienti. Da una parte, infatti, esso emana dal cosiddetto diritto divino di regalità che altro non è se non forza militare; dall’altra, dal suffragio universale che altro non è se non l’istinto della massa, l’intelletto non vagliato. Una nazione non consiste in un certo numero di valori indistinti o di cifre addizionate, bensì è un organismo vivente, composto da vari organi. Fino a quando il quadro non sarà nazionale, non sarà a immagine di questo organismo, dalle masse operaie alle masse docenti, non esisterà un quadro nazionale organico e intelligente; fino a quando i delegati di ogni campo scientifico e di ogni chiesa cristiana non siederanno in consiglio superiore, la nostra società sarà governata dall’istinto, dalla passione e dalla forza. E non vi sarà tempio sociale. Come mai allora, al di sopra della Chiesa, troppo limitata per contenerlo nella sua pienezza; della politica, che lo nega; della scienza, che ancora lo comprende solo a metà, il Cristo è più vivo che mai? Perché la sua morale sublime è corollario di un amore ancora più sublime del gnosticismo; perché l’umanità comincia solo ora a intuire la portata della sua missione, la magnitudine della sua promessa. Perché dietro di lui, a fianco e alle spalle di Mosè, scorgiamo tutta l’antica teosofia iniziatica dell’India, dell’Egitto, della Grecia, di cui egli è la conferma: cominciamo a capire che Gesù ne è la più alta coscienza, che il Cristo trasfigurato, ricolmo d’amore, apre le braccia ai suoi fratelli, ai Messia che lo hanno preceduto, come lui raggi del Dio vivente; che le spalanca alla sapienza integrale, all’Arte divina, alla Vita completa. Ma la sua promessa non può compiersi senza l’aiuto di tutte le forze vive dell’umanità. Due fattori principali sono oggi necessari al proseguimento della grandiosa opera: da un lato, l’apertura progressiva della scienza sperimentale e della filosofia intuitiva ai fenomeni di ordine psichico, ai principi intellettuali e alle verità trascendenti; dall’altro, l’ampliamento del dogma cristiano in direzione della tradizione e della scienza esoterica e, quindi, la riorganizzazione della Chiesa sulla base di una iniziazione graduale con un’iniziativa libera, e per questo tanto più irresistibile, di tutte le chiese cristiane, tutte, e allo stesso titolo, figlie del Cristo. La scienza deve assumere una colorazione religiosa e la religione una colorazione scientifica. Una duplice evoluzione, di cui già si avvertono i preliminari e che finalmente e necessariamente porterà alla riconciliazione sul terreno esoterico fra scienza e religione. All’inizio, sarà un lavoro molto difficile; ma dal suo buon esito dipende il futuro dell’umanità. La trasformazione del cristianesimo in senso esoterico porterà ad una analoga trasformazione del giudaismo e dell’islamismo, a una rigenerazione del bramanesimo e del buddismo, fornendo così una base religiosa alla riconciliazione fra l’Asia e l’Europa. Questo è il tempio spirituale da costruire; il coronamento dell’opera intuitivamente concepita e voluta da Gesù. Può il Verbo d’amore formare la catena magnetica che legherà scienze ed arti, religioni e popoli, per divenire così Verbo universale? Oggi, il Cristo è signore del mondo per le razze più giovani e più vigorose, ancora profondamente credenti. Per la Russia, egli ha i piedi in Asia; per gli anglosassoni, nel Nuovo Mondo. L’Europa è più vecchia dell’America, ma più giovane dell’Asia. Coloro che la credono votata ad una inarrestabile decadenza, la calunniano. Ma se l’Europa continuerà a sbranarsi invece di riunirsi sotto lo scettro della sola valida autorità, l’autorità scientifica e religiosa; se si spegnerà in essa quella fede che è la fiamma dello Spirito alimentata dall’Amore; se continuerà a preparare la propria decomposizione morale e sociale, la sua civiltà rischia di estinguersi, prima per gli sconvolgimenti di ordine sociale e poi per l’invasione delle razze più giovani che rileveranno il testimone che le sarà caduto di mano. L’Europa ha ben altro e migliore ruolo da ricoprire: tutelare la ròtta del mondo attuando l’opera sociale del Cristo, formulando un proprio pensiero integrale e coronando con la Scienza, l’Arte e la Giustizia, il tempio spirituale del più grande dei figli di Dio”.
Fonte “I grandi Iniziati”, di Edouard Schuré.
Edouard Schuré (1841-1929), profondo conoscitore delle religioni è l’autore di vari libri di carattere religioso che traggono ispirazione anche dalle dottrine antiche a partire dalle origini fino al suo tempo.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Oggi è l’anniversario di nascita di due grandi protagonisti della scena musicale internazionale: Tracy Chapman e Eric Clapton. La prima, nata a Cleveland nel 1964, musicista e polistrumentista è nota come una delle più intense e raffinate cantautrici afroamericane viventi, grazie soprattutto alla sua voce profonda e modulata. La cantante statunitense è autrice di brani di grande spessore artistico come: “Fast Car”, “Give Me One Reason” e “Talkin’ ‘bout a Revolution”. In tutti i suoi lavori scaturisce un vivido quadro di povertà (economica o morale) della società americana nei confronti del popolo afro. Eric Clapton, annoverato fra i chitarristi blues e rock più famosi e influenti, cantautore e compositore è nato a Ripley, in Inghilterra nel 1945. Durante la sua parabola artistica, che lo ha visto dapprima militare in numerosi “supergruppi” per poi intraprendere un’acclamata carriera solista, ha spaziato attraverso diversi stili musicali, dal rock psichedelico al blues di matrice tradizionale, dal pop rock all’hard rock, dal reggae al folk rock. Ma ascoltiamoli dal vivo, ripresi durante un concerto, insieme.
29 marzo
PRIMO PIANO
Le cellule immunitarie della retina sono capaci di rigenerarsi.
Le cellule immunitarie della retina hanno la capacità di rigenerarsi spontaneamente. La scoperta, pubblicata sulla rivista Science Advances, apre la strada a future terapie per limitare la progressiva perdita della vista a causa di malattie della retina, come la retinite pigmentosa o la degenerazione maculare. Lo studio è stato condotto sui topi dall’Istituto nazionale americano per lo studio dell’occhio, che fa parte dei National Institutes of Health (Nih). Coordinati da Wai T. Wong, i ricercatori hanno analizzato il comportamento delle cellule “sentinella” del cervello, le cellule immunitarie della microglia che rappresentano la prima linea di difesa del sistema nervoso centrale. Per Wong, “l’infiammazione nervosa è un fattore chiave nella morte dei neuroni, dovuta alle malattie della retina. Per questo è fondamentale capire come regolare l’attività del sistema immunitario.” Quando la retina viene danneggiata, la regione dell’occhio nella quale si trovano i recettori della vista, le cellule della microglia accorrono rapide per rimuovere le cellule morte. Può però accadere che eliminino anche cellule sane, compromettendo la funzionalità della retina. I ricercatori hanno, quindi, studiato cosa accade se con un farmaco si cancellano nei topi le cellule della microglia presenti ad esempio intorno al nervo ottico, che porta i segnali visivi dall’occhio al cervello. Hanno, così, dimostrato che, sospendendo il trattamento con il farmaco, nell’arco di 30 giorni le cellule immunitarie si rigenerano.
DALLA STORIA
Il 29 marzo 1971 a Los Angeles, in California veniva chiesta la pena di morte per Charles Manson per l’uccisione dell’attrice Sharon Tate.
Charles Manson, sospettato di essere il mandante degli omicidi di Sharon Tate, dei coniugi LaBianca e di altre quattro persone, veniva portato nel carcere di Los Angeles. Il processo durò ben 225 giorni, il tempo necessario prima di arrivare al verdetto. Il 14 dicembre 1969 Livio Caputo, sulle pagine del settimanale Epoca, così raccontava il raccapricciante massacro a Cielo Drive. “Quando il corpo seviziato del musicista Gary Hinman fu ritrovato nella sua abitazione, i sospetti caddero su Sadie Glutz, una hippy che frequentava la vittima. La ragazza venne arrestata quando una Volkswagen appartenente a Hinman e rubata dalla sua villa fu ritrovata a Spahn Ranch, nella valle di San Fernando, dove Sadie era vissuta per qualche tempo con una “famiglia” di hippies capeggiata da un certo Charles Miles Manson. Sadie, il cui vero nome è Susan Atkins, confessò alla sua compagna di cella di avere ucciso Hinman e di avere partecipato con altri membri della “famiglia” anche all’assassinio dell’attrice Sharon Tate e all’uccisione dei coniugi LaBianca. Il mandante di questi delitti, aggiunse, era Manson, uno straordinario individuo che si faceva chiamare ora Gesù e ora Satana, e che, grazie a strani poteri, esercitava sui suoi seguaci un’autorità indiscussa e assoluta. In questo modo del tutto casuale la polizia di Los Angeles ha risolto, dopo quasi quattro mesi di indagini e quando ogni speranza pareva perduta, il mistero del raccapricciante eccidio di Cielo Drive. Ma perché Manson, che ha passato quindici dei 35 anni in prigione, senza però essere mai condannato per reati di violenza, avrebbe ordinato questa serie di efferati delitti? Susan afferma che Hinman fu ucciso per avere tradito l’amicizia di Manson: che Sharon Tate fu la vittima innocente del risentimento di “Satana”, per Terry Melcher, il figlio di Doris Day, che, avendo abitato nella villa di Cielo Drive fino all’inizio del ’68, l’aveva trasformata in un “simbolo di odio”; che i LaBianca furono uccisi solo perché Manson non era rimasto soddisfatto del mondo in cui erano stati eliminati l’attrice e i suoi amici, ed esigeva perciò che i suoi sicari si “redimessero” con un delitto veramente perfetto. Altri sostengono che Manson nutre un odio indiscriminato verso i ricchi e che volle punire a caso alcuni esponenti della società che lo aveva respinto, “liberandoli” nello stesso tempo dalla “schiavitù” del loro benessere. Altri ancora pensano che la catena di omicidi debba essere attribuita all’effetto di dosi eccessive di Lsd su individui tarati. In attesa che il processo getti luce sulla vicenda, noi possiamo solo cercare di ricostruire la complessa personalità del suo protagonista. (…) A 14 anni subì la sua prima condanna per furto, a 15 anni fu arrestato per furto d’auto e tentativo di rapina e passò i successivi cinque anni in un riformatorio. Le persone che si occuparono di lui in quel periodo lo ricordano con un misto di tenerezza e di irritazione: era chiaramente un ragazzo bisognoso di affetto e dotato di intelligenza superiore alla media. Quando fu rimesso in libertà, a marzo del 1967, puntò deciso verso Haight Ashbury, il quartiere di San Francisco che era allora la capitale degli hippies. Questa fu la svolta. Tre ore dopo l’arrivo a Haight Ashbury incontrò una studentessa che senza tante storie lo invitò a seguirla nella sua stanza. Manson si accorse presto di esercitare una specie di attrazione magnetica su tutte le ragazze smarrite e assetate di avventura e, in poche settimane, riunì una specie di corte femminile, intorno alla quale ruotava a sua volta un certo numero di maschi cui egli concedeva l’“uso” delle sue “schiave”. Non c’era dubbio che esercitasse sui suoi compagni un’influenza quasi magica. Ma più che ipnotismo, bisogna parlare di “mesmerismo”: non imponeva cioè la sua volontà con gli occhi, ma con le mani, da cui sprigionava una specie di forza magnetica. (…) Charles Manson diede, nella notte dell’8 agosto, l’ordine di recarsi nella villa di Cielo Drive e di ucciderne tutti gli abitanti. (…) Infine venne il turno di Sharon Tate che, incinta di otto mesi e mezzo, supplicava: “Vi prego, lasciatemi prima avere il mio bambino”. La Atkins, ricordandosi del grande amore che il “padrone” manifestava per i bambini, fu sul punto di tirarsi indietro, ma Watson le ordinò di tenere ferma l’attrice mentre egli “finiva il lavoro”. Prima di andarsene, gli assassini con un tovagliolo intriso di sangue scrissero sull’uscio la parola “porci”. Manson non si dichiarò soddisfatto del loro lavoro: “Troppa confusione”, “Vi siete lasciati prendere la mano dal panico”. E, la sera dopo, egli stesso guidò una nuova spedizione contro una lussuosa villa scelta a caso. Stavolta presiedette personalmente ai preliminari, aiutando a legare i proprietari LaBianca e, prima di andarsene, diede precise disposizioni su come finirli”.
IL PERSONAGGIO
Il personaggio di oggi è “Il Ribelle”, di Ernst Jünger. Il ribelle di cui si vuole parlare non è identificabile in una persona specifica, ma è un archetipo di riferimento, una figura simbolica capace di dire “no” quando la sua coscienza, improntata all’integrità morale, non ha paura della radicalità delle sue posizioni. Nei primi anni del dopoguerra, mentre si andava delineando quella integrazione planetaria nel nome della tecnica, che nel tempo ha colonizzato le coscienze in un unico e omologato pensiero e che oggi è sotto gli occhi di tutti, Ernst Jünger (29 marzo 1895 – 17 febbraio 1998), uno dei più significativi scrittori e filosofi del XX secolo, elaborò un testo apparso nel 1951. Il libro, di un’impressionante preveggenza e più affilato che mai è “Il trattato del Ribelle”. Ecco cosa dice Jünger “Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco (l’espressione “passare al bosco” per l’autore è la libertà di dire no del singolo braccato da un ordine che esige un controllo capillare dal quale egli si dissocia) è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell’essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s’irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c’è l’identità”.
PRIMO PIANO
Alzheimer: una scoperta che potrebbe rivoluzionare diagnosi e cure.
(Auguste Deter, paziente del dottor Alois Alzheimer, primo caso documentato della malattia)
Per la prima volta, in uno studio su pazienti, è stato scoperto da alcuni scienziati italiani il ruolo chiave, nella malattia di Alzheimer, di una piccola regione cerebrale, l’area tegmentale ventrale. Se questa area, deputata al rilascio di una importante molecola “messaggera” del cervello, la dopamina, funziona poco, ne risente il centro della memoria, l’ippocampo, quindi risulta alterata la capacità di apprendere e ricordare. Autrice dello studio è Annalena Venneri dello Sheffield Institute for Translational Neuroscience (SITraN) in Gran Bretagna, che spiega: “la nostra scoperta indica che se l’area tegmentale-ventrale (VTA) non produce la corretta quantità di dopamina per l’ippocampo, questo non funziona più in modo efficiente” e la formazione dei ricordi risulta compromessa. Si tratta del primo studio al mondo che dimostra questo collegamento negli esseri umani. La Venneri e Matteo De Marco della University of Sheffield hanno eseguito test cognitivi e risonanze magnetiche su 29 pazienti con Alzheimer, 30 soggetti con declino cognitivo lieve e 51 persone sane, trovando una correlazione tra dimensioni e funzioni della VTA con le dimensioni dell’ippocampo e le funzioni cognitive dell’individuo. Più piccola risulta la VTA, minori le dimensioni dell’ippocampo e la capacità del soggetto di apprendere e ricordare. La scoperta arriva a un anno dai risultati di esperimenti di laboratorio condotti presso l’Ircss Santa Lucia e l’Università Campus Bio-Medico di Roma. Coordinato da Marcello D’Amelio, lo studio (su Nature Communication) evidenziava anche l’effetto del mancato rilascio di dopamina da parte della VTA sulla perdita di motivazione della persona, un aspetto che accompagna spesso la malattia fin dalle sue prime fasi. “Stiamo somministrando farmaci ‘agonisti-dopaminergici’ – spiega Giacomo Koch, Direttore del Laboratorio di Neuropsicofisiologia Sperimentale dell’IRCCS di Roma, – a pazienti con malattia di Alzheimer per osservare se questi farmaci stimolano la plasticità cerebrale e quindi la conservazione delle facoltà cognitive.” La Venneri conclude così: “Questa scoperta può potenzialmente condurre a un nuovo modo di intendere gli screening per la popolazione anziana in caso di primissimi segnali di Alzheimer, cambiando la modalità in cui vengono acquisite e interpretate le scansioni diagnostiche del cervello e utilizzando differenti test per la memoria.”
DALLA STORIA
Intorno al 1905, nell’arte, in Europa, vi fu una rivoluzione totale nel gusto. In molti artisti nacque l’esigenza di recuperare i valori insiti nell’arte dei primitivi risvegliando l’aspirazione romantica di fuggire da una civiltà sospettata di essere corrotta dallo spirito commerciale. “L’uomo primitivo è forse selvaggio e crudele, ma sembra almeno privo del fardello dell’ipocrisia”. La stessa romantica nostalgia aveva condotto nell’Africa settentrionale Eugène Delacroix e nei mari del Sud Paul Gauguin. Gli artisti infatti sentivano che immediatezza e semplicità erano le uniche cose che non si potevano imparare. Ormai, nell’arte, si potevano padroneggiare tutti i trucchi del mestiere, ogni effetto poteva essere facilmente imitato, dopo che si dimostrava come ottenerlo. Molti artisti, perciò, ritenevano che i musei e le esposizioni abbondavano di opere così facili e abili che non c’era nulla da guadagnare a proseguire su quella falsariga; se gli artisti non ritornavano bambini, si sarebbero sentiti in pericolo di perdere l’anima, trasformandosi in scaltri produttori di pitture e sculture. Nella strana corsa all’ingenuità e all’antintellettualismo che ora si andava affermando con il “primitivismo” gli artisti, che avevano un’esperienza vergine e di prima mano della vita semplice, avevano un vantaggio naturale. Marc Chagall, nato nel 1889 a Vitebsk, allora facente parte dell’Impero Russo, oggi in Bielorussia, un pittore trasferitosi a Parigi da un piccolo ghetto provinciale russo prima della Prima guerra mondiale, non lasciò offuscare le sue impressioni d’infanzia dalla dimestichezza con gli esperimenti moderni. Il suo mondo poetico si nutriva di una fantasia che richiamava all’ingenuità infantile e alla fiaba, sempre profondamente radicata nella tradizione russa. Le sue pitture di scene e macchiette di villaggio, come quella del musicante che è diventato tutt’uno con lo strumento, erano riuscite a conservare qualcosa del sapore e dell’incanto infantile della vera arte popolare. Chagall ritrasse numerosi episodi biblici che rispecchiavano la sua cultura ebraica. Egli fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante fonte di poesia e di arte. Nei suoi dipinti preferì tralasciare i periodi più difficili della sua vita come quello vissuto tra il 1908 e 1910, a San Pietroburgo quando studiò con Léon Bakst. In questo periodo Chagall venne persino imprigionato: gli ebrei potevano infatti vivere a San Pietroburgo solo con un permesso apposito. Un tema centrale della sua pittura fu l’amore nei confronti della moglie, della quale era innamoratissimo, che spesso ritraeva nei suoi dipinti, in volo: “L’amore non è amore se non ci si sente ardere e volare”. Un amore capace di superare la forza di gravità. “Per anni il suo amore ha influenzato la mia pittura … Poi a un tratto, un rombo di tuono, le nuvole si aprirono alle sei di sera del 2 settembre 1944, quando Bella lasciò questo mondo. Tutto è diventato tenebre”, così Chagall ricorda l’amata Bella, l’adorata musa quando morì, all’età di quarant’anni, a causa di un’infezione virale lasciandolo in una profonda prostrazione. Con il tempo il colore di Chagall superò i contorni dei corpi espandendosi sulla tela. In tal modo i dipinti si composero di macchie o fasce di colore, sul genere di altri artisti degli anni Cinquanta appartenenti alla corrente del Tachisme (da tache, macchia). Il colore diventò così elemento libero e indipendente dalla forma. Il pittore morì in Francia, dove si era trasferito nel 1923, all’età di 97 anni, il 28 marzo 1985.
Mary Titton
27 marzo
PRIMO PIANO
Dopo 80 anni permane il mistero sulla scomparsa di Ettore Majorana.
In occasione degli 80 anni della scomparsa di Ettore Majorana, grande fisico e professore di Fisica teorica all’Università di Napoli, il più silenzioso e schivo dei Ragazzi di via Panisperna che ruotavano intorno a Enrico Fermi, è andato in onda, lunedì scorso su Sky Arte, il documentario “Ettore Majorana – L’uomo del Futuro”, diretto da Franco Mazza e presentato da Federico Buffa. ll racconto di Buffa, che ha riacceso i riflettori sul caso, segue una traccia inquietante: il fisico, spaventato dalle terribili conseguenze delle sue scoperte sull’atomo, avrebbe raggiunto in segreto il Venezuela e in quel paese, secondo la procura di Roma, sarebbe vissuto da clandestino. Questa, però, è solo un’ipotesi, come le altre, che sono state fatte da quel 25 marzo 1938, quando, partto da Napoli con un piroscafo della società Tirrenia alla volta di Palermo, dopo un paio di giorni, scomparve senza lasciare traccia. Le indagini, scattate nei giorni successivi, non portarono a nulla. Le ipotesi che sono state fatte sulla scomparsa volontaria di Ettore Majorana, a parte il suicidio, seguono soprattutto tre piste: quella argentina, di cui si è detto sopra, quella tedesca e quella monastica. L’ipotesi tedesca suppone che egli sia tornato o sia stato portato in Germania per mettere le sue conoscenze e le sue intuizioni a disposizione del Terzo Reich e, dopo la seconda guerra mondiale, sia emigrato in Argentina come molti altri esponenti del regime nazista. L’ipotesi monastica si riallaccia alla formazione di Ettore, che aveva frequentato l’Istituto Massimiliano Massimo dei gesuiti a Roma, e alla sua condizione di credente, secondo Leonardo Sciascia si sarebbe rinchiuso nella Certosa di Serra San Bruno. La scomparsa del grande scienziato non ha mai smesso di appassionare e di sollevare mille domande ancora aperte, soprattutto nel mondo scientifico: per i fisici le teorie di Majorana sono un enigma altrettanto avvincente, a partire da quelle che descrivono il comportamento delle particelle più sfuggenti, i neutrini, e dai cosiddetti “fermioni di Majorana”.
DALLA STORIA
Sarah Vaughan
Negli anni Quaranta, soprattutto a New York, in contrapposizione agli stili jazz utilizzati dalle formazioni del momento, nasceva il bebop. In pieno periodo bellico, i locali e le case discografiche si sforzavano di far dimenticare la guerra ed i problemi sociali (in primis l’apartheid nei confronti dei neri): le orchestre swing, come quelle celebri di Benny Goodmann e Glenn Miller, erano le più adatte a questo scopo e vennero promosse attivamente. Nelle loro file militavano soprattutto musicisti bianchi, che avevano assimilato perfettamente il linguaggio swing e si accaparravano le sempre più scarse occasioni di lavoro. Per i musicisti neri si ponevano due obiettivi: liberarsi dai rigidi arrangiamenti delle big band per esprimersi più liberamente e manifestare tangibilmente la loro ribellione a quel mondo ipocritamente sorridente. Questo nuovo stile jazz era caratterizzato da tempi molto veloci e da elaborazioni armoniche innovative, da melodie scattanti, spezzettate, nervose, spesso dissonanti e da nuove scale musicali su cui improvvisare. I musicisti, liberi dai vincoli dei leader d’orchestra e del pubblico da compiacere, sperimentavano nuove soluzioni musicali fino a codificare il bibop. Cambiava il jazz e cambiava la musica. Il jazz maturava, con scelte armoniche rivoluzionarie: nelle mani dei “boppers” c’erano l’impegno a renderlo, deliberatamente, progressivo. Nel bebop tutto quello che era banale, scontato, ballabile o gradito al pubblico medio dell’epoca fu sistematicamente bandito. Il termine indicò, oltre allo stile musicale anche lo stile di vita e l’atteggiamento ribelle di coloro (che erano in maggioranza giovani) che si indicavano, per l’appunto, “boppers”. Anche per questo motivo il bebop divenne popolare tra i letterati che si riconoscevano nella cosiddetta Beat Generation e fu citato in alcune delle loro opere più famose, come ad esempio nella poesia “Urlo” di Allen Ginsberg. “A quei tempi, nel 1947, il bebop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il “bop” era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di “Ornithology” e quello di Miles Davis. (Jack Kerouac, “On the Road”, 1957). Esponente di punta dello stile jazzistico del bebop fu Sara Vaughan, soprannominata la Divina. La cantante statunitense, dotata di una voce di contralto, definita anche “una delle voci più stupefacenti del ventesimo secolo” si avvicinò alla musica poco dopo aver imparato a camminare: all’età di tre anni cominciò a prendere lezioni di piano, dimostrando un ottimo orecchio musicale che la faciliterà anche nel canto. Poco più che adolescente si esibì come organista e solista nel coro di una chiesa battista della sua città. Appena diciottenne, la Vaughan vinse un concorso di canto all’Apollo Theater di Harlem grazie alla sua interpretazione della canzone “Body and Soul”. In quegli anni, L’Apollo Theater lanciò artisti come Ella Fitzgerald, James Brown, Gladys Knight, Michael Jackson e the Jackson 5, Lauryn Hill ecc. Nel ’28, il teatro era stato trasformato da Bill Minsky in centro musicale e nel ’34 aprì definitivamente agli artisti afroamericani con il famoso show “Jazz a la Carte”. Oggi l’Apollo Theater di New York, è uno dei più famosi club musicali degli Stati Uniti e il più noto al mondo per quanto riguarda gli spettacoli di musicisti afroamericani.
Nel ’42 quando la giovanissima e timidissima Vaughan vinse il concorso di canto, a teatro, tra il pubblico c’era il cantante Billy Eckstine, all’epoca star della band di Earl Fatha Hines, che convinse il grande jazzista a ingaggiarla come seconda cantante e, all’occorrenza, pianista. Un anno dopo Eckstine formerà una propria orchestra: vi entrarono i bopper (fra di essi Dizzy Gillespie e Charlie Parker) e la stessa Vaughan che avrà modo di perfezionare l’uso della voce (che lei usava come uno strumento) cantando accanto a Eckstine con il quale formerà, a partire dal quel momento, il più alto esempio di duetto uomo-donna. La Vaughan ostentava una forte personalità; in realtà nell’intimo era molto fragile: ogni concerto, ogni recital, ogni sessione in sala di incisione era un inferno per lei, sempre insicura e paralizzata dalla paura. Forse per questo restò attaccata, per tutta la via, al suo mentore Billy Eckstine, che chiamerà, di volta in volta, “padre” o addirittura “my blood” (il mio sangue), affetto a tal punto contraccambiato che, alla notizia della sua morte, Eckstine subì un colpo apoplettico. Nel ’45, la Vaughan, lasciata la band, conquisterà il pubblico statunitense con brani diventati storici come “Tenderly” e “It’ Magic” e annovererà un successo dietro l’altro “Misty” e “Broken-Hearted Melody” e molti altri ancora, esibendosi, instancabilmente, nei concerti degli Stati Uniti e all’estero. Negli anni Sessanta affronterà altri generi musicali come, ad esempio, la bossa nova. Sarah Vaughan continuerà ad esibirsi fino a poco prima della morte che avverrà nel 1990, all’età di sessantasei anni.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Carl Barks, nato a Merrill, nell’Oregon, il 27 marzo 1901, è considerato uno dei più grandi maestri della storia del fumetto, tanto da essere inserito nella Will Eisner Hall of Fame nel 1987, anno della sua fondazione. Il famoso fumettista inventò Paperopoli, la città immaginaria in cui vive Paperino, già ideato da Walt Disney, con i suoi nipoti Qui Quo Qua. Creò pure Paperon de’ Paperoni, Gastone, Rockerduck, la Banda Bassotti e molti altri personaggi. Barks ebbe un ruolo fondamentale nel definire il carattere di decine di soggetti, giocando soprattutto con i loro difetti, e le caratteristiche da lui impresse nei protagonisti delle sue storie sono seguite ancora oggi da importanti disegnatori e sceneggiatori, che traggono ispirazione dalle cose immaginate da Barks e spesso nascondono omaggi e riferimenti per ricordarlo nelle loro vignette. Zio Paperone, forse il personaggio più conosciuto, dopo Paperino, nella storia dei paperi Disney, comparve per la prima volta nella storia “Il Natale di Paperino sul Monte Orso” (“Christmas on Bear Mountain”) e nelle intenzioni iniziali non sarebbe dovuto più apparire in futuro, ma riscosse un tale successo da far cambiare idea a Barks. Per crearlo il fumettista si ispirò soprattutto a Ebenezer Scrooge, il protagonista del “Canto di Natale” di Charles Dickens, un personaggio avido e all’apparenza crudele, che nel tempo rivela però di essere di buon animo e di non essere sempre solo interessato alle proprie ricchezze. La carriera di Barks negli Studi Disney iniziò come intercalatore nel gruppo di George Drake. Il suo primo lavoro fu per il cortometraggio “Lo specchio magico” della serie Mickey Mouse, dove realizzò una breve sequenza con Topolino. Nel 1953 comparve per la prima volta la Banda Bassotti, i fratelli di Paperopoli ossessionati dal desiderio di svaligiare il deposito di Zio Paperone. Barks inventò anche la leggendaria Numero Uno, la prima moneta guadagnata da Paperone, conservata come il cimelio più importante di tutti e bramata dalla fattucchiera Amelia – sempre ideata da Barks – per creare un potentissimo amuleto. Terminata la fase di produzione più assidua di storie a fumetti, a partire dagli anni Settanta Carl Barks non abbandonò il disegno e cominciò a dipingere i suoi paperi, realizzando oli su tela che ottennero un successo notevole tra i collezionisti. La cosa non piacque molto a Disney, che preferì ritirare il permesso che aveva accordato a Barks per disegnare i personaggi protetti dal suo copyright. Nei primi anni Novanta Barks fece il suo primo viaggio in Europa, ricevendo dagli appassionati una accoglienza entusiasta, soprattutto in Italia, dove – complice l’esistenza e il successo di un settimanale come Topolino, che richiede la produzione di molte storie inedite ogni anno – c’è una lunga tradizione di autori disneyani, che hanno spesso tratto grandissima ispirazione dal suo lavoro: tra gli altri Romano Scarpa e Rodolfo Cimino. A Barks, noto anche come The Duck Man (L’uomo dei paperi), The Good Duck Artist (Il buon artista dei paperi), Comic Book King (Il Re dei Fumetti), è stato intitolato l’ asteroide 2730 Barks, dedicato in particolare alla sua storia “ Zio Paperone astronauta” (Island in the Sky).
26 marzo
PRIMO PIANO
Addio a Fabrizio Frizzi, “l’uomo dei sorrisi”.
Fabrizio Frizzi, 60 anni, si è spento nella notte, all’ospedale Sant’Andrea di Roma, in seguito ad una emorragia cerebrale. Il 23 ottobre scorso il noto presentatore fu colto da un malore, una ischemia, durante la registrazione di una puntata del programma “L’Eredità”. Venne ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma, da dove fu dimesso alcuni giorni dopo; tornò in tv a dicembre, sempre alla guida del programma di RaiUno. Annunciando il suo ritorno in Tv, scherzò con Vincenzo Mollica: “L’Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico. L’adrenalina sento che mi aiuta a stare meglio.” L’affermato conduttore televisivo, nella sua carriera ultratrentennale, ha condotto quiz, varietà, talent show, ma ha partecipato anche, in qualità di concorrente, a programmi di successo, come Ballando con le stelle. Considerato uno dei volti più noti ed importanti della RAI, tanto da essere chiamato in occasione di crisi d’ascolto o di insuccessi di programmi, insieme a Pippo Baudo è stato il conduttore con più trasmissioni all’attivo, ma quella per cui viene ricordato di più è Miss Italia: Fabrizio, infatti, è stato il presentatore del concorso di bellezza per ben sedici edizioni, dal 1988 al 2002 e dal 2011 al 2012. Ha svolto anche il ruolo di doppiatore: è sua la voce di Woody, lo sceriffo protagonista della saga di film Toy Story. Nel 2012 interpretò se stesso nel film Buona giornata diretto da Carlo Vanzina. È stato anche donatore di midollo osseo, salvando la vita di una ragazza e per questo Erice, il paese di provenienza della donna, gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Sposato prima con Rita dalla Chiesa, poi con la giornalista di Sky TG 24 Carlotta Mantovan, dalla quale, il 3 maggio 2013, ha avuto la figlia Stella, ha anche un fratello, Fabio, di professione musicista, che ha lavorato alla colonna sonora di numerosi film e alla sigla di vari programmi televisivi. Così lo ricorda la Rai: “Non scompare solo un grande artista e uomo di spettacolo, con Fabrizio se ne va un caro amico, una persona che ci ha insegnato l’amore per il lavoro e per l’essere squadra, sempre attento e rispettoso verso il pubblico. Se ne va l’uomo dei sorrisi e degli abbracci per tutti. L’interprete straordinario del coraggio e della voglia di vivere.”
DALLA STORIA
Walt Whitman.
“Io canto l’individuo, la singola persona,
al tempo stesso canto
la Democrazia, la massa”
(Walt Whitman 31 maggio, 1819 – 26 marzo, 1892)
Questi versi, tratti da “Io canto l’individuo” sono di Walter (Walt) Whitman, poeta, scrittore e giornalista statunitense. Nato nella seconda decade dell’Ottocento visse intensamente “dentro” il secolo e, a contatto con la natura e gli sconfinati paesaggi dell’America dove morì a Cadman, il 26 marzo 1892. Nei suoi versi cantò la libertà e un ideale visionario ponendo l’uomo come momento centrale rispetto al senso di percezione e comprensione delle cose. Whitman celebra, soprattutto, l’essenza di quello che diventerà successivamente il “sogno americano” e la sua notorietà è legata, in modo particolare, alla celeberrima ode che inizia con il verso “O capitano! Mio capitano!” (scritta dopo la morte di Lincoln che lo colpì enormemente e per essere l’autore della raccolta poetica “Foglie d’erba”, pubblicata in diverse edizioni a partire dal 1855. Egli è considerato come il primo “poeta della democrazia” americano: tutta la sua opera è permeata dallo spirito democratico. Per decenni “Foglie d’erba” è stata considerata come la Bibbia della democrazia americana, l’emblema di uno stato in crescita, simbolo della forza che nasce dalla fatica e dal lavoro. Nella sua poesia, l’individuo diventa nazione, i versi si “democratizzano”, diventano le parole di ogni americano: i contenuti esprimono lo spirito di milioni di persone. Con un linguaggio composito e altamente personale, Whitman, nelle sue liriche, compone un inno appassionato alle possibilità ideali dell’individuo e del mondo, celebrando la divinità della natura umana e il miracolo della realtà quotidiana. Quando egli iniziò la sua carriera letteraria, la poetica americana era ancora ferma agli schemi del Romanticismo europeo. Whitman li scartò come “feudali” e, con eccezionale audacia, ruppe con la tradizione. Adottò uno stile prosaico facendo spesso riferimento ad arditi simbolismi come foglie marce, ciuffi di paglia, e detriti. Il poeta non considera la sua poesia come un prodotto di elaborazione culturale, ma come un impulso di partecipazione, per lui la cultura è natura e il metodo è un’enciclopedia, il cosmo la sua biblioteca e tutto ciò lo autorizza a considerarsi come un esponente della nuova umanità americana, non ha necessità di una identificazione e non deve fare i conti con il passato. Nei suoi versi esiste una varietà di sentimenti spirituali immensa: c’è un Whitman oratorio e maestoso e un altro sommesso ed elegiaco, c’è il cantore della vasta natura e quello delle piccole cose. Egli è un poeta eroico che non teme di essere preso per un esaltato perché sente di poter rappresentare il desiderio di ogni altro uomo, egli è il popolo e al popolo si rivolge nella convinzione che ogni gesto, ogni istante, ogni cosa merita di diventare poesia. Questo legame viene enfatizzato soprattutto ne “Il canto di me stesso”, dove utilizza un’efficace narrazione in prima persona. I suoi racconti non sono popolati da eroi, ma da gente comune, come contadini, pescatori, vagabondi. Una sua amica inglese, Mary Smith Whitall Costello scrisse che “è impossibile capire lo spirito americano senza Walt Whitman, senza le sue “Foglie d’erba”. Andrew Carnegie lo ha definito come “il più grande poeta d’America di tutti i tempi”, mentre Ezra Pound disse: “il poeta dell’America … Lui è l’America”. Le sue opere sono considerate perlopiù delle condensate dichiarazioni d’amore verso la nazione natia che egli stesso definiva “il poema più grande”. Henry Miller lo pone al centro del canone americano: “In Whitman tutto il mondo americano prende vita, il passato e il futuro, la nascita e la morte. Tutto quel che c’è di valido in America l’ha espresso Whitman, e non c’è altro da dire. … Egli fu il poeta del Corpo e dell’Anima. Il primo e l’ultimo poeta”. Lo stile “vagabondo” della sua poetica venne ripreso dagli autori di riferimento della Beat Generation, come Jack Kerouac, e dai poeti come Adrienne Rich e Gary Snyder. Lawrence Ferlinghetti si definì come parte della “selvaggia prole” del poeta. Anche Bram Stoker, l’autore di “Dracula”, trasse ispirazione da Whitman scrivendo nei suoi taccuini che “Dracula” in realtà rappresentava la quintessenza mascolina che, secondo lui, si plasmava proprio in Whitman. Un altro esempio è quello dello scrittore John Green che, nel suo romanzo “Città di carta”, si rifà alla poetica e alle idee whitmaniane contenute nella raccolta “Foglie d’erba”, introducendo la propria chiave di lettura dei versi poetici per motivare le azioni e le scelte dei protagonisti. La poetica di Whitman affonda le proprie radici anche nella musica, avendo ispirato John Adams, Leonard Bernstein, Benjamin Britten, Rhoda Coghill e moltissimi altri artisti. Lo celebriamo con i versi iniziali del lungo poema “Il canto di me stesso” che apre la raccolta “Foglie d’erba” e che prenderà questo titolo soltanto nell’edizione del 1881.
Mary Titton
“Il canto di me stesso”
Canto me stesso, e celebro me stesso,
E ciò che assumo voi dovete assumere
Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene
anche a voi.
Io ozio, ed esorto la mia anima,
Mi chino e indugio ad osservare un filo d’erba estivo.
La mia lingua, ogni atomo di sangue, fatti da questo
suolo, da quest’aria,
Nato qui da genitori nati qui e così i loro padri e così i
padri dei padri,
io, ora, trentasettenne in perfetta salute, ora
incomincio,
E spero di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospeso,
Un po’ discosto, sazio di ciò che sono, ma mai
dimenticandoli,
Accolgo la natura nel bene e nel male, lascio che parli
a caso,
Senza controllo, con l’energia originale.
Case e stanze sono piene di profumi, gli scaffali
affollati di profumi,
Respiro la fragranza, la riconosco e mi piace,
Il distillato potrebbe ubriacare anche me, ma non lo
permetto.
L’atmosfera non è un profumo, non ha il gusto del
distillato, è inodore,
È fatta per la mia bocca, in eterno, ne sono
innamorato,
Andrò sul pendio presso il bosco, sarò senza maschera
e nudo,
Mi struggo dalla voglia di sentirne il contatto.
Il fumo del mio fiato,
Echi, gorgoglii, diffusi bisbigli, radice d’amore,
filamento di seta, inforcatura e viticcio,
Il mio inspirare ed espirare, il pulsare del cuore, il
transitare dell’aria e del sangue attraverso
i polmoni,
Il sentore delle foglie verdi e delle foglie secche, della
spiaggia e degli scogli neri, del fieno nel fienile,
Il suono delle parole eruttate della mia voce
abbandonata ai vortici del vento,
Pochi rapidi baci, pochi abbracci, un tendere a cerchio
di braccia,
Il gioco delle ombre e dei riflessi all’oscillare dei rami
flessuosi,
Il godimento da soli o tra la folla nelle strade, o lungo
i campi o sui fianchi d’una collina,
La sensazione di salute, il vibrare del pieno
mezzogiorno, il canto di me che mi alzo dal letto
e vado incontro al sole.
Hai creduto che mille acri fossero molti? che tutta la
terra fosse molto?
Ti sei esercitato così a lungo per imparare a leggere?
Tanto orgoglio hai sentito perché afferravi il senso dei
poemi?
Fermati con me oggi e questa notte, e ti impadronirai
dell’origine di tutti i poemi,
Ti impadronirai dei beni della terra e del sole (ci sono
ancora milioni di soli),
Non prenderai più le cose di seconda o terza mano, né
guarderai con gli occhi dei morti, ne ti nutrirai di
fantasmi libreschi,
E neppure vedrai attraverso i miei occhi o prenderai
le cose da me,
Ascolterai da ogni parte e le filtrerai da te stesso. …
IL PERSONAGGIO
Auguri di Buon Compleanno allo scrittore tedesco Patrick Süskind autore del bestseller “Il Profumo” del 1985, considerato dalla critica uno dei migliori romanzi tedeschi contemporanei. Il romanzo che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in una ventina di lingue, forse anche molte di più, ha una trama certamente originale e, al di là dei significati che ciascuno s’ingegna ad intravedere, è decisamente ben scritto. Ambientato nel XVIII secolo, in Francia cinquant’anni prima della rivoluzione francese, ha come protagonista Jean Baptiste Grenouille destinato a diventare celebre per le qualità speciali del suo odorato. La madre lo partorisce sotto un bancone del mercato del pesce e appena venuto al mondo lo getta con disgusto tra i pesci mezzi marci nella speranza che nessuno si accorga dell’evento. Tale contesto dominato dalla puzza di pesce andato a male e altri olezzi nauseabondi preannuncia in certo senso il futuro di Jean-Baptiste che svilupperà un odorato talmente eccezionale da consentirgli di dominare il mondo. Uno strano dono avuto dalla natura: pur non emanando lui nessun odore proprio, tuttavia (o forse per questo) dispone di un naso capace di sentire quello che nessuno percepisce, di distinguere a distanza di chilometri ogni minima emissione di odore. La vicenda narra quindi la condizione di Jean Baptiste con un siffatto talento. Egli si trasformerà in un assassino pur di impossessarsi del “profumo assoluto”, un’essenza favolosa e irresistibile capace di mandare in estasi chiunque abbia in sorte di fiutarlo e non potrà che essere l’odore naturale degli esseri umani, in particolare quello delle giovani fanciulle che lui potrà estrarre solo uccidendole. Ciò determinerà il suo successo assoluto, ma anche la sua condanna a morte. Il successo del romanzo è stato così grande da interessare, per un adattamento cinematografico, registi come Martin Scorsese, Ridley Scott, Stanley Kubrik e Milos Forman. Il film dal titolo “Profumo. Storia di un assassino” è stato poi prodotto, nel 2006, dal tedesco Bend Eichinger, proprietario della Costantin Film, che si è aggiudicato i diritti pagandoli, pare, la considerevole somma di 10 milioni di euro, investendone altri 50 milioni per la sua realizzazione. Malgrado la sua fama mondiale Patrick Süskind conduce una vita estremamente riservata, lontano dai mass-media e in modo così schivo da non presentarsi neanche alla prima del film tratto dal suo famoso romanzo.
25 marzo
PRIMO PIANO
Formula 1: in Australia trionfo delle Ferrari.
Nella prima prova del Mondiale 2018 di Formula 1, a Melbourne, in Australia, ha conquistato il primo posto Sebastian Vettel, su Ferrari, davanti al campione del mondo in carica, Lewis Hamilton, partito dalla pole position con la Mercedes, terzo posto per Kimi Raikkonen con l’altra rossa. Per Vettel si tratta della seconda vittoria consecutiva sul circuito di Melbourne, dove si era imposto nel 2017, sempre davanti a Hamilton. A metà gara la Ferrari ha sfruttato, dopo l’incidete occorso alle due Haas, la virtual safety car per far rientrare Vettel ai box (poco prima anche Raikkonen in pit per provare un undercut nonostante i quasi 4 secondi di ritardo da Hamilton). Seb esce così davanti a Hamilton fino a quel momento al comando. Incredulo il britannico via radio dice “Com’è potuto succedere?”. Queste le parole di Sebastian Vettel al pubblico dell’Albert Park di Melbourne dopo aver festeggiato la vittoria nella prima gara stagionale e il suo centesimo podio in carriera: “Un po’ di fortuna ma grande vittoria. È andato tutto bene. Abbiamo avuto un po’ di fortuna con la safety car, ma oggi mi sono veramente divertito. C’era tantissimo pubblico, le tribune piene e mi sono davvero goduto il giro di rientro. Speravo di fare una partenza migliore, mi sono dovuto accontentare del terzo e poi ho perso contatto perché nel primo stint non andavo benissimo. Mi sono trovato meglio nel secondo stint, con le soft. Comunque pregavo per la safety car e quando ho visto una macchina ferma ho fatto il pit, sono riuscito a rientrare davanti e a tenere poi la posizione.” “Abbiamo avuto un pizzico di fortuna – ha concluso Vettel – ma portiamo un’altra vittoria a Maranello e ne vogliamo molte di più. La macchina dà buone sensazioni, questa vittoria ci dà una bella motivazione per il lavoro delle prossime settimane.” Visibilmente deluso dopo la pole di ieri, Lewis Hamilton dal podio ha reso omaggio al pilota tedesco: “Qui è difficile superare, anche in regime di drs. Alla fine ho cercato di preservare la macchina e il motore. È stato comunque un incredibile weekend, grazie a tutti i tifosi.”
24 marzo
PRIMO PIANO
Italia: eletti i presidenti della Camera e del Senato.
Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati sono stati eletti, oggi, presidenti della Camera e del Senato della XVIII legislatura, rispettivamente alla quarta e alla terza votazione. Roberto Fico (M5S) è stato eletto presidente della Camera con 422 voti. Maria Elisabetta Alberti Casellati (FI), con 240 voti, è la prima donna a ricoprire il ruolo di seconda carica dello Stato. Il Pd, all’opposizione e spettatore nella partita sulle presidenze delle Camere, ha deciso di non votare scheda bianca, ma due candidati di bandiera, Roberto Giachetti alla Camera e Valeria Fedeli al Senato. Chi sono i nuovi presidenti? Roberto Fico, nato a Napoli nel 1974, si è laureato con 110 e lode in Scienze della comunicazione all’Università degli Studi di Trieste, con indirizzo alle comunicazioni di massa, ha studiato per un anno, grazie ad una borsa di studio Erasmus, presso l’Università di Helsinki, nel 2005 ha fondato, in un pub di Mergellina, uno dei 40 meetup “Amici di Beppe Grillo”, sulla scia dei quali è nato poi il Movimento 5 Stelle. Eletto in Parlamento nel 2013, è considerato il leader degli “ortodossi”del Movimento. Diventato, a soli 38 anni, presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, durante la sua presidenza, ha perseguito l’obiettivo di “staccare la politica dall’informazione e dalla tv di Stato che è di tutti i cittadini”, ha introdotto la trasmissione in diretta streaming sulla web tv della Camera dei Deputati di tutte le audizioni ed ha messo nel mirino gli stipendi d’oro nella tv pubblica; dall’aprile fino al 4 luglio 2017 è stato vicepresidente vicario e portavoce del gruppo parlamentare dei 5 stelle. Maria Elisabetta Alberti Casellati, 71 anni, laureata in Giurisprudenza all’Università di Ferrara e in Diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense, iscritta all’Ordine degli avvocati di Padova, ha aderito a Forza Italia fin dalla sua fondazione, nel 1994. Negli anni è stata componente del Collegio nazionale dei probiviri, dirigente nazionale del Dipartimento sanità di Forza Italia e vice dirigente nazionale dei dipartimenti di Forza Italia. Sposata con un collega, masdre di due figli e nonna, scesa in campo più volte a difesa di Berlusconi nelle vicende giudiziarie che lo hanno riguardato, è stata eletta al senato in più di una legislatura, è stata sottosegretario alla salute del Governo Berlusconi II, dal 30 dicembre 2004 al 25 aprile 2005, e del Governo Berlusconi III, dal 26 aprile 2005 al 16 maggio 2006, e ha fatto parte per due anni del Csm come membro laico in quota Forza Italia.
23 marzo
PRIMO PIANO
Francia: attacco terroristico in un supermercato a Trebes.
Questa mattina, a Trebes, nel sud della Francia, un uomo armato si è barricato in un supermercato, tenendo in ostaggio la clientela, e uccidendo due persone. Gli ostaggi sono stati, poi, fatti uscire e con l’uomo è rimasto un ufficiale della gendarmeria. Poco prima, a Carcassonne, non lontano dal supermercato, colpi di arma da fuoco erano stati sparati contro un poliziotto che faceva jogging, dallo stesso uomo, che aveva rubato un auto, uccidendo un passeggero e ferendone gravemente un altro. Il sequestratore, un marocchino di 25 anni, che viveva a Carcassonne, schedato per sospetta radicalizzazione, prima di entrare nel supermercato avrebbe gridato “Allah Akbar” e avrebbe dichiarato di essere un membro dello Stato islamico (Isis), chiedendo la liberazione di Salah Abdeslam, l’unico superstite degli attentati parigini del 13 novembre 2015, attualmente in carcere in Francia. L’assalitore è stato identificato grazie alla targa di immatricolazione della sua auto, rintracciata nel parcheggio del supermercato “U”, a Trebes. I clienti sono stati fatti uscire ed è rimasto da solo con il terrorista un tenente colonnello dei gendarmi, che si è offerto “spontaneamente” di sostituirsi a uno degli ostaggi e ha lasciato il suo cellulare acceso: così dall’esterno è stato possibile seguire quello che avveniva nel supermercato. Quando si sono sentiti dei colpi di arma da fuoco, i reparti speciali sono intervenuti e hanno ucciso l’attentatore. L’ufficiale di gendarmeria, definito “eroe” dal ministro dell’Interno francese, Gerard Collomb, durante l’assalto è rimasto gravemente ferito. L’Isis ha rivendicato l’attacco nel sud della Francia: è quanto si legge sull’Amaq, l’agenzia di propaganda dello Stato islamico.
DALLA STORIA
L’attentato di via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
“Il ritornello è sempre lo stesso, sulla strage delle Fosse Ardeatine: l’ordine proveniva direttamente da Hitler, disobbedire era impossibile”. Di fronte a una legge infame, violarla, cioè disobbedire, diviene un imperativo morale. Colui che afferma “disobbedire era impossibile” conferma solo di essere stato un bugiardo e un codardo. Oltre che un efferato criminale”.
Ricorre oggi l’anniversario, avvenuto settantaquattro anni fa, dell’attentato di via Rasella. Esso fu un’azione della resistenza romana condotta nel marzo del 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica (Gap), unità partigiane del Partito Comunista Italiano, contro un reparto delle forze d’occupazione tedesche, l’11ma Compagnia del III Battaglione del Polizeiregimente “Bozen”, appartenente alla Ordnungspolizei (polizia d’ordine) e composto da reclute altoatesine. Tra i molti, quello di via Rasella, fu il più sanguinoso e clamoroso attentato urbano antitedesco in tutta l’Europa occidentale. L’azione, ordinata da Giorgio Amendola e compiuta da una dozzina di gappisti, consistette nella detonazione di un ordigno esplosivo e nel successivo lancio di quattro bombe a mano artigianali sui superstiti. Causò la morte di trentatré soldati tedeschi (non si hanno informazioni certe circa eventuali decessi tra i feriti nei giorni successivi) e di due civili italiani (tra cui un ragazzo), mentre altri quattro caddero sotto il fuoco di reazione tedesco. “Il luogo scelto per l’attacco fu via Rasella, una parallela di via del Tritone. In un bidone della spazzatura vennero sistemate alcune cariche di esplosivo, mentre un gruppo di partigiani si appostò nelle vie vicine per attaccare i tedeschi dopo le esplosioni. Uno studente di medicina, Rosario Bentivegna, di 21 anni, travestito da spazzino, sistemò il bidone nella strada. Intorno alle 15,30, circa mezz’ora in ritardo rispetto all’orario previsto, i soldati tedeschi comparvero in fondo alla strada. Un altro partigiano, Franco Calamandrei, diede il segnale levandosi il cappello. Bentivegna accese la miccia dell’esplosivo e si allontanò. Un’altra partigiana, Carla Cappone, lo aspettava poco distante: lo coprì con un impermeabile per nascondere l’uniforme da spazzino e si allontanò insieme a lui. Via Rasella è, come allora, una strada piuttosto stretta. La forza dell’esplosione non riuscì a sfogarsi e fu concentrata nei pochi metri della strada. L’intera compagnia venne praticamente spazzata via …”. “Quando gli venne comunicata la notizia dell’attentato, Adolf Hitler chiese una punizione esemplare: cinquanta italiani avrebbero dovuto essere fucilati per ognuno dei soldati tedeschi morti nell’attentato”. L’esercito tedesco aveva da sempre praticato la tattica della rappresaglia … Ma una proporzione di uno a cinquanta sembrò eccessiva anche ai militari nazisti. Albert Kesselring, il comandante dell’esercito tedesco in Italia, si oppose insieme a molti degli altri ufficiali e riuscì a persuadere Hitler ad abbassare le sue richieste. Venne deciso che dieci italiani sarebbero stati uccisi per ognuno dei tedeschi morti nell’attentato. Dal pomeriggio del 23 marzo Herbert Kappler, ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca di Roma, iniziò a cercare più di trecento ostaggi da fucilare. Vennero radunati tutti gli ebrei che non erano ancora stati deportati, i detenuti nelle carceri già condannati a morte e all’ergastolo e i pochi prigionieri della resistenza che erano stati arrestati. I numeri però non tornavano: mancavano ancora decine di ostaggi. In più, nel corso della notte e della mattina successiva, altri due soldati tedeschi morirono per le ferite, aumentando il numero totale di ostaggi da trovare. I tedeschi chiesero aiuto alle autorità italiane, che dipendevano dalla Repubblica di Salò, lo stato fantoccio creato da Benito Mussolini nel nord Italia. Il questore di Roma si recò allora dal ministro degli Interni, Guido Buffarini-Guidi che, per caso, si trovava a Roma. Svegliandolo la mattina nel suo albergo gli disse delle richieste dei tedeschi e Buffarini-Guidi, preoccupato, gli rispose: “Sì, sì, dateglieli! Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere!”. Alla fine, mettendo insieme anche i nomi di presunti oppositori al regime, comunisti ed ebrei (alcuni forniti da Pietro Kock, capo di una delle numerose bande armate e milizie più o meno ufficiali di Salò) Kappler riuscì a riempire la sua lista di 335 persone. Nella foga di rintracciare un numero sufficiente di ostaggi, erano finite nella lista cinque persone in più del necessario. Il maggiore Helmuth Dobbrick, il comandante della compagnia che era stata attaccata, venne convocato e gli fu detto che i suoi uomini avevano diritto a portare avanti la rappresaglia. Il comandante si rifiutò, dicendo che i suoi uomini, per motivi religiosi, non avrebbero potuto compiere le esecuzioni. Nelle ore successive il compito venne rifiutato da quasi tutti gli altri reparti a cui venne richiesto e anche gli uomini dell’esercito regolare si rifiutarono di compiere le esecuzioni. Alla fine venne deciso che sarebbero state le SS di Kappler a compiere la strage. I prigionieri vennero portati fuori Roma, in una serie di cave che Kappler aveva ispezionato in passato alla ricerca di rifugi anti-aerei. Cinque alla volta i prigionieri vennero condotti all’interno e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Kappler stesso eseguì personalmente numerose esecuzioni, aiutato dai suoi ufficiali, tra cui anche il capitano Eric Priebke. Per tutta la giornata le SS andarono avanti con le esecuzioni e vennero distribuite razioni extra di cognac per tenere alto il morale. La sera del 24 marzo tutti gli ostaggi erano stati uccisi e le grotte della cava vennero fatte esplodere. Nessun annuncio della rappresaglia venne affisso sui muri di Roma e non venne fatta nessuna richiesta di consegnarsi agli autori dell’attentato. Nonostante questo, gli autori dell’attentato di via Rasella si sentirono, in qualche misura, responsabili di quanto era accaduto. Fin dalle prime reazioni, l’attentato è stato al centro di una lunga serie di controversie sulla sua opportunità militare e legittimità morale, che lo hanno reso un caso paradigmatico della “memoria divisa” degli italiani. Un’altra polemica è nata nel corso degli anni sui morti nell’attentato, i soldati tedeschi del reggimento Bozen. Alcuni storici e giornalisti, come ad esempio Giorgio Bocca, hanno definito gli uomini del Bozen come degli “specialisti” della lotta antipartigiana e responsabili di diversi eccidi. Altri li hanno descritti come riservisti e padri di famiglia e addirittura “i meno nazisti dell’esercito”. Nella lunga storia processuale dei fatti del marzo 1944, anche la legittimità giuridica dell’attentato è stata oggetto di valutazioni diverse: sul piano del diritto internazionale bellico è stato giudicato, da tutte le corti militari britanniche e italiane che hanno processato e condannato gli ufficiali tedeschi responsabili delle Fosse Ardeatine, un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti privi dei requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione dell’Aia del 1907; sul piano del diritto interno italiano è stato invece considerato, in tutte le sentenze emesse sul caso da giudici civili e penali, un atto di guerra legittimo in quanto riferibile allo Stato italiano allora in guerra con la Germania. “I tempi bui, non rari nel corso della storia” ci spiga Zygmunt Baumann, nel corso di un’intervista rilasciata al giornalista Wlodek Goldkorn, pubblicata sul settimanale “L’Espresso del 19 marzo 2017, “non sono altro che una “normalità” gravida di catastrofe, o forse e con più esattezza sono tempi in cui la discrasia tra l’esperienza da un lato e la narrazione dominante dall’altro, fa sì che le narrazioni pubbliche velino l’esperienza anziché svelarla, la oscurino anziché illuminarla. Milan Kundera definisce queste narrazioni come una cortina. E dice che compito della letteratura è squarciare quella cortina. Kundera scrive ancora: capire con Cartesio che alla base di tutto c’è l’io pensante e con questa convinzione far fronte all’universo. … Capire con Cervantes che il mondo ha più significati, e far fronte non a una verità assoluta, ma alla molteplicità delle verità contraddittorie e relative … Avere come unica certezza, la saggezza dell’incertezza”.
(Il luogo dove venne compiuto il massacro, presso delle antiche cave di materiale vulcanico situate lungo la Via Ardeatina, a Roma)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Franco Battiato, che tutti conosciamo come un artista di grande valore, è davvero una persona un po’ speciale. Come lui stesso ha rilasciato in più occasioni pensa che “Tutto è provvisorio in questo Universo. Non è importante l’esistenza di una canzone, che cosa vuoi che sia, è importante nel momento in cui influenza qualcuno a diventare un essere più degno”. La sua arte coincide con il suo percorso interiore come essere evolutivo. “Nel Settanta ho avuto una crisi molto forte. Allora ero legato a un altro genere di esistenza, anche se la musica è stata la mia vita”. Il cantautore, compositore e regista siciliano, che compie oggi settantatré anni, ha in bilancio una vita spesa all’insegna della ricerca spirituale come ultima istanza e della conoscenza, realmente importante, verso la quale, sopra ogni altra cosa, vuole tendere. Battiato, come lui stesso sostiene, non dà molta importanza ai soldi, al successo, ai valori “effimeri” della vita perché, in fondo non sono appaganti per la pienezza del proprio essere. Questa consapevolezza, che si acquisisce solo attraverso un difficile lavoro su stessi, prende forma nella sua produzione artistica e arriva alla gente, milioni di fans, in maniera autentica e diretta; tocca le corde dell’amore universale, della tenerezza, del rispetto di se stessi e dell’altro. La canzone “La cura” uscita per la prima volta nell’album “L’imboscata”, nel 1996 ne è un esempio perfetto, insieme a molte altre del cantautore, invita ad assumere piena responsabilità verso la propria esistenza avendone cura e avendo cura di chi si ama e per estensione verso tutti gli esseri viventi e per ogni cosa. “Noi esseri umani non siamo all’altezza del ruolo che ci avrebbe assegnato il Cosmo”, riflette Battiato di fronte al comportamento umano quando produce dolore e diventa disumano.
La cura.
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore,
Dalle ossessioni delle tue manie
Supererò le correnti gravitazionali,
Lo spazio e la luce
Per non farti invecchiare
E guarirai da tutte le malattie,
Perché sei un essere speciale,
Ed io, avrò cura di te
Vagavo per I campi del Tennessee
(come vi ero arrivato, chissí )
Non hai fiori bianchi per me?
Pií veloci di aquile I miei sogni
Attraversano il mare
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza
I profumi d’amore inebrieranno I nostri corpi,
La bonaccia d’agosto non calmerí I nostri sensi
Tesserò I tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono
Supererò le correnti gravitazionali,
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
TI salverò da ogni malinconia,
Perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te
Io sì , che avrò cura di te
Compositori: Francesco Battiato/Manlio Sgalambro
22 marzo
PRIMO PIANO
Scandalo Facebook: mea culpa di Zuckerberg.
Dopo un lungo silenzio, il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, interviene sul caso Cambridge Analytica e riconosce: “Sono io che ho lanciato Facebook e sono io il responsabile di tutto ciò che accade sulla nostra piattaforma.” Aggiunge poi: “Abbiamo fatto degli errori. C’è stata una violazione del rapporto di fiducia tra Facebook e le persone che condividono i loro dati con noi e si aspettano che noi li proteggiamo. Dobbiamo recuperare questa fiducia. Bandiremo gli sviluppatori che non sono in regola o che non saranno d’accordo con le nostre regole.” Facebook è colpevole di aver condiviso i dati personali dei suoi utenti con la Cambridge Analytica, una società specializzata nel raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sui loro utenti, che ha utilizzato poi per scopi politici. A metà marzo è scoppiato lo scandalo Cambridge Analytica, una delle più vaste violazioni di dati della storia: 51 milioni di profili sottratti all’insaputa dei diretti interessati, utilizzati per creare un potente software al fine di influenzare le scelte elettorali attraverso annunci politici personalizzati e poi utilizzarli per la campagna a favore della Brexit e di Donald Trump. L’inchiesta di Guardian, Observer e New york Times, che ha portato alla luce la vicenda, si basa sulle rivelazioni di un informatore, che ha rivelato che la società dal 2014 ha raccolto, senza autorizzazione, i dati personali degli utenti. Zuckerberg si prende la colpa, ma lancia anche un allarme: “Vogliono influenzare anche le prossime elezioni. Sono sicuro che qualcuno ci stia provando.” Intanto una lunga serie di nomi “illustri” si dichiarano pronti ad abbandonare Facebook, dopo le rivelazioni che hanno dato vita allo scandalo Cambridge Analytica e all’uso improprio dei dati sensibili di 50 milioni di utenti statunitensi. L’ultimo in ordine di tempo è Brian Acton, cofondatore di WhatsApp, che su Twitter ha annunciato l’adesione alla campagna #DeleteFacebook (cancella Facebook) diffusasi nel giro di poche ore. Un tweet lapidario il suo: “È arrivato il momento. #DeleteFacebook.” Acton, che nel 2014 ha venduto la sua creatura proprio a Mark Zuckerberg per l’incredibile cifra di 19 miliardi di dollari, è andato ad aggiungersi agli altri colleghi che chiedono a gran voce un abbandono in massa del social network più famoso del mondo. Un’altra critica si era già levata da Sandy Parakilas, 38 anni, ex manager di Facebook, responsabile del dipartimento di controllo violazione dati, che durante il suo periodo a Menlo Park, tra il 2011 e il 2012, aveva espresso più volte i suoi dubbi ai superiori, che però avrebbero ignorato gli allarmi. Anche Chamath Palihapitiya, ex capo dello sviluppo di Facebook, lo scorso anno ha dichiarato: “Abbiamo creato strumenti che stanno lacerando il tessuto sociale che fa funzionare le nostre società.”
DALLA STORIA
“Faust”: il contrasto tra l’aspirazione all’infinito e il limite umano.
(Il dottor Faust e Mefistofele di Anton Kaulbach, fine XIX secolo)
Il 22 marzo 1832 moriva, a Weimar, Johann Wolfgang (von) Goethe, scrittore, poeta e drammaturgo tedesco, ritenuto una delle personalità più rappresentative nel panorama culturale europeo, tanto che il periodo della seconda metà del XVIII secolo, ricco di fermenti culturali, fu spesso definito “Età di Goethe”. La sua attività fu rivolta alla poetica, al dramma, alla letteratura, alla teologia, alla filosofia, e alle scienze, ma fu prolifico anche nella pittura, nella musica e nelle altre arti. Il suo capolavoro è il “Faust”, un’opera monumentale alla quale lavorò per oltre sessant’anni. Goethe iniziò la stesura del dramma in età giovanile (la prima redazione è del 1775, l’“Urfaust”, che restò inedito e di cui fu ritrovata copia solo nel 1886), sotto l’influsso della poetica dello Sturm und Drang e del suo individualismo titanico: “Il sentimento è tutto!” esclama Faust, rappresentando così l’inquietudine moderna che di nulla si sazia, il desiderio dell’impossibile, la protesta morale contro la stasi della volontà e il pedantismo dell’intelligenza. Nasce qui lo spirito faustiano, tipicamente tedesco, che sarà poi parte essenziale della storia culturale della Germania moderna. La dedica dell’opera, scritta nel giugno 1797, è rivolta da Goethe agli “amici e i primi amori” della sua gioventù, che riemergono con un’intensa nostalgia, che affiora nei versi: “Avvicinatevi ancora, ondeggianti figure apparse in gioventù allo sguardo offuscato. Tenterò questa volta di non farvi svanire? Sento ancora il mio cuore incline a quegli errori? Voi m’incalzate! E sia, vi lascerò salire accanto a me dal velo di nebbia e di vapori.” (Goethe, “Faust”, vv. 1-6). L’opera si ispira ad una leggenda apparsa per la prima volta in un libro popolare del 1587, a sua volta ispirato ad un personaggio storico, Georg Faust, oscura figura di mago vissuto nella Germania del primo Cinquecento, rielaborata dalla tradizione letteraria europea. Il poema di Goethe racconta il patto tra Faust e Mefistofele, il loro viaggio alla scoperta dei piaceri e delle bellezze del mondo e si conclude, a differenza di quasi tutte le altre versioni, con la redenzione di Faust. Il nucleo dell’opera è proprio in questo streben (il verbo «streben»: cercare, aspirare a qualcosa), nel perpetuo tendere ad una meta, in un’ansia di azione che supera ogni tentazione ad appagarsi di un obiettivo già raggiunto. Nel 1808 Goethe pubblicò la redazione definitiva della prima parte del “Faust”, mentre il compimento della seconda parte avvenne nel 1831, a pochi mesi dalla morte. L’opera ha forma drammatica (Goethe stesso la indica come «Tragedia») e presenta un Prologo in teatro e un Prologo in Cielo, in cui Mefistofele vuole scommettere con Dio che riuscirà a portare alla perdizione l’integerrimo medico-teologo Faust; Dio, che guarda con ammirazione gli sforzi che l’uomo fa per varcare i limiti della conoscenza («finché vivi sulla terra, ciò non ti sarà vietato; erra l’uomo finché cerca»), non accetta la scommessa, ma promette al diavolo di concedergli l’anima dello studioso se sarà capace di deviarlo dal suo istintivo tendere al bene. Faust nel suo laboratorio, stanco di tutte le ricerche e della vuota scienza medievale, di cui ha nutrito tutta la sua vita, alla fine fa una scommessa con Mefistofele, presentatosi a lui sotto la forma di un cane nero, che in seguito si trasforma in un cavaliere dal piede equino: Mefistofele gli farà attraversare tutte le esperienze della vita ed egli gli concederà l’anima, se mai arriverà ad appagarsi anche di un solo istante di godimento. Per poter esaudire i propri desideri, Faust è disposto a scendere a patti con il male, a cedere l’anima, che è invisibile, facile da sacrificare, però preziosa, perché rappresenta l’essenza stessa della persona. Mefistofele trascina Faust, che nel frattempo ha ritrovato la giovinezza grazie a un filtro somministratogli da una strega, di avventura in avventura, ma niente appaga lo studioso, che non riesce neanche a conciliare l’amore dell’ingenua e candida Margherita con la sua irrequieta tensione, che lo induce ad auto superarsi in un continuo streben.
(Mefistofele in una illustrazione di Eugène Delacroix nel “Faust”)
La seconda parte del dramma, molto ampia e divisa in cinque atti, è gravata da numerosi simboli e significati concettuali, che la rendono assai ardua all’ interpretazione: la produzione in laboratorio Homunculus, l’uomo artificiale in provetta, costituito solo da cervello e spirito, che vede tutto, anche i pensieri più reconditi degli uomini, ma è incompleto, perché non ama e non ha consistenza fisica e nel suo desiderio di diventare “natura” si dissolve nel mare per assurgere a nuova vita nell’unità del Tutto; l’incontro con Elena che rappresenta il mondo classico, l’antica Grecia, mentre Faust è il mondo nordico e medievale, dalla loro fusione nasce Euforione (nel mito figlio di Elena e Achille), simbolo della poesia romantica. Nel quarto atto Faust, assurto a piena maturità e consapevolezza di sé nel possesso di Elena (la classicità ellenica), trova nell’attività pratica la soluzione al suo angoscioso problema esistenziale: inserirsi nella realtà della vita e lavorare al bene comune. Decide perciò di strappare al mare un vasto lembo di terra e renderlo fertile. Tornato in Germania, ottiene dall’imperatore un vasto territorio, dove può mettersi al lavoro per realizzare il suo progetto umanitario. Purtroppo due vecchietti, Filemone e Bauci, rifiutano di abbandonare la loro capanna. Intervengono allora i tre giganti di Faust che bruciano la capanna con dentro la povera coppia. Faust si sente responsabile e ne soffre: il senso di colpa lo riporta a dimensioni più umane. Nel quinto atto, Faust è ormai vecchio e cieco, ma non si dà per vinto. Mentre i Lemuri, sotto la guida di Mefistofele, già scavano la tomba, Faust scambia i colpi delle loro pale per quelli degli operai che scavano un fossato per drenare le ultime acque della palude. Immaginando un futuro roseo, dove un popolo laborioso e libero avrebbe realizzato grandi opere per la propria felicità, afferma che, se fosse vissuto tanto da vederlo, avrebbe desiderato che quell’attimo si fermasse; confessa così, alla fine, di godere l’attimo della massima felicità. Stando al famoso patto, Faust ha perso la scommessa e la sua anima dovrebbe diventare preda di Mefistofele, ma un esercito celeste sconfigge il diavolo e porta in Paradiso l’anima di Faust. Dinanzi al trono della Mater Gloriosa intercede per lui «una delle penitenti, che già ebbe nome Margherita. E gli Angeli cantano: “Colui che sempre si è nella ricerca affaticato, noi lo possiamo redimere!” Nel finale, un angelo spiega il motivo per il quale Faust è stato salvato: la sua continua aspirazione all’infinito.
IL PERSONAGGIO
https://youtu.be/zKGQeDDvppU
Betty Curtis ci porta negli anni ’50 e ’60 al tempo della musica leggera, dei jukebox, sempre in azione, nei bar con i dischi in vinile di Celentano, la prima Mina, Tony Dallara, Joe Sentieri. I primi urlatori, insieme ad altri emergenti, ingenua versione nostrana, sulla scia della modernità che, ça va sans dire, prendeva le mosse dalla musica d’oltreoceano. Betty Curtis, all’anagrafe Roberta Corti, scoperta musicalmente da Teddy Reno (fu lui a suggerirle di adottare quel nome dal sapore americano) ebbe nel Festival di Sanremo uno dei suoi palcoscenici preferiti. Il debutto fu nel 1959 con la canzone “Nessuno” in coppia con Wilma De Angelis. L’anno successivo ritornò con “Amore senza sole” in coppia con Johnny Dorelli e con “Non sei felice” assieme a Mina. Nel ’61, in coppia con Tajoli, vinse il Festival con la canzone “Al di là”, scritta dal giovane paroliere Giulio Rapetti, meglio noto come Mogol e Donida. Sempre al Festival si presentò con Petula Clark, nel 1965, con la canzone “Invece no”. La sua ultima partecipazione a Sanremo è del 1967 con “È più forte di me”. Tra i successi: “Una marcia in fa”, “Nessuno” e “Chariot”. “Betty Curtis era una grande, davvero” racconta Wilma De Angelis, sua grande amica, “negli anni ’60 Betty vendeva milioni di dischi, era la più famosa tra noi, una star”. “Betty Curtis agli italiani piacque subito per le sue qualità vocali, cantava con una voce squillante, acutissima, un timbro limpido e potente, ma soprattutto piaceva quella sua aria da signora simpatica, una perfetta italiana che però portava nella canzone i segni dell’incombente modernità”. Quando morì il 15 giugno 2006, dopo una lunga malattia, all’età di settant’anni, Tony Dallara commentò “Si porta via un pezzo del mio cuore … eravamo amicissimi, era una donna straordinaria, bella e buona, una grandissima professionista con una voce unica. Io fui il primo urlatore e lei la prima urlatrice”.
21 marzo
PRIMO PIANO
Foggia: migliaia in corteo per le vittime delle mafie.
Questa mattina, per le vie di Foggia è sfilato il corteo per la 23esima “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, a cui hanno partecipato migliaia di persone. La manifestazione è promossa da Libera e si svolge contemporaneamente in altri quattromila luoghi in Italia, Europa e America Latina. Apre il corteo un lungo striscione con la scritta “Liberi Tutti, Diritti e saperi contro mafie e disuguaglianze” della Rete della conoscenza. Migliaia gli studenti, i ragazzi che agitano una lunga bandiera della Pace. Alla manifestazione partecipano, tra gli altri, la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti e centinaia di parenti delle vittime di mafia. Foggia è la piazza principale, ma ci sono altre iniziative, in contemporanea, in migliaia di luoghi d’Italia: scuole, carceri, associazioni, università, fabbriche, parrocchie. Sono previste iniziative anche in America Latina – a Città del Messico, Bogotà e Buenos Aires, Salvador del Bahia, Città del Guatemala, mentre in Europa si svolgeranno manifestazioni a Parigi, Marsiglia, Bruxelles Ginevra, Tenerife, Strasburgo, La Valletta, Zurigo, Copenaghen, per sottolineare – non solo simbolicamente – che per contrastare le mafie e la corruzione occorre sì il grande impegno delle forze di polizia e di molti magistrati, ma prima ancora occorre diventare una comunità solidale e corresponsabile. La Giornata della Memoria e dell’Impegno vuole ricordare tutte le vittime innocenti delle mafie: vengono letti gli oltre 970 nomi di vittime innocenti delle mafie, semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell’ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali morti per mano delle mafie solo perché, con rigore, hanno compiuto il loro dovere. Per il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, affinché l’impegno contro le mafie sia quotidiano, è necessario “scrivere nelle nostre coscienze tre parole. La prima è continuità, la seconda è la condivisione perché è il noi che vince, la terza è la corresponsabilità, cioè il chiedere alle istituzioni che facciano la loro parte, e se non la fanno dobbiamo essere una spina per chiedere conto.” “Abbiamo bisogno-ha detto ancora Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera – di una memoria viva, una memoria che si traduca in impegno e in responsabilità. Accanto a chi muore “fuori” non possiamo dimenticare coloro che muoiono “dentro”. Sta a noi non lasciarli soli, perché non diventino vittime a loro volta della nostra indifferenza e rassegnazione. Il nostro paese è in emergenza “civiltà”, è necessario un impegno collettivo per uscire “dall’io e organizzare il noi.”
DALLA STORIA
Il 21 marzo è la giornata mondiale della poesia patrocinata dall’Unesco. È anche il primo giorno di primavera e il giorno di nascita di una poetessa tra le più importanti e amate del Novecento, Alda Merini, come lei stessa scrisse nella poesia “Sono nata il ventuno a primavera”, pubblicata nel 1991:
“Sono nata il ventuno a
primavera
ma non sapevo che nascere
folle, aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Prosperina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Alda Merini era nata a Milano, nel 1931, in una famiglia di modeste condizioni economiche. Della sua infanzia si conosce quel poco che lei stessa scrisse in brevi note autobiografiche in occasione della seconda edizione dell’Antologia dello Spagnoletti, il critico e poeta che per primo scoprì il talento della Merini come poetessa, “ragazza sensibile e dal carattere malinconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari: “… perché lo studio fu sempre una mia parte vitale…”. Cercò, poi, di farsi ammettere al Liceo Manzoni, uno dei più prestigiosi di Milano, ma non riuscì a superare la prova di italiano al test di ammissione. Da allora pubblicò con una certa costanza se si escludono i periodi di ricovero in manicomio per un disturbo di tipo bipolare durante i quali venne sottoposta molte volte alla pratica, in uso all’epoca, dell’elettroshock. Alla fine degli anni Settanta, il racconto degli anni di ospedale prese forma nella raccolta di poesie “La Terra Santa”, considerata in seguito da molti critici e studiosi come il suo più importante lavoro letterario. La poetessa era anche una ironica e arguta aforista: “Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti sono simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita! ”. Negli anni Ottanta Alda Merini si trasferì a Taranto dove si sposò con il poeta Michele Perri, ex medico che si prese cura di lei. Tornò a Milano nel 1986, dopo un altro difficile ricovero all’ospedale di Taranto e, riprese a scrivere con maggiore continuità pubblicando, tra gli altri, l’opera in prosa. “L’altra verità. Diario di una diversa”. Giorgio Manganelli nella prefazione scriverà: “… non è un documento, né una testimonianza sui dieci anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio. È una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti a apparizioni, di uno spazio, non un luogo, in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale numinoso dell’essere umano”. Alla fine degli anni Novanta, Alda Merini produsse centinaia di “minitesi”, aforismi di vario tipo che miravano alla brevità per trasmettere un suo pensiero e una sensazione: “Due cose portano alla follia: l’amore e la sua mancanza”. Negli anni seguenti furono pubblicate altre raccolte, come la selezione di Einaudi su scritti del 1996-1999, cofanetti con libri e videocassette di letture fatte da lei stessa e, nei primi anni dopo il 2000, venne pubblicata una serie di libri contenenti le sue poesie del periodo mistico. Verso la fine della sua vita, “la poetessa dei Navigli”, come veniva anche chiamata, incorse in vari problemi di salute e cadde in ristrettezze economiche. A questo proposito ricevette numerosi messaggi di solidarietà da scrittori, poeti ed estimatori pronti ad intervenire con un loro aiuto economico. Il primo novembre 2009, la poetessa morì, a causa di un tumore osseo. Vicino all’ingresso della sua casa a Porta Ticinese, sui Navigli, dal 2010, c’è una targa che la ricorda: “Ad Alda Merini, nell’intimità dei misteri del mondo”. Nel corso della sua vita Alda Merini ha ricevuto diversi riconoscimenti per la sua opera a partire dalla sua candidatura al premio Nobel per la Letteratura avanzata in più occasioni. Una laurea magistrale honoris causa, in “Teorie della comunicazione e dei linguaggi”, della Facoltà di Scienze della Formazione di Messina, nel 2007. Fu insignita dell’onorificenza di “Dama di commenda dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”, nel 2002. Nel ’93 ricevette Il premio Librex Montale per la Poesia, nel ’96 il Premio Viareggio, nel ’97 il Premio Procida-Elsa Morante.
“Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”.
Mery Titton
E poi fate l’amore
E poi fate l’amore.
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca,
sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure,
baci sulle debolezze,
sui segni di una vita
che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata.
Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più.
Ecco, fate l’amore e non vergognatevene,
perché l’amore è arte, e voi i capolavori.
Alda Merini
IL PERSONAGGIO
(Scultura realizzata da Stefano Pierotti)
Ayrton Senna da Silva, soprannominato Magic, è considerato da molti il più forte pilota di Formula 1 di tutti i tempi, una leggenda. Nato il 21 marzo 1960 a San Paolo del Brasile, in una famiglia benestante, di origine napoletana, Senna ebbe la possibilità di avvicinarsi precocemente al mondo dell’automobilismo, cominciando nel 1973, all’età di tredici anni, a gareggiare nei kart e conquistando nello stesso anno il Campionato Junior. Nel 1977 e nel 1978 vinse il Campionato Sudamericano di categoria e dal 1978 per quattro volte consecutive quello brasiliano. Venuto in Italia, a Milano, con i colori della Dap è protagonista dei campionati mondiali del 1979 e del 1980, sfiorando entrambe le volte la conquista del titolo. Vince poi i Mondiali nel 1988, 1990 e 1991 e nel 1994 lascia la McLaren per trasferirsi alla Williams da campione in carica. Da quell’anno il regolamento vietava tutti i dispositivi elettronici e la monoposto progettata da Adrian Newey non era solo meno competitiva che in passato, ma era anche troppo stretta nell’abitacolo e Senna faticava a calarvisi e a guidarla. Con questi presupposti cominciò il mondiale: nelle prime due prove Senna conquistò due pole position, però in gara collezionò due ritiri (le due gare furono vinte dal futuro campione Michael Schumacher). Anche nella terza prova del mondiale, il Gran Premio di San Marino, Senna conquistò la pole position. Le prove, cominciate il venerdì con l’incidente di Rubens Barrichello alla variante bassa, senza gravi conseguenze, funestate il sabato dall’incidente mortale di Roland Ratzenberger alla curva Villeneuve, segnarono profondamente lo stato d’animo di Ayrton e lo portarono a correre con la bandiera austriaca nella monoposto, pensando di sventolarla in caso di vittoria, in segno di solidarietà (tale bandiera fu poi rinvenuta all’interno dei resti della Williams dopo l’incidente, intrisa del sangue del pilota brasiliano). La corsa cominciò con un incidente alla partenza tra J.J. Lehto e Pedro Lamy, in cui i rottami delle vetture provocarono il ferimento di alcuni spettatori. La safety car, entrata in pista a seguito dell’incidente, vi rimase fino alla fine del 5º giro. Dopo la ripartenza, durante il 7º giro, alle 14:17 Senna uscì di pista ad altissima velocità alla curva del Tamburello, a causa del cedimento del piantone dello sterzo, che era stato modificato per consentire la guida del mezzo in quanto le nocche del pilota toccavano l’abitacolo. Secondo la perizia dell’Alenia, per conto della Williams, la saldatura manuale non cedette, ma si ruppe il raccordo dello sterzo con i leveraggi delle ruote, ma questo solo dopo la collisione che avvenne per l’instabilità della vettura, causata dal cattivo rifacimento del manto stradale. Senna, divenuta la vettura ingovernabile, poté solo frenare (come si vede anche dalle immagini riprese dalla videocamera montata sulla monoposto), ma non riuscì a evitare il muro a bordo pista. L’impatto fu tremendo, coinvolgendo la parte anteriore destra della monoposto, e fu reso ancora più letale da un gradino d’asfalto coperto d’erba all’ingresso della via di fuga, che fece sobbalzare l’auto, facendole conservare la velocità. Il puntone della sospensione anteriore destra, spezzatosi, penetrò nella visiera del casco del pilota, dal bordo superiore, causando lo sfondamento della regione temporale destra e provocando gravissime e mortali lesioni. Il pilota brasiliano, dopo i primi soccorsi, fu trasportato all’Ospedale Maggiore di Bologna, dove spirò, senza aver mai ripreso conoscenza, alle 18:40, all’età di 34 anni. Fu sepolto nel cimitero di Morumbi, nella città natale di San Paolo. Il 26 aprile 1997 fu eretto un monumento, realizzato dallo scultore Stefano Pierotti di Pietrasanta (LU), in memoria dello sfortunato pilota, all’interno della curva del Tamburello (oggi trasformata in variante), pressappoco nel punto in cui Ayrton ebbe l’incidente mortale.
20 marzo
PRIMO PIANO
Francia: fermato l’ex presidente Nicolas Sarkozy.
L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è in stato di fermo e viene interrogato nei locali della polizia a Nanterre (Parigi), nel quadro dell’inchiesta sui presunti finanziamenti libici alla sua campagna elettorale del 2007. L’ex presidente è accusato di aver ricevuto finanziamenti illeciti da parte della Libia in occasione della campagna elettorale, che nel 2007 lo portò alla vittoria delle Presidenziali contro la candidata socialista Segolène Royal. È la prima volta che Sarkozy viene interrogato su questo tema dall’apertura, nell’aprile 2013, di un’indagine giudiziaria su di lui. Lo stato di fermo può durare fino a un massimo di 48 ore, poi, al termine dei due giorni di custodia, Sarkozy potrebbe comparire davanti ai magistrati per essere incriminato. Secondo Le Monde, diversi ex dignitari libici dell’era Gheddafi avrebbero cominciato a collaborare all’inchiesta in maniera attiva, portando nuove prove sui sospetti finanziamenti illeciti. Dalla pubblicazione, nel maggio 2012, da parte del sito Mediapart, di un documento libico che evocava un presunto finanziamento di Gheddafi alla campagna presidenziale di Sarkozy, le indagini dei magistrati sono “molto progredite, rafforzando i sospetti che pesano sulla campagna dell’ex capo dello Stato”. Nel novembre del 2016, durante le primarie del partito dei Repubblicani, il faccendiere Ziad Takieddine dichiarò di aver trasportato 5 milioni di euro in contanti da Tripoli a Parigi tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 per consegnarli a Claude Guéant, ex segretario generale dell’Eliseo e poi a Nicolas Sarkozy, allora ministro dell’Interno. Fonti vicine al dossier parlano di “indizi gravi e concordanti”. Tra l’altro, la testimonianza di Takieddine risultò in linea con quella dell’ex direttore dell’intelligence militare libica, Abdallah Senoussi, il 20 settembre 2012, dinanzi alla Procura generale del consiglio nazionale di transizione libico.
DALLA STORIA
Nikolaj Vasil’evic Gogol’. Egli scrive: “tutto è verosimile, tutto può accadere nell’uomo”.
(Gogol ritratto da Moller, 1840, Galleria Tret’jakov)
Siamo nel 1809. Il 20 marzo a Bol’sie Sorocincy, in Ucraina, nasce Gogol, scrittore fondamentale per tutta la letteratura russa successiva. Dostoevskij affermerà, riferendosi alla propria generazione di intellettuali e narratori, che “siamo tutti usciti da “Il cappotto” di Gogol. Il padre, piccolo possidente, sulle cui terre Gogol trascorse l’infanzia, a Vail’evka, era appassionato di arte: amava il teatro e scriveva versi e commedie satiriche, nello spirito del teatro comico ucraino. Nel 1825 quando il padre morì il giovane iniziò, dalla scuola, il Ginnasio di Nezin, per i figli dei nobili locali, una fitta corrispondenza con la madre, che sarebbe continuata a Pietroburgo. Gogol attinse molte notizie dalla “cultura locale” di sua madre, dalla conoscenza che questa aveva delle tradizioni e del folklore ucraino. Nel 1828, terminato il liceo-ginnasio, si recò a Pietroburgo con grandi speranze. In Russia, tre anni prima, il 19 novembre 1825, moriva improvvisamente lo zar a Taganrog e subito dopo seguiva l’insurrezione “decabrista”, presto soffocata dal nuovo zar Nicola I. Vennero ordinate le condanne a morte e un elevato numero di deportazioni in Siberia. Nel 1826 lo zar favorisce la formazione di un comitato per lo studio della questione contadina, mentre la Russia è in guerra contro la Persia. Questa, nel 1928 viene sconfitta e la Russia conquista la zona caucasica fino al versante del Caspio. Questa la situazione nel quadro politico negli anni in cui Gogol inizia a scrivere. Il 26 giugno 1829 veniva messo in vendita il poema romantico di Gogol “Han Kjichel’garten” (pubblicato con lo pseudonimo di V. Alov). L’insuccesso fu tale, e la critica così duramente negativa, che l’esordiente scrittore pieno di vergogna fece il giro delle librerie per ritirare le copie del volumetto e poi bruciarle. Dopo di che partì per la Germania, andò a Lubecca, a Reavemünde, ma ad Amburgo, preso da nostalgia, tornò in patria e, dopo un fallito tentativo di far l’attore, ottenne un piccolo posto di impiegato statale. Infelice a causa del grigiore del suo lavoro, cercava l’evasione occupandosi di pittura e frequentando l’Accademia delle Belle Arti. Nei numeri di febbraio e marzo del 1830 della rivista “Annali Patriottici” venne pubblicato il suo primo racconto ucraino: “Bisavrjuk”, ovvero la “Vigiglia della notte di San Giovanni”, che entrò a far parte delle Veglie. Questo racconto e frammenti di un romanzo storico aprirono al giovane ucraino le porte della Pietroburgo letteraria; nel 1831 egli conobbe personalmente Puškin che ne intuì subito le grandi doti di artista. Doti che furono confermate dalla pubblicazione, nel settembre del 1831, della prima parte delle “Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, nel marzo del 1932, della seconda parte. Intanto l’autore allargava le sue conoscenze nella società dei confratelli scrittori al gruppo di Mosca, dove si recò nel 1832 e dove fece amicizia con Michail Pogodin e Sergej Aksakov, l’uno e l’altro “portatori”, in diverso modo, dell’idea slavofila. A Mosca fece inoltre conoscenza con i “padri” dello slavofilismo, i fratelli Kireevskij. Gogol sempre più innamorato delle tradizioni popolari della sua terra, immerso nell’esaltazione romantica della letteratura popolare ucraina, continuò a raccogliere canzoni e leggende ucraine. È in questo periodo che egli manifesta l’idea di scrivere per il teatro. Intanto “agiva” su Gogol non solo il ricordo della patria lontana, dell’Ucraina ricca di storie e di leggende, ma anche il “mistero” e il “mito” di Pietroburgo: nasce così il primo abbozzo de “Il naso”, nel 1833. Grazie anche all’interessamento di Puskin venne conferito a Gogol un incarico all’Università di Pietroburgo di storia generale. Benché particolarmente brillanti fossero le lezioni sul Medio Evo e quelle dedicate alla sua Ucraina, egli come professore non ebbe fortuna; e ciò anche perché si discostava dalla tradizione accademica. Infine preferì lasciare l’insegnamento universitariao. Nel 1835 veniva dato alle stampe “Mirgorod”, una nuova raccolta di racconti ucraini, ma scritti con maggior approfondimento della realtà. Nella seconda poarte del volume apparve il romanzo storico e poema “Taras Bil’ba”. In questi anni, Gogol scrisse una serie di racconti il cui ambiente anche “spirituale” è Pietroburgo: alcuni furono pubblicati nella raccolta “Arabeschi”, sempre nel 1835. “La Prospettiva Nevskij” e “Il ritratto”, fanno parte di questa raccolta. Contro Gogol, da parte della stampa ufficiale si scatenò una campagna violentissima, provocata da grossi funzionari cui gli strali della commedia erano diretti. E Gogol preferì, ancora una volta, andarsene all’estero: in Germania e Svizzera, andò a Parigi, Vienna, poi a Napoli e a Roma, città a lui particolarmente cara dove, nell’autunno 1837 e per una parte del ’38 lavorò a “Le anime morte”. Nel libro, l’unico compiuto, le precedenti due stesure vennero bruciate dallo stesso autore, Gogol dà un quadro assai severo del “male morale” e del “male sociale” (ma più del male morale) del suo paese. La Russia è espressa attraverso dei personaggi che sono oltre a Cicikov, i possidenti con i quali tratta tutta una folla di funzionari, di altri possidenti, descritti isolatamente e in quelle famose “scene d’insieme” o corali, la cui tecnica sarebbe stata poi ripresa da Dostoevskij. Gogol si preoccupava di narrare nel modo più preciso possibile la vita, le abitudini, le situazioni reali della campagna russa in questo che “non era né un racconto né un romanzo”, ma un poema qualcosa di diverso, in cui si riflettesse, liricamente, “tutta la Russia”. La sua opera offre elementi di valore universale per conoscere gli uomini, attraverso mirabili forme poetiche. Gogol lacerato dall’impossibilità, per lui, di trovare una sintesi tra due forme di pensiero contrapposte, da una parte il desiderio di comprensione cristiana verso gli altri, dall’altra il desiderio di sottoporre a dura satira i costumi della società russa, morirà, indebolito da lunghi periodi di digiuno e di penitenza, il 21 febbraio 1852.
Mary Titton
19 marzo
PRIMO PIANO
In memoria di Marco Biagi.
Per ricordare Marco Biagi, il giuslavorista ucciso a Bologna il 19 marzo del 2002 dalle Nuove Brigate Rosse, alle 19:50 da Piazza delle Medaglie d’Oro parte stasera la staffetta in bicicletta che giungerà in via Valdonica; alle 20:05, a conclusione del percorso, verrà deposta una corona di fiori e si terrà un minuto di raccoglimento. Marco Biagi, nato a Bologna il 24 novembre 1950, di ispirazioni socialiste, docente di diritto del lavoro in diverse università italiane, a partire dagli anni novanta ricoprì numerosi incarichi governativi, come consulente di diversi ministeri, e per la riforma del lavoro decise di collaborare anche con il governo di centrodestra, un salto di steccato che in molti non approvarono. Fu assassinato da un commando di terroristi appartenenti alle Nuove Brigate Rosse un anno prima dell’approvazione della legge da lui promossa e indicata comunemente con il suo nome, ispirata a una maggior flessibilità dei contratti di lavoro. La riforma del mercato del lavoro da lui elaborata e proposta è stata oggetto di forti dibattiti: da una parte coloro i quali la difendono, sottolineandone l’effetto positivo sul ricambio dell’occupazione, dall’altra chi la contesta ritenendo che essa abbia soltanto aumentato la precarietà dei lavoratori ed il numero di precari, ossia di lavoratori senza garanzie e tutele anche per lavori che invece ne necessiterebbero. A 16 anni dall’agguato delle nuove Br al giuslavorista, dure risuonano le parole del figlio Lorenzo: “Lo Stato ha abbandonato mio padre. Aveva una scorta fino a pochi mesi prima di essere ucciso. Toglierla senza motivo, o comunque con una grande sottovalutazione, è stata una cosa molto grave.” Il figlio della vittima delle Br afferma anche di provare “disgusto”, per la parole pronunciate da alcuni ex brigatisti in trasmissioni televisive andate in onda in occasione delle celebrazioni per il quarantennale del sequestro Moro. Così il presidente della Repubblica Mattarella: “In questa giornata desidero rinnovare la mia vicinanza e la mia solidarietà alla signora Marina Orlandi Biagi, ai familiari, agli amici, ai colleghi, a quanti hanno continuato in questi anni a sviluppare i temi della ricerca di Biagi, approfondendo e ampliando il confronto, cercando soluzioni positive alle domande poste dai mutamenti profondi del lavoro e dei mercati, tentando di tenere insieme le esigenze di competitività del sistema con i principi costituzionali di equità e di giustizia sociale.”
DALLA STORIA
19 marzo, San Giuseppe: Festa del papà.
In Italia la tradizione cristiana associa la festa del papà al giorno dedicato a San Giuseppe, padre putativo di Gesù, celebrato per la prima volta dai monaci benedettini nel 1030. Non è, però, così dappertutto. La data in cui si festeggia è alquanto variabile da paese a paese. In Italia, in Spagna e Portogallo, paesi di tradizione cattolica, la festa è celebrata il 19 marzo. In altri Paesi, come in Francia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, la ricorrenza è fissata alla terza domenica di giugno. In altri ancora, invece, la festa è associata ai padri nel loro ruolo nazionale, come in Russia, dove è celebrata come festa dei difensori della patria, e in Thailandia, dove coincide con il compleanno del defunto sovrano Rama IX, venerato come padre della nazione.
San Giuseppe, “il padre dei padri”.
San Giuseppe, dall’ebraico Yosef, attraverso il latino Iosephus, Dio aggiunga o aggiunto in famiglia (I sec. A C.-I sec. d.C.), secondo il Nuovo Testamento è lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù, venerato come santo dalla Chiesa cattolica ed ortodossa. Le notizie dei Vangeli canonici su di lui sono molto scarne, Matteo e Luca dicono che era un discendente del Re Davide ed abitava nella piccola città di Nazareth. Le versioni dei due evangelisti divergono, però, sul padre di Giuseppe: Luca cita … Giuseppe figlio di Eli (3, 23-38), Matteo dice Giacobbe generò Giuseppe (1, 1-16). Matteo (13, 55) riferisce che Gesù era figlio di un téktón, termine greco interpretato in vari modi, che non si limitava ad indicare i semplici lavori di un falegname, ma veniva usato per operatori impegnati in attività economiche legate all’edilizia. Secondo i Vangeli apocrifi, in particolar modo il Protovangelo di Giacomo (II secolo), Giuseppe, discendente di David e originario di Betlemme, prima del matrimonio con Maria, sposò una donna che gli diede sei figli, quattro maschi e due femmine, rimanendo poi vedovo e con i figli a carico. La Chiesa ortodossa accoglie questa tradizione, mentre la Chiesa cattolica la rifiuta e sostiene trattarsi di cugini (in ebraico e in aramaico una sola parola, ah, è usata per indicare sia fratelli sia cugini). Giuseppe non sapeva come comportarsi di fronte alla miracolosa maternità di Maria, ma gli apparve in sogno un Angelo che gli disse: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli salverà il suo popolo dai peccati (Mt 1, 20-21). Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo e prese con sé la sua sposa, accettando il mistero della sua maternità. Giuseppe si spostò insieme con Maria dalla città di Nazareth, in Galilea, a Betlemme, in Giudea, poiché doveva registrarsi nella sua città d’origine insieme alla sposa a causa del censimento (di Quirino) della popolazione di tutto l’Impero; mentre si trovavano a Betlemme, venne il momento del parto e Maria diede alla luce il figlio che, fasciato, fu posto in una mangiatoia, perché non vi era posto per loro nell’albergo (Lc 2,7). Dell’infanzia di Gesù si conosce un solo episodio descritto da Luca: Gesù, a dodici anni, si recò con i genitori a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua. Dopo un giorno Maria e Giuseppe si accorsero che non era con loro e iniziarono a cercarlo, trovandolo, dopo tre giorni, seduto nel tempio a discutere con i Dottori. Tornato a Nazareth, Gesù cresceva in sapienza, età e grazia, stando sottomesso ai genitori. Quando Gesù iniziò la sua vita pubblica, probabilmente Giuseppe era già morto, poiché non è mai più menzionato nei Vangeli. Mentre i Vangeli canonici non dicono nulla sulla sua morte, qualche notizia si trova nei Vangeli apocrifi. Secondo l’apocrifo “Storia di Giuseppe il falegname”, Giuseppe morì a 111 anni, godendo sempre ottima salute e lavorando fino all’ultimo giorno. Ancora oggi non sappiamo dove si trovi la tomba del Santo; nelle cronache dei pellegrini che visitarono la Palestina ci sono alcune indicazioni circa il suo sepolcro, due riguardano Nazareth e altre due la valle del Cedron, a Gerusalemme. Il 15 agosto 1989 Giovanni Paolo II ha scritto un’esortazione apostolica, Redemptoris Custos sulla figura e la missione di San Giuseppe nella vita di Cristo e della Chiesa. La Chiesa lo ricorda il 19 marzo come patrono dei padri di famiglia, ma, per decisione di Pio XII, è anche festeggiato il 1 maggio come patrono degli artigiani e degli operai.
Fonte: “Diario Personale delle Ore”. A cura di Margherita Tramutoli. Progetto Editoriale Editions.
18 marzo
PRIMO PIANO
Presidenziali Russia: plebiscito per Putin.
Il presidente Vladimir Putin ha vinto le elezioni con il 76,6% dei voti. Lo ha comunicato la Commissione Elettorale Centrale, diffondendo i dati preliminari al termine dello scrutinio, ora la Commissione ha 10 giorni di tempo per presentare i dati definitivi. L’affluenza è stata del 67,49%. Il vice presidente della Commissione Elettorale, Nikolai Bulaev, ha sottolineato che “56 milioni di russi” hanno votato per Putin, un record assoluto nella storia delle elezioni presidenziali russe. Il risultato, per quanto cercato dagli specialisti del Cremlino, è stato senz’altro influenzato dallo scontro con Londra sul caso dell’ex agente dell’intelligence di Mosca Serghei Skripal. Il portavoce della campagna elettorale di Putin, Andrei Kondrashov, ha ringraziato pubblicamente il premier britannico Theresa May per aver fatto aumentare l’affluenza: “Ancora una volta la Gran Bretagna non ha capito la mentalità della Russia: se ci accusano di qualcosa in modo infondato, il popolo russo si unisce al centro della forza e il centro della forza oggi è senz’altro Putin.” Il presidente, rieletto per la quarta volta, davanti ai sostenitori che celebravano il suo trionfo vicino al Cremlino, ha detto: “È assurdo pensare che abbiamo tentato di avvelenare Skripal prima delle elezioni e dei Mondiali di calcio. Se si fosse trattato di nervino di tipo militare Serghei Skripal sarebbe morto sul posto: noi abbiamo distrutto il nostro arsenale chimico mentre i nostri partner non lo hanno ancora fatto.” L’effetto-Skripal, ad ogni modo, si è visto nel voto dei russi residenti all’estero, con file lunghissime davanti alle missioni diplomatiche (comprese Milano e Roma, dove sono addirittura finite le schede elettorali). In Ucraina, invece, i russi non hanno potuto votare, poiché le forze di sicurezza hanno piantonato consolati e ambasciata. Il ministero degli Esteri l’ha definita una mossa “illegale” e la Commissione Elettorale ha promesso di lamentarsi ufficialmente con l’Onu e altre organizzazioni internazionali. Kiev è particolarmente furiosa con il Cremlino, poiché ha organizzato le elezioni proprio nel giorno del quarto anniversario dell’annessione della Crimea, che per la prima volta dal contestato referendum del 2014, ha potuto votare alle presidenziali. E qui Putin è risultato vittorioso con percentuali superiori al 90%.
17 marzo
PRIMO PIANO
Papa Francesco: “Premio Nobel agli anziani.”
“Mi piacerebbe che una volta si desse il Premio Nobel agli anziani che danno memoria all’umanità.” Questa la proposta che papa Francesco ha fatto, parlando “a braccio”, durante il suo incontro con i fedeli a Pietrelcina, precisando che gli anziani sono “patrimonio incomparabile delle nostre comunità” e chiedendo nei loro confronti “un’attenzione sollecita e carica di tenerezza”. Papa Francesco si è recato oggi nei luoghi di Padre Pio, a Pietrelcina e poi a San Giovanni Rotondo, un pellegrinaggio che avviene nel centenario della comparsa delle stimmate permanenti e nel 50/mo anniversario della morte del santo. A Pietrelcina papa Bergoglio, rompendo il protocollo, ha camminato a piedi, tra migliaia di fedeli in attesa, fino alla Cappella San Francesco, dove ha sostato brevemente in preghiera davanti all’ “olmo delle stimmate”e si è rivolto poi subito “ai giovani costretti ad andare altrove per cercare lavoro”. Ha incoraggiato tutti: “unite le forze” per dare “soprattutto alle nuove generazioni prospettive concrete per un futuro di speranza”. Il papa si augura che “questo territorio possa trarre nuova linfa dagli insegnamenti di vita di Padre Pio, in un momento non facile come quello presente, mentre la popolazione decresce progressivamente e invecchia perché molti giovani sono costretti a recarsi altrove per cercare lavoro”. La visita, come da programma è durata un’ora, poi il Papa è partito per San Giovanni Rotondo, in Puglia, dove ha visitato i piccoli pazienti ricoverati nel reparto di Ematologia pediatrica, testimoniando loro la sua vicinanza e il suo affetto; si è recato, quindi, nel Santuario Santa Maria delle Grazie, dove è rimasto alcuni minuti in preghiera davanti al corpo di San Pio, lasciando sulla teca una stola rossa, per poi passare a visitare la celletta dove il santo è vissuto. Un “umile frate cappuccino ha stupito il mondo con la sua vita tutta dedita alla preghiera e all’ascolto paziente dei fratelli, sulle cui sofferenze riversava come balsamo la carità di Cristo.” ha detto di lui papa Francesco.
16 marzo
PRIMO PIANO
Berta Caceres.
Due anni dopo l’uccisione della più importante militante ambientalista dell’Honduras, le autorità del paese hanno arrestato uno dei mandanti dell’omicidio. La Cáceres, leader del popolo indigeno Lenca e co-fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari ed indigene dell’Honduras (COPINH), era stata uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 nella sua casa di La Esperanza, nel dipartimento di Intibucà, a ovest della capitale, Tegucigalpa. Tre uomini hanno forzato la porta di casa e le hanno sparato. Gustavo Castro Soto, un attivista messicano che dirige l’ong Otros Mundos Chiapas Ac, era arrivato il giorno precedente per incontrare altre 80 persone e “discutere con loro di alternative al progetto idroelettrico”, era stato ferito ma è sopravvissuto all’attacco. È l’unico testimone oculare del delitto. L’Honduras, dal golpe del 2009, ha conosciuto una crescita esponenziale di progetti a forte impatto ambientale, come l’apertura di miniere e la creazione di dighe, che minacciano l’ecosistema e le comunità indigene. Nel 2006 un gruppo di indigeni Lenca del Rio Blanco chiese alla Cáceres di investigare sul recente arrivo di imprese costruttrici nell’area. L’attivista compì delle indagini ed informò la comunità che una joint venture tra la compagnia cinese Sinohydro, la Banca Mondiale, L’International Finance Corporation e la compagnia honduregna Desarrollos Energéticos, S.A. (conosciuta come DESA, ovvero Impresa Nazionale di Energia Elettrica) progettava di costruire alcune dighe idroelettriche sul fiume Gualcarque. I costruttori però violarono il diritto internazionale nel momento in cui non consultarono le popolazioni locali rispetto al progetto. Il popolo Lenca lamentava che le dighe avrebbero messo a repentaglio l’accesso all’acqua, al cibo, ad altre materie utilizzate come medicinali ed il loro stesso modello di vita. Cáceres lavorò fianco a fianco della comunità nell’organizzazione di una campagna di protesta. Diede avvio anche ad un’azione legale, riunì le comunità locali che si opponevano al progetto e riuscì a portare il caso alla Commissione Interamericana dei diritti umani. Dal 2013, Cáceres ha guidato il COPINH e la comunità locale nelle proteste contro la costruzione delle dighe impedendo l’accesso alle aree, alle compagnie costruttrici. A fine 2013, sia la Sinohdro che Internationl Finance Corporation abbandonarono il progetto a causa delle proteste del COPINH. Desarrollos Energéticos (DESA) decise di proseguire modificando però il luogo di costruzione del sito con l’intenzione di sviare le proteste. La DESA denunciò la Cáceres e altri indigeni per “usurpazione”, coercizione e danni” e li accusò di incitare alla violenza nei confronti della compagnia. In risposta a tali attacchi, Amnesty International dichiarò che se gli attivisti fossero stati arrestati, l’organizzazione li avrebbe considerati prigionieri di coscienza. Decine di altre organizzazioni sia regionali che internazionali fecero appello al governo dell’Honduras affinché smettesse di criminalizzare i difensori dei diritti umani e, piuttosto, investigasse sulle minacce da loro ricevute. Il 2 marzo 2018 le autorità dell’Honduras hanno arrestato un ex funzionario dell’intelligence militare accusato di aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio di Berta Cáceres. In un comunicato del COPINH, fondato dalla stessa Cáceres 25 anni fa e oggi guidato dalla figlia Bertita Zuniga Cáceres, ha dichiarato: “L’arresto di castillo Mejia nasce dal lavoro e dalla pressione delle organizzazioni nazionali e internazionali. Non dobbiamo ringraziare l’ufficio del procuratore generale, che ha fatto il possibile per insabbiare il caso. Il COPINH continuerà a denunciare la struttura assassina e criminale e responsabile per la morte di Berta, di cui Castillo Mejía è solo un tassello”. Secondo Gustavo Soto, uno dei motti preferiti della Cáceres era: “Loro hanno paura di noi perché noi non abbiamo paura di loro”.
DALLA STORIA
Il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta.
La mattina del 16 marzo 1978, alle 9:02, in via Fani, nel quartiere Trionfale a Roma, un commando delle brigate rosse, composto da 11 elementi (come emerse dalle indagini giudiziarie, ma il numero e l’identità dei reali partecipanti è stato messo più volte in dubbio e anche le confessioni dei brigatisti sono state contraddittorie su alcuni punti), rapì il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, che si stava recando in Parlamento per votare la fiducia al nuovo Governo Andreotti, appoggiato anche dai comunisti, e uccise i cinque componenti della scorta. In pochi secondi, sparando con armi automatiche, i brigatisti rossi freddarono i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro, Oreste Leonardi e Domenico Ricci, i tre poliziotti che viaggiavano sull’auto di scorta, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. La tecnica dell’agguato, denominata “a cancelletto” e utilizzata in precedenza anche dall’organizzazione terroristica tedesca RAF, prevedeva di intercettare una colonna di automobili attraverso il blocco di quella di testa e di immobilizzare poi la colonna bloccando l’auto di coda. Alle 8:45 i componenti del nucleo armato brigatista si disposero all’estremità di via Mario Fani, una stretta strada in discesa all’incrocio con via Stresa. Mario Moretti, principale dirigente della colonna romana BR, si appostò nella parte alta della strada, sul lato destro, alla guida di una Fiat 128 con targa falsa del Corpo diplomatico. Davanti alla macchina di Moretti si posizionò un’altra Fiat 128 con a bordo Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambe le auto erano rivolte in direzione dell’incrocio. Sul lato opposto venne parcheggiata una terza Fiat 128, alla cui guida vi era Barbara Balzerani, rivolta invece verso via Stresa, nella direzione di provenienza dell’auto di Moro. A qualche metro dall’incrocio con via Fani, lungo via Stresa, era posizionata la quarta e ultima auto, una Fiat 132 blu guidata da Bruno Seghetti. Il gruppo di fuoco, composto da quattro brigatisti che indossavano uniformi da avieri civili, era appostato dietro le siepi del bar Olivetti, chiuso per lavori, ubicato all’angolo dell’incrocio. L’agguato scattò non appena l’auto su cui viaggiava Moro imboccò via Fani dall’alto, dirigendosi verso il basso e fu Rita Algranati a segnalare l’arrivo delle due auto, con un mazzo di fiori. La macchina di Moretti si mise davanti alla Fiat 130 blu di Moro e, giunta all’incrocio, si arrestò di colpo in mezzo alla strada; la 130 con all’interno Aldo Moro si fermò dietro all’auto di Moretti, trovandosi bloccata dall’Alfetta della scorta, che la stava seguendo a breve distanza. La macchina di Moro e quella della scorta furono poi intrappolate dalla 128 di Lojacono e Casimirri, che si mise di traverso dietro l’auto della scorta di Moro. A questo punto entrò in azione il gruppo di fuoco: da dietro le siepi sbucarono quattro uomini con uniformi del personale Alitalia sparando con pistole mitragliatrici. Dalle indagini giudiziarie questi vennero identificati in: Valerio Morucci, esponente molto noto dell’estremismo romano, Raffaele Fiore, proveniente dalla colonna brigatista di Torino, Prospero Gallinari, clandestino e ricercato dopo essere evaso nel 1977 dal carcere di Treviso, Franco Bonisoli, proveniente dalla colonna di Milano. I quattro brigatisti, travestiti da assistenti di volo, si portarono molto vicini alle due auto ferme allo stop; Morucci e Fiore spararono contro la Fiat 130 con Moro a bordo, mentre Gallinari e Bonisoli aprirono il fuoco contro l’Alfetta di scorta. Secondo le ricostruzioni dei brigatisti, tutti e quattro i mitra si sarebbero inceppati: Morucci riuscì a eliminare subito il maresciallo Leonardi, ma poi si trovò in difficoltà con il suo mitra, l’arma di Fiore invece si sarebbe inceppata subito e quindi l’appuntato Domenico Ricci, l’autista di Moro, inizialmente sopravvisse e poté tentare varie disperate manovre per liberare l’auto dalla trappola, ma una Mini Minor parcheggiata sulla destra della strada impedì ogni manovra; pochi secondi dopo Valerio Morucci ritornò vicino alla Fiat 130 uccidendolo con una raffica. Contemporaneamente Gallinari e Bonisoli spararono contro gli uomini della scorta sull’Alfetta: Rivera e Zizzi furono subito uccisi, ma Iozzino, relativamente riparato sul sedile posteriore destro, poté uscire dall’auto e rispondere al fuoco con la sua pistola, favorito anche dall’inceppamento dei mitra dei due brigatisti. In breve Gallinari e Bonisoli impugnarono le loro pistole e anche l’ultimo agente fu ucciso e cadde a terra sulla strada. Il giorno dell’agguato i fucili mitragliatori in dotazione agli agenti di scorta di Moro si trovavano riposti nei bagagliai delle auto, perché non si aspettavano un agguato. Subito dopo lo scontro a fuoco, Raffaele Fiore fece uscire Aldo Moro dalla Fiat 130 e, aiutato da Mario Moretti, lo fece entrare nella Fiat 132 blu che Bruno Seghetti aveva avvicinato allo stop: i due brigatisti salirono a bordo e l’auto si allontanò lungo via Stresa, seguita dalla 128 bianca di Casimirri e Lojacono su cui era salito anche Gallinari. Infine Valerio Morucci raccolse dalla Fiat 130 due delle borse di Moro e passò alla guida della Fiat 128 blu che si mosse, con a bordo anche la Balzerani e Bonisoli, dietro le altre due auto. L’azione era durata appena tre minuti, dalle ore 9:02 alle ore 9:05. In via Bitossi Morucci lasciò la Fiat 128 blu, prese le due borse di Moro e passò alla guida di un furgone grigio chiaro Fiat 850T, che si trovava lì pronto; in piazza Madonna del Cenacolo, il punto scelto per il trasbordo dell’ostaggio, Aldo Moro venne fatto salire sul furgone dove era pronta una cassa di legno e il gruppo si sciolse. Secondo il racconto dei brigatisti, da piazza Madonna del Cenacolo il furgone guidato da Moretti, con il sequestrato nella cassa di legno, e una Citroën Dyane con Morucci e Seghetti si diressero al parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi, nella zona ovest di Roma, dove erano già in attesa Prospero Gallinari e Germano Maccari e la cassa con il sequestrato fu trasferita dal furgone su una Citroën Ami 8, di qui Moretti, Gallinari e Maccari portarono l’auto con la cassa in via Montalcini 8, l’appartamento scelto come luogo di detenzione di Aldo Moro. L’agguato e il rapimento furono rivendicati alle ore 10:10 con una telefonata, effettuata da Valerio Morucci, all’agenzia ANSA con questo messaggio: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate rosse». Questa in breve la cronaca di quanto avvenne quella mattina in via Fani, anche se, nonostante il processo e le ricostruzioni dei brigatisti condannati, le commisioni d’inchiesta, rimangono dei punti poco chiari già sulla dinamica e sullo svolgimento dell’agguato, sulla presenza di strani personaggi sul posto, di presunti agenti del SISMI e anche di due motociclette, come pure sui 55 giorni della prigionia e sui luoghi dove Moro fu detenuto, prima della tragica conclusione, il 9 maggio, con il ritrovamento del cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in Via Caetani. Il tempo e la storia potranno fare piena luce, aldilà di quanto già chiaramente conosciuto, sugli scenari nazionali ed internazionali possibili dietro questo tragico evento, maturato sicuramente nel clima degli anni di piombo e della lotta armata che alcuni giovani intrapresero con lo scopo dichiarato di colpire la DC, a loro dire cardine in Italia dello Stato imperialista delle multinazionali, e con la volontà di affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario per porre le basi del controllo BR sulla sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo.
IL PERSONAGGIO
Il poeta e saggista francese Sully Prudhomme è stato il primo Premio Nobel per la letteratura nel 1901. Scrittore memorabile per più di un secolo, gli viene conferito il premio, dall’Accademia di Svezia, con la seguente motivazione: “In riconoscimento della sua composizione poetica, che dà prova di un alto idealismo, perfezione artistica ed una rara combinazione di qualità tra cuore ed intelletto”; unitamente riceve una somma di denaro corrispondente a 10 milioni di corone. Il poeta con questo denaro decise di istituire un premio di poesia in seno alla Società degli uomini di lettere e la Società dei poeti francesi. Nella lettera spedita all’Accademia Svedese dopo aver ricevuto il riconoscimento, lo stesso Prudhomme scrisse:” Penso ai miei colleghi giovani che non hanno i mezzi per fare stampare le loro prime poesie. Ho intenzione di riservare una somma che permetta di fare stampare i loro primi quaderni di poesie. Ho già ricevuto una grande quantità di richieste il cui soddisfacimento assorbirebbe l’intero premio”. Prudhomme era nato a Parigi il 16 marzo 1839 da una famiglia di commercianti. I suoi interessi giovanili spaziarono dalle scienze al diritto, dalla filosofia alla letteratura: avrebbe voluto diventare ingegnere, ma una malattia all’occhio gli impedì di continuare gli studi presso il Politecnico. Studiò letteratura e, dopo un breve periodo di lavoro presso l’industria manifatturiera, si dedicò, senza convinzione, agli studi di giurisprudenza. Prudhomme fu membro della “Conference La Bruyère”, dove venne incoraggiato alla poesia. Diventerà, sul declinare dell’Ottocento, uno dei poeti più letti e ammirati dal pubblico letterario di tutt’Europa. La sua poesia è intesa inizialmente come pura espressione di bellezza, concezione che lo avvicina ai parnassiani: “il più popolare degli impopolari parnassiani”. Nel 1870, con la guerra franco-prussiana, egli si arruola in una compagnia della Guardia Mobile, esperienza poi raccontata in due sue opere importanti: “Impressions de la guerre” (1870) e “La France” (1874). Il pensiero del letterato si intreccia poi con le idee positiviste che lo ispireranno nelle successive opere: “La justice”, nel 1878, “Le Prisme”, “Le bonheur” e “les epaves”, nel 1908. Quest’ultimo fu pubblicato postumo ed è una miscellanea di poemi. Prudhomme morì improvvisamente a causa delle sue precarie condizioni di salute il 6 settembre 1907 a Chatenay-Malabry, all’età di 68 anni.
L’istante più bello.
L’istante più bello degli amori
non è quando si dice “ti amo”
è nel silenzio
ogni giorno spezzato a metà
è nelle intese
pronte e furtive dei cuori
nei finti rigori
nelle indulgenze segrete
nel brivido di un braccio
dove poggia una mano che trema;
nel libro sfogliato insieme,
un libro mai letto
nell’ora irripetibile quando con la bocca chiusa
il pudore dice tanto
e il cuore scoppia
aprendosi in silenzio come un bocciolo di rosa
l’ora in cui il mero profumo dei capelli
sembra un regalo conquistato …
l’ora della tenerezza squisita
che nel rispetto avvolge la passione
(Sully Prudhomme).
15 marzo
PRIMO PIANO
Michelangelo potrebbe aver nascosto una sua caricatura nel ritratto dell’amica e poetessa Vittoria Colonna, eseguito nel 1525 e oggi conservato al British Museum di Londra: osservando attentamente i tratti di penna che definiscono le pieghe dell’abito della nobildonna, all’altezza dell’addome emerge la piccola sagoma di un uomo intento a dipingere. A indicarlo è lo studio pubblicato sulla rivista Clinical Anatomy da Deivis de Campos, dell’Università federale di Scienze della salute di Porto Alegre, in Brasile. La piccola sagoma di Michelangelo appare simile all’autocaricatura che l’artista aveva tratteggiato nel 1509 a lato di un sonetto dedicato all’amico Giovanni da Pistoia: in quel primo schizzo Michelangelo si era disegnato in posizione eretta, nell’atto di dipingere la Cappella Sistina, mentre nel ritratto di Vittoria Colonna si sarebbe disegnato col corpo piegato in avanti ad angolo acuto, come se fosse proprio quel Michelangelo in miniatura a dipingere l’intero ritratto. Secondo Deivis de Campos l’autocaricatura potrebbe essere una “firma” nascosta dell’artista e potrebbe fornire preziosi indizi riguardo alla sua corporatura e allo stato di salute a quel tempo. La scoperta rappresenta un altro passo avanti nella caccia al tesoro che i ricercatori hanno intrapreso per scovare disegni e simboli nascosti nelle opere di Michelangelo. Già nel 2017 il gruppo di Deivis de Campos aveva trovato, nelle Cappelle Medicee a Firenze, dei simboli pagani che alludono all’anatomia dell’apparato riproduttivo femminile.
DALLA STORIA
Le Idi di marzo.
(Gruppo Storico Romano nella rappresentazione dell’assassinio di Giulio Cesare)
Alle Idi di marzo del 44 a.C. veniva assassinato Gaio Giulio Cesare in seguito alla congiura ordita da un gruppo di circa 60 o 80 senatori, che si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell’ordinamento repubblicani ed erano capeggiati da Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto. Tra i congiurati, oltre ai senatori, che erano contrari per cultura e formazione a ogni forma di potere personale e temevano che Cesare volesse farsi re, ai pompeiani e ai repubblicani, vi erano i sostenitori di Cesare che erano spinti a compiere l’assassinio da rancore, invidia e delusioni per mancati riconoscimenti e compensi. Le Idi di marzo, in latino Idus Martiae, che cadevano il 15 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, e il 13 negli altri mesi, rappresentavano per i congiurati il giorno propizio per attuare il loro piano: a Roma il 15 marzo era un giorno festivo dedicato al dio della guerra, Marte; la seduta in Senato del 15 marzo era forse l’ultima occasione propizia per l’eliminazione di Cesare, che tre giorni dopo sarebbe dovuto partire per una campagna contro i Geti e i Parti e non a caso gli amici di Cesare avevano diffuso una presunta profezia dei Libri Sibillini nella quale si affermava che i Parti sarebbero stati sconfitti da un re; il 15 marzo era poi prevista una festa in onore di Anna Perenna, l’antica dea romana che presiedeva al perpetuo rinnovarsi dell’anno, da svolgere nel Teatro di Pompeo e Decimo Bruto aveva stanziato nella Curia di Pompeo, sede dell’assemblea dei senatori, un certo numero di gladiatori con il pretesto dichiarato dell’organizzazione degli spettacoli. Lo storico Svetonio riferisce i numerosi presagi, che preannunciarono l’assassinio: “Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le Idi di marzo». Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le Idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.” La congiura sembrava del resto facile, perché Cesare, considerandosi ormai intoccabile dopo la vittoria nella guerra civile contro Pompeo e dopo che il Senato aveva giurato di proteggerlo, aveva congedato i duemila ispanici della sua guardia personale. Nella seduta senatoria del 15 marzo del 44 a.C., i congiurati, tra cui c’erano Bruto figlio adottivo di Cesare e Cassio, pugnalarono ventitré volte Cesare, che, secondo la tradizione storiografica, morì nella Curia di Pompeo (oggi Area Sacra di Torre Argentina), ai piedi della statua del suo antico nemico, Pompeo Magno. Sempre Svetonio (70-120 d.C.), nella sua opera “De vita Caesarum”, racconta con dovizia di particolari l’uccisione di Cesare: “Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido.” L’eliminazione di Cesare non servì però ad arrestare il processo ormai irreversibile della fine della Repubblica, nelle lotte di potere che seguirono la morte di Cesare, i cesaricidi perirono uno dopo l’altro, in una scia di vendette e di sangue che si concluse solo il 42 a.C., quando, nella battaglia di Filippi, Bruto e il cognato e amico Cassio furono sconfitti da Antonio e Ottaviano, che in questa occasione erano alleati. Dopo la disfatta, Bruto e Cassio si tolsero la vita. Il cesaricidio ha dato luogo a diverse interpretazioni nel corso dei secoli: mentre Dante, nella “Commedia”, considerandoli traditori dell’impero, li inserirà nella parte più profonda dell’Inferno, la Giudecca, tra le fauci dello stesso Lucifero, assieme a Giuda Iscariota, altri autori considerano l’assassinio di Cesare un gesto compiuto in difesa delle libertà repubblicane, già Cicerone nel terzo libro del “De Officiis” giustifica l’uccisione: “Quale delitto più grande di uccidere non solo un uomo, ma anche un amico? Ma si macchia forse di delitto chi ha ucciso un tiranno, anche se suo amico? Non sembra così al popolo romano, che fra tante belle azioni giudica questa la più bella” e Antonio nel “Julius Caesar” di Shakespeare dice di Bruto: “La sua vita è stata magnanima … Questi era un uomo”.
Mary Titton
(Angelo Lattanzi, del Gruppo Storico Romano, impersona Marco Antonio, nel Foro Romano, con l’orazione che leggerà durante il funerale di Cesare che ispirò Shakespeare per il suo Giulio Cesare)
IL PERSONAGGIO
Nicolò Carosio, popolare figura sportiva della Tv e della radio, si può dire che abbia inventato l’arte della radiocronaca. “Le prime radiocronache risalgono al 1933 quando la radio contava appena 300.000 abbonati e spesso furono fatte nelle difficoltà ambientali più ostiche: a bordo campo e raccontando le gesta di calciatori per la maggior parte sconosciuti che non portavano neppure i numeri sulle maglie (le maglie saranno numerate da 1 a 11 e ogni numero corrispondeva ad un ruolo preciso soltanto sei anni dopo, nel 1939). Prima della partita, il radiocronista, entrava nell’albergo dove alloggiavano i calciatori e li “fotografava” con la mente uno per uno, facendosi ripetere più volte il nome e il ruolo”. (Giancarlo Governi). La sua voce, senza accenti, calda e modulata ha raccontato il calcio agli italiani che prima dell’avvento della televisione e, anche anni dopo, lo hanno immaginato attraverso quella voce suggestiva. Era nato a Palermo, il 15 marzo 1907 da un funzionario genovese di dogana e una madre inglese pianista. Si laureò in giurisprudenza a Venezia. Carosio fu la voce della Nazionale di calcio alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936 e alla Coppa del Mondo del 1938, in Francia. Nel 1949, a causa della concomitante cerimonia della cresima del figlio, dovette rinunciare alla trasferta di Lisbona al seguito del Grande Torino, circostanza che gli salvò la vita. Nel viaggio di ritorno, difatti, l’aeroplano della squadra si schiantò contro la Basilica di Superga. Raccontò in televisione e radio otto campionati del mondo. Nel ’63, ’64, ’65 e ’69 commentò i trionfi in Coppa Campioni del Milan e dell’Inter e, proseguì la sua attività quarantennale fino al ’70 nel giorno della finalissima con il Brasile. Nel centenario della nascita, il 15 marzo 2007, le poste italiane hanno dedicato un francobollo alla sua memoria.
14 marzo
PRIMO PIANO
Addio a Stephen Hawking, l’astrofisico della “Teoria del Tutto”.
Nella giornata in cui si celebra in tutto il mondo la festa del pi greco, è morto, a 76 anni, l’astrofisico Stephen Hawking, 130 anni dopo la nascita di Albert Einstein, il padre della teoria della relatività nato il 14 marzo 1879. Un’altra coincidenza nella vita di Hawking era rappresentata dalla sua data di nascita: infatti era nato a Oxford l’8 gennaio 1942, lo stesso giorno, come egli stesso teneva moltissimo a precisare, della morte di un altro gigante dell’astronomia, Galileo Galilei, che si era spento ad Arcetri l’8 gennaio 1642, esattamente 300 anni prima. Hawking ha sempre descritto se stesso come un bambino disordinato e svogliato, tanto che ha imparato a leggere solo all’età di 8 anni. La sua vita è stata travolta poi dalla Sla, che, fin dai 21 anni, gli compromette movimento e linguaggio, lasciandogli, secondo le analisi dei medici, solo due anni di vita. La sua ostinazione, superata da quella ancora più grande della moglie Jane, non solo gli fa accettare di vivere, ma anche procreare tre figli, nonostante la sua malattia degenerativa lo costringa ad usare una moderna sedia a rotelle e un computer con sintetizzatore vocale per parlare. Soleva dire: “ogni cosa è cambiata: quando hai di fronte l’eventualità di una morte precoce, realizzi tutte le cose che vorresti fare e che la vita deve essere vissuta a pieno”. L’universo aveva da sempre esercitato su di lui un enorme fascino e nel 1963 questa passione lo aveva portato all’università di Cambridge. Gli anni tra il 1965 e il 1975 sono stati scientificamente tra i più produttivi della sua vita: è allora che ha scritto il suo libro più famoso: “Dal Big Bang ai buchi neri, breve storia del tempo”. Sempre a Cambridge, dal 1976 al 30 settembre 2009, ha occupato la cattedra che era stata di Isaac Newton. Le sue ricerche sui buchi neri hanno permesso di confermare la teoria del Big Bang, l’esplosione dalla quale è nato l’universo. Dagli anni ’70 ha cominciato a lavorare sulla possibilità di integrare le due grandi teorie della fisica contemporanea: la teoria della relatività di Einstein e la meccanica quantistica. Le sognava riunite nella “teoria del tutto”, che nel 2014 ha ispirato il film di James Marsh a lui dedicato. Una delle teorie più recenti che il cosmologo britannico aveva formulato con il fisico Thomas Hertog, del Cern di Ginevra, prevede che l’universo non abbia avuto un inizio e una storia unici, ma una moltitudine di inizi e di storie diversi. La maggior parte di questi mondi alternativi sarebbe però scomparsa molto precocemente dopo il Big Bang, lasciando spazio all’universo che conosciamo. Lo scienziato avrebbe voluto sulla sua lapide la formula di massa, ossia la formula matematica che misura l’energia emessa dai buchi neri al momento della loro nascita, una sorta di vagito di quei giganti cosmici, secondo quanto riferisce all’ANSA Remo Ruffini, direttore del Centro Internazionale per la Rete di Astrofisica Relativistica (IcraNet) e presidente del Centro Internazionale di Astrofisica Relativistica (Icra), che ha collaborato a lungo con Hawking e che ha elaborato con lui e con il matematico Roy Kerr quella formula. Così ha commentato la sua scomparsa Nichi D’Amico, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf): “Quello che mi ha sempre colpito di più è la caratteristica formidabile di lui come uomo, la dimostrazione vivente che il pensiero trascende la materia.”
IL PERSONAGGIO
(Photo by Ezra Shaw/Getty Images)
Le incredibili evoluzioni dell’atleta Simone Biles, durante le Olimpiadi di Rio 2016, tali da sfidare le leggi della fisica, hanno strabiliato e commosso tutto il mondo. La diciannovenne, alta un metro e quarantadue centimetri per quarantasette kilogrammi di peso, è un condensato di forza fisica e mentale senza uguali: pare che nessun’altra ginnasta riesca a fare il doppio salto mortale con mezzo avvitamento in aria, che ha preso il suo nome, in modo velocissimo. È la ginnasta americana ad aver vinto più titoli mondiali della storia: 14 medaglie, 10 d’oro. Ma è anche la prima ginnasta ad aver vinto i Mondiali individuali per tre anni di seguito ad Anversa nel 2013, a Nanning nel 2014 e a Glasgow nel 2015. Ha vinto tre volte i Mondiali nel corpo libero e due volte nella trave, si è aggiudicata la medaglia d’oro nel concorso a squadre nei Mondiali del 2014 e del 2015 fino ad arrivare a Rio con un punteggio stratosferico di 62.198. Il controllo sul più piccolo muscolo del suo corpo, quando si libra nell’aria e in ogni suo movimento ginnico, compiuti con grazia e leggerezza, ne danno la statura di una persona dalla determinazione e dalla volontà eccezionali. La sua infanzia non è stata serena. Nata a Columbus, in Ohio, il 14 marzo 1997, all’età di un anno finì in orfanotrofio perché la madre aveva problemi con l’alcool e la droga. A sei anni fu adottata, insieme alla sorella, dai nonni materni che l’hanno sostenuta nel suo desiderio di dedicarsi alla ginnastica artistica. Da otto anni si allena per trentadue ore alla settimana con il suo allenatore, Aimee Boorman, nella sua palestra “World Champion Centre, lunga 4.800 metri quadrati, costruita appositamente da consentirle di allenarsi senza avere problemi di spazio per i suoi eccezionali esercizi.
13 marzo
PRIMO PIANO
Cinque anni con il Papa della Misericordia.
Erano le 19.06 del 13 marzo 2013 quando, al quinto scrutinio, uscì la fumata bianca. La chiesa universale aveva un nuovo Papa, il Primo Papa argentino, il primo Papa gesuita, il primo Papa ad essere eletto dopo un Papa dimissionario, Benedetto XVI, il primo Papa a scegliere il nome Francesco in onore del Poverello d’Assisi. Quando, con quel sorprendente ed inusuale “Fratelli e sorelle, buona sera! …”, l’argentino Jorge Mario Bergoglio dalla Loggia delle Benedizioni della basilica di S.Pietro saluta e benedice per la prima volta la folla, chiedendo – altra sorpresa – di essere benedetto dal popolo, comincia un nuovo corso, una vera “rivoluzione” nella Chiesa: rifiuta di abitare nel Palazzo per sistemarsi nel più modesto Ospizio di S. Marta, dove celebra messa come un parroco di quartiere; si serve, quando si sposta, di semplici utilitarie; porta la vecchia borsa di pelle nera usata in Argentina; telefona ad amici, conoscenti e gente comune. Gesti semplici, ma significativi, che affianca a iniziative volte a cambiare profondamente il volto della Chiesa, che lui vorrebbe “povera” e “per i poveri”: pensa, infatti, ai senza fissa dimora intorno a S.Pietro, per i quali fa allestire servizi di assistenza sanitaria, docce e barbiere, e istituisce la prima Giornata Mondiale dei Poveri. Centrale è stata poi l’indizione, nel 2015, del Giubileo della Misericordia, con l’attenzione riservata ai migranti, ai peccatori, ai divorziati risposati, alle donne costrette ad abortire, agli omosessuali, alle vittime della tratta, agli “scarti” della società. Instancabile nella sua opera, nonostante l’età, Francesco ha compiuto sette viaggi europei e 23 intercontinentali; ha scritto due encicliche: la Lumen Fidei lasciata in eredità da Ratzinger e la Laudato sii sulla tutela dell’ambiente; ha promulgato due esortazioni apostoliche: la Evangelii Gaudium e la dibattuta Amoris Laetitia. Poi riforma della Curia e dello Ior, la banca vaticana, e tolleranza zero verso i preti pedofili. Posizioni le sue che riportano al centro il Vangelo, ma vengono apertamente criticate dalle componenti più conservatrici della Chiesa e persino da un gruppo di cardinali del Sacro Collegio, i cosiddetti porporati dei Dubia, i dubbi, che annunciano prese di posizioni pubbliche contro lo stesso Bergoglio, che però non demorde. Nella lettera per il quinto anno di pontificato di Bergoglio Ratzinger scende in campo e condanna “lo stolto pregiudizio” contro papa Francesco, scrivendo che “è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica …” Le sfide future per Bergoglio: i giovani, con il sinodo indetto per quest’anno e la famiglia con il prossimo incontro mondiale che si terrà in Irlanda. AUGURI papa Francesco!!!
DALLA STORIA
(L’indipendenza è felicità), Susan Brownell Anthony. Pioniera dei diritti civili.
Susan Anthony morì il 13 marzo 1906: 14 anni, 5 mesi e 5 giorni prima dell’approvazione del Diciannovesimo Emendamento che concedeva il diritto di voto alle donne. Susan era nata nel 1820 ad Adams, negli Stai Uniti e aveva speso la vita nella rivendicazione dei diritti di uguaglianza tra uomini e donne e tra i bianchi e la popolazione afroamericana. Determinata e instancabile nel raggiungere il suo obiettivo, viaggiò moltissimo negli Stati Uniti e in Europa tenendo quasi 100 discorsi all’anno sui diritti civili e in particolare quelli delle donne per quasi 45 anni. Educata da genitori dalla mentalità aperta e progressista ricevette un insegnamento sobrio e austero, ma non rigido né moralista, che incoraggiò, in lei, il pieno sviluppo di una personalità basata sui valori profondi e sulla fiducia nella propria autostima. Già quando divenne insegnate in una scuola di New Rochelle, iniziò con il suo attivismo, lottando per ottenere salari equivalenti a quelli degli insegnati maschi; gli uomini guadagnavano all’incirca quattro volte più delle donne per le stesse mansioni. Da giovane, Susan era molto insicura del suo aspetto fisico e delle sue capacità oratorie, tanto che evitò a lungo di parlare in pubblico. Malgrado queste insicurezze, divenne una celebre presenza pubblica, riuscendo infine ad assumere la guida del movimento femminile. Come molte fra le prime attiviste per i diritti civili, impegnate anche per la protezione degli animali, Susan era vegetariana. Nel decennio prima della Guerra di secessione americana, Susan assunse un ruolo di spicco nel movimento antischiavista e, soprattutto, in quello per la temperanza di New York (nel 1849, a 29 anni, divenne la segretaria delle Figlie della Temperanza), che le offrì la sua prima ribalta pubblica. Nel 1851 conobbe l’altra famosa femminista Elizabeteth Cady Stanton ed insieme attraversarono gli Stati Uniti tenendo discorsi appassionati e tentando di persuadere il governo che uomini e donne dovevano essere trattati in modo uguale nella società. Susan cominciò ad ottenere vasta notorietà come potente sostenitrice pubblica dei diritti delle donne e nuova, attiva voce per il cambiamento. Parlando alla Nona Convenzione dei diritti delle donne nel 1859 chiese: “Dove, in base alla nostra Dichiarazione d’indipendenza, l’uomo sassone trae il suo potere di privare le donne e i negri dei loro inalienabili diritti?”. Il 1° gennaio 1868 Susan diede alle stampe il primo numero del settimanale “The Revolution”. Pubblicato a New York, il suo motto era: “La vera Repubblica, gli uomini, i loro diritti e niente più; le donne, i loro diritti e niente meno”. Basato sulla collaborazione tra Susan ed Elizabeth Cady Stanton che svolgevano i principali ruoli direttivi, “The Revolution” mirava a promuovere il diritto al suffragio delle donne e degli afroamericani, ma si occupava di molti altri temi sociali come leggi più liberali per il divorzio e la posizione della Chiesa sulle questioni femminili. In occasione delle elezioni presidenziali del 1872, Susan venne multata 100 dollari per aver illegalmente votato. Fremente di rabbia per l’ingiustizia, intraprese un giro di conferenze a sostegno dei diritti di voto femminili, durante i quali fece il suo famoso discorso dal quale estrapoliamo questo verso: “Fummo noi, il popolo; non noi, i cittadini maschi bianchi; e neanche noi, i cittadini maschi; ma noi, tutto il popolo, che formavano l’Unione. E l’abbiamo formata, non per dare le benedizioni di libertà, ma per assicurarle, non alla metà di noi e la metà dei nostri posteri, ma per tutto il popolo, donne così come uomini”. La coraggiosa attivista è commemorata in una scultura di Adelaide Johnson al Campidoglio di Washington, inaugurata nel 1921.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Per chi non è più giovanissimo proponiamo un tuffo nella memoria sulle note musicali degli spensierati anni ’60. Vi ricordate di “Oh, Carol”, “La notte è fatta per amare”, “La terza luna”, “Il re dei pagliacci”? Canzoni, alcune tra le molte, che divennero regine dei jukebox nostrani del cantante e compositore statunitense Neil Sedaka. L’artista, nato a Brooklyn, il 13 marzo 1939, trascorse lunghi periodi in Italia. “È stato un periodo aureo, divertente e indimenticabile della mia vita ed io ero in cordiali rapporti con tutti”, ricorda Sedaka “dovevo partecipare al Festival di Sanremo nel 1965, con il brano “Non basta mai”. La RCA decise, invece, di ritirare i suoi cantanti da quell’edizione del Festival e organizzò una manifestazione analoga, in “controfestival” che venne proposto dalla TV italiana con il titolo di Pic-Up. “Era condotto da Walter Chiari ed eravamo tutti noi cantanti della RCA: Paul Anka, Rita Pavone, Gianni Morandi, Dalida, Dino, Alain Barriere, Jimmy Fontana, ecc.” Il cantante, le cui origini sono legate alla musica classica, era stato selezionato dal grande Arthur Rubinstein quale miglior concertista 1957 della prestigiosa Julliard School, appena quattordicenne formò un duo con Howard Greenfield. I due amici, mai avrebbero pensato che anni dopo, con le loro canzoni sarebbero diventati celebri in tutto il mondo. Sedaka ha composto più di mille canzoni e quella che predilige è “Laughter in the rain”, che nel 1975 gli consentì di ritornare alla ribalta dopo dieci anni in cui era caduto nel dimenticatoio. Con i Beatles e la British Invasion, il successo gli voltò le spalle: smise di cantare e tirò avanti scrivendo canzoni per altri artisti come Tom Jones e i Fifth Dimension. Poi Elton John lo scritturò per la sua etichetta: azzeccò subito una manciata di dischi da vertice classifica e da allora non si è più fermato. Oggi ha due figli grandi, due nipotine gemelle e un terzo nipote che sono la sua gioia, ma anche un calendario gonfio di concerti in tutto il mondo.
12 marzo
PRIMO PIANO
Nepal: incidente aereo a Kathmandu, decine di morti.
Un aereo passeggeri del Bangladesh è precipitato durante la discesa verso l’aeroporto di Kathmandu. Il velivolo della compagnia bengalese US-Bangla Airlines, con sede a Dacca, aveva a bordo 71 persone, di cui 13 sono state tratte in salvo, ma ci sarebbero almeno 50 vittime. Secondo quanto sostiene il quotidiano Republica di Kathmandu, sarebbero “almeno 50” i morti nell’incidente. In un tweet del suo direttore Subash Gimire, il giornale cita come fonte per il suo bilancio “medici operanti sul luogo del disastro”. Da parte sua la tv “all news” indiana India Today segnala che “20 cadaveri sono stati recuperati dal relitto dell’aereo”, mentre l’esercito parla di almeno 50 vittime, tra cui 37 cittadini del Bangladesh, 32 nepalesi, un cinese e un maldiviano. L’aereo coinvolto nell’incidente è un Bombardier Dash Q-400. Il portavoce dell’aeroporto internazionale Tribhuvan (Tia), Premi Nath Thakur, ha riferito che il velivolo ha perso visibilmente velocità nella fase di atterraggio e ha poi sbandato nell’impatto con il suolo, uscendo fuori pista e schiantandosi su un campo di calcio vicino allo scalo. Vigili del fuoco, ambulanze e unità dell’esercito nepalese si sono recati sul posto per i soccorsi. Le operazioni di volo nell’aeroporto sono state sospese. Il portavoce dello scalo nepalese, Prem Nath Thakur ha poi detto “stiamo cercando di estinguere l’incendio e soccorrere i passeggeri, finora sono stati portati all’ospedale 20 feriti, mentre la polizia e l’esercito stanno cercando di tagliare in due l’aereo per salvare gli altri”.
DALLA STORIA
Vaclav Fomič Nijinski.
Vaslav Nijinsky, uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi, l’anima e il cuore dei Balletti Russi di San Pietroburgo, divenuto celebre per il suo virtuosismo, per la profondità e l’intensità delle sue caratterizzazioni, nacque a Kiev, il 12 marzo 1890. Secondogenito di una coppia di ballerini polacchi emigrati in Ucraina, trascorse un’infanzia povera, segnata dagli stenti e dalla passione per la danza. La sua arte si espresse all’interno di uno dei periodi storici più cupi del Novecento, la dittatura dell’Unione Sovietica, come è ricordato nelle suggestive strofe della canzone di Battiato. Periodo in cui la censura del regime reprimeva la libera espressione degli artisti ma, per tradizione, ha sempre riservato alla danza una considerazione particolare. Nijinski, durante gli ultimi trent’anni della sua vita, dopo che smise di danzare, anche a causa di una progressiva forma di schizofrenia che lo inghiottì irreversibilmente, provocandone la morte nel 1950 scriveva: “Mi hanno detto che sono pazzo. Io pensavo di essere vivo”. Nel 1900, dopo essersi perfezionato alla Scuola di Ballo Imperiale di San Pietroburgo, con Enrico Cecchetti, il cui metodo è ancora oggi un caposaldo per l’insegnamento della danza classica, si esibì per il teatro Marijinsky affiancandosi a partners d’eccezione; lì incontrò Serghej Diaghilev. Questi, membro dell’élite di San Pietroburgo, ricco mecenate, promotore delle arti visive e musicali russe, ne divenne l’amante e, riconoscendo il genio nel giovane danzatore, decise di occuparsi della sua carriera artistica e organizzò, nel 1909, la tournée parigina di una compagnia di ballo di cui Nijinski e Anna Pavlova furono “les étoiles”. Sulla scia del successo, Diaghilev creò la compagnia “Les Ballets Russes” che il coreografo Michel Fokine renderà una delle compagnie di ballo più famose dell’epoca. Nel 1913 Nijinski, forse per affrancarsi dal rapporto di dipendenza dell’amante ritenuto dal ballerino “asfissiante”, sposò, a Buenos Aires, la ricca contessa ungherese Romola de Pulszky dalla quale avrà due figlie, avviandosi così lentamente al declino. Ormai a soli ventisette anni è un mito vivente. Parlando della sua arte Nijinsky diceva: “Io lavoro con le mani e i piedi e la testa e gli occhi e il naso e la lingua e i capelli e la pelle e lo stomaco e le budella”, e sui “Diari” ricordava: “Io leggevo Dostoevskij. Dostoevskij mi riusciva più facile, perciò lo leggevo d’un fiato. Leggerlo d’un fiato era gran cosa perché quando leggevo “L’idiota” sentivo che l’idiota non era un idiota ma una brava persona. Non potevo capire “L’idiota” perché ero ancora giovane. Non conoscevo la vita. Adesso capisco “L’idiota” di Dostoevskij perché prendono anche me per idiota”.
Nijinsky nelle suggestioni di Battiato
Prospettiva Nevskij
Un vento a trenta gradi sotto zero
incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili
A tratti, come raffiche di mitra,
disintegrava i cumuli di neve
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi per scacciare i lupi e vecchie coi rosari
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi per scacciare i lupi e vecchie coi rosari
Seduti sui gradini di una chiesa,
aspettavamo che finisse messa e uscissero le donne
Poi guardavamo con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinski
E poi di lui s’innamorò perdutamente il suo impresario e dei balletti russi
E poi di lui s’innamorò perdutamente il suo impresario
e dei balletti russi
L’inverno con la mia generazione
le donne curve sui telai, vicine alle finestre
Un giorno sulla Prospettiva Nevskij
per caso vi incontrai Igor Stravinskij
E gli orinali messi sotto i letti per la notte e un film di Eisenstein sulla rivoluzione
E gli orinali messi sotto i letti per la notte e un film di Eisenstein sulla rivoluzione
E studiavamo chiusi in una stanza
la luce fioca di candele e lampade a petrolio
E quando si trattava di parlare
aspettavamo sempre con piacere
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire
E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire
dentro l’imbrunire …
Franco Battiato.
La canzone parla dei ricordi di un vecchio russo, durante il periodo stalinista. La Prospettiva Nevsky, una delle strade principali di San Pietroburgo, che al tempo era stata ribattezzata Leningrado, è un grande viale verso il fiume Neva, dedicato a Alexander Nevsky. Leningrado è la città cardine della rivoluzione, nel rigidissimo inverno russo con il vento che distrugge “come raffiche di mitra” i cumuli di neve sulle piazze vuote. Il vento come le mitragliatrici usate prima dalla polizia zarista contro i manifestanti, e poi dalle guardie rosse bolsceviche per la difesa di Pietrogrado dalla controrivoluzione zarista di Kornilov e poi per il colpo di stato rivoluzionario dell’ottobre 1917. … Seduti sui gradini … accenna al periodo di transizione, non è ancora cominciata la persecuzione della religione e la propaganda dell’ateismo di stato dei tempi di Stalin. … poi guardavamo con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinsky … Nijinsky, famosissimo ballerino classico ucraino di origine polacca, ebbe una relazione con il suo ricco mecenate Serghej Diaghilev, impresario che, inizialmente non coinvolto nel settore dei balletti, si innamorò di lui e dei balletti russi. … Un giorno … per caso vi incontrai Igor Stravinskij … celebre compositore russo, la sua opera più famosa è “L’uccello di Fuoco”, vi è un collegamento con la frase precedente, in quanto le composizioni di Stravinskij vennero trasformate in balletti. … Gli orinali sotto i letti per la notte … in quel tempo non esisteva il bagno in casa, quindi per le eventuali necessità notturne si utilizzava un contenitore detto “orinale” che si teneva sotto il letto. Eisenstein fu un regista i cui film parlavano della rivoluzione russa del 1917, come “La corazzata Potëmkin” o “Ottobre”, con la rappresentazione del mitico assalto al palazzo d’inverno dello Zar ormai deposto, difeso solo dal battaglione femminile della guardia imperiale, da parte delle guardie rosse guidate dall’ intellettuale Antonov-Ovceenko. Infine si parla di quali fossero le condizioni degli studenti e della disciplina autoritaria che imponeva di parlare solo se richiesti, e quindi c’era il piacere di poter finalmente dire qualcosa. … Il mio maestro …, il riferimento molto probabilmente indica Gurdjeff che era effettivamente in Russia, a Pietrogrado negli anni tra il 1915 e il 1922, con il suo gruppo di discepoli, i Creatori di verità, e si può immaginare anche lui con i suoi accoliti nello scenario tratteggiato prima. “… era in quegli anni davvero difficile poter sperare di poter vedere la luce in una situazione buia come quella imposta dal regime comunista di Stalin. … trovare l’alba dentro l’imbrunire … è anche un richiamo alle teorie di Gurdjeff che sosteneva la possibilità di trovare una nuova vita superiore, (l’alba) che superi la (morte), l’imbrunire attraverso un faticoso percorso di ricerca della verità che porti a una nuova consapevolezza e ad un livello di vita superiore.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
L’autore di “On the road”, il libro ritenuto il manifesto di un intero movimento letterario, nasceva il 12 marzo 1922 e il suo nome era Jean Louis de Kerouac, meglio noto come Jack Kerouac. Autodefinitosi poeta jazz, Jack Kerouac incarnò in prima persona i principi e i valori del rifiuto dalle convenzioni dell’epoca, la ricerca della libertà materiale e spirituale, il pacifismo e la ribellione (espressa soprattutto attraverso l’arte) alle censure e alla morale americana da cui si sentiva costretto, come molti giovani della sua generazione, in maniera insopportabile. Essi rifiutavano le contraddizioni in seno alla società consumistica come l’induzione al consumo di cose inutili e inautentiche, la costante minaccia di un conflitto nucleare, la corruzione politica, la priorità dell’interesse economico contro i reali bisogni dell’umanità. Questa generazione venne definita Beat e fu Kerouac a coniare tale espressione, per la prima volta, nel 1948 in un’intervista durante la quale, parlando delle generazioni passate e, non volendo attribuire nessuna definizione alla propria, disse: “Ah, questa qui non è che una Beat generation”. Fin dagli anni ’40 si formò un gruppo di amici che condividevano l’amore per la poesia, la scrittura intesi come forme di libera espressione del proprio sentire che, alla fine degli anni ’50, fu riconosciuto come movimento letterario della Beat generation, raggiungendo una straordinaria popolarità. Oltre a Kerouac, tra i maggiori esponenti di questa avanguardia letteraria ci furono Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Neal Cassady, Gregory Corso ai quali si aggiunsero via via alcuni scrittori di San Francisco come Michael McClure, Gary Snyder, Philip Whalen e, da New York, Lawrence Ferlinghetti che incominciò a pubblicarne le opere con una casa editrice fondata la lui stesso, la City Lights. Lo spirito beat si esplicitò attraverso una libertà di movimento i cui simboli divennero la strada, il sacco a pelo, lo zaino in spalla e l’immancabile taccuino su cui scrivere “una prosa libera”. Kerouac, come moltissimi altri beat, superarono il limite delle loro esistenze abbandonandosi ad esperienze estreme come quella della droga e dell’alcool: quest’ultimo, in particolare, fu la causa della morte dell’affascinante e sensibile poeta-scrittore.
11 marzo
PRIMO PIANO
In fuga dalla Libia per salvare il fratellino leucemico.
Tre fratelli a bordo di un piccolo gommone sono scappati dalla Libia e hanno cercato di attraversare il mare Mediterraneo, tentando il tutto per tutto per dare una speranza a uno di loro, il piccolo Allah di 14 anni, malato di leucemia. Lo scopo del viaggio, hanno spiegato i ragazzi, era arrivare in Europa, in Italia, e trovare un ospedale dove poter curare e salvare Allah. A riferire questa commovente storia è la ong spagnola Proactiva Open Arms, che, all’alba, ha intercettato la piccola imbarcazione al largo della Libia e ha salvato i tre ragazzi. Oscar Camps, il fondatore della ong, attiva nel salvataggio di migranti al largo delle coste italiane, ha così commentato: “Notte felice nel Mediterraneo, tre fratelli con un sacco di amore e 200 litri di benzina si sono messi in mare per avere la possibilità di dare al fratello che ha la leucemia, la speranza di raggiungere un ospedale europeo. Veri eroi”.
10 marzo
PRIMO PIANO
Morto il giornalista Piero Ostellino.
È morto, all’età di 82 anni, Piero Ostellino, già direttore del Corriere della Sera dal giugno 1984 al febbraio 1987. Nato a Venezia il 9 ottobre 1935, Ostellino si laureò in Scienze politiche all’Università di Torino, specializzandosi in sistemi politici dei Paesi comunisti, avendo come relatore e correlatore due maestri quali Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio. Liberale convinto, amante della scuola illuminista scozzese e di autori come John Locke, David Hume, Adam Smith, di cui apprezzava la fede nell’individuo e la consapevolezza dell’imperfezione umana, fondò nel 1963 a Torino il Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, di cui è rimasto presidente onorario, e nel 1964 la rivista “Biblioteca della Libertà,” che ha diretto fino al 1970. Poi, dal 1990 al 1995, ha diretto l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano ed è stato membro del comitato scientifico dell’Università della Carolina del Nord. Autore di numerosi saggi di carattere storico e politico, fu corrispondente da Mosca dal 1973 al 1978 e da Pechino dal 1979 al 1980, nonchè inviato speciale, editorialista e titolare della rubrica settimanale “Il dubbio”. Convinto liberale e garantista, contrastò sempre lo statalismo dirigista. Ostellino fu chiamato alla direzione del Corriere al posto di Alberto Cavallari che aveva risollevato il quotidiano dopo lo scandalo della P2 e restò alla guida del giornale per tre anni, fino al 1987. Sotto la sua direzione comparve sulla prima pagina del Corriere il famoso articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nel 2015, dopo 48 anni di collaborazione con il “Corriere”, passò a “Il Giornale”.
9 marzo
PRIMO PIANO
Volkswagen: addio al Maggiolino.
La Volkswagen ha in programma di cessare la produzione del Nuovo Maggiolino, attualmente fabbricato nell’impianto di Puebla in Messico, per dedicare risorse e impianti al nuovo ID Buzz, cioè il minibus elettrico egualmente ispirato al passato (il Type 2 Transporter), che dal 2021-22 andrà ad arricchire la gamma dei modelli elettrici Vw. Lo ha detto, a margine del Salone di Ginevra, Frank Welsch membro del board di Volkswagen con responsabilità per ricerca e sviluppo. Secondo quanto riporta il magazine britannico Autocar, Welsch ha affermato, riferendosi ai modelli del Maggiolino presentati nel 1997 e nel 2011, che “due o tre generazioni sono sufficienti adesso” e che questo modello “era stato fatto pensando al passato ma che non è più possibile fare un Nuovo Nuovo Nuovo Maggiolino”. Il Maggiolino è sicuramente l’automobile tedesca più conosciuta al mondo, simbolo della rinascita industriale tedesca nel secondo dopoguerra, nonché il primo modello Volkswagen in assoluto. Detiene attualmente il record di auto più longeva del mondo, inoltre ha detenuto a lungo il primato di auto più venduta al mondo, con 21.529.464 esemplari, e attualmente è la quarta auto al mondo per numero di esemplari prodotti, dopo Toyota Corolla, Ford F-150 e Volkswagen Golf. Nel 1999 è stata nominata tra le cinque automobili più influenti del XX secolo. Nel 1974 la produzione del Maggiolino si spostò a Emden, due anni dopo la versione berlina uscì dal mercato europeo (la cabrio continuerà fino al 1980, affiancata e poi sostituita dalla Golf cabriolet) e nel 1978 tutta la produzione venne affidata alle catene di montaggio presenti a Guadalajara, in Messico, ed a São Bernardo do Campo, in Brasile, tuttavia il Maggiolino era ancora acquistabile importandolo dall’America Latina. È quello che facevano alcuni appassionati, soprattutto in occasione delle serie speciali limitate: per citare solo le più note, il Silver Bug del 1981, realizzato in occasione dei 20 milioni di esemplari prodotti, e il Maggiolino cosiddetto del Giubileo, realizzato nel 1986 in occasione del cinquantesimo anniversario dalla nascita della vettura. In America Latina il Maggiolino ha vissuto una seconda giovinezza, assumendo il ruolo di auto di famiglia che aveva occupato in Europa per decenni.
DALLA STORIA
Amerigo Vespucci.
In ogni epoca uomini ardimentosi osarono spingersi al di là della rassicurante linea del proprio orizzonte per affrontare l’ignoto. Per le vie carovaniere lasciate in eredità da Gengis Khan si mosse anche Marco Polo e, per generazioni, i mercanti europei ne seguirono le orme cercando floridi affari. Quando, nel XV secolo, le vie dell’Oriente tornarono a chiudersi, si aprì l’epoca delle grandi esplorazioni via mare: dalle missioni africane promosse da Enrico il Navigatore a Bartolomeo Diaz, che doppiò il capo di Buona Speranza aprendo la via per l’India, raggiunta poi da Vasco da Gama. In seguito al rivoluzionario approdo delle caravelle di Colombo sulle sponde dei Caraibi, l’epopea delle scoperte geografiche fu sancita dal giro del mondo di Magellano, base per gli imperi coloniali dei secoli successivi. Tra i grandi navigatori di quest’ultima epopea, si staglia la figura di Amerigo Vespucci che divise con Colombo la gloria della scoperta dell’America. Egli nasceva a Firenze il 9 marzo 1454. Abitava nel quartiere Ognissanti, e assieme alla casata dei Vespucci, (mercanti di vino, di seta, di lana; spesso si occupavano anche delle operazioni bancarie e commerciali) vivevano sia i Filipepi (una famiglia che lavorava il pellame e nella quale nacque Sandro Botticelli il cui vero nome è Alessandro Filipepi), sia i frati (questi cardavano e tessevano la lana, facendo stoffe che venivano esportate in tutta Europa). I Vespucci lavoravano per i Medici sia a Firenze che in altre città della Toscana, ma anche in terre più lontane. Grazie allo zio Giorgio Antonio, maestro canonico domenicano, noto per i suiu legami con Marsilio Ficino, Amerigo conobbe le opere di Dante e di Petrarca, di Platone, di Eraclito e di Democrito. Spesso partecipava alle discussioni di filosofia insieme ad altri importanti pensatori, studiava le teorie di Tolomeo e ascoltava i racconti dello zio sui mari percorsi dai mercanti, sulle terre sconosciute oltre l’orizzonte che alimentavano in lui fantasie suggestive e l’amore per i viaggi. Ma oltre alla cartografia tolemaica, Vespucci doveva conoscere gli innovativi mappamondi creati a Firenze da Enrico Martello e Francesco Rosselli nel 1489-90, dopo cioè la circumnavigazione africana di Bartolomeo Diaz.
(Planisfero di Francesco Rosselli, 1508)
Proprio le sue radici culturali lo rendono unico nel quadro dei viaggiatori suoi contemporanei; grazie a questo apprendistato, alle sue conoscenze astronomico-cosmografiche (riconducibili soprattutto al Toscanelli) che di fatto poté salire sulle navi spagnole e portoghesi. Vespucci si rivelava egli stesso uno degli “uomini nuovi” del Rinascimento, tanto quanto Colombo era fra gli ultimi uomini del Medioevo. Lo stesso Colombo, per nulla geloso della fama raggiunta da Vespucci, fu suo amico e ne riconobbe il genio in una lettera del febbraio 1505 a suo figlio Diego: “Ebbe sempre desiderio di farmi piacere ed è uomo molto dabbene. La fortuna gli è stata contraria, come a molti altri, e le sue fatiche non gli hanno dato quel profitto che si meritava”. Un paio di anni dopo, però, nel 1507, il cosmografo Martin Waldseemuller nominò il continente sudamericano “America”, riconoscendo quelle coste come le “terre di Amerigo” da lui studiate. Vespucci effettuò quattro viaggi transatlantici, i primi due al servizio della Spagna (1497-1498 e 1499-1500) e gli altri al servizio del Portogallo (1501-1502 e 1503-1504), attraverso i quali esplorò le coste atlantiche dell’America Meridionale. La sua intuizione fondamentale fu di aver compreso che le nuove terre non costituivano porzioni di territorio dell’Asia, ma rappresentavano una “quarta parte del globo” indipendente e separata dal continente asiatico. Egli notò infatti, compiendo il viaggio nel 1501, che l’estensione delle zone scoperte si spingeva fino al 50° grado di latitudine sud. Da tale notevole grandezza comprese di essere in presenza di un continente fino allora sconosciuto. “Oltrepassando i Caraibi, avvistando il continente sudamericano in corrispondenza della Caienna, in Guiana, per poi volgere a nordovest cabotando lungo il Venezuela, Vespucci vide le palafitte degli indigeni, battezzando egli stesso il paese Venezuela, cioè “Piccola Venezia”, proprio da tali villaggi costituiti sull’acqua, paragonati alla Serenissima Repubblica di San Marco. Mostrò interessi antropologici più sviluppati di quelli di Colombo, il quale poneva ai primi posti i problemi politico-economici della colonizzazione, in primis l’oro, e la missione evangelizzatrice. Degli abitanti delle nuove terre Vespucci scrisse: “Il loro viso non è particolarmente bello, poiché è piuttosto largo, con un’espressione selvaggia. Le armi sono arco e frecce, di ottima fattura. Anche le donne sanno maneggiarle e colpiscono tutto ciò che mirano. Quando gli uomini scendono in guerra prendono seco le donne, non come combattenti, ma come portatrici di provviste. … Consumano i pasti per terra, senza tovaglia o altra tela. Le vivande si trovano o in ciotole di terra da essi fabbricate o in zucche tagliate a metà. Dormono in grandi reti di cotone appese in aria. Si potrebbe credere che questo sia un cattivo giaciglio. Ma devo confessare che su queste reti si può riposare benissimo, come ho sperimentato io stesso. Anzi, una volta mi sono persino appisolato, ciò che prima di me, credo nessun cristiano ha mai fatto (Storia dei grandi esploratori di Mirko Molteni. Ed. Odoya). Le prove della cultura umanistica vespucciana emergono dalle sue opere. Oltre a Tolomeo, presente un po’ ovunque, sono da ricordare, nel “Mundus Novus” (relazione del terzo viaggio in America, edita a stampa ad Augusta nel 1504), i numerosi riferimenti classici. Vespucci si mostrava orgoglioso di sapere ben utilizzare gli strumenti che consentivano di praticare l’astronomia a fini nautici: “Tanto che se i miei compagni non avessero avuto fiducia in me, che conoscevo la cosmografia, non ci sarebbe stato né un pilota né un capitano di nave che sarebbe stato in grado di dire dove ci trovavamo, dopo aver percorso cinquecento leghe. Eravamo, infatti, persi e errabondi solo gli strumenti ci mostrarono con precisione la verità riguardo all’altezza dei corpi celesti, e questi strumenti furono il quadrante e l’astrolabio, come chiunque poté vedere. Da quel momento, tutti mi seguirono con molto rispetto, perché avevo mostrato loro che, anche senza l’aiuto della carta nautica, conoscevo l’arte della navigazione più di tutti i piloti di tutto il mondo. Essi, infatti, non hanno alcuna conoscenza al di là dei mari che sono soliti navigare». Suddito del Regno di Castiglia dal 24 aprile 1505, Vespucci morì a Siviglia il 22 febbraio 1512.
Mary Titton
8 marzo
PRIMO PIANO
8 marzo: perché le mimose?
Oggi, giovedì 8 marzo, è la Giornata Internazionale della Donna, istituita per ricordare i diritti e le conquiste sociali ottenuti nel corso degli ultimi decenni dalle donne e per contrastare la violenza maschile e tutte le forme di violenza di genere. Viene celebrata in tutto il mondo, ma solo in Italia, relativamente da poco tempo, per l’occasione si regalano le mimose. In moltissimi paesi è tradizione regalare fiori alle donne l’8 marzo, ma la relazione tra i fiori di mimosa e la Festa della donna c’è solo in Italia. Nel nostro Paese la Giornata internazionale della donna cominciò a essere celebrata dopo la Seconda guerra mondiale su iniziativa del Partito Comunista Italiano e dell’Unione delle Donne in Italia (UDI). Inizialmente si voleva usare come fiore simbolo della festa la violetta, un fiore con una lunga tradizione nella sinistra europea: uno dei sostenitori di questa idea era il vice-segretario del Partito Comunista Luigi Longo. Alcune dirigenti del Partito Comunista però si opposero: la violetta era un fiore costoso e difficile da trovare, l’Italia era appena uscita dalla guerra, molti si trovavano in condizioni economiche disagiate e avrebbero avuto molte difficoltà a procurarsi le violette. Tra queste dirigenti c’era Teresa Mattei, una ex partigiana che negli anni successivi avrebbe continuato a battersi per i diritti delle donne. Di lei si ricorda uno scambio che ebbe con un deputato liberale a proposito della parità tra uomini e donne all’interno della magistratura: “Signorina, ma lei lo sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?”, chiese il deputato e lei rispose: “Ci sono uomini che non ragionano tutti i giorni del mese.” La Mattei propose di adottare un fiore molto più economico, che fiorisse alla fine dell’inverno e che fosse facile da trovare nei campi: appunto la mimosa. Anni dopo, in un’intervista la Mattei disse: “La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente”. Anche se la festa della donna non divenne una ricorrenza popolare fino agli anni Settanta, la tradizione della mimosa ebbe successo e dura ancora oggi. La Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, ha così detto: “Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano”.
IL PERSONAGGIO
(Ipazia, particolare dell’affresco “la Scuola di Atene”, di Raffaello Sanzio)
Nella ricorrenza della festa della donna ricordiamo oggi un’importantissima scienziata e filosofa greca di 1600 anni fa, Ipazia d’Alessandria, donna coltissima e libera e per questo trucidata nel marzo del 415, lapidata in una chiesa da fanatici religiosi esponenti di quella che da poco era diventata la religione di stato nell’impero romano-bizantino: il cristianesimo. All’epoca Alessandria era una città multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, con edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinità greche ed egizie e chiese cristiane. La religione cristiana in espansione non accettava che la donna potesse avere ruoli importanti nella società, che si occupasse della divulgazione del sapere matematico, geometrico e astronomico. Ipazia, figlia del noto filosofo Teone, studiò fin da giovanissima nella enorme biblioteca d’Alessandria e succedette al padre, già nel 393, nell’insegnamento presso il Museo di Alessandria d’Egitto che a quel tempo era la più importante istituzione culturale esistente. Di lei non sono rimasti molti scritti, probabilmente a causa di uno dei molti incendi che distrusse la biblioteca. Abbiamo, però, molte testimonianze scritte da parte di studiosi e filosofi del tempo come ad esempio quella del suo allievo Senesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava “madre” e “patrona”. Si pensa che Ipazia sia arrivata a formulare anche ipotesi sul movimento della Terra e che cercò di superare la teoria tolemaica secondo la quale la Terra era al centro dell’Universo. Viene ricordata anche come inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, strumento con il quale si può misurare il diverso peso specifico dei liquidi. Oltre a questi ambiti del sapere scientifico si dedicò, a quanto pare diversamente dal padre, anche alla filosofia vera e propria, relativa a pensatori come Platone, Plotino (fondatore del Neoplatonismo) e Aristotele. Nota era pure la sua bellezza, ma Ipazia non volle mai sposarsi così come non volle farsi cristiana. “Se mi faccio comprare, non sono più libera, e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera”. (Ipazia, in “Ipazia e sogni di una scienziata del IV secolo”). Il suo nome è tornato famoso durante l’illuminismo, quando molti autori hanno iniziato a ricordarne la libertà di pensiero e l’alto livello a cui erano giunti i suoi studi. Da allora viene ricordata come simbolo della libertà di pensiero e dell’indipendenza della donna, oltre che come martire del paganesimo e in generale del dogmatismo fondamentalista.
7 marzo
PRIMO PIANO
Oscar 2018.
Domenica 4 marzo, mentre in Italia la scena era occupata dalle Elezioni 2018, si è tenuta al Dolby Theatre di Los Angeles la 90ª edizione della cerimonia degli Oscar, presentata da Jimmy Kimmel, già conduttore della precedente edizione. L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha premiato il meglio offerto dal mondo del cinema durante il 2017, suddiviso in 24 categorie. La forma dell’acqua, The Shape of Water, è stato il film più premiato dell’edizione, con quattro statuette tra cui quella per il miglior film e quella per il miglior regista, vinta da Guillermo del Toro. Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha vinto due Oscar, tra cui quello, per la miglior attrice protagonista, di Frances McDormand, che ha fatto il discorso più imprevedibile e più applaudito dell’intera serata. Due Oscar anche per Blade Runner 2049, ma non quello per la scenografia che vedeva in corsa l’italiana Alessandra Querzoli. Un Oscar è andato a Get Out, migliore sceneggiatura originale. Il premio per il miglior attore è stato vinto da Gary Oldman, che ha interpretato Winston Churchill in L’ora più buia; James Ivory, 89 anni, è stato il più vecchio vincitore ed è stato premiato per la sceneggiatura di Chiamami col tuo nome; il film Icarus, che parla di doping e Russia ha vinto l’Oscar per il miglior documentario. Soddisfazione anche per Coco, il film di animazione della Pixar, vincitore di categoria e per la migliore canzone. Una nota al margine: in segno di protesta contro le molestie e in difesa delle donne esplode il colore sulla passerella, negli abiti delle star dominano soprattutto tutte le sfumature del rosa – dal pallido al fucsia -, del rosso e del viola. C’è anche molto bianco, scelto, ad esempio, da Jane Fonda, che ha consegnato quest’anno il premio al miglior attore e indossa anche la spilla di Time’s Up che in tante portano in bella vista.
DALLA STORIA
Matilde Serao … per i napoletani ‘a Signora.
A cavallo tra due secoli, il XIX e il XX, quando alle donne era preclusa ogni forma di partecipazione pubblica, senza la possibilità di accedere alle università, destinate, dalle rigide convenzioni dell’epoca, alle attività domestiche e all’allevamento della prole Matilde Serao, “la George Sand italiana” è stata la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano. “Donna esuberante, cordiale, comunicativa, curiosa, giornalista solerte, scrittrice prolifica, quasi disordinata, pressata dall’urgenza d’esprimersi e denunciare, seppe ritrarre al vivo le figure della piccola borghesia di Napoli, sullo sfondo brulicante di una folla rumorosa e vivace, descrivendone il colore locale, la realtà quotidiana in tutti i suoi aspetti, anche minimi, nei riti, nelle superstizioni. Profonda conoscitrice dell’animo umano, indugiò spesso su figure di singole donne, prediligendo le creature semplici, che tratteggiò con mano delicata e cura amorosa …”, (commento letterario di Francesca Santucci da www.letteraturaalfemminile.it). Matilde nasce il 7 marzo del 1856 a Patrasso, in Grecia, dal matrimonio tra l’avvocato e giornalista napoletano Francesco Serao e Paolina Borely, nobile greca decaduta. Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, antiborbonico, allontanatosi da Napoli, nel 1848, per sfuggire alle repressioni del “Borbone”, durante gli anni tumultuosi dell’Unificazione. Nel 1860 la famiglia Serao, con l’annuncio dell’ormai imminente caduta di Francesco II, torna in patria stabilendosi a Ventaroli, frazione di Carinola che Matilde, in un articolo pubblicato postumo, nel 1956, su “Il Mattino”, descrive così: “Ventaroli è anche meno di un villaggio né voi lo troverete nella carta geografica: è un piccolo borgo nella collina più vicino a Sparanise che a Gaeta. Vi sono duecentocinquantasei anime, tre case di signori, una chiesa tutta bianca ed un cimitero tutto verde; vi è un gobbo idiota, una vecchia pazza e un eremita in una cappelluccia”. Nel 1861 Matilde si trasferisce con la famiglia a Napoli, dove il padre comincia a lavorare come giornalista a “Il Pungolo”, foglio di ispirazione liberale. Matilde vive così fin da piccola l’ambiente della redazione di un giornale. Nonostante questa influenza e malgrado gli sforzi di sua madre, all’età di otto anni non ha ancora imparato né a leggere né a scrivere. Impara più tardi e, quindicenne priva di titolo di studio, si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimental Fonseca”. In poco tempo riesce ad ottenere il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato, professione che lascia dopo quattro anni per dedicarsi interamente alla letteratura e al giornalismo. Comincia con brevi articoli nelle appendici del “Giornale di Napoli”, poi passa ai bozzetti e alle novelle firmate con lo pseudonimo “Tuffolina”. Intrapresa l’attività letteraria e giornalistica, dinamica e di intelligenza vivace, Matilde non tarda molto ad affermarsi. A 22 anni completa la sua prima novella, “Ovale” che invia al Corriere del Mattino. A 26 anni si trasferisce a Roma. Nella capitale collabora per cinque anni con il “Capitan Fracassa” sotto lo pseudonimo di “Ciquita” nel quale scrive di tutto, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. Inoltre si ritaglia uno spazio nei salotti mondani della capitale. Matilde “non è bella: grossa e tozza, con un’aria da maschiaccio, estroversa, gesticolante, sgraziata e chiassosa”, la sua fama di donna indipendente suscita più curiosità che ammirazione e, di rimando, Matilde scrive: “Quelle damine eleganti non sanno che io le conosco da cima a fondo, che le metterò nelle mie opere; esse non hanno coscienza del mio valore, della mia potenza …”. In occasione dell’uscita del libro che la rende famosa, “Fantasia”, del 1883, il commento del critico e famoso giornalista Edoardo Scarfoglio, che diventa nel 1885 suo marito e dal quale ha quattro figli, non è favorevole e più tardi la stessa Matilde riconosce le ragioni di questo suo “non scrivere bene”, nei suoi studi cattivi e incompleti e nell’ambiente, ma ci tiene a precisare: “Vi confesso che se per un caso imparassi a farlo, non lo farei. Io credo, con la vivacità di quel linguaggio incerto e di quello stile rotto, d’infondere nelle opere mie il calore, e il calore non solo vivifica i corpi ma li preserva da ogni corruzione del tempo”. Il primo incontro tra Edoardo e Matilde avviene nella redazione del “Capitan Fracassa” e il futuro marito, ostile all’inizio nei confronti della giornalista e futura sposa, di lei scrive a un’amica: “Questa donna tanto convenzionale e pettegola e falsa tra la gente e tanto semplice, tanto affettuosa, tanto schietta nell’intimità, tanto vanitosa con gli altri e tanto umile meco, tanto brutta nella vita comune e tanto bella nei momenti dell’amore, tanto incorreggibile e arruffona e tanto docile agli insegnamenti, mi piace troppo, troppo, troppo.” L’amico D’Annunzio, sotto il titolo “Nuptialia”, pubblica la cronaca “rosa” del matrimonio: “Verso l’una di mezzogiorno Edoardo Scarfoglio si è unito con Matilde Serao, nella sala rossa del Campidoglio … La sposa, in elegantissimo abito grigiosorcio con un cappello chiuso d’egual colore, teneva tra le mani un mazzo di rose … lo sposo, quella singolar figura di Don Chisciotte …”. Tra Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio non nasce solo un’unione sentimentale, ma anche un sodalizio professionale. Insieme intraprendono molte iniziative: la fondazione, nel 1885, del giornale “Il Corriere di Roma”, in cui Matilde contribuisce con i suoi scritti e invita a collaborare le migliori firme del momento, (Matilde prendendo spunto da quell’esperienza, dà alle stampe un corposo romanzo, “Vita e avventure di Riccardo Joanna, che Benedetto Croce definisce “il romanzo del giornalismo”); due anni dopo, a Napoli, i due giornalisti, marito e moglie, danno vita al quotidiano “Il Corriere di Napoli”, che nel 1892 diventa “Il Mattino”.
(Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao)
Ben presto il matrimonio entra in crisi (Scarfoglio la tradisce continuamente ed ha un figlio con un’altra donna) la loro collaborazione continua ancora per qualche tempo, finché, nel 1903, Matilde abbandona il giornale e fonda, nel 1904, il quotidiano rivale “Il Giorno”, che guida fino alla fine della sua vita. Matilde è una scrittrice tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo. La sua opera ancora oggi più significativa è, probabilmente, “Il ventre di Napoli” (così intitolato ispirandosi ad una frase pronunciata dal Depretis, preoccupato per il dilagare dell’epidemia di colera a Napoli nel 1884, ma forse anche ricordando “Il ventre di Parigi”, di Émile Zola), atto di accusa contro la cattiva amministrazione della città da parte del governo della Sinistra dell’epoca, libro che raccoglie gli articoli, pubblicati nel 1884 sul “Capitan Fracassa” di Roma, poi raccolti in volume nello stesso anno, di un servizio giornalistico sulla situazione napoletana. Grande fu la delusione di Matilde Serao quando, nel 1926 sfumò il suo sogno di ricevere il premio Nobel, del quale fu insignita, invece, l’illustre rivale: Grazia Deledda. Già in declino il suo successo, Matilde si spense a Napoli il 24 luglio 1927, colpita da un infarto mentre era intenta a scrivere.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Cineasta completo regista, sceneggiatore, montatore, creatore di effetti speciali, scrittore, celeberrimo fotografo Stanley Kubrick ha realizzato opere considerate “tra i più importanti contributi alla cinematografia mondiale del XX secolo”, (Michel Cimet). Dopo quattro anni di studio all’accademia di arte cinematografica, si dedica attivamente al cinema. Dirige in totale tredici lungometraggi ed è stato candidato per tredici volte al Premio Oscar, vincendolo solo nel 1969 per gli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio e, nel 1997 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera al festival del cinema di Venezia. Ha affrontato con grande successo di critica e di pubblico un ampio numero di generi cinematografici come il genere guerra con “Paura e desiderio”, “Orizzonti di gloria” e “Full Metal Jacket”, il noir con “Il bacio dell’assassino”, Il thriller con “Rapina a mano armata”, il peplum con “Spartacus”, la commedia nera con “Lolita”, la satira politica con “Il dottor Stanamore”, la fantascienza con “2001: Odissea nello spazio”, la fantascienza sociologica con “Arancia meccanica”, il genere storico con “Berry Lyndon”, l’horror con “Shining”, il dramma psicologico con “Eyes Wide Shut”. Film celeberrimi recitati da grandi attori a partire da Kirk Douglas, Peter Sellers, Jack Nicholson e molti altri ancora, film molto spesso ispirati dai testi di scrittori notevoli quali Vladimir Nabokov, Stephen King, Arthur Schnitzler, Humphrey Cobb, Anthony Burgess, Arthur C. Clarke ecc. Artista geniale, metodico e molto scrupoloso Stanley Kubrick veicola allo spettatore le emozioni attraverso vari canali comunicativi: l’immagine che si intesse con la musica, l’uso magistrale dei piani sequenza, il tempo dell’azione, la profondità di campo ottenuta con teleobiettivi molto potenti e diaframmi apertissimi, le inquadrature prolungate, esitanti che lasciano lo spettatore libero d’indugiare sulle singole componenti dell’immagine e la sua curiosità tecnica che lo portò a innovare il cinema stesso, ottenendo sorprendenti effetti speciali , usando le “ottiche superluminose” della Nasa, la “Zeiss” e la steady-cam. Le numerosissime scene di antologia dei film di Kubrick arrivano nel profondo del cuore prim’ancora dei concetti narrativi come quella nel film 2001: Odissea nello spazio, la più ampia ellissi della storia del cinema con l’osso della scimmia che lanciato in alto diventa l’astronave oblunga che “danza” sulle note di “Sul bel Danubio blu”, di Johann Strauss.
(Scena tratta dal film “2001: Odissea nello spazio”)
6 marzo
PRIMO PIANO
Germania: via libera al quarto governo Merkel.
Domenica 4 marzo, mentre erano in corso in Italia le elezioni per il rinnovo del Parlamento, in Germania la base dell’Spd (Partito Socialdemocratico Tedesco) ha votato a favore della Grosse Koalition con la Cdu/Csu (Unione Cristiano-Democratica di Germania e Unione Cristiano-Sociale in Baviera) di Angela Merkel: infatti al referendum ha vinto il sì con il 66,02% dei consensi. Era atteso un risultato sul filo, ma la risposta è stata netta e, come aveva anticipato ieri il presidente provvisorio del partito, Olaf Scholz, la partecipazione è stata “alta”. La conta dei voti è avvenuta per tutta la notte nella sede berlinese della Spd, nel Willy-Brandt-Haus, grazie a 120 volontari e a una commissione speciale che ha controllato le centinaia di migliaia di lettere arrivate entro venerdì a mezzanotte; il voto è stato certificato da un notaio. Quasi sei mesi dopo le elezioni del 24 settembre, Angela Merkel può così formare il suo quarto esecutivo con Spd, il giuramento e il voto al Bundestag avverranno a metà marzo. Quanto al governo, la CDU ha annunciato i suoi prossimi ministri, tra cui Peter Altmaier, fedelissimo di Merkel, ex capo della cancelleria, all’Economia, e la ministra Ursula von der Leyen, alla Difesa. I conservatori bavaresi (CSU) si sono assicurati il dicastero dell’Interno, e lo hanno chiamato “della Heimat”, dell’identità nazionale, il candidato più probabile è l’attuale capo del partito, Horst Seehofer. La Spd ha preso più tempo per decidere, anche se per il ministro delle Finanze si è già fatto il nome dell’ex sindaco di Amburgo ed attuale leader commissariale del partito, Olaf Scholz.
DALLA STORIA
Michelangelo Buonarroti.
Il principio del XVI secolo, il Cinquecento, è il periodo più famoso dell’arte italiana e uno dei più splendidi d’ogni tempo. Fu l’epoca di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Correggio e Giorgione, di Dürer e Holbein nel Nord e di molti altri maestri famosi. Il più vecchio dei grandi maestri fu Leonardo da Vinci (1452-1519), il secondo grande fiorentino la cui opera conferisce tanta fama all’arte italiana del Cinquecento fu Michelangelo Buonarroti. L’autore della volta della Cappella Sistina, della Pietà Vaticana, del David, del Mosé, dello Schiavo Morente, del Tondo Doni, del progetto di Piazza Campidoglio a Roma e così via, nacque il 6 marzo 1475, a Caprese (Arezzo). Aveva ventitre anni meno di Leonardo e gli sopravvisse di quarantacinque. Nella sua lunga vita fu testimone di una rivoluzione totale nella posizione dell’artista e in certa misura fu proprio lui a provocarla. In gioventù Michelangelo aveva fatto il tirocinio di qualsiasi altro artigiano. Tredicenne, fu messo, per imparare il mestiere, nell’operosa bottega di uno dei principali maestri del tardo Quattrocento fiorentino, il pittore Domenico Ghirlandaio, uno di quegli autori di cui si ammirano le opere più per la colorita rappresentazione della vita del loro tempo che per uno speciale merito artistico. Nella sua bottega il giovane Michelangelo poté imparare tutti i trucchi del mestiere, impadronirsi a fondo della tecnica dell’affresco e farsi un’ottima base nel campo del disegno. Ma da quel che si sa, Michelangelo non ebbe giorni felici come apprendista nella bottega del celebre pittore. Le sue idee sull’arte erano troppo diverse. Invece di acquistare la facile maniera del Ghirlandaio, si diede allo studio dell’opera dei maestri del passato Giotto, Masaccio, Donatello, nonché degli scultori greci e romani di cui poteva contemplare le statue nella collezione medicea; tentò di penetrare i segreti degli scultori antichi, capaci di ritrarre il mirabile corpo umano in movimento, con tutti i muscoli e tendini in azione. Come Leonardo, non si appagò di imparare le leggi dell’anatomia dalla scultura antica, ossia di seconda mano. Fece un lavoro diretto, sezionando cadaveri, disegnando modelli dal vero, finché la figura umana sembrò non aver più alcun segreto per lui. Ma diversamente da Leonardo, per il quale la figura umana era solo uno degli appassionanti enigmi della natura, Michelangelo tese con una straordinaria esclusività di propositi a sviscerare quest’unico problema, in modo da padroneggiarlo a fondo. La sua capacità di concentrazione e la sua memoria dovevano essere tanto eccezionali che ben presto non vi fu più nessuna posizione o movimento troppo ardui per lui. Le difficoltà, anzi, parevano attirarlo. Atteggiamenti e angolazioni che molti grandi maestri del Quattrocento avrebbero esitato a introdurre nelle loro opere, per timore di non riuscire a rappresentarle nella loro verità, non facevano che stimolare le sue ambizioni artistiche e presto corse voce che il giovane artista non solo stava alla pari dei maestri dell’antichità classica, ma addirittura li aveva superati. Verso la trentina era già considerato uno dei principali maestri dell’epoca, non inferiore, nel suo campo, al genio di Leonardo. Firenze gli fece l’onore di affidare a lui e a Leonardo la raffigurazione di un episodio di storia cittadina sulla parete della sala del Maggior Consiglio a Palazzo Vecchio. Fu un momento drammatico per la storia dell’arte quello in cui questi due giganti si contesero la palma e tutta Firenze seguì febbrilmente il progredire dei lavori. Sfortunatamente le opere non furono mai completate. Michelangelo ricevette una chiamata che accese ancor di più il suo entusiasmo. Papa Giulio II lo voleva a Roma per farsi erigere un sepolcro degno del capo della cristianità. Con il consenso del papa, Michelangelo si mise subito in viaggio verso le famose cave di marmo di Carrara per scegliere i blocchi da cui trarre il gigantesco mausoleo. Il giovane artista fu soverchiato dalla visione di tutti quei blocchi marmorei che sembravano aspettare lo scalpello che li trasformasse in statue mai vedute prima. Rimase più di sei mesi alle cave, comprando, scegliendo, escludendo, con la fantasia traboccante di immagini. Voleva liberare dal marmo le figure che vi giacevano dentro assopite. Ma quando tornò per mettersi al lavoro, scoprì che l’entusiasmo di Giulio II per la grande impresa si era raffreddato. Una delle più grandi perplessità del Papa era che il progetto della tomba era venuto a contrasto con un altro progetto che aveva ancor più caro: il progetto di una nuova San Pietro. La tomba, infatti, era destinata originariamente alla vecchia costruzione: se questa fosse stata demolita, dove sarebbe finito il mausoleo? Michelangelo, nel suo smisurato disappunto, sospettò altre ragioni, subodorò l’intrigo e dubitò perfino che i suoi rivali, soprattutto Bramante, architetto della nuova San Pietro, lo volessero avvelenare. In un accesso di paura e di sdegno abbandonò Roma per Firenze e scrisse una violenta lettera al papa, in cui tra l’altro lo invitava, se voleva riaverlo, ad andarlo a cercare. Strano è, in tutta questa storia, che il papa non perse la calma anzi intavolò trattative ufficiali con il governo di Firenze perché convincesse il giovane scultore a ritornare a Roma. Per tutti quanti si interessavano d’arte gli spostamenti e i piani di questo giovane artista avevano il peso di un affare di stato. I fiorentini temettero perfino che il papa potesse volgersi contro di loro se continuavano a dargli ricovero. Quando Michelangelo tornò a Roma, il papa gli fece accettare un’altra ordinazione. C’era una cappella in Vaticano costruita da Sisto IV e quindi chiamata Cappella Sistina. Le pareti erano state decorate dai più famosi artisti della generazione precedente, Botticelli, Ghirlandaio e altri. Ma la volta era ancora nuda. Il papa suggerì a Michelangelo di dipingerla. Michelangelo fece di tutto per declinare l’ordinazione, disse di non essere veramente un pittore, ma uno scultore. Era convinto di dover l’ingrato incarico a intrighi di nemici. Poiché il papa era irremovibile, egli cominciò a elaborare uno schema modesto, dodici apostoli entro nicchie, e a cercare aiuti da Firenze. Ma d’un tratto si rinchiuse nella cappella, senza lasciarsi avvicinare da alcuno e prese a lavorare da solo al progetto di un’opera che davvero ha continuato a “meravigliare il mondo intero” dal momento in cui venne alla luce.
Fonte: “La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich. Ed. Einaudi
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Mauro Rostagno, nato a Torino il 6 marzo 1942, è stato un giornalista e leader politico di estrema sinistra, che, nella sua pur breve e movimentata vita, ha lasciato un’impronta nella politica e nella società italiana. Figlio di genitori piemontesi, entrambi dipendenti Fiat, dopo varie esperienze prima in Germania, poi in Inghilterra, tornato in Italia e coseguita la licenza liceale, a Trento si iscrive alla Facoltà di Sociologia, divenendo ben presto uno dei leader del Sessantotto: soprannominato anche “il Che di Trento”, insieme ad altri studenti, quali Marco Boato, Renato Curcio, Mara Cagol, anima la contestazione del Movimento degli studenti dell’Università. Mentre alcuni protagonisti di tale esperienza, tra cui Curcio e la Cagol, fonderanno in seguito le Brigate Rosse, Rostagno, marxista libertario, non violento e profonda-mente contrario alla lotta armata, nel 1969 fu, con Adriano Sofri e Marco Boato, tra i fondatori del Movimento Lotta Continua. Dopo la laurea, per due anni fa il ricercatore al CNR, poi, tra il 1972 e il 1975, ricopre l’incarico di assistente di sociologia all’Università di Palermo, città in cui si occupa di diffondere il movimento di Lotta Continua come responsabile regionale. Alla fine del 1976, dopo lo scioglimento di Lotta Continua, da lui fortemente voluto, ritorna a Milano e nell’ottobre 1977 è fra i fondatori del locale Macondo (nome tratto da “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez), centro culturale e punto di riferimento per l’estrema sinistra. Archiviata l’esperienza di Macondo, dopo quella in India insieme alla compagna Elisabetta Roveri, per tutti Chicca, al seguito del guru Bhagwan Shree Rajneesh (in seguito noto come Osho), nel 1981, Rostagno torna in Italia e fonda insieme a Francesco Cardella e Chicca Roveri a Lenzi, vicino Trapani, la Comunità Saman, che, all’inizio comune di arancioni, diviene comunità terapeutica per il recupero di tossicodipendenti. Dalla metà degli anni ottanta lavora come giornalista e conduttore per l’emittente televisiva locale Radio Tele Cine, dove si distingue per un giornalismo d’inchiesta e di denuncia delle collusioni tra mafia e politica locale. Il 26 settembre 1988 paga la sua passione sociale e il suo coraggio con la vita: viene infatti assassinato, a 46 anni, in un agguato in contrada Lenzi, a poche centinaia di metri dalla sede della Saman, all’interno della sua auto, una Fiat Duna DS bianca, da alcuni uomini nascosti ai margini della strada. La Corte d’Assise di Trapani, nel maggio 2014, ha condannato in primo grado all’ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara, tra le motivazioni del delitto vi sarebbero le numerose denunce da parte di Rostagno del potere della criminalità mafiosa siciliana, specialmente nell’omicidio Lipari. Molti i depistaggi sul delitto, l’ex Procu-ratore aggiunto Antonio Ingroia, che ha istruito il processo, lasciando intravedere uno scenario più complesso, ha dichiarato di essere stato sempre convinto che non fu un omicidio solo di mafia.
5 marzo
PRIMO PIANO
Elezioni politiche 2018: 5 stelle primo partito, nella coalizione di centro destra Lega supera Forza Italia.
A scrutinio quasi ultimato del voto degli italiani, è ormai chiaro il quadro che si è delineato tanto alla Camera quanto al Senato: il Movimento Cinque Stelle risulta il primo partito con oltre il 32%, seguito dal Pd che non arriva al 19%, e dalla Lega con oltre il 17%. Forza Italia si ferma al 13,5%. Se il trend attuale sarà confermato dai dati definitivi, Fdi è al 4,1%, LeU al 3,6%. Le altre liste in gara non hanno invece superato lo sbarramento del 3%: PiùEuropa di Emma Bonino si ferma al 2,5%. Fra le altre, solo Potere al Popolo-Prc è oltre l’1% 1,1%, mentre CasaPound si ferma allo 0,9%, Il Popolo della Famiglia allo 0,6%, Insieme allo 0,5%, Civica Popolare e la Svp allo 0,4%, Italia agli italiani e Partito Comunista allo 0,3%, 10 Volte meglio e il Partito del calore umano allo 0,1%. Il voto sembra confermare i sondaggi e le previsioni della vigilia, a parte alcune sorprese: il crollo del PD, che, al disotto del 20%, deve prendere atto e analizzare le cause di questa clamorosa sconfitta; il deludente risultato di Leu, che si aspettava un esito migliore; l’affermazione, all’interno della coalizione di Centrodestra, di Salvini su Berlusconi. Dai dati emerge poi anche un altro rilevante elemento: un’Italia spaccata in due, con la prevalenza del M5S al Sud e della Lega al Nord, con piccole isole dove il Pd risulta vincente. Si cominciano già a registrare le prime dichiarazioni dei leader: così Luigi Di Maio in conferenza stampa all’hotel Parco dei Principi: “Oggi inizia la Terza Repubblica e sarà una Repubblica dei cittadini italiani. Questo è un risultato post-ideologico, che va al di là degli schemi di destra e sinistra: riguarda i grandi temi irrisolti della nazione. Insomma temi, non ideologie.” Di Maio si è detto pure “fiducioso che il presidente della Repubblica saprà guidare questo momento con autorevolezza e responsabilità.”
DALLA STORIA
Pier Paolo Pasolini.
(Pasolini davanti alla tomba di Gramsci)
Novantasei anni fa, il 5 marzo 1922, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Intellettuale sensibile e per molti versi profetico, ha accompagnato tre decenni della storia italiana, dal dopoguerra fino alla metà degli anni Settanta. Scrittore, poeta, regista, giornalista, ma anche filosofo e pittore è stato l’intellettuale che più ha saputo intuire il futuro della nostra società cogliendo i cambiamenti sociali modificatisi con il consumismo e l’autoritarismo dei mass-media. Nell’ultima intervista rilasciata da Pasolini a Furio Colombo poche ore prima di essere ucciso, disse: “Lo sanno tutti che io le mie esperienze, le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo. Io dico che le vostre obiezioni sono sbagliate perché non vi siete accorti che dai codici della malavita, come da quella che voi chiamate “politica” è ormai esclusa l’umanità. Oggi si deve uccidere, voi non avete idea di quanti sono a crederlo. La morte è un comportamento di massa. A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire”. (1° novembre 1975, La Stampa). Lo scomodo intellettuale troverà la morte tra la notte del 1° e 2 novembre all’Idroscalo di Ostia, massacrato di botte e infine assassinato. Il caso, irrisolto, è stato archiviato nel 2005. Alberto Moravia amico e sodale dello scrittore, a pochi giorni dalla morte, ricostruisce la poetica e l’etica di Pasolini passando dal comunismo “romantico” alla vena polemica contro l’imborghesimento generalizzato. “Chi era, che cercava Pasolini? In principio c’è stata (perché non ammetterlo?) l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore: come dall’amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua. Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patriarcale, non comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (da qui alla parola “sentimentale” un senso esistenziale, creaturale e irrazionale). Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l’uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l’affermarsi della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi personale. Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del nostro tempo”, “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta” e esordì nel cinema con “Accattone”. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra: la poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in egual misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece, miracolosamente, in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva. Questa poesia civile raffinata, manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all’utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella risoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull’esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele appunto, per umiltà profonda e inconsapevole, al retaggio di un’antica cultura contadina. Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il “boom”, cioè si è verificato ad un tratto l’esplosione del consumismo. E cos’è successo col “boom” in Italia e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di “Accattone” e di “Una vita violenta”, quegli umili che nel “Vangelo secondo Matteo” Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori per diventare un’altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi. Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletariati è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l’imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo. Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all’utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile. Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l’imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l’inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all’esperienza dell’umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione. Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Da qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni. Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l’aveva fatto per sostenere l’utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumistica e l’edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l’amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l’aveva allontanato dai luoghi e dai paesaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica l’avevano così potentemente aiutato a creare la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa, ma in privato si illudeva, pur sempre, che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola. La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perchè egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, una saggista inesauribile”.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
(Duetto Battisti-Mina a Teatro 10, 23 aprile 1972)
Lucio Battisti: un cantautore che ha rivoluzionato la canzone italiana. “I giardini di marzo si vestono di nuovi colori / e le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori …” Sono due famosi versi della omonima canzone, uno dei brani più noti di Lucio Battisti, realizzato con Mogol, che ne ha scritto il testo, e pubblicato nel 1972. Battisti, infatti, grazie all’armoniosa integrazione della sua musica con i testi, a tratti ermetici, scritti da Mogol, ha segnato un’epoca della cultura musicale e del costume italiani, interpretando in un nuovo stile temi tradizionali, come il coinvolgimento sentimentale e gli avvenimenti della vita quotidiana. Abile chitarrista e perfezionista, noto anche per la cura quasi maniacale che dedicava agli arrangiamenti e agli accordi, il cantautore con le sue canzoni ha impresso una svolta decisiva al pop/rock italiano, rivoluzionando e personalizzando la forma della canzone melodica, introducendo sonorità e ritmi tipici di svariati generi, come il rhythm and blues, il prog rock, l’elettropop, il beat e altro ancora. Tutta la sua vita di compositore e cantautore è stata costellata dal successo dei suoi brani, che hanno scandito la giovinezza dei ragazzi degli anni sessanta e settanta e hanno dato una nuova impronta alla cultura musicale italiana. Affiorano alla mente e sulle labbra, tra i tanti, i motivi di Un’avventura, Non è Francesca, Acqua azzurra acqua chiara, diventata il tormentone dell’estate 1969, Mi ritorni in mente, Emozioni, 29 settembre, interpretata e portata al successo, nel 1967, dall’Equipe 84. Lucio Battisti, che era nato a Poggio Bustone, il 5 marzo 1943, di carattere schivo e riservato, non amava apparire in pubblico ed ebbe spesso un rapporto conflittuale con la stampa, fino a quando, criticato per le sue doti vocali, cominciò a ritirarsi completamente dalla scena, non apparendo più neanche sulle copertine dei suoi album, alcuni dei quali sono stati anche pubblicati in spagnolo, inglese, tedesco e francese, cantati dallo stesso Battisti. Intanto nel 1980 avvenne, silenziosamente e senza litigi, lo scioglimento del sodalizio con Mogol, dovuto principalmente alla divergenza artistica tra i due, tra un Mogol ancorato a un universo poetico e sognatore e un Battisti impegnato a innovare e sperimentare, come nel disco E già. Il disco, decisamente diverso dai precedenti, è composto di canzoni più brevi su arrangiamenti completamente elettronici, dove gli unici strumenti sono i sintetizzatori, mentre archi e chitarre sono totalmente assenti, caratteristiche queste eccessivamente “avanzate” per il mercato musicale italiano, come pure le sonorità elettroniche, cui molti musicisti anglosassoni facevano già ampiamente ricorso. Battisti è oggi ritenuto un vero e proprio genio della musica e un punto di riferimento per il panorama musicale italiano, tanto che il New York Times, ricordando che Battisti agli albori della sua carriera aveva scritto canzoni di successo non solo per cantanti italiani ma anche “per americani come Gene Pitney e gli Hollies”, ha scritto di lui: “il più famoso cantante pop italiano, paragonato a volte a Bob Dylan, non per il contenuto politico delle sue canzoni ma per aver definito un’era”.
4 marzo
PRIMO PIANO
Notizia shock: morto il capitano della Fiorentina Davide Astori.
Davide Astori, 31 anni, capitano della Fiorentina e difensore della Nazionale, al momento del decesso si trovava nell’albergo “Là di Moret”, in ritiro insieme con la squadra in vista della partita di oggi con l’Udinese. Astori lascia la compagna, Francesca Fioretti, volto noto della tv, e una figlia, Vittoria, di soli 2 anni. L’ufficio stampa della Fiorentina ha spiegato “Il ragazzo non si è presentato alla colazione della squadra alle 9:30, di solito lui era quello che si presentava per primo così sono andati a controllare. Davide dormiva da solo. Il magistrato è venuto qui e ora il corpo è stato portato in ospedale per l’autopsia che credo verrà fatta in giornata. Non abbiamo ulteriori dettagli. L’ultimo a vedere Davide è stato Sportiello. Alcuni calciatori dormono in camera singola, altri in camere doppie. La famiglia è stata avvertita dalla società; la compagna di persona, dato che si trova a Firenze con la bambina. I genitori sono stati avvertiti telefonicamente.” Il procuratore capo di Udine, Antonio De Nicolo, ha detto: “L’idea è che il giocatore sia deceduto per un arresto cardiocircolatorio per cause naturali”, anche se “è strano che succeda una cosa del genere a un professionista così monitorato senza segni premonitori.” Il decesso di Astori potrebbe, però, essere dovuto anche alla cosiddetta sindrome morte improvvisa. La Fiorentina nel primo pomeriggio ha fatto ritorno in aereo in Toscana e ha trovato davanti al centro sportivo vicino allo stadio Franchi centinaia di tifosi attoniti, che avevano già appeso ai cancelli dell’impianto striscioni e sciarpe.Verso le 17:20 ha preso la parola il presidente Andrea Della Valle, visibilmente sconvolto: “È così difficile stare qua, è una tragedia immensa. Non so neanche come esprimere una cosa così, devo pensare alla compagna, alla figlia, ai genitori, a noi, ai ragazzi: siamo tutti sconvolti … Ci mancherà per sempre. A tutti noi, a tutta Firenze”. Dopo la tragica ed improvvisa scomparsa del capitano della Fiorentina, il commissario straordinario della Lega, Giovanni Malagò, ha deciso di rinviare a data da destinarsi tutte le gare in programma oggi.
3 marzo
PRIMO PIANO
Nel cielo di marzo Luna blu ed Equinozio.
Il 2018 è sicuramente l’anno della Luna Blu. Dopo gennaio, l’evento si verifica infatti anche a marzo, visto che il nostro satellite sarà in fase di piena per due volte, l’ultima delle quali assume tradizionalmente questo nome, che non ha però alcun legame con il reale colore dell’astro. La prima Luna piena inaugura il mese nella notte fra il primo e il 2 marzo, mentre la seconda, la Luna blu, arriverà a fine mese, il 31 marzo. La luna blu è il nome che viene dato oggi alla seconda luna piena di uno stesso mese, dopo che in febbraio non c’era stata nemmeno una luna. Sia il 2 che il 31 sarà, quindi, Luna piena, chiamata, nella tradizione americana, Luna del Lombrico a causa della comparsa di questi animali in concomitanza con il disgelo. Marzo è anche il mese della primavera, ma quest’anno l’equinozio sarà “quasi al buio”. Il momento esatto in cui giorno e notte hanno la stessa durata è infatti previsto quest’anno il 20 marzo alle 17:15 ora italiana. Quel giorno il Sole tramonterà alle 18:21, quindi all’equinozio sarà già molto basso all’orizzonte, e, quando la nostra stella sarà del tutto tramontata, la Luna sarà visibile per appena il 6,9%. Ben poca luce per salutare l’arrivo della primavera. Venere brilla nel cielo di marzo dopo il tramonto, insieme a Mercurio, che si affaccia nel periodo decisamente migliore per osservarlo. Insieme i due pianeti daranno spettacolo ben due volte in un mese, con le congiunzioni previste il 5 e il 18 marzo. Nella seconda parte della notte, invece, i protagonisti saranno Giove, Marte e Saturno.
2 marzo
PRIMO PIANO
Addio a Gillo Dorfles, rivoluzionario artista e critico d’arte.
È morto nella sua casa di Milano, all’età di 107 anni, Gillo Dorfles, teorico, critico d’arte e artista, lucido e attivo fino alla fine, tanto che aveva partecipato, a metà gennaio, alla Triennale, all’inaugurazione di Vitriol (un personaggio fantastico inventato da lui stesso), una personale dedicata ai disegni realizzati tra il 2010 e il 2016. Nato a Trieste, nell’allora impero austro-ungarico, da padre goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laureò in medicina, con specializzazione in psichiatria, e contemporaneamente, sin dai primi anni Trenta, si dedicò allo studio della pittura, dell’estetica e in genere delle arti, divenute le sue vere passioni. La conoscenza dell’antroposofia di Rudolf Steiner, acquisita a partire dal 1934 grazie alla partecipazione a un ciclo di conferenze a Dornach, orientò la sua arte pittorica verso il misticismo, mostrando una vicinanza più ai temi dominanti dell’area mitteleuropea che a quelli propri della pittura italiana coeva. Nella sua lunga vita ha conosciuto praticamente tutti, da Italo Svevo quando era impiegato in una fabbrica di vernici, a Eugenio Montale di cui era intimo, a Lucio Fontana. Ha preso il caffé con Cesare Pavese e discusso con Salvatore Quasimodo, è stato ospite di Frank Lloyd Wright e amico personale di Renzo Piano. Angelo, detto “Gillo”, ha da subito preferito l’attività di pittore e l’impegno come critico e studioso d’arte, che lo ha portato poi ad insegnare estetica nelle Università di Firenze, Trieste, Venezia e Milano. “L’arte è l’unica passione a cui sono rimasto sempre fedele, sin dalle prime folgorazioni dell’astrattismo di Klee e di Kandinsky”, ha ripetuto spesso. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo dell’estetica italiana del dopoguerra per aver analizzato nelle sue indagini critiche l’aspetto socio-antropologico dei fenomeni estetici e culturali e aver definito la categoria del Kitsch, dapprima come espressione del cattivo gusto, sempre più sfrenato e ubiquitario, in seguito come parte integrante dell’arte stessa. L’ interesse per la psichiatria, le sue letture attente di Jung e Rudolf Steiner sono stati il filo conduttore di molti suoi scritti. Nel 1948, insieme con Atanasio Soldati, Gianni Monnet e Bruno Munari, è stato tra i fondatori del Mac ( Movimento per l’arte concreta) e nel 1956 ha contribuito alla realizzazione dell’Adi (Associazione per il disegno industriale). La sua bibliografia è sterminata come i suoi interessi: in tanti decenni di attività ha scritto monografie di artisti, da Bosch fino a Toti Scialoja, ha pubblicato studi sull’architettura e un celebre saggio sul disegno industriale, “Il disegno industriale e la sua estetica” (1963). “Ho dimenticato metà secolo e sto dimenticando l’altra metà perchè voglio vivere nel futuro”, rispondeva pacato, qualche tempo fa ad un intervistatore che gli aveva ricordato l’età. Decano dei critici italiani e lui stesso pittore di talento, Dorfles è stato uno straordinario testimone e protagonista del Novecento e oltre.
DALLA STORIA
La Perestrojka e la Glasnost’.
(Un francobollo sovietico del 1988 inneggia alla Perestrojka)
L’ascesa al potere, l’11 marzo del 1985, di Michail Gorbačëv, con la sua politica di rinnovamento, “perestrojka”, e di trsparenza, “glasnost’”, ha segnato un un cambiamento epocale per l’Unione Sovietica e per il mondo intero, come sostiene il prof. Adriano Roccucci, uno dei massimi esperti di storia russa. Quando, alla morte di Konstantin Černenko, Michail Sergeevič Gorbačëv, all’età di 54 anni, venne eletto Segretario Generale del PCUS, la carica più alta nella gerarchia del partito e del Paese, l’economia sovietica era stagnante ed aveva bisogno di una riorganizzazione. La sua politica di riforme decollò, quindi, nel febbraio del 1986, durante il ventisettesimo congresso del PCUS, con l’approvazione della Glasnost’ (liberalizzazione, apertura, trasparenza), della Perestrojka (ricostruzione) e dell’Uskorenie (accelerazione dello sviluppo economico). Le riforme incominciarono con il rinnovamento di alte cariche, come la sostituzione, come ministro degli esteri, di Andrej Gromyko, soprannominato in Occidente “Signor Nyet”, con Eduard Shevardnadze, diplomaticamente più inesperto, ma più vicino alla visione politica di Gorbačëv. Nel programma di cambiamenti introdotto dal leader russo, prioritaria fu la lotta al consumo dell’alcool nell’Unione Sovietica: si regolarono i prezzi della vodka, del vino e della birra, se ne limitarono le vendite e si proibì il consumo di bevande alcoliche nei treni e nei luoghi pubblici, così come si censurarono le scene di consumo di alcolici nei film. Questa riforma, tuttavia, non ebbe un effetto significativo e favorì lo sviluppo del mercato nero. La più radicale delle riforme economiche fu, poi, la Legge delle Cooperative, che, promulgata nel maggio 1988, per la prima volta dalla Nuova Politica Economica di Vladímir Lenin, apriva alla proprietà privata e al commercio, anche estero, e riduceva il controllo dell’apparato governativo sulle attività private. Inoltre nel 1988, con l’introduzione della glásnost’, che permetteva una maggiore libertà di espressione e di religione, Gorbačëv sperava che il Paese appoggiasse le sue iniziative di riforma, contrastate, all’interno del PCUS, dai conservatori, che si opponevano alle sue politiche di ristrutturazione economica. La glásnost’ portò, dunque, un cambiamen-to radicale, poiché il controllo della parola e la repressione, da parte del governo, di qualunque tipo di critica avevano avuto, fino ad allora, un ruolo centrale nel sistema sovietico. La stampa diventò molto meno controllata e migliaia di prigionieri politici e dissidenti furono rimessi in libertà. Gorbačëv propose anche un nuovo modello di governance nella forma di un sistema presidenziale, con un nuovo elemento legislativo che si sarebbe chiamato Congresso dei Deputati del Popolo dell’Unione Sovietica e nel settembre del 1988 assunse la carica di Capo dello Stato. In politica estera, il leader sovietico instaurò un dialogo con l’Occidente e contribuì al crollo del muro di Berlino e a alla fine della Guerra Fredda, con il conseguente arresto della corsa agli armamenti tra USA e URSS e la diminuzione del rischio di un conflitto nucleare. L’11 ottobre 1986, infatti, Gorbačëv e il presidente statunitense Ronald Reagan si incontrano a Reykjavík per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa, evento che portò, nel 1987, alla firma del Trattato INF sulla eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio in Europa. Gorbačëv, insieme con il suo ministro degli esteri Eduard Ševardnadze, ordinò anche il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, messo in pratica dopo la stipula degli Accordi di Ginevra nel 1988. Nel 1990 il leader russo venne insignito del Premio Nobel per la pace con la seguente motivazione: “Per il suo ruolo di primo piano nel processo di pace che oggi caratterizza parti importanti della comunità internazionale”. Il 25 dicembre 1991, però, dovette rassegnare le dimissioni da Capo dello Stato in seguito ad un colpo di Stato, tentato nell’agosto 1991 dai comunisti conservatori: nonostante ne fosse stato la prima vittima, essendo rimasto recluso per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, gli fu contestato da Borís Yeltsin di avere, con le sue tattiche, favorito il radicamento al potere non di interlocutori responsabili della perestroika, ma di pericolosi avventurieri e di aver determinato la dissoluzione dell’URSS. Poche settimane prima, l’8 dicembre 1991, i capi dei tre Stati, Russia con Borís Yeltsin e Gennadij Burbulis, Ucraina con Leonid Kravčuk e Vitol’d Fokin e Bielorussia con Stanislaŭ Šuškevič e Vjačeslaŭ Kebič, avevano firmato, a Belavežskaja pušča, l’Accordo di Belaveža, il trattato che sanciva la dissoluzione dello Stato sovietico, che venne ufficialmente confermata il 26 dicembre dello stesso anno dal Soviet Supremo. La figura di Gorbačëv è normalmente vista in modo molto positivo in Occidente per aver favorito la fine della Guerra Fredda e la riunificazione della Gemania, molto meno in Russia, dove gli viene attribuita la responsabilità della dissoluzione dello Stato Sovietico, con notevoli ripercussioni, anche economiche, su vasti strati della popolazione russa.
IL PERSONAGGIO
Lou Reed, il leggendario leader dei “Velvet Underground”, l’autore di “Heroin”, “Walk on the side” e “Perfect day”, era nato a New York, il 2 marzo 1942. Voleva fare il musicista ispirato dal rock and roll, suonava la chitarra, e presto incise un singolo con una band chiamata The Shades. La sua attività e il suo orientamento sessuale bisex, confidato al padre, preoccupavano i genitori che lo mandarono in un centro psichiatrico dove Lou, ancora adolescente, venne sottoposto all’elettroshock: “Ti ficcavano un boccaglio tra i denti per impedire che ingoiassi la lingua, poi ti fissavano gli elettrodi sulla testa. Era quello il metodo che usavano a Rockland County per scoraggiare i comportamenti omosessuali. L’effetto era una totale perdita di memoria che ti riduce come un vegetale. Non riesci neanche a leggere un libro, perché quando sei arrivato a pagina diciassette sei costretto a ripartire da pagina uno”. All’inizio degli anni ’60 il cantautore, nonché poeta si iscrive alla Syracuse University nei corsi di giornalismo, scrittura creativa e regia dove, tra gli insegnanti, incontrò il poeta Delmore Schawartz che gli cambierà la vita incoraggiandolo a mettere in musica le sue intuizioni letterarie. A New York, poi nel 1966, fonderà con John Cale, musicista d’avangurdia, il gruppo dei “Velvet Underground” ed entrerà a far parte della factory di Andy Warhol. Il famoso album con la banana in copertina, prodotto da Warhol, arriverà nel 1967, e si chiamerà “Velvet Underground & Nico”. La bellissima cantante e modella tedesca sarà fortemente voluta, ad affiancare il gruppo, da Warhol. Il grande merito dei “Velvet Undergound” è stato quello di aver unito il campo poetico-musicale del rock con un aggressivo realismo, ispirato dalla vita nelle strade di New York. Nelle sue canzoni-poesie Reed diventa il cantore al contempo crudo ed ironico dei bassifondi metropolitani, dell’ambiguità umana, dei torbidi abissi della droga e della deviazione sessuale, ma anche della complessità delle relazioni di coppia e dello speen esistenziale; Lou ha finito con l’incarnare lo stereotipo dell’Angelo del male, divenendo una delle figure più influenti della musica e del costume contemporanei. I Velvent Underground hanno anticipato di dieci anni quello che sarebbe stato il punk rock e influenzato profondamente altri movimenti come noise, new wave, lo-fi e rock alternativo. Negli anni Settanta, Reed incontra David Bowie. Inizia una collaborazione da cui nasce “Trasformer” e la consacrazione di una carriera, come solista, fino al 30 giugno 2013. Quel giorno, come venne riportato dal New York Post, Lou Reed venne ricoverato d’urgenza in un ospedale di Long Island, a New York, per un’acuta forma di disidratazione. Nel maggio precedente, Reed si era sottoposto ad un trapianto di fegato. Purtroppo morirà, poi, il 27 ottobre 2013.
1 marzo
PRIMO PIANO
Fukushima: radiazioni 100 volte superiori alla norma.
A sette anni dall’incidente nucleare dell’11 marzo 2011, la situazione a Fukushima è ancora molto grave, particolarmente in alcune aree, che presentano valori di contaminazione radioattiva fino a 100 volte superiori alla norma. È quanto emerge da un’analisi diffusa oggi da Greenpeace Giappone, che ricorda come l’attuale politica governativa giapponese consenta esposizioni fino a 20 mSv all’anno contro il valore di 1 mSv previsto dalle Nazioni Unite. Questi i principali risultati del rapporto. Anche dopo la decontaminazione, in quattro delle sei case di Iitate i livelli medi di radiazione sono tre volte più alti rispetto all’obiettivo governativo a lungo termine. Alcune aree hanno mostrato, poi, rispetto all’anno precedente, un aumento che potrebbe derivare dalla ricontaminazione. Ancora, in un’area usata come banco di prova per la decontaminazione nel 2011-12, in una casa di Tsushima, è stata rilevata una dose di 7 mSv all’anno, prova evidente dell’inefficacia del lavoro svolto. Infine in una scuola nella città di Namie, dove l’ordine di evacuazione è stato revocato, la decontaminazione non è riuscita a ridurre significativamente i rischi di radiazioni, con un tasso medio di dose di oltre 10 mSv all’anno in una foresta vicina. Questo elevato livello di esposizione radioattiva è chiaramente una minaccia anche per le migliaia di lavoratori impegnati nella decontaminazione. Nel novembre scorso, l’Universal Periodic Review dell’Unhcr (l’Alto Commissariato Rifugiati dell’Onu) sul Giappone ha emesso quattro raccomandazioni riguaedanti i problemi di Fukushima. I governi degli Stati membri (Austria, Portogallo, Messico e Germania) hanno chiesto al Giappone di rispettare i diritti umani degli sfollati di Fukushima e adottare misure forti per ridurre i rischi di radiazioni per i cittadini, in particolare donne e bambini. La Germania, in particolare, ha invitato il Giappone a tornare alle radiazioni massime ammissibili di 1 mSv all’anno, mentre l’attuale politica governativa giapponese è di consentire esposizioni fino a 20 mSv all’anno. Kazue Suzuki di Greenpeace Giappone ha dichiarato: “È essenziale che il governo accetti pienamente e applichi immediatamente le raccomandazioni delle Nazioni Unite. I risultati delle nostre indagini sulla contaminazione da radiazioni forniscono la prova che esiste un rischio significativo per la salute e la sicurezza di un eventuale ritorno degli evacuati … Il governo giapponese deve smettere di costringere le persone a tornare a casa e deve proteggere i diritti dei propri cittadini.”
DALLA STORIA
Colin Crounch.
Colin Crunch nasce il 1° marzo 1944. Il sociologo e politologo è l’inventore della parola “postdemocrazia” e l’autore dell’omonimo libro, pubblicato nel 2003 nel quale descrive un mondo in mano alle élite, dove al popolo è concessa solo la finzione del voto. Intervistato dal giornalista Marco Pacini, nel 2016 per il settimanale l’Espresso, Crunch ci spiega cos’è la Postdemocrazia. A seguito di un’analisi sullo sviluppo delle democrazie all’inizio del terzo millennio, sostiene che l’attuale sistema politico, pur essendo regolato da istituzioni e norme democratiche, viene in effetti governato e pilotato da grandi lobby, quali ad esempio le società multinazionali o transnazionali e dai mass media. Secondo questa teoria politica le democrazie tradizionali rischiano di perdere i loro caratteri costituenti a favore di nuove forme di esercizio del potere, prevalentemente oligarchiche. Nella sua pubblicazione, Crouch prende in esame vari esempi per definire un tipo ideale di democrazia alterata in senso postdemocratico. Si sottolinea innanzitutto che la vita politica continua a svolgersi all’interno delle regole democratiche e pertanto non si tratta di uno stato anti-democratico. Tuttavia, nella postdemocrazia descritta da Crouch, le occasioni di partecipazione per i cittadini vengono progressivamente ridotte a favore di altre forme decisionali. Acquistano un ruolo decisivo invece le burocrazie, i tecnocrati, gli organi intergovernativi, le lobby, le imprese economiche e i media. Egli scrive: “Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Promotori di un’ideologia neoliberale (o libero mercato, che per molti economisti è la concezione del venir meno dello Stato non a beneficio del mercato, quanto piuttosto di una sorta di svuotamento dall’interno dello Stato, attuato, ad esempio, tramite privatizzazioni dei profitti e mantenimento dei costi e perdite a carico delle casse pubbliche) e liberista, questi centri di potere tenterebbero di nascondere le differenze di classe per legittimare più facilmente i propri interessi a scapito della collettività. (Pasolini docet. Fin dagli anni ’50 egli scriveva che il nuovo fascismo non era quello caricaturale dell’estrema destra, ma quello della società dei consumi, fascismo molto più efficace di quello del ventennio, perché era riuscito a convincere della necessità di adeguarsi senza resistenze all’ordine di valori del nuovo sistema neo-liberistico). In questa maniera, i centri di potere, che antepongono la finanza allo stato sociale dei cittadini, favoriscono anche la frustrazione e la disaffezione delle classi meno privilegiate, riducendo ulteriormente la domanda di partecipazione. Mentre i cittadini si allontanano dalla politica, il processo elettorale democratico si avvicina a “una campagna di marketing basata abbastanza apertamente sulle tecniche di manipolazione usate per la vendita di prodotti”. Un mondo in mano alle élite dove al popolo viene concessa solo la “finzione” del voto. “Se 15 anni fa Crouch metteva in guardia contro il sorgere di sistemi statali saldamente nelle mani della nuova aristocrazia delle grandi imprese, concludendo che alle élite non serve una dittatura per esercitare il potere, oggi il risorgere dei nazionalismi e l’emergere di leader sempre più “democratori” lo costringono a correggere in senso peggiorativo alcune sue analisi e previsioni”. Nell’intervista, alle domande del giornalista, Crouch risponde: “Oggi è la rabbia più che l’apatia, a dominare la scena, con esiti imprevedibili. Ciò a cui assistiamo prende la forma di una rivolta delle emozioni. Come avvenne in Europa negli anni ‘20 e ‘30 con Mussolini e Hitler. “Ripeto”, prosegue “oggi è peggio. Assistiamo a una rivolta contro certi meccanismi postdemocratici che è ancora più postdemocratica. Perché non è il popolo che trionfa, ma certi leader che manipolano le emozioni e le paure del popolo. Non si tratta affatto di una rivolta contro le élite. Trump è un tipico esempio perfetto di questa post-democrazia. La politica delle emozioni che i “Trump” incarnano segna una svolta ancora più accentuata verso un “dopo” rispetto alla democrazia. E a questo processo partecipa anche l’informazione. … “io sono un sociologo, ma credo che oggi sociologia e psicologia debbano incontrarsi, procedere insieme nell’analisi dei processi politici. Perché il background delle azioni politiche spesso si chiama paura. Nient’altro che paura”. Nell’esito del voto, in generale, c’è dell’altro: dall’antieuropeismo all’immigrazione. È una rivolta del NO generica. Accade nel mondo in generale, dalla Scandinavia, all’Ungheria, alla Polonia; e ora anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Sembra che ci siano oggi persone che si sentono escluse dalla modernità. Nel voto emerge che gli elettori sono divisi tra il rifiuto e l’accettazione del mondo moderno. E il punto più forte di questa divisione riguarda l’immigrazione. La paura, il ruolo dell’Islam, fanno sempre parte del dibattito, magari sottotraccia: Trump ha molto usato la paura dell’islam benché avesse pochissimo a che fare con i principali temi delle presidenziali. “Siamo tutti divisi. Nel mondo islamico ci sono molte persone che vogliono vivere pacificamente insieme, che credono che possiamo condividere la cultura, cosa che la razza umana ha fatto da sempre. Per esempio, è fondamentale nella cucina italiana il ruolo del pomodoro, ma il pomodoro non è italiano, viene dall’America. Noi possiamo fare ancora questo con la cultura islamica. Ma ci sono molti altri che vogliono il conflitto. C’è una guerra in atto, ma più che tra Occidente e mondo islamico è una guerra tra chi crede che sia possibile la convivenza e chi no. Le nuove onde populiste non la accettano: come non accettano il ruolo delle istituzioni delle democrazie. Questi aspetti, insieme, sono l’anticamera delle dittature. In molti Paesi assistiamo all’avanzata di movimenti populisti e alla retorica degli anni ’20 e ’30. Anche in Russia sta accadendo da tempo … Che accadesse degli Stati Uniti non potevamo aspettarcelo. Ora più che mai abbiamo bisogno dell’Unione europea. Oggi che la “testa” americana sta con la Russia … E stanno insieme perché c’è una visione comune profondamente di destra. Questo è un grande cambiamento nel mondo”. “Ci sono molte discussioni sulla democrazia diretta, come evoluzione della democrazia che conosciamo. Ma i referendum dimostrano che quando il popolo ha un’occasione per parlare c’è un potere di interpretare la “voglia” del popolo senza discussione parlamentare, senza filtri. La democrazia è solo un voto e il ruolo delle istituzioni viene quasi cancellato. E questa, ripeto, è la strada verso la dittatura. Perciò la se la democrazia finisce, “dopo” c’è solo la dittatura”.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Glenn Miller, il simbolo stesso dello swing è stato l’autore di brani celeberrimi come “Moonlight Serenade”. I suoi arrangiamenti portarono alla celebrità anche brani di altri compositori come “In the Mood”, “Pennsylvania 6-5000, “A String of Pearls”, “America Patrol”, “Tuxedo Junction”, solo per citare alcuni tra i più famosi. Nel 1941 spopola con “Chattanooga Choo Choo”, brano per il quale riceve il primo disco d’oro della storia che aveva venduto oltre un milione di copie in appena tre mesi. Direttore d’orchestra tra i più noti dell’epoca swing ha lasciato in pochissimi anni delle incisioni indimenticabili che hanno segnato un’epoca americana in cui ciascuno, ancora oggi, trova ragioni per abbandonarsi alla nostalgia. Direttore d’orchestra, trombonista e arrangiatore, musicista dal mestiere impeccabile (la sua disciplina era proverbiale nelle varie sezioni di lavoro e per questa ragione i virtuosi raramente rimanevano a lungo nella formazione) fu a capo, dal 1937 al ’42 di un’orchestra da ballo semijazzistica che divenne la più celebre d’America. Miller creò quel “Glenn Miller Sound”, di grande efficacia e destinato a incontrare immediato successo, che consisteva nell’affidare al clarinetto l’esposizione della melodia un’ottava sopra il sax tenore, mentre gli altri fiati eseguivano l’armonia. Fu il Paradise, un locale alla moda a Broadway, a dare all’orchestra un consistente successo. Da questo locale, infatti, sin dall’inizio del 1939 cominciarono le trasmissioni radiofoniche diventate leggendarie e raccolte da collezionisti di tutto il mondo nelle edizioni originali. Arruolatosi in aviazione, Glenn Miller diresse un’orchestra militare. Il 15 dicembre scomparve nelle acque della Manica mentre si trovava sull’aereo che lo avrebbe dovuto portare a Parigi per suonare con la sua orchestra all’Olympia. Il cadavere di Miller non venne ma ritrovato e sulla sua morte aleggia un’ombra di mistero ancora oggi irrisolto.
https://youtu.be/6vOUYry_5Nw
28 febbraio
PRIMO PIANO
Via libera al più grande esperimento internazionale mai condotto sulla materia oscura, ossia la materia che occupa il 25% dell’Universo ma che nessuno ha mai visto. L’esperimento DarkSide-50, in attività ai laboratori Nazionali del Gran Sasso (LNGS) dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), presenta, infatti, due nuovi risultati sullo studio della materia oscura. Oggi noi sappiamo di che cosa è fatto poco meno di un quinto della materia presente nel nostro Universo. Della restante parte siamo in grado di dire solamente che è costituito di un altro tipo di materia, diversa da quella ordinaria di cui è composto tutto ciò che conosciamo e, che chiamiamo materia oscura, perché non emette o assorbe nessun tipo di radiazione osservabile con i nostri strumenti. Nonostante finora sia rimasta completamente invisibile, sappiamo però che esiste perché osserviamo gli effetti gravitazionali che essa esercita sulla materia ordinaria. Negli anni sono state formulate varie teorie sulla sua natura. Alcune di queste ipotizzano che le particelle di materia oscura possano essere le cosiddette WIMP, particelle massive che interagiscono debolmente. Compito dell’esperimento DarkSide-50, basato su un rilevatore di argon liquido, è stato andare a caccia di queste particelle. Dopo 530 giorni di raccolta dati l’esperimento si è dimostrato affidabile nel distinguere con grande precisione le interazioni tipiche delle particelle WIMP più pesanti da quelle dovute alla radioattività naturale. Questo risultato ha perciò aperto la strada all’esperimento DarkSide-20, frutto di una collaborazione internazionale molto vasta chiamata Global Argon Dark Matter Collaboration (Gadmc). Rispetto all’esperimento DarkSide-50, il suo successore avrà una massa di argon liquido quasi mille volte maggiore e, di conseguenza, avrà una maggiore capacità di scoprire particelle di materia oscura.
DALLA STORIA
La rinuncia di Benedetto XVI
L’11 febbraio 2013, anniversario dei patti Lateranensi, Benedetto XVI convocò un concistoro per la canonizzazione di alcuni santi, ma al termine della riunione “ordinaria” restò al suo posto e ufficializzò una decisione senza precedenti nell’era moderna, esercitando per la prima volta un’opzione prevista dal diritto canonico solo dal 1983: iniziò a leggere una dichiarazione in latino, come da norma vaticana, e affermò di dover annunciare una cosa “importante per la Chiesa”, parlando di “ingravescentem aetatem”, due parole non casuali, perché “Ingravescentem aetatem” è il titolo del documento con cui Paolo VI, nel 1970, fissò a 80 anni l’età massima dei cardinali, che oltre questa soglia, poi ridotta a 75 anni, sono tenuti a presentare le proprie dimissioni al Pontefice. Qualcuno, tra i porporati e tra i giornalisti che seguivano la diretta video dalla sala stampa, iniziò a capire, pochi secondi dopo arrivò la conferma del Papa: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio – disse – sono pervenuto alla certezza che le mie forze non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero”. Ratzinger dichiarò che “nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo”, che “negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità” e concluse “ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma”. Così Benedetto XVI annunciava la “Rinuncia all’ufficio di romano pontefice”, un gesto storico, senza precedenti nell’era moderna. In passato c’erano già stati casi analoghi, otto, tra cui “il gran rifiuto” di Celestino V e l’ultimo risalente, però, a 600 anni prima. Ratzinger è stato, quindi, il primo pontefice ad esercitare la rinuncia in obbedienza al diritto canonico, che aveva codificato questa possibilità solo nel 1983. Una rivoluzione tale la sua da aver portato alla creazione di una nuova carica quella di “Pontefice emerito”. Le “dimissioni” di Benedetto XVI, anche per alcune sue scelte personali, mai codificate per iscritto, come quella di mantenere l’abito bianco e il nome papale, hanno dato luogo a un vero e proprio giallo e hanno scatenato le teorie dei complottisti, tra cui quella del Papa rinunciatario perché sotto ricatto. Nel 2017 l’arcivescovo emerito di Ferrara, mons. Luigi Negri, in una lunga intervista a un giornale online di Rimini, ha parlato di “motivi gravissimi” inerenti la rinuncia di Benedetto XVI, dicendo “Sono certo che un giorno emergeranno gravi responsabilità dentro e fuori il Vaticano. Benedetto XVI ha subito pressioni enormi”: ha sposato così la tesi del complotto americano, fino a dire che ci sarebbe stata: “La mano di Obama dietro le dimissioni di Benedetto XVI”. Queste teorie complottiste sono sostenute da giornalisti e gruppi cattolici tradizionalisti che non si rassegnano al fatto che l’ex Pontefice tedesco abbia rinunciato e che il ministero petrino sia passato al suo legittimo successore. Risultano, però, smentite dallo stesso Ratzinger, che nel libro-intervista con Peter Seewald, intitolato “Ultime conversazioni”, dichiara: “Nessuno ha cercato di ricattarmi … Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo.” Secondo i vaticanisti, papa Benedetto XVI aveva già deciso di lasciare il pontificato nel marzo 2012, dopo un viaggio in Messico e a Cuba, dove aveva scoperto la prima parte di un rapporto elaborato dai cardinali Julián Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, in cui erano riassunti gli abissi nei quali era caduta la Chiesa: corruzione, finanze occulte, guerre fratricide per il potere, furti di documenti segreti, lotte tra fazioni, i conti occulti dello IOR, la banca del Vaticano, e il riciclaggio di denaro; venivano inoltre evidenziati nel documento la “resistenza al cambiamento da parte della Curia e i numerosi ostacoli posti alle azioni richieste dal Papa per promuovere la trasparenza.” Lo storico Elio Guerriero afferma: “Le sue dimissioni? Per lui è stata una cosa veramente naturale lui dice mi sono anche un po’ sorpreso, avevo sottovalutato l’impatto che poteva avere un gesto simile, forse è stato eccessivo.” Joseph Ratzinger con la sua rinuncia ha affidato al suo successore Francesco l’eredità del suo impulso riformatore, come sottolinea il vaticanista Sandro Magister: “Lui ha scommesso sul Papa futuro, una persona in grado di affrontare il governo della Chiesa che è qualcosa di tremendamente impegnativo tanto che lui non si è sentito più in forza di poterlo fare.” Per padre Federico Lombardi uno dei grandi meriti storici del papa tedesco è stato quello di aver affrontato il dossier degli abusi sui minori da parte del clero, senza farsi sopraffare dalle inadempienze episcopali: “Benedetto XVI ha seguito una strada molto coerente – afferma padre Hans Zollner S.J. del Center for Child Protection – ha dato via libera per fare tutti i processi possibili, per condannare i rei e ha incontrato di persona le vittime degli abusi.” Il gesto storico di Papa Benedetto XVI per alcuni è stato rivoluzionario, per altri illuminato, ma senza dubbio “profetico”, anche se a cinque anni di distanza molti mostrano di non averlo ancora compreso, primi fra tutti gli anti-Bergoglio e i sedevacantisti, che tuttora proclamano di considerare Benedetto XVI l’unico Papa legittimo e Bergoglio una specie di “usurpatore”, eretico e semi-protestante. In ogni caso la rinuncia di Joseph Ratzinger, brillante teologo, professore in quattro università tedesche, arcivescovo di Monaco, per ventitre anni prefetto della Congregazione per la Fede prima di diventare papa Benedetto XVI, ha cambiato in modo radicale il volto della Chiesa e la storia del mondo intero.
IL PERSONAGGIO
Linus Pauling, celebre scienziato del XX secolo (la rivista di divulgazione scientifica “New Scientist” lo include, insieme ad Einstein e Lavoisier, tra i venti più importanti di tutti i tempi) dimostrò fin da giovanissimo un’attitudine allo studio fuori dall’ordinario. Malgrado le modeste condizioni economiche della sua famiglia, riuscì a sostenersi agli studi ottenendo sempre risultati eccellenti prediligendo, fin da piccolo, curiosità per la chimica. Negli ultimi due anni universitari incentrò il suo interesse verso studi riguardanti la struttura elettronica degli atomi e i legami intramolecolari conseguendo il dottorato di ricerca in chimica fisica e fisica matematica. Ciò gli permise di dedicarsi, soprattutto, alla chimica quantistica e alla fisica, ricerche che lo pregiarono della definizione di “padre del legame chimico” e, uno dei fondatori della biologia molecolare, a seguito di alcune scoperte rivoluzionarie nell’ambito della genetica molecolare. La sua mente interdisciplinare contribuì allo sviluppo di una medicina alternativa, chiamata medicina ortomolecolare che sostiene l’ipotesi di usare megadosi di vitamine nella terapia del cancro e delle malattie cardiocircolatorie, così come nella prevenzione e cura del raffreddore. Studi contestati dall’ortodossia della comunità medica internazionale perché, probabilmente, non ancora sufficientemente supportati dalla sperimentazione. Pauling, oltre ad essere insignito del Premio Nobel, nel 1954 “per la sua comprensione della struttura di sostanze complesse”, ha ricevuto un secondo Nobel, nel 1962, per la pace in cui si sottolineava che lo scienziato “si era prodigato incessantemente non solo contro i test di armi nucleari, non solo contro l’estensione di questi armamenti, non solo contro il loro uso, ma contro tutta la guerra come mezzo di soluzione di conflitti internazionali”. Premi ottenuti individualmente senza la condivisione con altre personalità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, spinto anche dall’impegno politico espresso dalla moglie, Linus Pauling aderì all’Emergency Commitee of Atomic Scientists, diretto da Albert Einstein; la sua missione era di informare la popolazione riguardo ai rilevanti pericoli associati allo sviluppo delle armi nucleari. Durante il periodo del maccartismo, a causa delle sue convinzioni politiche, il Dipartimento di Stato Statunitense negò a Pauling il passaporto, quando fu inviato ad una conferenza a Londra. Il passaporto gli venne riconsegnato solo due anni più tardi.
27 febbraio
PRIMO PIANO
Ucciso il giornalista slovacco Ján Kuciak per il suo lavoro investigativo.
Il giornalista slovacco Ján Kuciak è stato ucciso la scorsa settimana insieme alla sua compagna. La polizia slovacca ha aperto un’indagine per omicidio dopo il ritrovamento del cadavere di Kuciak e di quello della fidanzata, Martina Kusnirova, nell’abitazione a Velka Maca, 65 chilometri da Bratislava. Ad avvertire la polizia erano stati i genitori del giovane perchè non riuscivano a mettersi in contatto con la coppia. Gli investigatori ritengono che la morte sia avvenuta tra giovedì e domenica. Secondo quanto riferito dal comandante della polizia, Tibor Gaspar, Kuciak è morto per un colpo d’arma da fuoco al petto, mentre alla fidanzata hanno sparato in testa. Il delitto apre scenari inquietanti. In passato Kuciak si era occupato di casi di evasione fiscale in aziende legate a uomini d’affari slovacchi molto conosciuti, alcuni dei quali in rapporti stretti con il partito di governo, il Partito Socialdemocratico del primo ministro Robert Fico, e con due politici, in particolare il ministro dell’Interno Robert Kalinak e l’ex ministro delle Finanze Ján Pociatek. Secondo fonti di stampa, Kuciak recentemente stava lavorando su una truffa inerente i fondi strutturali dell’Ue, il suo ultimo articolo riguardava l’imprenditore Marian Kocner, accusato di frode ed evasione fiscale, il cui caso era stato però archiviato dalla magistratura l’anno scorso. C’è anche un’altra pista: Kuciak potrebbe essere stato ucciso per volere della ‘Ndrangheta calabrese. Lo scrive su “Politico” Tom Nicholson, che fu collega di Jan e oggi parla delle inchieste a cui stava lavorando il giornalista. Scrive Nichiolson: “Jan fece progressi importanti su un’altra storia che aveva impegnato entrambi: il trasferimento illegale di fondi strutturali europei a italiani residenti in Slovacchia, i cui legami con la ‘Ndrangheta erano provati … aveva messo in piedi una collaborazione con giornalisti investigativi italiani, che potrebbero confermare le identità e i legami criminali degli italiani attivi in Slovacchia, nell’est della Slovacchia, dove io viaggiai nel 2015 e nel 2016 sulle loro tracce …”
DALLA STORIA
L’incendio del Reichstag.
Il 27 febbraio 1933 il palazzo del parlamento di Berlino, il Reichstag, viene dato alle fiamme da un incendio doloso. Il giorno dopo, Adolf Hitler sospende la Costituzione tedesca e limita i diritti civili e politici dei cittadini. Occorse un solo giorno a Hitler per convincere l’anziano Presidente Paul von Hindenburg a firmare il “Decreto dell’incendio del Reichstag”, così come venne da subito nominato e, rimasto tale come espressione nella memoria storica collettiva: il vero nome era “Decreto del Presidente del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato”. Il Decreto serviva al “Reichspräsiden” (Hitler) per ottenere l’arresto dei leader comunisti prima delle imminenti elezioni e rappresenta uno dei principali passi compiuti dal governo nazista per stabilire il suo dominio. Il Decreto sospese gran parte dei diritti civili garantiti dalla Costituzione della Repubblica di Weimar. Ne citiamo soltanto uno, il primo tra sei enunciati, in cui emerge tout court lo stile dittatoriale che avrebbe condotto alla morte non solo gli oppositori politici ma, allo sterminio, in poco più di un decennio, di milioni di persone; N° 1: “Gli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153 della Costituzione sono sospesi fino ad ulteriore avviso. Anche in deroga alle norme vigenti, è perciò lecito porre limiti ai diritti di libertà personale, di libertà di espressione, compresa la libertà di stampa, di assembramento, di riservatezza, di corrispondenza, posta, telegrammi e telefonate, nonché disporre perquisizioni e confische e porre limiti ai diritti di proprietà”. Il 30 gennaio 1933 Hitler viene nominato Cancelliere e una volta insediato, decide di consultare immediatamente il popolo tedesco circa la sua nomina e indice pertanto le elezioni per il 5 marzo. Tornando all’incendio, la polizia, accorsa sul posto, alla ricerca degli indizi, trovò un comunista olandese mentalmente squilibrato, Marinus van der Lubbe, semisvestito che si nascondeva dietro l’edificio. Adolf Hitler e Hermann Göring arrivarono poco dopo, e quando fu loro mostrato Marinus van der Lubbe, Göring dichiarò immediatamente che il fuoco doveva esser stato appiccato dai comunisti e fece arrestare, quella stessa notte, oltre all’“incendiario” van der Lubbe, 4.200 cittadini in tutta la Germania, 1.200 nella sola Berlino. Con i propri capi in prigione e senza accesso alla stampa, i comunisti vennero pesantemente sconfitti alle successive elezioni, e a quei deputati comunisti, anche ad alcuni socialdemocratici, che furono eletti al Parlamento, non fu più permesso, dalle SA, di prendervi posto. Hitler fu sospinto al potere con il 44% dei voti e costrinse i partiti minori a dargli la maggioranza dei due terzi grazie al suo “Decreto dei pieni poteri”. Inoltre, la propaganda nazista additò gli ebrei come “i difensori degli incendiari del Reichstag”. L’incendio servì non solo all’ascesa al potere di Hitler e della sua dittatura, ma anche come presupposto per l’inizio delle campagne persecutorie contro gli ebrei. Come si legge nella ricostruzione di Giulia Casadei in “Diacronie” Studi di Storia Contemporanea n° 14, “Il Processo di Lipsia e la figura di Georgi Dimitrov”: “I nazisti volevano tirare in ballo il vero grande nemico, l’Unione Sovietica. Il mandante dell’incendio del Reichstag e della successiva insurrezione comunista non poteva che venire direttamente da Mosca. È in questi termini che si cercò di comprovare il coinvolgimento di Georgi Dimitrov e degli altri due comunisti bulgari. Anche volendo sostenere, come lo storico Fritz Tobias, che non furono i nazisti a organizzare l’incendio, di certo non si può negare che per Hitler fu un vero e proprio affare, una manna caduta dal cielo, nel posto giusto e al momento giusto. Il tutto sarà poi reso possibile da una cinica strumentalizzazione politica dell’incendio e da una serie di manipolazioni delle informazioni, dei testimoni, delle prove, oltre ovviamente ad un sapiente uso della stampa e dei mezzi di comunicazione. Georgi Dimitrov, era una figura di spicco del comunismo internazionale in quanto capo del Komintern per l’Europa Occidentale. L’arresto dei bulgari, avvenuta il 7 marzo, suscitò immediatamente una forte indignazione da parte della stampa estera e di diversi intellettuali sia europei che americani. La stampa internazionale mise in piedi quella che Hitler definì la “Propaganda dell’orrore” contro il popolo tedesco, grazie a una serie di articoli militanti, alla pubblicazione di opere e al controprocesso organizzato a Londra. Così come era avvenuto per il caso Dreyfus, anche l’incendio del Reichstag e il corrispettivo processo di Lipsia si trasformarono ben presto in un vero e proprio “affaire”, seguito dall’opinione pubblica mondiale e dai più importanti intellettuali dell’epoca”. Fu rimarchevole l’autodifesa di Dimitrov: il principale imputato, aveva sostenuto, in un clima politico di forti intimidazioni, che i comunisti erano estranei all’incendio e che legittimo era il sospetto che i veri colpevoli fossero Hitler, Göering e Goebbels. Questo fece infuriare Hitler, che decretò che, da quel momento in poi, il tradimento, assieme ad altri reati, sarebbe stato giudicato solamente dal neocostituito “Volksgerichtshof (“la Corte del popolo”), che divenne tristemente noto per l’enorme numero di condanne a morte inflitte sotto la guida di Roland Freisler. La memorabile autodifesa di Georgi Dimitrov, intanto, veniva tradotta e diffusa in tutto il mondo, mentre in vari paesi inchieste indipendenti dimostravano che tutta la vicenda costituiva una montatura dei nazisti finalizzata a mettere fuori legge il partito comunista e perseguitarne i militanti.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
(Paul Newman e Elizabeth Taylor in una scena del film La gatta sul tetto che scotta)
È proprio per il film “La gatta sul tetto che scotta” (1958), tratto dall’omonimo dramma teatrale di Tennessee Williams, che Elizabeth Taylor viene acclamata e apprezzata unanimemente per la sua interpretazione nel ruolo di Maggie, la “gatta” dagli occhi magnetici. Liz, che a soli 10 anni aveva mostrato il suo talento precoce in una piccola parte di There’s One Born Every Minute del 1942 e poi in film come “Torna a casa, Lassie!” del 1943, con “La venere in visone” del 1961 ottiene il Premio Oscar come migliore attrice protagonista, vestendo i panni di una prostituta, e diventa il nuovo sex symbol americano. Ben presto è anche l’attrice più pagata di Hollywood, perchè firma un contratto da 1 milione di dollari con la 20th Century Fox per iniziare le riprese del kolossal “Cleopatra”, che, nostante il fiasco, mette in risalto i suoi occhi di un blu elettrico e la sua bellezza mozzafiato, accentuata dal trucco. Durante le riprese, la Taylor e l’affascinante attore inglese Richard Burton, che interpreta Marco Antonio, iniziano una relazione extraconiugale, e, nonostante lo scandalo, si sposano nel 1964. Soprannominati “Liz e Dick” dai media, recitano insieme in 11 film tra cui “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, con il quale la Taylor ottiene il suo secondo Oscar nel ruolo di Martha, una donna alcolizzata e isterica in crisi con il marito. Dagli anni ’80 inizia il declino, ma l’attrice si dedica alla creazione di una fondazione per la cura dell’AIDS. Nel 1984, dopo la morte di Richard Burton per un’emorragia cerebrale, decide di andare in una clinica per disintossicarsi dall’alcool, vizio che aveva in comune con l’ex marito. Ne esce con un nuovo marito, l’ottavo, ancora capace di sorprendere e affascinare. Da tempo malata di cuore, muore il 23 marzo del 2011, all’età di 79 anni, dopo una vita movimentata, continuamente sotto i riflettori per i numerosi matrimoni, i film di successo, le furibonde liti amorose, gli eccessi tipici di una diva hollywoodiana vivace e sexy.
26 febbraio
PRIMO PIANO
Eccezionale nevicata a Roma: imbiancati piazza san Pietro e il Colosseo.
(Via Margutta, ore 5 del mattino. Foto di Alessandro Pizzo)
Roma si è svegliata sotto una coltre di neve, che dalle prime ore della notte ha imbiancato piazze, strade e monunenti, creando un insolito fascino, molto apprezzato dai turisti. La circolazione stradale è rallentata anche per alcuni rami caduti sotto il peso della neve soprattutto in zona Prati e sulla Cristoforo Colombo in direzione del centro città. Il piano di emergenza del trasporto pubblico è partito dalla mezzanotte e prevede oggi bus ridotti – circolano solo quelli con vetture dotate di gomme termiche – ma linee metro-ferroviarie regolari. Le scuole, per scelta del Campidoglio, sono rimaste chiuse contro i rischi derivanti dal gelo. Alcune linee bus sono sospese a causa dell’ impraticabilità delle strade. Oltre 170 mezzi, già dislocati in diverse parti del territorio, sono al momento disponibili per l’emergenza neve in città. Il sale a disposizione “è di mille tonnellate al giorno”. Il Campidoglio ha deciso l’apertura dei varchi Ztl per consentire l’accesso in centro anche alle vetture private. Dalle 15:00, e in generale nel pomeriggio, ci sarà il rischio ghiaccio per un abbassamento delle temperature, per questo sono stati potenziati i mezzi spargisale in azione sulle strade e in serata è prevista una riunione in prefettura. La Capitale è stata investita da una perturbazione siberiana, che ha portato neve su tutta l’Italia, con temperature molto rigide, con minime fino a -7 nelle città del Nord e fino a -23 sulle montagne venete, come a Ra Valles, sopra Cortina. Sono stati attivati nelle stazioni punti straordinari di accoglienza per i senza fissa dimora.
(Veduta del Parco della Caffarella. Foto Tommaso Fera)
DALLA STORIA
Kazimir Severinovič Malevič.
Nei primi decenni del Novecento, la Russia era una fervente fucina di straordinari movimenti di avanguardia. Gli scrittori, gli artisti in ogni campo, godevano di una invidiabile libertà creativa che dava spazio alla loro sfrenata immaginazione di innovare e sperimentare. Da Andrei Belyi a Vladimir Majakovskij, da Nikolaj Gumilev, marito di Anna Achmatova, a Maksim Gorkij, tutti gli scrittori dell’età d’argento, come fu definita la stagione letteraria russa agli inizi del Novecento, si misero al lavoro per dare al regime una politica culturale. I grandi registi cinematografici e teatrali da Konstantin Stanislavskij a Vsevolod Mejerchol’d, da Sergej Ėjzenštejn a Vsevolod Pudovkin crearono spettacoli rivoluzionari. I pittori, i fotografi, gli architetti costruttivisti disegnarono alcuni fra i più originali manifesti di propaganda dell’epoca e si dedicarono alle arti applicate per reinventare, con stile e significati rivoluzionari tutti gli oggetti della vita quotidiana. Marc Chagall divenne commissario per le Arti a Vitebs. Vasilij Kandinskij collaborò con il governo per la riforma dell’insegnamento, commissario per l’Educazione era Anatoliij Lunacharskij e, Maksin Gorkij insieme a Bogdanov svolgevano una funzione di vigilanza affinché gli intellettuali e gli artisti potessero esprimere liberamente il loro talento. Questo idillio durò fino alla seconda metà degli anni Venti, quando la cappa del realismo sovietico e il rozzo e incolto Stalin chiusero ogni libertà espressiva ai protagonisti delle grandi avanguardie russe. Tutte quelle energie creative, così brutalmente represse, spinsero gli artisti all’esilio (Chagall, Kandinskij, Natalia Goncharova), al suicidio (Sergej Esenin e Majakoskij si uccisero, Majakovskij si sparò un colpo al cuore), Izaak Babel sopravvisse penosamente fino al 1940, Mejerchol’d fu torturato, processato e nello stesso anno ucciso. Malevic fu arrestato nel 1930 e morì nel 1935. E così via… Poiché oggi ricorre l’anniversario di nascita di Kazimir Malevič, avvenuta il 26 febbraio 1879, a Kiev, in linea con la corrispondenza del giorno, e in omaggio al pioniere dell’astrattismo geometrico e delle avanguardie russe, parleremo della corrente artistica del Suprematismo. Malevič, nel 1915, lo teorizza scrivendo insieme al poeta Majakovskij il “Manifesto del Suprematismo”; il movimento nasce intorno al 1913. Il pittore ucraino, nella sua ricerca, aveva dapprima coniugato il Futurismo italiano e il Cubismo, creando la corrente artistica del cubofuturismo, che poi si è sviluppata in Suprematismo. Per lui era imperativo esprimere il meglio di sé, il “supremo” e voleva applicare questo stile di vita alla sua vita quotidiana, dedicandosi interamente e solo all’arte. “Nell’anno 1913, nel mio disperato tentativo di liberare l’arte dalla zavorra dell’obiettività, mi rifugiai nelle forme quadrate ed esposi un quadro che consisteva in nient’altro che un quadrato nero su sfondo bianco. I critici e insieme a loro il pubblico, sospirarono: Tutto ciò che abbiamo amato è stato perso. Siamo in un deserto … Davanti a noi non c’è altro che un quadrato nero su sfondo bianco!”. “Con il termine “suprematismo” intendo esprimere la supremazia della sensibilità pura nell’arte creativa. Per il suprematista i fenomeni visivi del mondo oggettivo sono di sé, senza senso; la cosa importante è sentire”. “Il quadrato non è una forma del subconscio. È la creazione di ragione intuitiva. Il volto della nuova arte. Il quadrato è un neonato vivo e reale. È il primo passo di creazione pura nell’arte”
(Quadrato nero, 1915, olio su tela, Galleria Tret’jakov)
“Il quadrato nero sullo sfondo bianco è stato la prima forma di espressione della sensibilità non oggettiva: quadrato = sensibilità, fondo bianco = il Nulla, ciò che è fuori dalla sensibilità: Eppure la grande maggioranza della gente ha considerato l’assenza di oggetti come la fine dell’arte e non ha riconosciuto il fatto immediato della sensibilità divenuta forma”.
“L’invenzione dell’aeroplano ha origine dalla sensazione della velocità, del volo, che ha cercato di assumere una forma, una figura: l’aeroplano infatti non è stato costruito per il trasporto di lettere commerciali tra Berlino e Mosca, ma per obbedire all’impulso della percezione della velocità”.
(Casa Rossa, 1932, olio su tela, Museo di Stato Russo – San Pietroburgo)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Un “eroe” per gli americani.
Buffalo Bill è lo pseudonimo di William Frederick Cody, un cacciatore di bisonti e soldato statunitense, nato in una fattoria dell’Iowa il 26 febbraio 1846 e morto a Denver il 10 gennaio 1917. In seguito alla morte del fratello maggiore, nel 1853 la sua famiglia si trasferì nel Kansas, dove però fu vittima di un pesante clima persecutorio a causa delle posizioni antischiaviste del padre, che, infatti, morì nel 1857 per le conseguenze di un colpo di pugnale ricevuto dopo aver tenuto un discorso contro lo schiavismo. All’età di quattordici anni il giovane William divenne uno dei corrieri a cavallo del Pony Express e nel 1863, dopo la morte della madre, si arruolò nel 7º Cavalleggeri del Kansas e prese parte alla Guerra di secessione americana con gli Stati dell’Unione. Durante una sosta al campo militare di St. Louis conobbe l’itala-americana Louisa Frederici, che diventò sua moglie nel 1866 e dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la fine della guerra, William Cody venne impiegato, fino al 1872, come guida civile dall’esercito statunitense e dalla Pacific Railway. Fu in questo periodo che diventò Buffalo Bill, dopo aver vinto una gara di caccia al bisonte con William Comstock, a cui apparteneva in precedenza il famoso soprannome. Sembra, inoltre, che fra il 1868 ed il 1872, per rifornire di carne gli operai addetti alla costruzione della ferrovia, abbia ucciso 4.280 bisonti. Ricevette la Medaglia d’Onore del Congresso, la più alta onorificenza militare degli Stati Uniti, per aver dimostrato “coraggio in azione” (nel 1917, ventiquattro giorni dopo la sua morte, la medaglia gli venne revocata, in quanto civile al momento dell’azione, ma nel 1989 gli fu definitivamente riassegnata). Nel 1876, a Warbonnet Creek, dopo averlo ucciso, affermò di avere preso lo scalpo di un guerriero Cheyenne, Hay-o-wei, che tradotto diventò Yellow Hair, per vendicare la morte di George Armstrong Custer al Little Big Horn. Il suo nome in lingua dakota era «Pahaska». Nel 1873 Ned Buntline, uno scrittore popolare che aveva narrato in diversi racconti le gesta di Buffalo Bill, gli chiese di interpretare se stesso in una versione teatrale delle sue novelle. Bill accettò e fece l’attore per undici stagioni consecutive. Nel 1883 realizzò il Buffalo Bill Wild West Show, uno spettacolo circense in cui venivano ricreate scene western, fra cui la battaglia di Little Bighorn, dove perse la vita il Generale Custer; della compagnia circense facevano parte anche cavalieri cosacchi ed arabi e fra i protagonisti dello spettacolo, a cui partecipavano veri cowboy e pellerossa, ci furono il leggendario capo Sioux Toro Seduto, Calamity Jane e Alce Nero. Anche in Italia Buffalo Bill era molto popolare, tanto che l’editore Nerbini di Firenze, negli anni venti e trenta del Novecento, pubblicò diversi volumetti sulle sue gesta. Quando, nel 1942, l’Italia si trovò in guerra contro gli Stati Uniti, Nerbini rivelò che Buffalo Bill era in realtà un immigrato italiano, Domenico Tombini, nativo della Romagna, la regione il cui centro è Forlì, allora nota come “la città del Duce”. L’invenzione servì all’editore per evitare la censura durante la guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti. La figura di Buffalo Bill ha ispirato tantissimi film, dal celebre Buffalo Bill e gli indiani (1976) di Robert Altman, interpretato da Paul Newman al più recente Hidalgo – Oceano di fuoco (2004). Per gli americani Cody è stato una leggenda e nella storia delle guerre tra indigeni e coloni, come sempre scritta dal vincitore, è diventato il mitico eroe, che combatte contro gli indiani, votati allo sterminio dai bianchi per impossessarsi delle loro terre.
25 febbraio
PRIMO PIANO
Un evento indimenticabile per Progetto Editoriale.
Il 24 febbraio 2016, sono passati già due anni, in una giornata che sembrava un anticipo della primavera, la nostra Casa Editrice era presente in piazza san Pietro e nella persona del suo direttore editoriale, Francesco Malvasi, presentava al Papa il volume “Diario personale delle ore” con la postfazione “Diario della Misericordia” e gliene faceva dono. L’incontro si è svolto in un clima gioioso e cordiale e papa Francesco si è soffermato sull’impostazione dell’opera, apprezzandone molto la struttura e la veste grafica. Perché ricordare? Perché in questo momento storico, che entusiasma per le conquiste in campo scientifico e tecnologico, ma presenta anche drammi e situazioni inquietanti a livello internazionale, sociale ed individuale, il “Diario”, che trae ispirazione dagli antichi salteri, offre a credenti e non l’occasione di una riflessione sull’umanità e sui suoi percorsi a partire dalle origini, in un confronto con l’Assoluto, cercando di individuarne il volto attraverso i profeti e i santi, che pure ne hanno fatto esperienza, con conseguenti effetti nella loro vita e nelle loro scelte. Il “Diario”, facente parte del progetto I grandi temi della fede, presenta anche alcune sezioni in cui è possibile annotare i propri pensieri e una certificazione per la trasmissione e l’affidamento per il futuro. Che dire poi della posfazione “Diario della misericordia”, che rivela il “Dio pietoso e misericordioso”, una prospettiva per secoli rimasta in ombra, perché, per citare l’evangelista Giovanni, “gli uomini preferirono le tenebre piuttosto che la luce”. La tematica della misericordia, declinata nell’opera attraveso l’Antico Testamento, la figura di Gesù e la storia della Chiesa, costituisce anch’essa motivo di approfondimento e di riflessione e schiude nuovi possibili orizzonti.
24 febbraio
PRIMO PIANO
Addio a Folco Quilici.
Si è spento stamattina all’ospedale di Orvieto, all’età di 87 anni, Folco Quilici, l’ultimo dei grandi documentaristi italiani. Ferrarese, figlio del giornalista Nello Quilici e della pittrice Emma Buzzacchi, dopo un’attività di tipo cineamatoriale, si era specializzato in riprese sottomarine diventando molto popolare anche al di fuori dei confini nazionali, attualmente viveva in un casale nelle campagne di Ficulle, piccolo comune dell’alto orvietano. Scrittore, naturalista e divulgatore, Folco Quilici è ricordato per i suoi tanti film pluripremiati dedicati al rapporto tra l’uomo e il mare. Nel 1971, con uno dei suoi documentari della serie L’Italia vista dal cielo “Toscana”, fu candidato al premio Oscar, con “Oceano” ottenne il Davide di Donatello. Nel 2008 gli fu conferito dalla Società Geografica Italiana il Premio “La Navicella d’Oro” con la seguente motivazione: “… in oltre mezzo secolo di costante attività professionale ha configurato un personale modello di viaggiatore capace di esplorare e testimoniare con persuasivo rigore e poeticità i territori più rilevanti della cultura geografica, storica e artistica della società umana del passato e del presente, pervenendo a risultati stilistico – espressivi di notevolissimo valore e di ampia valenza comunicativa.” Dal 1971 al 1989 ha curato la rubrica “Geo” di Rai3, poi è stato conduttore per il canale MarcoPolo di un diario di viaggi e avventure, e ha collaborato ad alcune serie televisive. Per i tredici film della serie “Mediterraneo” e gli otto de “L’Uomo Europeo” Quilici ha avuto a fianco lo storico Fernand Braudel e l’antropologo Levi Strauss. Ha viaggiato senza mai fermarsi per tutta la vita: dalle immersioni in Liguria alle Cinque Terre, a Punta della Gatta, alle riprese di “Sesto Continente”, il primo film al mondo in cui si offrivano documenti a colori sulla vita sotto la superficie del mare. In un’intervista a Repubblica ha detto di sé: “Tutta la vita ho viaggiato per dimenticare il mio inconscio … Se l’ho fatto è stato esclusivamente per dare un’emozione a chi quelle cose le ha sempre sognate senza averle mai viste. Parlo degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi ci interessa meno il meraviglioso, l’inedito, l’irraggiungibile. Pretendiamo però di salvare il pianeta. Comodamente seduti in poltrona!”
23 febbraio
PRIMO PIANO
Giallo: l’ universo si espande più velocemente del previsto.
La velocità di espansione dell’universo è del 10% superiore a quella rilevata finora e “apre le porte a un viaggio nel mistero”, come ha detto all’ANSA il vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Antonio Masiero. “Vediamo segnali arrivarci da qualche mondo nuovo, ma – ha aggiunto – non sappiamo né come sia fatto, né dove si trovi”. Il nuovo calcolo, ottenuto da un team di ricerca americano guidato dal professor Adam Riess, Premio Nobel per la Fisica nel 2011, potrebbe far nascere una fisica completamente nuova, fatta di leggi che scardinanerebbero le fondamenta delle più accreditate teorie astrofisiche. I ricercatori hanno calcolato la velocità di espansione dell’universo misurando le distanze di lontane galassie, osservate dal telescopio gestito dalla Nasa e dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa). In particolare Hubble ha osservato stelle pulsanti chiamate Cefeidi, caratterizzate dalla relazione regolare tra il periodo di pulsazione e la luminosità e per questo usate come punti di riferimento per misurare le distanze delle galassie. Le stelle utilizzate questa volta sono 10 volte più distanti di quelle utilizzate in precedenza e hanno permesso di calcolare che le galassie si allontanano tra loro a un ritmo più rapido del previsto e che l’universo si sta espandendo a una velocità superiore del 10% rispetto a quella calcolata grazie alla foto del baby universo catturata dal satellite Planck dell’Esa. Gli scienziati, ancora molto lontani dal comprendere l’esatta natura di questa aumentata accelerazione, ipotizzano tre possibili cause del fenomeno: la prima è che il motore che spinge l’universo a espandersi, cioè l’energia oscura, che occuperebbe il 75% del cosmo, possa allontanare le galassie l’una dall’altra con una forza maggiore del previsto, quindi l’accelerazione potrebbe non avere un valore costante, variando nel tempo; la seconda è che esista una particella, ancora non scoperta, definita “neutrino sterile”, che viaggia alla velocità della luce; la terza e ultima è che la materia oscura, ossia la materia invisibile che occupa circa il 25% del cosmo, interagisca con la materia visibile più fortemente di quanto si sia ritenuto finora. Secondo Riess, tutte le possibili spiegazioni sono da cercare nel lato oscuro dell’universo.
DALLA STORIA
Morire per lo Stato.
52 anni fa, il 23 febbraio 1965, nasceva a Palermo Vito Schifani, agente di polizia della scorta di Giovanni Falcone, rimasto ucciso, all’età di ventisette anni, nella strage di Capaci. Schifani guidava la prima delle tre auto blindate del corteo, la Fiat Croma marrone, che accompagnavano Falcone dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, (il magistrato era di ritorno da Roma, dove aveva appena ricevuto l’incarico di “superprocuratore”). Pochi minuti dopo aver imboccato l’autostrada A29, nelle vicinanze dell’uscita di Capaci, viene azionato, con un radiocomando a distanza, un esplosivo di 572 chilogrammi, nascosti in un tombino dell’autostrada. Le lancette dell’orologio segnano le ore 17,56 minuti e 32 secondi quando i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione. Un quarto d’ora dopo arrivano i primi soccorsi e lo scenario che si trovano davanti è agghiacciante: l’asfalto non c’è più, al suo posto c’è una voragine larga trenta metri e profonda otto. L’esplosione, per prima, investe direttamente la sua auto che viene sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a molti metri di distanza, uccidendo sul colpo, oltre a lui, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, tutti orrendamente mutilati dall’impatto. La seconda auto, la Fiat Croma bianca guidata da Falcone, si schianta contro il muro di cemento e proietta Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, che non indossavano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza. Dal luogo dell’attentato, i due giudici escono vivi. La corsa in ospedale in ambulanza e poi gli sforzi dei medici non riescono a salvarli. Entrambi muoiono in serata per le emorragie e le lesioni interne provocate dall’onda d’urto dell’esplosione; rimangono lievemente feriti invece gli altri quattro componenti del gruppo al seguito del magistrato; l’autista giudiziario Giuseppe Costanza (seduto nei sedili posteriori della Fiat Croma bianca guidata dal giudice) e gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che sedevano nella Fiat Croma azzurra, la terza blindata del corteo. Il 23 maggio 1992 Vito Schifani, lascia la moglie Rosaria Costa, 22 anni e un figlio di quattro mesi. Quando, nella camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia a Palermo, il presidente del Senato Spadolini si avvicinò alla vedova, lei gli disse: “Presidente, io voglio sentire una sola parola, lo vendicheremo: se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola”. Le parole che poi Rosaria pronunciò ai funerali del marito, di Falcone, della Morvillo e del resto della scorta fecero presto il giro dei notiziari per la disperazione ma anche per la lucidità che ne traspariva: “Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, Vito mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato …, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio … di cambiare … loro non cambiano … loro non vogliono cambiare … Di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete. Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: Padre perdona loro perché loro non sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo che avete reso questa città sangue, città di sangue … Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente.” A Schifani, dopo il riconoscimento della Medaglia d’oro al valor civile è stato intitolato lo stadio delle Palme di Palermo, ricordando la sua natura di atleta e di specialista nei 400 metri. La sensazione di essere tra i principali bersagli della criminalità organizzata non ha mai abbandonato Falcone, da quando nel dicembre 1987 era arrivato a sentenza il primo Maxiprocesso a Cosa Nostra, che aveva portato alla condanna di 360 imputati, tra affiliati e pericolosi boss latitanti. Un risultato ottenuto con anni di indagini condotte da lui e dagli altri componenti del pool antimafia. Quest’ultimo pensato per la prima volta dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 da Cosa Nostra, dopo la sua morte venne assegnato al giudice Antonino Caponnetto, il quale decise di mantenere ed ampliare l’organizzazione dell’ufficio voluto dal predecessore. Caponnetto si informò presso la Procura di Torino riguardo a come si fosse organizzata durante gli anni del terrorismo e decise infine di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso nel palermitano, e di conseguenza la possibilità di combatterlo più efficacemente. Caponnetto scelse, tra i giudici istruttori che meglio conosceva e dei quali riteneva di potersi fidare, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa Nostra, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala e tre colleghi, il cui compito era inoltre quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati delle indagini del pool e ottenere le condanne. Alla fine del 1987, una volta concluso il primo grado del Maxiprocesso, Caponnetto, ritenendo sostanzialmente concluso il suo compito, decise di tornare nella sua Firenze, lasciando quindi il posto di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo. Falcone avanzò la propria candidatura a sostituirlo, e molti, in particolare Caponnetto, lo riteneva il più adatto per competenza, per intelligenza, perché grazie alle intuizioni di Falcone e la sua decisione di interrogare personalmente i mafiosi pentiti era riuscito ad acquisire preziose informazioni sulla struttura dell’organizzazione criminale ed altri importanti aspetti del suo funzionamento. Ma il pool antimafia organizzato da Antonio Caponnetto non ebbe vita lunga. Un anziano magistrato, Antonino Meli, che inizialmente intendeva candidarsi come presidente del tribunale di Palermo, venne convinto da alcuni colleghi a ritirare tale candidatura e correre invece per la poltrona di presidente dell’ufficio istruzione. Meli era un magistrato di lunga esperienza, che non si era mai occupato di mafia, se non in una sola, singola occasione. Aveva però un’anzianità di servizio assai superiore a quella di Falcone, ed il criterio dell’anzianità era quello di solito seguito dal Consiglio superiore della magistratura per l’assegnazione dei posti. Falcone aveva all’interno del CSM numerosi ammiratori ma anche un gran numero di detrattori, sicchè la maggioranza dei consiglieri votò per Meli: la sua maggiore anzianità di servizio era stata preferita all’esperienza nella lotta alla mafia di Falcone nonostante i successi da lui ottenuti. Il nuovo consigliere istruttore decise di cancellare il metodo fino ad allora seguito nell’ufficio, smettendo quindi di considerare Cosa Nostra come un unico fenomeno e trattando quindi i crimini di mafia come una semplice serie di delitti scollegati tra loro. Questo portò, in breve tempo, alla fine dell’esperienza del pool, poiché buona parte dei suoi componenti preferì dimettersi e dedicarsi ad altri incarichi. Durante la sua professione di giudice nella lotta contro la mafia, sospetti e calunnie fecero sentire Falcone sempre più isolato e vulnerabile rispetto ai pericoli in agguato. Il primo venne messo in atto nella sua villa all’Addaura, presso Mondello, il 20 giugno del 1989, quando un agente della scorta rinvenne sugli scogli un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite. Il clima di isolamento dei colleghi, unito alle pressioni delle istituzioni centrali preoccupate della sua incolumità, lo convincono nel 1991 ad allontanarsi dalla Sicilia e ad accettare l’incarico di dirigere la sezione di Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, presieduto da Claudio Martelli. Con quest’ultimo s’impegnò a portare a termine un progetto che gli stava a cuore da tempo: la Superprocura antimafia. L’idea di un coordinamento nazionale tra le due procure impegnate nella lotta a Cosa Nostra spaccava la magistratura tra favorevoli e contrari. Per altri ormai Falcone è un nemico da abbattere. Su ordine del capo della cupola, Totò Riina, viene progettato, per il febbraio del 1992, un blitz armato a Roma contro il magistrato e il ministro Martelli, concepito anche per mandare un forte segnale allo Stato. Il progetto viene rimandato perché nel frattempo maturano i presupposti per un altro assassinio: quello del deputato DC Salvo Lima, ucciso il 12 marzo 1992. Poco più di due mesi dopo si materializza un disegno criminale, tra i più efferati della storia repubblicana, per l’appunto l’orrenda strage di Capaci. Individuati da un’intercettazione telefonica vengono accusati, come mandanti ed esecutori, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano e Totò Riina (gli ultimi due catturati rispettivamente nel 1993 e nel 2006). Nel 2012 sarà arrestato il pescatore Cosimo D’Amato, con l’accusa di aver procurato il tritolo utilizzato per la denotazione, ricavandolo da ordigni bellici della Seconda guerra mondiale recuperati sui fondali marini.
(Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Peter Fonda, figlio d’arte, non smentisce il talento che eredita nel sangue. Figlio di Henry Fonda, fratello di Jane e padre di Bridget, malgrado il suo atteggiamento critico verso l’establishment dell’industria cinematografica, ha al suo attivo numerose interpretazioni in ruoli importanti a partire dai primi anni Sessanta fino ad oggi. Lungo la sua carriera riceve il Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico e la nomination all’Oscar al miglior attore per il film “L’Oro di Ulisse”. Tutti, però, lo identificano per aver scritto e interpretato, nel ’63, insieme a Dennis Hopper, “Easy Rider” (nominato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale), il “road movie” più celebre in assoluto, il film su due ruote per eccellenza. Il film esprime chiaramente la cultura del mondo hippie di fine anni ’60 che i due autori-interpreti e, l’emergente Jack Nicholson, sanno rappresentare efficacemente essendo loro stessi figli di quella generazione. La loro voglia di evasione e libertà da una società medio-borghese tradizionale e piatta, dai risvolti violenti, avrà nel film un epilogo drammatico. L’impatto del finale scuoterà la sensibilità del pubblico tanto da metterlo in relazione a veri eventi dell’epoca, quali la morte di Martin Luther King o di Bob Kennedy. La colonna sonora è da brivido!
22 febbraio
PRIMO PIANO
F1: presentata la nuova Ferrari per il mondiale 2018.
La Ferrari ha presentato oggi nella sua sede di Maranello, alla presenza del presidente Sergio Marchionne, dei piloti Vettel e Raikkonen e di Piero Ferrari, la monoposto con cui parteciperà al Mondiale 2018 di Formula 1, il cui inizio è previsto per il prossimo 25 marzo a Melbourne, in Australia. Si chiama SF71H la nuova rossa con cui Sebastian Vettel, secondo l’anno scorso nel mondiale con 5 vittorie, e Kimi Raikkonen cercheranno di riportare in Italia il titolo piloti che manca dal 2007. Nella nuova vettura predomina il rosso con una minor presenza di dettagli bianchi e neri, solo in una parte del cofano posteriore si trova uno spazio bianco in cui risalta il tricolore italiano. Dal punto di vista progettuale la SF71H è una evoluzione della monoposto usata nella passata stagione, rispetto alla quale risulta più stretta e compatta: ha un muso del tutto nuovo, che si restringe in punta, dove è visibile uno spazio al momento ancora bianco, appartenente allo sponsor principale, la Philip Morris, mentre la parte posteriore della vettura, con il classico disegno cosidetto a Coca-Cola, appare ancora più stretta e rastremata rispetto alla monoposto 2017. Sopra l’abitacolo del pilota, la nuova Ferrari presenta – come tutte le altre nuove di Formula 1 – il cosiddetto “halo”, la protezione montata intorno alla testa del pilota per evitare che possa essere colpito da oggetti o detriti nel corso della gara, come già successo in passato. Dopo la presentazione, la SF71H verrà portata sul Circuit de Catalunya, presso Barcellona, dove domenica 25 è previsto un “Filming day” prima dell’inizio, lunedì 26, dei test veri e propri. La prima sessione durerà fino a giovedì 1 marzo; la seconda, sulla stessa pista, si terrà dal 6 al 9 marzo. Ad entrambe parteciperanno i piloti titolari della Scuderia Ferrari, Kimi Raikkonen e Sebastian Vettel. In mattinata, anche la scuderia detentrice dei titoli Mondiali della Formula 1, la Mercedes-AMG, la rivale principale della Ferrari, ha presentato nel circuito inglese di Silverstone la sua monoposto per il 2018.
DALLA STORIA
La Rosa Bianca. “Non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera”. “Non c’è tirannide che non sia stata sconfitta da una coscienza in piedi”.
Sophie Scholl fu ghigliottinata all’età di 21 anni dal Tribunale del Popolo di Monaco di Baviera, il 22 febbraio 1943, per tradimento contro lo Stato e il Führer. Insieme a lei vennero decapitati il fratello Hans, Christoph Probst e, due mesi dopo, Alexander Schorell, Willi Graf e il loro professore di filosofia, Kurt Huber. Si concluse così l’opposizione non violenta al regime nazista di cinque giovani universitari tedeschi, chiamati “La Rosa Bianca” che, nel corso del 1942 e nelle prime settimane del 1943, sfidarono il partito nazionalsocialista stampando e diffondendo clandestinamente, in Germania e in Austria, sei opuscoli contro Hitler. Questi fogli raccontavano gli orrori che si stavano consumando ai danni degli ebrei, informavano delle sconfitte militari naziste (Stalingrado), facevano appello ai grandi ideali della cultura ispirandosi al Vangelo, a Sant’Agostino, a Rilke, a Lao-Tse, ad Aristotele, a Novalis, a Romano Guardini così come a Ghoete, Pascal, Platone, Dostoevskij, Schiller e … alle lezioni della storia. I volantini, attraverso semplici parole, esortavano i tedeschi alla comprensione morale dei gravi mali presenti nella vita nazista, incitavano le persone a diffidare dei falsi miti come la purezza della razza o il concetto esasperato di nazionalismo diffusi dalla brutale e arrogante propaganda del partito. Nel primo volantino c’era scritto: “Ogni singolo deve coscientemente difendersi con ogni sua forza, opporsi in quest’ultima ora al flagello dell’umanità, al fascismo e a ogni simile sistema di stato assoluto. Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera. Impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare, prima che le città diventino un cumulo di macerie”. Il sesto opuscolo venne distribuito nell’Università di Monaco il 18 febbraio 1943, in coincidenza con la fine delle lezioni. Quasi tutti i volantini vennero distribuiti in luoghi frequentati; Sophie Scholl prese la coraggiosa decisione di salire in cima alle scale dell’atrio e lanciare da lì gli ultimi volantini sugli studenti sottostanti. Venne individuata da in bidello nazista, Jakob Schmid, che la bloccò e la consegnò assieme al fratello alla polizia di regime. Gli altri membri attivi vennero subito fermati e il gruppo, assieme a tutti quelli a loro associati, venne sottoposto a interrogatorio da parte della Gestapo. Gli Scholl si assunsero immediatamente la piena responsabilità degli scritti sperando, invano, di proteggere i rimanenti membri del circolo; i funzionari della Gestapo che li interrogarono rimasero sorpresi per il coraggio e la determinazione dei due giovani (la Gestapo torturò Sophie Scholl per quattro giorni, dal 18 al 22). Il 22 febbraio, in un tribunale politico speciale presieduto da Roland Fresler, i ragazzi subirono un processo-farsa e, nel corso del breve dibattimento, furono reputati colpevoli e ghigliottinati nello stesso giorno. (Il famigerato giudice Roland Freisler, nell’ultimo triennio del regime nazista, si era reso responsabile di migliaia di condanne a morte a seguito dei dibattimenti da lui presieduti, per lo più processi-farsa, i cui esiti erano scontati fin dal principio. Freisler è tristemente noto come il più celebre giudice penale del terzo Reich. Il suo atteggiamento aggressivo e mortificante nei confronti degli imputati è un esempio rappresentativo della “stortura del diritto”, sotto il nazismo e dell’asservimento della giustizia al terrore organizzato del regime). Le guardie del carcere e lo stesso boia dissero che mai avevano visto morire tanto coraggiosamente dei giovani, in particolare la ragazza. La Rosa Bianca, nome scelto da Hans insieme al gruppo, evoca spiriti integri, contrari alle guerre, capaci di non cedere al demoniaco del potere. Essa non era un’organizzazione sul modello della Resistenza italiana (diffusa, strutturata, con collegamenti internazionali); non implicava l’adesione ad un’ideologia politica; era la reazione spontanea e irrinunciabile di ragazzi incapaci di piegarsi alla menzogna, alla inumana violenza perseguita con metodo dai nazisti contro innocenti; essi furono disposti a sacrificare la loro giovinezza per difendere i principi umani e cristiani di fratellanza e giustizia. Sophie e i suoi compagni erano consci dei rischi che correvano, ma decisero all’unanimità di stampare e divulgare volantini contrari al regime. Erano ragazzi dalla coscienza integra, che non volevano cedere ai compromessi. Sentivano di dover difendere, a qualsiasi costo, il senso di giustizia e la libertà: “La libertà è il più prezioso tesoro che abbiamo”. Nel V° volantino si leggeva: “Appello ai tedeschi! Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio di stati criminali fondati sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa”. Il volantino si concludeva con un appello: “In nome della gioventù tedesca esigiamo dallo Stato di Adolf Hitler la restituzione della libertà personale, il bene più prezioso dei tedeschi che egli ci ha tolto nel modo più spregevole”. Il linguaggio era importante, con tutta probabilità Sophie e i suoi amici conoscevano le riflessioni sull’importanza della parola in politica di uno dei “loro” scrittori: Romano Guardini. La parola, secondo Guardini, crea la comunicazione e fonda la politica che è legata alla virtù della veridicità. La politica autentica (al contrario di quella inautentica) è fondata sulla parola autentica che si afferma quando una persona sostiene ciò di cui è convinta e se ne fa interiormente garante. Far politica significa dunque “ridare valore alle parole, essere fedeli alle parole, rispettare la verità delle cose e delle persone, sentire dentro di sé l’autorità della coscienza”. Il nazionalsocialismo aveva supportato il suo potere stravolgendo il significato delle parole e creandone di nuove. Durante la guerra per incitare e unire la nazione tedesca l’espressione “morte eroica”, con cui il partito identificava i caduti in battaglia o lo slogan “lotta fatale”, come notò Hanna Arendt, non solo convinse le persone che “la guerra non era guerra” o che “la guerra era venuta dal destino e non dalla Germania”, ma anche che “era una questione di vita o di morte: o annientare i nemici o essere annientati”. Per riappropriarsi del significato vero occorrevano riflessione, discernimento, coraggio. “Libertà e onore! Per dieci lunghi anni Hitler e i suoi seguaci hanno spremuto fino alla nausea queste due magnifiche parole tedesche, le hanno svuotate, alterate come possono fare soltanto i dilettanti che gettano ai porci i più alti valori di una nazione”. Il grido della Rosa Bianca fu una cascata di parole definite da Thomas Mann, nel 1943, in diretta radiofonica alla BBC, “positive”, poiché affermavano il valore della persona sulla massa, della coscienza sul fanatismo, della fede in Dio sul paganesimo nazista, della bellezza sulla crudeltà, dell’amicizia e della fraternità sugli assemblamenti costrittivi, razzisti, gerarchici e burocratici. Una parola fondamentale per i giovani della Rosa Bianca citata ripetutamente nei volantini fu “resistenza” (Widerstand), parola formata da due suffissi: Wider, che significa contro, e Stand, stare in piedi. Widerstand è dunque ergersi. Si adatta bene a quanti hanno saputo restare diritti in mezzo ai tanti che piegavano la schiena e il capo!
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Luis Buñuel, con il suo linguaggio filmico irriverente e trasgressivo, perennemente volto a dissacrare lo stile di vita borghese, è sempre stato inviso ai benpensanti. Universalmente riconosciuto come maestro di cinema, dopo i primi anni trascorsi nel piccolo paese aragonese, Calanda, dove nasce il 22 febbraio 1900, Luis viene mandato a Saragozza in un collegio di gesuiti dove riceve un’educazione dalle regole ferree. Sarà proprio questo ambiente a suscitare in lui le idee anticlericali che avranno ampio riscontro nelle sue opere. Si iscrive poi all’Università di Madrid dove si laurea in Lettere e filosofia, nel 1924. Il soggiorno a Madrid fu il periodo d’oro della sua vita: “Grazie alle varie residenze studentesche nelle quali di volta in volta alloggiavo, cominciai a conoscere e frequentare alcuni giovani che mi fecero conoscere un mondo fantastico che io ignoravo. Sto parlando di García Lorca, che ha rappresentato la soglia dalla quale sono entrato in una dimensione spirituale, Rafael Alberti, Ramón Gómez de la Serna, Moreno Villa, Salvador Dalí. Durante sei o sette anni avevamo formato un gruppo fraterno. Passavamo giorni interi in allegria, in conversazioni nei caffè, in riunioni notturne, quasi sempre destinate a letture di poesia. Buona parte della mia formazione la devo a questa mia esperienza che mi maturò sul terreno vitale e su quello intellettuale”. L’anno dopo la laurea sposa Jeanne Rucar. A causa del clima repressivo instauratosi in Spagna, che porterà alla dittatura franchista, esilia a Parigi dove, la sua adesione al Surrealismo, prenderà corpo nei primi esperimenti concreti con il cortometraggio diretto, assieme a Salvador Dalí, intitolato “Un cane andaluso” (1929). Nel film emergono già le caratteristiche del suo cinema, il brutale impatto visivo e lo spirito antiborghese. Nel 1930 il primo film “L’età dell’oro” conferma l’attacco alla borghesia. Le reazioni di protesta fanno temere addirittura per la sua carriera. Il film è vietato dal prefetto subito dopo l’uscita (uscì di nuovo nel 1950 a New York e nel 1951 a Parigi). “Lo scandalo, una delle armi più usate dai surrealisti” e Buñuel, continuerà a scandalizzare il pensiero convenzionale, trattando, nei suoi film, temi come la natura dell’inconscio, l’irrazionale, la sessualità. “Spagnolo di nascita, francese di adozione e rivoluzionario per vocazione” si trasferirà definitivamente, nel 1940, in Messico dove prenderà la cittadinanza nel 1948. Considerato uno dei più celebri esponenti del cinema surrealista viene premiato come migliore regista al Festival di Cannes del 1951 per il film “I figli della violenza” (1950). Sette anni dopo riconferma il successo a Cannes, nel 1958 con “Nazarín”, e nel 1961 con “Viridiana” ma dopo aver vinto la Palma d’Oro, il film viene accusato di blasfemìa. È il suo modo di rispondere all’invito rivoltogli dal dittatore Francisco Franco a tornare in patria e a riprendere il suo lavoro. Seguono “L’angelo sterminatore” (1962), “Diario di una cameriera” (1963) e “Bella di giorno” (1967) per il quale vince il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. Si susseguono due nomination all’Oscar per la sceneggiatura di “Il fascino discreto della borghesia” (1972), uno dei suoi film più famosi, e per “Quell’oscuro oggetto del desiderio” (1977). È anche autore di “Obra literaria”, una raccolta di scritti letterari, e nel 1981 scrive la sua autobiografia che verrà pubblicata dopo la sua morte sopraggiunta due anni dopo.
21 febbraio
PRIMO PIANO
Siria: “Situazione oltre l’immaginazione.”
La sconfitta militare del sedicente Stato islamico non ha messo fine alla guerra in Siria, cominciata prima dell’avvento dell’Isis, nel 2013, e destinata a continuare a lungo, mentre le cellule jihadiste si riorganizzano in clandestinità nelle aree “liberate”, controllate da milizie siriane e straniere. Nella Siria si combattono due conflitti principali: uno a ovest, dove la Russia, l’Iran, la Turchia e la Giordania si stanno spartendo i territori che vanno dall’estremo sud, al confine col regno hascemita, all’estremo nord, alla frontiera turca, e uno a est, lungo la valle dell’Eufrate, nella parte più ricca di fonti energetiche, dove gli Stati Uniti sostengono il Pkk curdo per arginare l’avanzata russo-iraniana verso l’Iraq. Ieri, un mese esatto dopo l’inizio dell’offensiva turca su Afrin, nel nord della Siria, milizie fedeli al regime di Damasco sono entrate in azione per cercare di dare man forte alle unità curde, innalzando al massimo il livello di tensione tra Ankara e Damasco. L’artiglieria turca ha immediatamente risposto e, secondo l’agenzia turca Anadolu, ha costretto le milizie filo-Assad a ritirarsi di una decina di chilometri. Intanto anche a Ghouta, considerata l’ultima roccaforte nelle mani dei ribelli, i raid aerei non si fermano ed è salito a 296 il numero dei morti, tra cui 71 bambini e numerose donne. Il bilancio delle vittime degli attacchi governativi siriani sulla regione a est di Damasco, assediata dalle truppe lealiste e controllata dai gruppi armati delle opposizioni, si aggrava di ora in ora. Per le Nazioni Unite “non ci sono più parole” per esprimere lo sdegno dinanzi alle uccisioni e alle sofferenze dei bambini nella Ghouta orientale. “Nessuna parola renderà giustizia ai bambini uccisi, alle loro madri, ai loro padri e ai loro cari”, afferma una dichiarazione diffusa da Geert Cappelaere, direttore regionale di Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa. Il conflitto è purtroppo lotano da una soluzione: il presidente turco Erdogan continua a usare toni aggressivi, promettendo che l’offensiva delle sue truppe non si fermerà se non dopo aver raggiuto il suo risultato, cioè spazzar via ogni minaccia “terrorista”, includendo in questa categoria sia i jihadisti del sedicente Stato Islamico sia i miliziani curdi delle Ypg, le unità di protezione popolare che Ankara considera vicine al Pkk fuorilegge; neanche Bashar Assad, rientrato nei giochi grazie al sostegno russo, vuole fare un passo indietro, accettando che siano i turchi a operare con tank e truppe di terra dentro i confini siriani. Alla fine, sarà nelle sale del Cremlino che si cercherà una via d’uscita: Vladimir Putin è un alleato di ferro di Assad, ma ha comunque anche rinsaldato l’amicizia con Erdogan, quindi è nelle condizioni di mediare per evitare uno scontro diretto. Il governo tedesco ha condannato i drammatici sviluppi del conflitto siriano e gli attacchi del regime di Assad; “Ci chiediamo dove siano Russia e Cina, senza il supporto dei quali oggi il regime militare di Assad non sarebbe dove si trova”, ha detto il portavoce Steffen Seibert rivolgendo poi un appello al presidente siriano Assad, perché fermi subito la violenza, e ai suoi sostenitori, perché esercitino la loro influenza su Damasco. Intanto la guerra continua e la situazione nella regione della Ghuta orientale va “oltre l’immaginazione”, come ha detto alla Bbc, alla luce degli ultimi tre giorni di bombardamenti da parte delle forze governative, il coordinatore umanitario regionale delle Nazioni Unite, Panos Moumtzis.
DALLA STORIA
Malcom X, il leader controverso.
Dalla metà degli anni ’50 si sviluppa negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili dei neri, sotto la guida del reverendo Martin Luther King. Al fianco di questo, ispirato ai principi della non violenza, crescono movimenti e leader più radicali, che non si accontentano di ottenere diritti formali, perché ritengono che il problema sostanziale dei neri sia la povertà endemica e la marginalità sociale. Il più importante tra questi è senza dubbio Malcom X. Giovane brillante dall’infanzia drammatica, figlio di un pastore battista, probabilmente assassinato dai bianchi, nei primi anni ’50, Malcom X aveva aderito alla setta “Nation of Islam”, di Elijad Muhammad che auspicava la creazione nera separata dal resto degli Stati Uniti. È allora che rinuncia al suo cognome (Little) e assume la X, a simboleggiare il rifiuto del “nome da schiavo”. In opposizione al reverendo King che esortava alla non violenza, Malcom X riteneva prioritario risvegliare, nella popolazione afroamericana, l’orgoglio nero, sistematicamente e brutalmente demolito, per oltre tre secoli, dalla società bianca. Tale sentimento avrebbe irrobustito, nei neri, lo spirito di rivolta nella rivendicazione dei diritti civili e della parità coi bianchi. “Con la rivoluzione e con ogni mezzo, se necessario”, aveva lui stesso incitato nei comizi. “Straordinario oratore, Malcom X divenne lo schermo sul quale milioni di neri proiettarono le loro speranze”. Nel 1963 il carismatico leader si allontana dal gruppo “Nation of Islam”, criticando, da radicale qual era, anche la marcia su Washington e dichiarando, provocatoriamente, che Kennedy si era meritato di essere assassinato. A sua volta, il 21 febbraio 1965 all’età di trentanove anni, viene freddato mentre teneva un comizio nella Audubon Ballroom di Harlem. Quel 21 febbraio del 1965, nel giorno di una morte violenta che lui stesso aveva prevista e annunciata, Malcom X si portò nella tomba tanti segreti: a partire dall’identità dei suoi assassini e dei mandanti. “So troppe cose” diceva, “so tutto. So dove si seppelliscono i cadaveri. So quali rapporti segreti esistono tra Muhammad e il Ku-Klux-Klan, tra Muhammad e i nazisti di George Lincoln Rockwell. Muhammad farà di tutto per togliermi di mezzo”. Quando Elijad Muhammad apprese dell’uccisione di colui che era stato il suo discepolo prediletto, il “Messaggero di Allah”, si affrettò a dichiarare di essere estraneo al delitto, sottolineando che i suoi musulmani sono fautori della non violenza. Nondimeno i suoi seguaci manifestarono la loro gioia persino sui marciapiedi di Harlem”. Oltre 1 milione e mezzo di persone partecipò ai funerali a Harlem, il 27 febbraio.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Margarethe von Trotta nasce a Berlino, il 21 febbraio 1942. Esponente del nuovo cinema tedesco, inizia la carriera a Parigi nel 1960 come attrice per Rainer Fassbinder e per Volker Schlöndorff cominciando a collaborare alla regia di vari cortometraggi cinematografici. Il debutto alla regia risale al 1975, quando presenta “Il caso Katharina Blum”, tratto da un romanzo di Heinrich Böll. Il suo è un cinema politicamente impegnato, soprattutto agli esordi; con “Anni di piombo”, del 1981, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, si aggiudica il “Leone d’Oro”, film che valse a proiettarla tra i registi di culto. Famosa per il suo utilizzo di personaggi femminili di grande spessore si sofferma, soprattutto, attraverso l’analisi delle loro motivazioni psicologiche profonde stabilendo un rapporto preferenziale con le sue attrici (in particolare Jutta Lampe e Barbara Sukova). Quest’ultima interpreta, nel 1985, “Rosa Luxemburg”, film biografico attento anche alla dimensione personale della rivoluzionaria spartachista. Più tardi, nel 2012 la Sukova sarà Hanna Arendt, nell’omonimo film che ha come soggetto il processo del nazista Adolf Eichmann, a Israele dove la filosofa venne inviata dal New York Times, per seguirne le fasi. Numerosi altri film l’hanno consegnata tra i più grandi registi degli ultimi decenni. Dal 2017 la regista è presidente del Bif&st-Bari International Film Festival, ideato e diretto da Felice Laudadio.
20 febbraio
PRIMO PIANO
Cresce anche in Italia il fenomeno delle baby gang.
Assistiamo purtroppo sempre più spesso ad episodi di violenza, che vedono come protagonisti ragazzini che aggrediscono una persona, scelta a caso, ai loro occhi più debole e indifesa (l’anziano, il barbone, l’extracomunitario, ecc.). L’ultimo episodio risale al 16 febbraio scorso ma è emerso ieri, dopo la diffusione sul web delle immagini, poi rimosse dalla polizia. Cinque ragazzini, tutti minorenni, hanno aggredito un anziano per derubarlo, a Casalguidi, nel comune di Serravalle Pistoiese, e uno di loro ha filmato la sequenza e l’ha postata su Facebook. Il video è agghiacciante: il gruppo di adolescenti, dopo aver avvistato l’anziano, che è claudicante e cammina con l’aiuto di un bastone, ne preparano “l’aggressione tra risa e schiamazzi”, come rileva la questura. In particolare uno dei ragazzi gli va incontro e poi gli strappa di mano il bastone, facendolo così cadere a terra. All’identificazione dei giovani, a cui la polizia contesta il tentato furto con strappo, la squadra mobile è arrivata nella tarda serata di ieri, dopo essere venuta a conoscenza del video, postato su Facebook. Ai cinque la polizia è risalita anche consultando persone che avevano partecipato alle chat in rete dopo la diffusione del video. La squadra mobile ha sequestrato i telefoni cellulari in uso a tre degli indagati e alcuni capi di abbigliamento. Uno dei ragazzini individuati ha meno di 14 anni, quindi non è imputabile, gli altri hanno tra i 16 e i 14 anni. La vicenda è al vaglio della procura dei minori di Firenze. Gli studiosi s’interrogano sulle cause di tali comportamenti e di tanta aggressività, che a volte dà luogo a reazioni violente anche nei confronti di compagni e professori, come emerge dagli ultimi episodi di cronaca, e in genere ne identificano i fattori scatenanti nella vita familiare, nella mancanza di valori morali e di un orientamento socio-educativo.
DALLA STORIA
Il Metropolitan Museum di New York: compendio dell’arte mondiale.
(Inaugurazione del Metropolitan Museum, 20 febbraio 1872)
Quello che è oggi uno dei maggiori musei del mondo, poco più di un secolo fa non esisteva. Mentre le grandi istituzioni europee si fondarono, infatti, quasi sempre su collezioni assemblate nei secoli dai regnanti, come è il caso del Louvre, degli Uffizi, del Prado, il più importante museo americano venne creato dal nulla alla fine del XIX secolo. Nel 1866, un influente avvocato e uomo di cultura, John Jay, durante un pranzo, lanciò la proposta di fondare a New York “un’istituzione nazionale e una galleria d’arte”. All’incontro, che si svolse in un ristorante di Parigi, erano presenti uomini d’affari ed esponenti del governo, riunitisi per celebrare la ricorrenza del 4 luglio. Nel novembre di tre anno dopo, raccogliendo le sollecitazioni di un comitato nato per sostenere l’idea di Jay, la Union League Club, un’autorevole associazione di finanzieri, letterati, artisti e filantropi, stese un programma per il museo e selezionò un collegio di ventisette uomini d’affari e di cultura, che avrebbe dovuto presiedere la nascente istituzione. Il Metropolitan Museum venne così costituito ufficialmente all’inizio del 1870. Nonostante consistesse soltanto in un’entità virtuale, senza sede e senza alcun oggetto da mostrare al pubblico, la sua finalità apparve subito chiara “viene fondato nella città di New York per istruire e mantenere nella suddetta città un museo e biblioteche d’arte, per incoraggiare e sviluppare lo studio delle Belle Arti e la loro applicazione nell’industria, per stimolare la conoscenza di soggetti correlati e per fornire quindi di uno strumento di istruzione popolare e di ricreazione”. Primo importante acquisto furono 174 dipinti di maestri europei del Seicento e del Settecento; nel frattempo cominciava la costruzione dell’edificio in Central Park, destinato a subire continui ampliamenti per la crescita costante delle collezioni. Nel 1901 un lascito di quasi cinque milioni di dollari permise al museo di diventare la più importante istituzione culturale americana. Il Metropolitan possiede oggi oltre tre milioni di opere d’arte, capolavori non solo pittorici di ogni epoca, stile e cultura. Attraverso le numerose “period rooms” è inoltre possibile compiere una vera e propria passeggiata nella storia, dall’egizia Tomba di Perneb allo Studiolo di Gubbio rinascimentale; dai chiostri medievali alle dimore dei primi coloni americani, fino agli ambienti essenziali ideati da Frank Lloyd Wright. L’infinita varietà delle collezioni comprende, inoltre, le arti africane, oceaniche e islamiche, la fotografia, i costumi, le armi e gli strumenti musicali di ogni epoca e provenienza, senza contare le mostre temporanee. Il progetto di raccogliere nel Metropolitan (più sbrigativamente chiamato anche Met) opere di ogni epoca e cultura, per offrire ai visitatori un panorama dello sviluppo artistico dell’umanità, è stato splendidamente raggiunto; la sua visita vale di per sé il viaggio!
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Oggi celebriamo un genio della musica che la cultura giovanile, a partire dalla fine degli anni ’80, considera il portavoce di una generazione in crisi così come, molti anni prima Bob Dylan seppe raccontare la voglia di cambiamento della sua generazione e la sua contestazione. Parliamo di Kurt Cobain, leader “maledetto” del gruppo Nirvana. Figlio di un proletario di Seattle, Cobain aveva sulle spalle un’infanzia infelice e travagliata. Soffrì molto a causa del divorzio dei genitori, un trauma che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. “Per qualche ragione me ne vergognavo. Mi vergognavo dei miei genitori. Non riuscivo più a guardare in faccia alcuni dei miei compagni di scuola perché desideravo disperatamente avere una familgia normale. Mamma, papà. Volevo quel tipo di sicurezza e lo rinfacciai ai miei genitori per parecchi anni”. Da molti anni drogato, Cobain era sposato con Courtney Love, ex leader del gruppo “Hole”, anche lei eroinomane. La coppia aveva avuto una bambina, Frances Bean. Nonostante la sua breve vita, Cobain è stato il miglior artista degli anni Novanta. Insieme agli altri membri dei Nirvana, Kris Novoselic e Dave Grohl, è stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2014, il primo anno in cui erano eleggibili. L’8 aprile 1994 venne trovato morto nella sua casa di Seattle, ucciso da un colpo di fucile, all’età di 27 anni. Entrava così nel famigerato “Club dei ventisette” insieme a Jimy Hendrix (anch’egli di Seattle), Janis Joplin, Jim Morrison, Brian Jones. Benché si trattasse di un suicidio, negli anni seguenti si è sviluppato un acceso dibattito sulle cause della sua morte. L’idolo della musica grunge lasciava nello sconforto totale milioni di giovani ad interrogarsi sulle ragioni di quella sua ostinata voglia di abbandonare questo sporco mondo. Il termine grunge è, infatti, ritenuto una derivazione dell’aggettivo grungy, nato attorno al 1965 come slang di dirty o filthy (sporco, sudicio), un concetto che lui ha saputo trasferire in una musica al ritmo di basso – chitarra – batteria; una sorta di predilizione per i suoni distorti e rumorosi che per primi risaltano, anche da un ascolto superficiale e dalla sua voce ruvida e bellissima. “Guardavo Kurt e pensavo: mio Dio, con la sua musica sarebbe capace di dividere in due un atomo: i Nirvana hanno alzato la temperatura per tutti: il pop preconfezionato non è mai sembrato così freddo quando sono arrivati loro. Sono riusciti a far sembrare tutto il resto ridicolo”. Questo, il commento di Bobo, degli U2 nel 51° anniversario della nascita dell’“angelo biondo”.
19 febbraio
PRIMO PIANO
Usa: creato embrione ibrido pecora-uomo in vista di futuri trapianti di organi.
In Usa è stato creato per la prima volta in laboratorio un embrione ibrido uomo-pecora, in cui una cellula su 10.000 è umana. L’annuncio è stato dato ad Austin, in Texas, dagli scienziati dell’Università della California, che un anno fa avevano realizzato un embrione di uomo e maiale, dove le cellule umane erano una su 100.000. L’ibrido è stato ottenuto introducendo cellule staminali adulte “riprogrammate” nell’embrione di pecora, che poi è stato lasciato crescere per 28 giorni, il massimo per cui l’esperimento aveva ottenuto l’autorizzazione. Nel periodo le cellule umane si sono riprodotte, spiega Pablo Ross, uno degli autori, anche se per arrivare alla possibilità di avere un intero organo serve un rapporto di uno a 100. Aggiunge poi: “Anche se c’è molto da lavorare, gli organi prodotti in queste chimere interspecie potrebbero un giorno costituire un modo per soddisfare la domanda di organi, trapiantando ad esempio un pancreas ibridizzato in un paziente”. L’uso delle pecore, ha spiegato ancora il ricercatore al Guardian, ha molti vantaggi rispetto al maiale, a partire dal fatto che bastano quattro embrioni e non cinquanta per far iniziare una gravidanza. Anche questo animale inoltre ha organi di dimensioni simili a quelli umani. L’esperimento del gruppo di ricerca guidato dal giapponese Hiro Nakauchi, che da anni conduce studi sulla medicina rigenerativa e le cellule staminali, punta ad ottenere nell’animale un pancreas efficiente che garantisca al paziente diabetico, dal quale provengono le cellule per la creazione dell’ibrido, la soluzione della sua patologia. La sperimentazione, in cui è stato creato un embrione ibrido pecora-uomo, oltre a sollevare dubbi etici, non ha applicazioni a breve termine, in quanto c’è da superare il problema del rigetto e dei possibili virus. Quel che intanto pare certo è che l’ibridazione di ovini con patrimonio genetico umano dà origine a embrioni di una nuova specie inesistente in natura e dalle caratteristiche ignote, lo stesso fatto che si sia limitato lo sviluppo a 28 giorni, immaginando un’estensione a 70 per ottenere qualche risultato concreto, è il segnale che non si sa cosa potrebbe succedere dopo questo limite di tempo.
DALLA STORIA
I “Tagli” iconici e dirompenti di Lucio Fontana.
(Concetto Spaziale. Attese, 1967. Idropittura su tela. Museum Frieder Burda, Baden-Baden)
“Il buco è l’inizio di una scultura nello spazio. I miei non sono quadri, sono concetti d’arte”. (Lucio Fontana).
Per i pittori e gli scultori, come più volte commentato in questa rubrica, ciò che più conta nella loro arte è la forma, il superamento dei risultati ottenuti, fino a quel momento. La loro arte è pura ricerca espressiva in cui l’artista, attraverso un’ispirazione sente il bisogno di trasferire quell’idea, quel pensiero, che appartengono a una dimensione immateriale, in una rappresentazione formale, cioè materiale. L’arte è dunque un linguaggio e l’artista il suo interprete. Egli è, se così si può dire, lo strumento che scrive quel linguaggio nelle sue declinazioni evolutive. Ai tempi del Masaccio, nel 1400, la volta del suo famoso affresco “La Santissima Trinità, la Vergine, san Giovanni e donatori” sarà sembrata una cosa sorprendente, un vero prodigio per i contemporanei del grande pittore convinti che quella volta doveva essere, necessariamente, un buco vero dato che all’epoca, non si conosceva ancora la prospettiva. Esempi simili che hanno regolarmente, anzi quasi sempre, scandalizzato per la loro avanguardia o diversità rispetto al pensiero comune del tempo, sono tantissimi. Tra questi, nel Novecento, si può annoverare Lucio Fontana fondatore, nel 1946, del movimento pittorico dell’arte spaziale. Al passo coi tempi moderni Fontana, nel cosiddetto “Manifesto Blanco” iniziò a delineare l’urgenza di inserire come argomenti di studio le dimensioni del tempo e dello spazio e la loro sperimentazione su tela. I pittori spazialisti perciò non avevano come priorità l’immagine pittorica in sé e non desideravano semplicemente definire una corrente di stile ma, al contrario, si proponevano di affrontare, in un quadro o in una scultura, il problema della percezione onnicomprensiva dello Spazio inteso come summa delle categorie assolute di Tempo, Direzione, Suono, Luce. La presa di coscienza dell’esistenza di forze naturali nascoste come particelle, raggi, elettroni “premeva con forza incontrollabile sulla “vecchia” superficie della tela”. Tali forze si liberarono, in modo definitivo, grazie ai buchi e ai tagli che Fontana compì sulla superficie del quadro. Egli, attraverso questa nuova forma espressiva, fece il passo finale di distacco dalla “vecchia” arte verso la nuova arte spaziale creando effettivamente un “continuum” tra Spazio (tela tagliata) e Tempo (il gesto istantaneo del Taglio).
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Massimo Troisi: il “Pulcinella senza maschera”.
(Troisi sul set del suo ultimo film Il Postino)
Massimo Troisi nella sua breve vita è stato il principale esponente della nuova comicità napoletana per la sua capacità sia verbale sia mimica di unire ruoli comici e riflessivi, potremmo scomodare Pirandello e parlare di “sentimento del contrario”, di quella comicità che porta a riflettere su casi e situazioni umane, affrontati con ironia e autoironia. L’attore, soprannominato “il comico dei sentimenti”, nato a San Giorgio a Cremano il 19 febbraio 1953, diceva di sé con autoironia: “Se uno nasce a San Giorgio a Cremano (alle porte di Napoli ma nel cuore di una periferia disastrata, ancora campagna, non ancora città) e cresce in una casa piccola e sovraffollata (cinque fratelli, due genitori, due nonni e cinque nipoti), o si chiama Massimo Troisi o si rassegna all’anonimato fin dall’infanzia).” Istintivo erede di Eduardo e di una napoletanità irridente e dolente, con il gruppo “I Saraceni” e poi con gli amici de “La Smorfia”, Lello Arena ed Enzo Decaro, l’attore portò la sua lingua, un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, “l’unica lingua che so parlare, a dire il vero”, come era solito dire, sulle reti televisive nazionali e poi nel cinema. Il successo del trio fu inatteso e immediato e consentì al giovane Troisi di esordire nel cinema con “Ricomincio da tre” (1981), il film che decretò il suo trionfo come attore e come regista. Seguì il clamoroso successo di “Non ci resta che piangere” (1984), dove, in coppia con Benigni, mostra tutta la sua capacità inventiva in un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea. Dall’inizio degli anni ottanta si dedicò esclusivamente al cinema interpretando dodici film e dirigendone quattro. Adoperò uno stile inconfondibile, attento alla società italiana ed alla Napoli successiva al terremoto del 1980, alle nuove ideologie, al femminismo e all’affermazione della soggettività. Con lui nacque la nuova tipologia napoletana dell’ antieroe, un personaggio che riflette tuttora i dubbi e le preoccupazioni delle nuove generazioni. Malato di cuore sin dall’infanzia, morì il 4 giugno 1994 all’Infernetto (Roma) per un attacco cardiaco, conseguente a febbri reumatiche, due giorni prima di terminare il suo ultimo film, “Il postino”, che, ispiratogli dal libro “Il postino di Neruda” dello scrittore cileno Antonio Skármeta, dopo la sua morte, nel 1996, ottenne quattro nominations e l’Oscar per la colonna sonora di Luis Bacalov. L’attore partenopeo disse di amare particolarmente questa pellicola, al punto di considerarla parte della sua stessa vita.
18 febbraio
PRIMO PIANO
Capodanno cinese: il 2018 è l’anno del cane.
In questo mese si celebra il Capodanno cinese, che dà l’avvio a un periodo di festività di 15 giorni e si chiude con la festa delle lanterne, quando le famiglie si riuniscono, cenano e pregano insieme. Il Capodanno cinese, il nome reale è festa di primavera, non ha una data fissa: cade in un periodo compreso tra il 21 gennaio e il 20 febbraio, in base alla seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno. Quest’anno è stato il 16 febbraio, giorno in cui si è entrati nell’anno del cane. Il colore rosso è considerato di buon auspicio per l’anno nuovo e perciò è abitudine comune decorare le case con fiocchi e nastri di questo colore e con addobbi tipici appesi alle porte, dipinti su carta e tela secondo le arti calligrafiche, piccoli quadri o nodi tradizionali di stoffa rossa. Tipica è l’esposizione di particolari fiori: boccioli di pruno asiatico, che simboleggiano la fortuna, narciso, che simboleggia la prosperità, crisantemo, che simboleggia la longevità, girasole, benaugurante per il nuovo anno, bambù e fiori e frutti di fortunella. È pure tradizione scambiarsi buste rosse con un dono in denaro. Il numero delle monete deve essere pari, perché ai funerali si danno somme dispari, le monete non devono essere mai quattro e multipli perché malauguranti, l’8 è considerato di buon auspicio. Si crede che il denaro scacci gli spiriti maligni. Pietanze tipiche, pesce e pollo, vengono sempre consumate per motivi scaramantici e contengono spesso nel nome significati di buon auspicio; importantissima è la cena della vigilia, simile per la ricchezza delle portate alle nostre delle vigilie di Natale e Capodanno. Secondo la mitologia cinese, l’origine del Capodanno viene fatta risalire a un’antica leggenda: nei tempi antichi viveva in Cina un mostro chiamato Nian, che era solito uscire dalla sua tana una volta ogni 12 mesi per mangiare esseri umani; l’unico modo per sfuggire a questo tributo di sangue era spaventare il Nian, terrorizzato dai rumori forti e dal colore rosso. Per questo motivo ogni 12 mesi si è soliti festeggiare l’anno nuovo con canti, strepiti, fuochi d’artificio e con l’uso del colore rosso. Un’eco di questa leggenda potrebbe essere rimasta nella rituale danza del leone, praticata durante le feste, quando si sfila per le strade inseguendo una maschera di leone, che rappresenterebbe il Nian.
17 febbraio
PRIMO PIANO
Il primo fotogramma di bambini della preistoria.
(fonte: Matthew Bennett) © ANSA/Ansa
Sono rimaste scolpite nel fango di uno stagno, accanto ai resti di un ippopotamo, le impronte di un gruppo di bambini che 700.000 anni fa avevano accompagnato i genitori in una battuta di caccia. La scoperta si deve ai ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, coordinati da Margherita Mussi ed è stata pubblicata sulla rivista Scientific Reports. Il più piccolo ancora non camminava, ma era in piedi e si dondolava. Gli altri bambini di due e tre anni si muovevano intorno ai genitori, impegnati nel macellare la carcassa di un ippopotamo con schegge in pietra. Il primo autore dell’articolo, Flavio Altamura, ha detto: “Le loro tracce, scoperte in Etiopia, sono come una foto di vita preistorica”. “Per la prima volta – ha osservato Mussi – ci sono impronte di bambini molto piccoli, che indicano la loro presenza costante anche quando gli adulti scheggiavano e macellavano”. Infatti “gli adulti del gruppo stavano eseguendo tutte le normali attività quotidiane e stavano fabbricando anche gli strumenti di pietra per macellare le prede che avevano cacciato”, ha detto Matthew Bennett, dell’Università britannica di Bournemouth. È stato possibile ricostruire tutta la scena della famiglia, impegnata nelle sue attività quotidiane, perché l’intero sito di Melka Kunture è disseminato di scaglie in pietra e schegge già pronte, oltre che dei resti dell’ippopotamo. Inoltre tutte queste tracce si sono conservate intatte, arrivando fino a noi, perché erano state ricoperte dalle ceneri di un vulcano poco distante.
16 febbraio
PRIMO PIANO
Seconda medaglia d’oro per l’Italia alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang.
Michela Moioli ha vinto l’oro nella gara femminile di snowboard cross. L’atleta bergamasca, 22 anni, ha fatto segnare il secondo miglior tempo nelle qualificazioni e ha superato senza problemi i quarti di finale e la semifinale, vincendo davanti alla francese Julia Pereira de Sousa Mabileau e alla ceca Eva Samkova. In finale, dopo una partenza complicata, la campionessa bergamasca ha preso il comando nella seconda parte della gara, tagliando il traguardo per prima. In questa edizione dei Giochi, per l’Italia si tratta della seconda medaglia d’oro, dopo quella di Arianna Fontana nei 500 metri di short track. Moioli, che in carriera vanta due bronzi ai Mondiali di Kreischberg nel 2015 e in Sierra Nevada nel 2017, in questa stagione ha conquistato 4 vittorie in Coppa del Mondo, a Montafon, Cervinia e due a Feldberg. Michela Moioli sorride e si commuove parlando dello storico oro nello snowboardcross conquistato al Phoenix snow park ai Giochi di Pyeongchang: “Sono senza parole. È il più bel giorno della mia vita. Se questo è un sogno, non svegliatemi”. La bergamasca è la prima azzurra a conquistare l’oro olimpico nello snoawboard. “Quando ho tagliato la linea del traguardo ho iniziato a piangere. Sono felicissima e voglio ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato in questo lungo viaggio dalle ultime Olimpiadi”, ha detto, riferendosi ai Giochi di Sochi, dove vide sfumare il sogno di una medaglia per un grave infortunio al ginocchio. L’atleta, infatti, quattro anni fa alle Olimpiadi di Sochi, si era infortunata in seguito a una caduta mentre era in lotta per il terzo posto proprio nell’atto conclusivo, procurandosi la rottura del legamento crociato del ginocchio; poi, nel corso di questi quattro anni, la Moioli si è ripresa e ha vinto la coppa del mondo di snowboard cross nel 2015/16, guadagnando un secondo posto nella stagione successiva. Moioli ha mosso i suoi primi passi sulla neve a Foppolo ed è passata alla tavola su spinta dei propri genitori: la madre ha una azienda di parquet, il papà lavora nella comunità montana. I suoi idoli sono lo snowboarder statunitense Nate Holland e lo sciatore azzurro Christof Innerhofer.
DALLA STORIA
Navigatori solitari.
Il VO 70 Maserati con cui Giovanni Soldini ha stabilito tre nuovi record fra la fine del 2013 e l’inizio del 2014: sulla tratta Cadice – San Salvador (3.884 miglia), sulla cosiddetta “Rotta dell’Oro”, la rotta che collega New York a San Francisco (13.225 miglia) e della regata Cap2Rio Yacht Race, da Cape Town a Rio de Janeiro (3.435 miglia)
“Non mollerò finché non l’avrò trovata” aveva detto Giovanni Soldini mentre si cimentava nell’impresa “difficilissima” di raggiungere l’imbarcazione, da molte ore alla deriva, della navigatrice francese Isabelle Autissier, dove si trovava dopo il ribaltamento della sua barca “Prb” durante la terza tappa della Around Alone. Prima che la barca si ribaltasse, Isabelle era al comando della classifica generale, seguita dal connazionale Marc Thiercelin e da Soldini. Appena saputo dell’incidente, il navigatore solitario aveva abbandonato la gara, ma aveva vinto la corsa contro il tempo riuscendo, quel fortunato 16 febbraio 1999, a salvare la sua amica e concorrente, rimasta in balia delle onde per 24 ore. “Salve, qui Fila. Isa è a bordo con me. Stiamo tornando in gara”. Almeno altre due imbarcazioni avevano cambiato rotta per tentare di salvare la francese, mentre le autorità marittime di Nuova Zelanda e Cile stavano predisponendo a loro volta squadre di ricerca: però le sedi di soccorso a terra più vicine distavano quasi duemila chilometri e solo Soldini, che aveva navigato tutta la notte, lottando con il tempo e le onde, alte fino a dodici metri, era in grado di raggiungere la Autissier. “Ho fatto tutta la notte di bolina, con vento a 45 nodi. Sono fradicio e gelato. Ora sono a 18 miglia dall’ultimo segnale Argos trasmesso dalla barca di Isabelle. C’è poca visibilità. Ci vorrà molta fortuna”. Aveva scritto per posta elettronica alla sua base di Milano. I solitari, soprattutto quelli che affrontano il giro del mondo senza scalo e senza assistenza esterna, sono persone fuori del comune con una predisposizione fisica e mentale non comune, oltre ad essere dei marinai preparati anche tecnologicamente. Gli ampi spazi senza continenti consentono ai sistemi depressionari di evolversi con una facilità tale da impedire, a chi naviga controvento, di effettuare le manovre opportune per evitarle. Quando ci si imbatte in tale frangente, l’imbarcazione è sottoposta costantemente a sollecitazioni, anche forti, che si scaricano e si diramano per tutta la struttura: scafo, albero, timone e chiglia subiscono per lunghissimi periodi la violenza degli elementi della natura. Infine, e questo è uno degli elementi più importanti, è da tener presente la “tenuta” del navigatore solitario. Lo stress psicologico e fisico in un giro del mondo con condizioni meteo abbastanza “favorevoli” è già elevato, nel caso del periplo “all’inverso”, lo skipper naviga per la maggior parte del tempo in bolina, con il vento, sempre forte in faccia (somma del vento reale e del vento creato dal moto dell’imbarcazione), che divora calorie ed energie, e, alle basse temperature, rende la densità dell’aria più grande. Soldini a proposito delle condizioni meteo che un solitario affronta, ha scritto “La mia tempesta l’ho vissuta al largo della Nuova Zelanda durante la regata intorno al mondo per solitari. L’avevo vista sulle carte meteo, ma non sapevo quando esattamente sarebbe arrivata e neppure quale intensità avrebbe avuto. Perché c’è una bella differenza fra 50 e 80 nodi di vento. Mi preparai al peggio, riducendo le vele e mettendomi al riparo dentro la cabina. La barca doveva andare per forza in bolina ed era sballottata da onde enormi. A un certo momento la forza del vento aumentò e fui costretto a salire in coperta e mettermi al secco di vele. In quella condizione occorre legarsi saldamente, perché basta un niente per finire in mare. Imbragato al meglio, strisciai in coperta reggendomi dove potevo e cominciai ad ammainare tutte le vele, col mare che frangeva sulla barca facendo un boato infernale. Poi, me ne tornai in cabina, dove faceva molto freddo (ma sempre meno che all’aperto). Furono 36 ore terribili, passate nel ventre buio o legato al timone di un guscio galleggiante, sballottato e rovesciato da una forza infinitamente superiore a quella umana, provando emozioni contraddittorie. Da una parte la tensione, fors’anche la paura, per i muri d’acqua, il rombo di vento, le nuvole incombenti e nere come la pece. D’altra parte l’assuefazione, l’abitudine a ripetere i gesti e a imporsi la calma; un autocontrollo dettato dall’esperienza e dalla certezza di dover contare sulle proprie forze. Mentre strisciavo in coperta per andare ad ammirare le vele, ad esempio, la mia unica preoccupazione era fare una cosa alla volta e mentre la facevo riflettevo già sulla mossa successiva. Un piccolo sbaglio o un imprevisto potevano poter dire la fine della barca e di chi era a bordo. In mare come nella vita, non si finisce mai d’imparare: contano solo le esperienze che si accumulano e che portano nuove conoscenze e nuove soluzioni. La tempesta è il più difficile degli esami e non lascia appelli”.
Fonte: “La vela e le competizioni sportive. Di Stéphan Jules Buchet, tratto da “Civiltà del Mare. La Grande Storia della Marineria Italiana”. Editore Progetto Editoriale editions.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Valentino Rossi.
Valentino Rossi, nove volte campione del mondo di motococlismo, compie oggi 39 anni, essendo nato ad Urbino il 16 febbraio 1979, ed è già in sella alla sua Yamaha sul circuito di Burinam, dove si svolgerà il Gran Premio di Thailandia, in programma per il 7 ottobre prossimo. Fin da bambino usa sempre il numero 46, anche nelle annate in cui ha la possibilità di sfoggiare l’1 di campione in carica; è lo stesso numero utilizzato precedentemente nel Motomondiale dal padre e successivamente da un pilota giapponese di cui era molto appassionato. A Tavullia, dove vive, Valentino, grazie al padre Graziano che corse nel motomondiale negli anni ’70 e ’80, prende confidenza con i motori fin da piccolo e mostra subito il suo talento. Comincia con i go kart prendendo la licenza con un anno di anticipo, a soli 9 anni, ma passa presto alle più economiche minimoto e prende la prima licenza come pilota del Moto Club Cattolica. A 13 anni prova per la prima volta la Aprilia Futura 125 ed esordisce nel campionato Sport Production nel 1993 in sella alla Cagiva Mito 125, gestita da Claudio Lusuardi. Dall’esordio in classe 125 nel 1996, con la prima vittoria a Brno, la sua carriera è stata tutta costellata di successi. Nel 1997 si laurea campione del mondo in sella alla Aprilia RS 125 con 11 vittorie, un secondo posto ed un terzo posto. Immediato il passaggio alla 250, dove, dopo la prima stagione di rodaggio, si laurea campione del mondo con nove vittorie, due secondi posti e un terzo posto. Poi, nel 2001, il passaggio alla 500, con la Honda per la terza volta campione del mondo, infine nel 2012 il passaggio alla classe MotoGP, dove, a parte qualche momento di crisi, come nel 2010, quando, durante le prove al Mugello si procura una frattura scomposta di tibia e perone, in sella alla Yamaha e nel 2011 alla Ducati, si mostra campione indiscusso, entusiasnando i suoi fans, dando spettacolo e classificandosi quasi sempre al primo posto.
15 febbraio
PRIMO PIANO
Strage in un liceo della Florida.
Ieri, alle 14:30, poco prima dell’orario di uscita, un giovane armato fino ai denti, ha aperto il fuoco in Florida, in un liceo, la Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, circa 70 chilometri a nord di Miami, uccidendo 12 persone nella scuola e tre fuori dall’istituto, mentre altre 2 sono morte in ospedale e 15 sono rimaste ferite in modo grave. Il responsabile della strage è Nikolas Cruz, un ex studente di 19 anni, “difficile”, fanatico delle armi, già espulso dalla scuola per motivi disciplinari. Alcuni compagni hanno affermato che Nikolas veniva a scuola sempre armato, secondo una compagna di classe, Victoria Olvera, 17 anni, c’era stato un litigio con il nuovo fidanzato di una ex di Cruz. Il ragazzo aveva da poco perso la madre adottiva per una polmonite, mentre il padre era morto qualche anno fa per un attacco di cuore. Nikolas si era trasferito con il fratello Zachary da un amico di famiglia, ma non trovandosi bene, era poi andato a vivere presso un altro amico. Le persone che lo ospitavano sapevano che Nikolas possedeva un fucile AR-15 e gli avevano chiesto di tenerlo chiuso in un armadio. Gli studenti descrivono Cruz come un ragazzo che un tempo era come tutti gli altri, ma che “progressivamente era diventato sempre più strano”. Il giovane, fuggito dalla scuola dopo aver compiuto la strage, è stato catturato dalla polizia a circa tre chilometri di distanza e si è consegnato agli agenti senza opporre resistenza. Secondo quanto dichiarato dallo sceriffo, ha usato un fucile d’assalto semi-automatico Ar-15, indossava una maschera antigas, aveva fumogeni e ha fatto scattare l’allarme per far uscire gli studenti dalle classi. Quando è stato arrestato mostrava segni di difficoltà respiratoria ed è stato portato in ospedale per un controllo, ma poi è stato condotto alla centrale di polizia. L’aggressore, che sarebbe membro delle riserve dell’esercito degli Stati Uniti, arruolato nel programma di ‘training junior’, appare in vari post su Instagram con delle armi in mano tra cui pistole e coltelli. Gli investigatori parlano di immagini e frasi “inquietanti”, come alcune in cui prende in giro i musulmani. In quasi tutte le foto il giovane indossa una maglietta nera e una sciarpa che gli copre parte del viso per celarne l’identità. Secondo l’Everytown For Gun Safety, associazione che si batte per un maggior controllo sulla vendita delle armi da fuoco, sono 19 le scuole americane in cui dall’inizio dell’anno si è verificata una sparatoria. L’episodio più grave finora era stato quello del 23 gennaio scorso, quando uno studente di 15 anni, in un liceo del Kentucky, uccise due altri studenti ferendone altri 20. Trump: “nessuno dovrebbe sentirsi insicuro a scuola …”
DALLA STORIA
Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò.
120 anni fa nasceva Antonio De Curtis, in arte Totò. Il grandissimo attore, uno dei più grandi interpreti nella storia del teatro e del cinema italiani, non ha certo bisogno di presentazioni. I suoi film vengono trasmessi molto frequentemente in televisione, tale è il gradimento rimasto inalterato nell’arco di quattro generazioni. Anzi il tempo ne ha consolidato la grandezza grazie alla bravura di Totò, oggi, elevato a simbolo dello spettacolo comico in Italia o, come molti amano definirlo “principe della risata”. Totò si distinse anche fuori della recitazione, lasciando contributi come drammaturgo, poeta, paroliere, compositore, cantante. Oggi lo vogliamo ricordare attraverso una lettera che sua figlia Liliana gli scrisse in occasione del suo centesimo anniversario. La lettera venne pubblicata, nel 1998, dalla rivista epistolare “Lettere il mensile dell’Italia che scrive”.
Caro Papà,
Il 15 febbraio del 1898, cent’anni fa, nascevi e iniziavi la tua vita nel quartiere della Sanità, ricco soltanto di quel talento straordinario che avrebbe fatto di te un mito, con in più una dote che quel mito costituisce l’essenza e cioè una profonda umanità. Tanti auguri, caro papà, come se invece che a commemorarti, stessi organizzando una festa per il tuo compleanno, il centesimo soltanto per l’anagrafe, in quanto sei giovane, anzi giovanissimo. Basti pensare che il tuo linguaggio fa ormai parte della cultura italiana e che i tuoi film sono, oggi, oggetto di culto. Ma poiché ti sento sempre vicino, proviamo a immaginare che cosa farei se tu fossi davvero ancora con me. Ebbene, per incominciare, preparerei una torta gigantesca, con una sola candelina simbolica, visto che ti seccherebbe moltissimo essere considerato un centenario e poi penserei a offrirti tanti regali, prima di tutto la presenza dei nipoti e dei bisnipoti che ti adorano, anche se non tutti ti hanno conosciuto. Poi, a questa meravigliosa festa di compleanno, inviterei tutto il tuo popolo, le persone di ogni età che ti ricordano e ti vogliono bene. Per contenerle tutte, naturalmente, non basterebbe un castello e allora, papà, mio, anzi paparotto, come ti chiamavo da bambina, la organizzerei all’aperto, magari sulla spiaggia, davanti a quel mare da te tanto amato. Accenderei dei fuochi e farei suonare tante canzoni, in quel clima gioioso e sereno che ti era necessario per vivere. Certo, se dal luogo tanto lontano dove ti trovi puoi vedere i festeggiamenti che sulla terra si stanno progettando per tutto, il 1998, l’anno di Totò, sarai felice, ma nello stesso tempo un po’ sorpreso. Umile in ogni occasione, anche quando eri all’apice del successo, ripetevi che, essendo un attore, avresti tramandato ai posteri soltanto chiacchiere, a differenza di un falegname che, almeno, lascia, per usare le tue espressioni, una sedia, un tavolino, una manifestazione concreta del suo lavoro. Non immaginavi che, al contrario, la tua arte si sarebbe cristallizzata in una leggenda senza tempo, basata anche sulle tue qualità umane e quindi eterna. Caro papà, te lo dico non influenzata dall’amore filiale, ma semplicemente constatando l’affetto che ti dimostra la gente, al punto da lasciare migliaia di messaggi sulla tua tomba per testimoniarti un’ammirazione e una tenerezza commoventi. E per strano che possa sembrare, a osannarti, oggi ci sono anche i critici, gli intellettuali che quando eri vivo ti consideravano molto poco, definendoti con sufficienza un guitto. Acqua passata, papà, tanto che oggi, ammesso e non concesso che ne avessi avuto voglia, avresti potuto toglierti parecchi sassolini dalla scarpa. Ma lasciamo perdere … il tuo compleanno deve essere un’occasione di spensieratezza e di allegria che non lascia spazio a polemiche e a rimpianti. Non avrebbe senso, considerato il tuo grande trionfo di esser vivo, vivissimo stravivo a più di trent’anni dalla tua scomparsa. A questo punto, forse, dovrei elencarti tutti gli onori che ti verranno resi su questa terra per il tuo compleanno, per esempio un museo, a Napoli, sì, hai letto bene, proprio un museo, perché ormai sei patrimonio nazionale; ma preferisco che la mia lettera rimanga un dialogo intimo tra padre e figlia, destinato soltanto, in un ponte fatto d’amore per unire eccezionalmente l’aldiquà a l’Aldilà, a farti sapere ancora una volta quanto ti voglio bene, quanto ti rimpiango, in un vuoto che, però, ogni giorno, fortunatamente si colma della presenza ideale.
Ciao, paparotto, ancora auguri e non preoccuparti se gli anni che compi sono cento perché proprio non li dimostri.
Liliana.
IL PERSONAGGIO
Sir Ernst Shackleton fa parte, insieme a Amundsen e Scott, del gruppo di pionieri che nel primo ventennio del Novecento partecipò alla corsa verso il polo Sud e che ha fatto la storia dell’esplorazione antartica. Prima della spedizione dell’Endurance (1914-1917) Shackleton aveva affrontato già due volte il continente: nel 1902 quando, colpito dallo scorbuto, venne rimpatriato da Scott, e nel 1908 quando dovette arrendersi a sole centotrentacinque miglia dal polo. Anche dopo che Amundsen conquista il polo nel 1911, lui progetta un’impresa ancora più ampia: traversare il continente da una costa all’altra. La spedizione dell’Endurance, partita da Plymouth nell’agosto del 1914, praticamente allo scoppio della Grande Guerra, fallisce però quasi prima di iniziare. Appena raggiunto l’Antartide la nave resta imprigionata nello strato di ghiaccio dei mari. La nave rimane infatti bloccata nel pack del mare di Weddell nel 1915, finendo poi stritolata dai ghiacci polari. Ma è proprio a partire da questo sfortunato evento che Shackleton dà vita alla più grande e alla più disperata delle avventure antartiche: trarre in salvo i ventisette uomini che sono con lui. Nonostante le terribili vicissitudini, durate circa due anni, Ernst Shackleton riuscirà nell’eroica impresa e raggiungerà la fama proprio per il coraggio dimostrato e per essere riuscito a portare in salvo tutti i membri del suo equipaggio.
14 febbraio
PRIMO PIANO
Un po’ d’esprit de légèreté.
(Pablo Picasso, Il bacio, 1925)
Mentre i media fanno da cassa di risonanza ad atroci fatti di cronaca segnati da una violenza cieca ed assolutamente ingiustificabile, che vede spesso protagonisti anche dei minorenni, e la campagna elettorale è segnata da un’aggressività verbale sempre più rissosa, oggi, giorno di san Valentino, vogliamo uscire un po’ da questa cupa atmosfera e ricordare come l’amore sia il più forte antidoto contro l’odio e la brutalità. Questa giornata, dedicata agli innamorati già dai primi secoli del II millennio, come si può rilevare nel “Parlamento degli Uccelli” di Geoffrey Chaucer e nella scena V dell’atto IV dell’“Amleto” di Shakespeare, offre a coppie giovani e meno giovani, in molte parti del mondo, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, l’occasione di scambiarsi auguri, frasi gentili, fiori e cuori e viene festeggiata anche in Italia, in particolare a Terni, patria del vescovo da cui prende il nome, il quale, secondo alcune fonti, celebrò il matrimonio tra la cristiana Serapia, gravemente malata e il legionario romano pagano Sabino, giovani sposi che morirono insieme proprio mentre Valentino li benediceva. A chiudere il cerchio della tragedia sarebbe poi intervenuto il martirio del celebrante, considerato per questo patrono degli innamorati. Quest’anno l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha donato agli innamorati nel giorno della loro festa un cuore rosso: si tratta di Netrani, una piccola isola disabitata a forma di cuore, situata a circa 20 chilometri al largo della costa dello stato indiano del Karnataka, nel Mar Arabico, che per l’occasione l’Esa ha voluto fotografare dallo spazio. Una felice coincidenza: proprio oggi torna in Italia una statua acefala di Afrodite, la dea greca dell’amore, risalente al I secolo d.C., rubata nell’agosto del 2011 da un’aula dell’Università di Foggia e recuperata in Germania dai Carabinieri del comando per la tutela del patrimonio culturale.
DALLA STORIA
Le donne del sessantotto.
In occasione del 50° anniversario della contestazione giovanile del ‘68, moltissime sono le testimonianze che raccontano quell’anno di grandi stravolgimenti sociali che segnarono una linea di demarcazione tra un prima e un dopo. Quella ribellione giovanile, consapevole e collettiva di chi aveva in mente un altro progetto di sviluppo, di società, di relazione, di cultura, di costume, di economia ha reso possibile il femminismo, una rivoluzione che ancora non è finita. Le donne del sessantotto oggi sono nonne e madri due volte: delle loro figlie e del femminismo. Sono le donne che nel ’68 accesero la miccia di movimenti, tanti, e di correnti diverse, che avevano un grande obiettivo: la conquista delle “pari opportunità”. Ovvero diritti uguali agli “altri”. Gli uomini. E il sogno di una nuova cultura. “Il corpo è mio e me lo gestisco io “, dicevano. Un modo per sottolineare una nuova consapevolezza dell’essere donna. Quante lotte, quanti slogan, quanti dibattiti, quanta rabbia. Per la libertà di divorziare, di abortire, di decidere per se stesse. E per contare come gli “altri” nella coppia, in famiglia, nel lavoro. Donne che vedono ora, nelle figlie, e nelle nipoti, il risultato di quel loro grido: la disparità tra i sessi, dura da cancellare totalmente, si è però molto accorciata (anche grazie a nuove tutele legislative). Una lotta, quella femminile, che inoltre è iniziata molto prima del ’68 perché per le donne tutto è stato, sempre, più difficile. Fino al 1945 solo gli uomini potevano votare. Fino al 1950 una donna che aspettava un figlio perdeva il posto di lavoro. Licenziata. Lentamente, con fatica, si sono costruite nuove regole di civiltà. Certo, la prima donna magistrato diventa un’immagine da fotocronache (1961, Maria Grazia Luccioli). Così come il primo capotreno in gonnella (1968). Notizie che meravigliavano l’Italia di ieri. Oggi non ci fa più caso nessuno. Oggi, più che nuove conquiste, le donne cercano di difendere quelle ottenute fin qui. La strada, però, tra corsi e ricorsi, è ancora lunga, anzi lunghissima.
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
“Sir” Alan Parker, titolo conferitogli dalla regina d’Inghilterra per meriti artistici, è un regista inglese che tra le altre cose è stato candidato due volte all’Oscar. Per molto tempo ha lavorato come regista in pubblicità aggiudicandosi numerosi premi e riconoscimenti di settore. Il suo primo film per il cinema è del 1975, ma diventa molto famoso nel 1978 per “Fuga di Mezzanotte” (Oscar) in cui è narrata la vicenda realmente accaduta di un giovane cittadino americano arrestato per possesso di droga in Turchia che, nonostante le lunghe vicende giudiziarie, riesce a tornare in patria solo grazie ad un’evasione. Negli anni Ottanta, Parker realizza una serie di film di storie molto diverse tra loro ma che condividono una grande attenzione alla storia, al messaggio evocativo, all’uso della musica e a una suggestiva scelta fotografica delle immagini e delle sequenze. Nel 1988, con “Mississippi Burning – le radici dell’odio”, sulla segregazione negli stati del sud, in America, vince il secondo Oscar. Estimatore della musica dedica una parte importante della sua produzione cinematografica a questo argomento. Appartengono a questo filone “Piccoli gangsters”, “Saranno famosi”, “Pink Floyd The Wall”, “Evita”, “The Commitments”, dedicato a una soul band irlandese. Auguri al grande regista che oggi compie 70 anni. Cento di questi giorni affinchè possa realizzare ancora tanti bellissimi film per la nostra delizia e come lui stesso ebbe a dire durante un’intervista: “Nel cinema è normale non andare in pensione, Billy Wilder ha fatto il regista fino 80 anni. Non smetti. Non si fa. Nella vita normale ci si aspetta che tu ti fermi. Ma qui nel cinema è previsto che vai avanti fino a che non schiatti cadendo dal dolly per un infarto”.
13 febbraio
PRIMO PIANO
Anche Potenza ha la sua maschera: Sarachella.
Fino a qualche decennio fa, quando eravamo bambini, imparavamo a scuola i nomi delle maschere della Commedia dell’arte, caratteristiche di molte città italiane, ed eravamo un po’ invidiosi perché, pur celebrandosi in molti paesi della Basilicata gli antichi riti del Carnevale legati alla civiltà contadina, Potenza non aveva una sua maschera. Ora anche Potenza ha la sua maschera: Sarachella, personaggio umile e povero, specchio del popolo dei “sottani” e delle delle “cuntane”, gli antichi rioni potentini. Sarachella, riscoperto qualche anno fa grazie alla ricerca del dottor Lucio Tufano, cultore della storia della città, e eletto a maschera della tradizione popolare potentina, è povero, burlesco, sempre affamato ed innamorato di una donna per lui irragiungibile, Rusina. La maschera è stata così messa a punto e raffigurata grazie anche alla collaborazione del Liceo artistico cittadino: Sarachella è magrissimo come una saraca (aringa, sardina), di qui il nome, indossa una giacca verdina, pantaloni rattoppati, una camicia a quadrettoni, scarpe vecchie e rotte, ha una “coppola” in testa, in mano una saraca e nel taschino delle ceraselle, cibi tipici della cucina tradizionale locale, immancabili sulle mense dei poveri. Uomo di strada, assimilabile al banditore o “cavaliere”, che una volta girava per i vicoli della città, ha la battuta pronta, “salace ma non amara”, e, pur essendo povero, non sottomette la sua persona a nessuno, è fiero della sua dignità, proprio come il popolo che in lui s’identifica.
DALLA STORIA
Anna Politkovskaja.
Il 13 febbraio 2001, Anna Politkovskaja veniva arrestata nella Cecenia meridionale ed espulsa con l’accusa di aver violato le norme sulla copertura giornalistica del conflitto, imposte da Mosca. Il suo volto divenne poi noto nell’ottobre del 2002, quando tentò di mediare nella crisi del teatro Dubrovka di Mosca, dove un gruppo di guerriglieri ceceni prese in ostaggio oltre 700 persone. Le trattative furono vanificate dall’intervento delle forze speciali russe che uccisero tutti i sequestratori, ma anche 90 ostaggi, colpiti da una dose letale di un gas segreto, usato per stordire i guerriglieri all’interno dell’edificio. Ma chi era Anna Politkovskaja? Oggi il suo nome è associato alla fierezza, alla caparbietà, alla forza inarrestabile, fino alla fine, di una giornalista d’inchiesta che voleva raccontare la verità e che non si è mai fatta intimorire, neanche di fronte alle minacce di morte. “L’unico dovere di una giornalista è scrivere quello che vede” affermava con semplicità e per tale ragione è stata freddata il 7 ottobre 2006 (giorno del compleanno di Vladimir Putin) da un proiettile alla testa nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, in mano aveva ancora le buste della spesa. La giornalista stava per pubblicare un’inchiesta sulle torture commesse dalle forze, legate al primo ministro della Repubblica di Cecenia, Ramzan Kadyrov. Putin promise un’inchiesta indipendente, mentre la Novaya Gazeta affermò che non vi erano dubbi che si trattasse di omicidio politico. L’otto ottobre, la polizia russa sequestrò il computer della Politkovskaja e tutto il materiale dell’inchiesta che la giornalista stava compiendo. Il 9 ottobre, l’editore della Novaja Gazeta, Dmitrij Muratov, affermò che la giornalista stava per pubblicare proprio il giorno in cui è stata uccisa, un lungo articolo sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro Ramsan Kadyrov (chiamate spregiativamente kadiroviti). Muratov aggiunse che mancavano anche due fotografie all’appello. Gli appunti non ancora sequestrati vennero pubblicati il 9 ottobre stesso, sulla Novaja Gazeta. Muratov dichiarò che “L’omicidio sembra essere una punizione per i suoi articoli”. Sulla Novaja Gazeta la Politkovskaja lavorava dal giugno 1999 e raccontava quello che vedeva, né più né meno, per chi non sapeva, nell’esercizio del diritto all’informazione. Scriveva sulla Cecenia, dell’occupazione indebita russa del territorio, della continua lesione dei diritti umani e civili della popolazione. Ogni suo articolo era una denuncia precisa, che arrivava non solo al cuore di chi leggeva, ma anche all’attenzione del potere. Madre di due figli, la giornalista in passato era stata arrestata e anche minacciata per la sua opposizione al governo e per le sue denunce delle violazioni dei diritti umani commesse in Cecenia dove la giornalista si recava molto spesso, sostenendo le famiglie delle vittime civili, visitando ospedali e campi profughi, intervistando i militari e civili ceceni. Nelle sue pubblicazioni non risparmiava critiche violente sull’operato delle forze russe in Cecenia e le presunte connivenze degli ultimi due primi Ministri ceceni, Achmad Kadyrov e suo figlio Ramzan, entrambi sostenuti da Mosca. Contemporaneamente pubblicava alcuni libri, il più celebre “La Russia di Putin”, un’ampia inchiesta sul governo di Vladimir Putin, sui problemi sociali ed economici e sulla gestione del dissenso da parte dei servizi segreti con l’appoggio del governo. Sapeva di essere in pericolo di vita per le numerose minacce e i tentativi di avvelenamento tanto che nel 2005, un anno prima di essere assassinata, in una conferenza di report “Senza Frontiere” a Vienna, sulla libertà di stampa, denunciava: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire al alta voce che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato un’informazione”. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare”. Il “silenzio stampa” è stato imposto con la morte a moltissimi giornalisti. L’International Federation of Journalist ha commissionato un’ampia inchiesta in merito e reso pubblico un database online che documenta la morte o la sparizione in Russia di circa 300 giornalisti a partire dal 1993. A rischiare la vita per raccontare i fatti sono in molti anche fuori dalla Russia. Solo nel 2017, il 16 ottobre, la giornalista, Daphne Galizia è stata uccisa nell’isola di Malta da una bomba che ha fatto saltare in aria la sua auto, mentre lei era a bordo, per aver contribuito a svelare lo scandalo dei Panama Papers. In Messico, per esempio, la desaparecìon non sembra essere un fenomeno solo del passato e continuano le proteste contro le autorità politiche e la polizia colluse con i trafficanti di droga e colpevoli della sparizione forzata di molti reporter. Negli ultimi anni, durante il governo di Javier Duarte de Ochoa, sono stati assassinati 15 giornalisti e tutti gli omicidi sono rimasti impuniti. Tornano alla mente anche tutti quei giornalisti scomodi uccisi, nel nostro Paese, per mano della camorra, della n’drangheta, del terrorismo o di giochi politici sui quali ancora non è stata fatta chiarezza: Peppino Impastato, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Carlo Casalegno, Walter Tobagi e, l’elenco nei nomi, nazionale e internazionale, è davvero lunghissimo.
In omaggio alla giornalista russa dedichiamo una poesia della poetessa Marina Cvetaeva che la Politkovkaja scelse, come tema per la sua tesi quando, nel 1980, si laureò in giornalismo, a Mosca.
Mary Titton
AD ANNA ACHMATOVA
Un corpo sottile, non russo –
sui tomi.
Lo scialle dai paesi turchi
è sceso, come un manto.
Vi si può rendere con una sola
linea nera spezzata.
Il freddo – nell’allegria, la calura –
nel vostro sconforto.
Tutta la Vostra vita è un brivido
e si compierà – ma in che modo?
La nuvolosa – plumbea – fronte
di un giovane demonio.
Conquistare qualsiasi persona terrena
per lei è un gioco!
E il verso disarmato
mira al cuore.
Nell’ora assonnata del mattino –
mi sembra alle quattro e un quarto –
io mi sono innamorata di Voi,
Anna Achmatova.
(1915)
IL PERSONAGGIO
13 febbraio 2000: viene pubblica sui giornali l’ultima striscia a fumetti dei Peanuts. Ma i Peanuts sono intramontabili; nelle strisce i personaggi non invecchiano mai. Arrivano dai quattro agli otto anni e lì si fermano, come Charlie Brown. Le strisce, 17.897, pensate, disegnate e curate personalmente, una ad una, da Charles Schulz, dal 1950 al 2000, praticamente senza interruzioni, diventeranno uno dei fumetti, Peanuts, più popolari di tutti i tempi. Charlie Brown & Co. appariranno su 1600 quotidiani, in 75 paesi. Parte dell’esperienza dell’autore viene riflessa nei Peanuts attraverso le somiglianze con Charlie Brown, il personaggio principale. La sua prima striscia a fumetti con cadenza regolare fu pubblicata nel 1947, dal St. Paul Press e si intitolava Li’l Folk. Il creatore della magnifica striscia, non scelse il titolo Peanuts che letteralmente significa “noccioline”, ma che qui veniva inteso come “cose da poco”, suonava riduttivo al papà di Snoopy. Il titolo scelto era Li’l Folks (personcine), ma sottoposto alla United Feature Syndicate, distributore di fumetti americano, fu giudicato simile al titolo di altri due fumetti e quindi fu scelto il nome di Peanuts. Il bracchetto più famoso del mondo, invece, ebbe una genesi piuttosto particolare. Schulz per idearlo si ispirò al carattere di un cane avuto dalla sua famiglia quando era bambino, un beagle comparso nel giardino di famiglia nel 1937. Il nome doveva essere proprio Spike, ma poi sul letto di morte, la mamma di Schultz disse che se avesse avuto un cane avrebbe dovuto chiamarlo Snupi, un termine vezzeggiativo norvegese. Snoopy comparve per la prima volta, in Italia, nel 1965, sulla rivista Linus, diretta da Oreste del Buono; prese il nome dal personaggio prediletto dell’autore, Linus van Pelt, migliore amico di Charlie Brown e fratellino di Lucy. Linus van Pelt, apparso per la prima volta nel settembre 1952, non aprì bocca per due anni. La sua riga di testo parlato è del 1954, lo stesso anno in cui compare per la prima volta la sua fedele e famosissima copertina. Grande estimatore di Schulz e della sua striscia è stato Umberto Eco che ne divenne un traduttore d’eccezione e che a proposito disse: “Se poesia vuol dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta”.
12 febbraio
PRIMO PIANO
Aereo russo precipitato con 71 persone a bordo: giallo sulle cause.
Un aereo di linea russo, l’Antonov An-148 con 71 persone a bordo, è partito ieri, alle 11:22 (ora locale), dall’aeroporto Domodedovo di Mosca e, appena cinque minuti dopo, Flight Radar ne ha tracciato la discesa a una velocità di 3300 piedi al minuto (circa 1000 metri al minuto), prima di perdere il segnale. Il velivolo si è poi schiantato vicino alla località di Argunovo, 80 km a sudest di Mosca. Testimoni del villaggio hanno riferito di aver visto l’aereo in fiamme cadere dal cielo. Secondo la Bbc, che cita fonti investigative sentite dal sito Gazeta.ru, il pilota aveva segnalato un malfunzionamento e chiesto l’ok all’atterraggio di emergenza, indiscrezione subito smentita dalle autorità russe, che sulle cause del disastro propendono per le condizioni meteorologiche o per l’errore umano. Intanto la Commissione di indagine chiesta da Putin sta cercando di accertare quanto è accaduto. In un primo momento si era diffusa la notizia di una collisione in volo tra l’Antonov e un elicottero delle Poste russe, ma l’ipotesi è stata subito smentita. Più di 200 resti di corpi umani sono stati trovati nel luogo in cui si è schiantato l’aereo. Secondo il ministro dei Trasporti, Maxim Sokolov, considerate le condizioni sul luogo dell’incidente, per identificare le vittime sarà necessario “svolgere i test del dna prelevando materiale genetico dai parenti”. Intanto, è stata recuperata una delle due scatole nere, il “voice data recorder”, che registra le conversazioni in cabina e non i dati di volo”, oltre a parti della fusoliera del bireattore della Saratov Airlines. Al momento non si esclude nessuna ipotesi sul disastro, neanche quella dell’attentato terroristico, che comunque viene ritenuta poco probabile.
DALLA STORIA
La Frontiera americana: storia di uno sterminio.
12 febbraio 1825: i Creek cedono l’ultimo dei loro territori in Georgia al Governo degli Stati Uniti ed emigrano a Ovest. I primi Creek probabilmente discendevano dai costruttori di tumuli della cultura del Mississippi lungo il fiume Tennessee. Più una confederazione di villaggi che una singola tribù, essi vivevano nelle valli fluviali degli attuali stati americani del Tennessee, della Georgia e dell’Alabama ed erano composti da numerosi gruppi etnici che parlavano diverse lingue distinte. Quelli che vivevano lungo il fiume Ocmulgee furono chiamati indiani “Creek” dai commercianti inglesi della Carolina del sud. In seguito questo nome fu dato a tutti gli indigeni della regione. Le popolazioni indigene dell’America Settentrionale, gli Indiani, derivano la denominazione di questo nome al tempo di Cristoforo Colombo quando approdò sulle terre del “Nuovo Mondo” che, convinto di aver raggiunto le coste dell’India, chiamò gli abitanti “indios”. Il termine passò poi in tutte le lingue europee, insieme a quello di pellirosse, derivato dall’uso, proprio di alcuni fra essi, di tingersi il viso con ocra rossa. Gli Indiani basavano la loro economia sull’agricoltura, la raccolta e soprattutto, la caccia al bisonte; abitavano in tende, vestivano quasi interamente di pelli e i loro guerrieri erano armati di arco e frecce. Dipinti dalla cultura americana come selvaggi e assassini furono sterminati, nel IX secolo, dai coloni e dall’esercito degli Stati Uniti durante la colonizzazione del West. Un esempio particolarmente sanguinoso ed efferato nelle guerre tra “cowboy” ed indiani (Cheyenne gli Aragaho) è il massacro di Sand Creek. In particolare il primo scontro fra Cheyenne e bianchi ebbe luogo nel 1856. Il trattato di Laramie aveva lasciato agli Cheyenne una buona parte delle loro terre in Colorado e nell’Arkansas. Nel 1858, quando in Colorado fu scoperto l’oro, 150.000 coloni vi accorsero in una sola primavera. Gli insediamenti dei ricercatori, sul suolo indiano, fondarono, in seguito, la città di Denver. Molti avventurieri, non trovando il prezioso metallo, sconfinarono sulle terre dei pellirossa, abbattendo o mettendo in fuga i bisonti. Nel 1861, con il trattato di Fort Wise, gli Cheyenne e gli Arapaho si videro costretti a cedere i loro territori in Colorado in cambio di terre meno estese in Arkansas, dove era più difficile cacciare i bisonti. Solo sei capi su quarantaquattro firmarono il trattato, tra questi Black Kettle (Pentola Nera), capo degli Cheyenne. La difficoltà di giungere a degli accordi tali da consentire agli indiani di vivere secondo i loro costumi e, soprattutto, di poter cacciare per vivere, portarono alla guerra, che scoppiò nel 1864. Inoltre, le continue incursioni delle forze governative e dei coloni nelle terre degli Cheyenne e degli Arapaho portarono quest’ultimi a vendicarsi: iniziarono ad attaccare le stazioni di posta e ad assaltare le diligenze e ad incendiare i ranch. Comanche, Kiowa e Kiowa-Apache, intervennero insieme ai Sioux di Spotted Tail e Pawnee Killer, come rinforzi in aiuto agli Cheyenne, sul Solomon River. Satanta, capo dei Kiowa, a Fort Larned, rubò 240 cavalli al tenente Earye e altri guerrieri indiani, tra i più giovani e combattivi, uccisero 50 bianchi catturandone altri nei loro accampamenti. I coloni abbandonarono i loro insediamenti improvvisati allontanandosi per centinaia di chilometri riparando nei forti, protetti dalle palizzate e dai cannoni. La posta diretta a ovest fu smistata attraverso il canale di Panama. Black Kattle e i vecchi capi indiani tentarono con tutte le loro forze di convincere i giovani guerrieri indiani a metter fine alle incursioni, ritenendo che fosse meglio trattare con i bianchi per stabilire accordi di convivenza pacifica, ma rimasero inascoltati. L’esercito americano non intendeva, comunque, giungere alla pace non prima di aver fatto sentire agli indiani il peso della loro supremazia. Il più feroce sostenitore di tale politica fu il colonnello John Chivington, un ex pastore metodista che saliva sul pulpito con i suoi revolver e che, diventato soldato durante la Guerra di Secessione, contribuì ampiamente al successo dell’Unione nel West. Era anche un implacabile cacciatore di indiani desideroso di sterminarli e, per ottenere questo obiettivo, reclutò un nutrito corpo di volontari. Del resto, il Governatore Evans aveva autorizzato tutti i cittadini del Colorado a dare la caccia ai pellirossa ostili. Quell’estate Black Kettle, aveva dichiarato al maggiore Wynkoop, comandante di Fort Lyon, che voleva trattare e l’altro gli aveva promesso la pace. I superiori di Wynkoop, però, non avvalorarono questa decisione, ma al contrario sostituirono Wynkoop con il maggiore Anthony. Questi aveva, comunque, autorizzato il capo Cheyenne a piantare i suoi 100 tepee (tende) vicino a Fort Lyon, in un’ansa del Sand Creek, quasi in secca, dove era giunto anche Left Hand, capo degli Arapaho, con 10 tende. Black Kettle, che era stato ricevuto dal presidente Lincoln a Washington, era convinto di essere sotto la protezione delle autorità governative; aveva innalzato la bandiera a stelle e strisce e quella bianca e si sentiva tanto al sicuro da non aver neppure messo di guardia una sentinella. Il 29 novembre 1864, alle quattro del mattino, quando tutti dormivano, 750 uomini a cavallo tra soldati statunitensi, i volontari di Chivington e le truppe del maggiore Anthony, trascinandosi dietro quattro obici, si lanciarono, con una furia selvaggia sulla silenziosa foresta di tende. “Maledetto sia chiunque simpatizzi con i nativi! Io sono venuto a uccidere i nativi e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani” tuonava, nel combattimento, Chivington. Nel campo c’erano 600 indiani, la maggior parte dei guerrieri era a caccia. Dopo aver aperto il fuoco a mitraglia, gli aggressori, scesi da cavallo si accanirono su chiunque uscisse dalle tende: fracassarono la testa dei bambini sulle rocce, sventrarono le donne e tagliarono loro le dita per rubare gli anelli, tagliarono nasi, orecchie, membri che esibirono poi, con baldanza, come trofei nei saloon. Dopo i presunti accordi di pace gli Cheyenne non disponevano di molte armi avendone già consegnata una grossa parte alle autorità governative. Il massacro continuò fino alle quattro del pomeriggio. Blak Kattle, in piedi davanti alla sua tenda, cantava “ Niente vive a lungo se non la terra e le montagne”. Il maggiore Anthony avrebbe detto” Non ho mai visto sulla faccia della terra un popolo coraggiosoe valoroso quanto questi indiani”. L’intero campo venne inghiottito dalle fiamme. Delle 600 anime, di cui 200 guerrieri, che si trovavano sul Sand Creek, si contarono a terra i corpi scotennati e orrendamente mutilati di 133 indiani e, solo 28 erano di guerrieri. Contando anche coloro che non soparvvissero alle ferite si stima che circa 300 pellirossa persero la vita in questo tragico massacro. I fatti di Sand Creek ebbero una vasta eco nelle opere di cultura dedicate al periodo delle guerre tra nativi e colonizzatori, venendo riprodotti e citati più volte. Ad esso, Fabrizio De André ha esplicitamente dedicato l’omonima canzone.
Mary Titton
Fiume Sand Creek
Fabrizio De André
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio d’un temporale
See’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek.
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
E quella musica distante diventò sempre più forte
Chiusi gli occhi per tre volte
Mi ritrovai ancora lì
Chiesi a mio nonno è solo un sogno
Mio nonno disse sì
A volte I pesci cantano sul fondo del Sand Creek
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
Il lampo in un orecchio nell’altro il paradiso
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l’albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Ora I bambini dormono nel letto del Sand Creek
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
See’erano solo cani e fumo e tende capovolte
Tirai una freccia in cielo
Per farlo respirare
Tirai una freccia al vento
Per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio d’un temporale
Ora I bambini dormono sul fondo del Sand Creek
IL PERSONAGGIO
Un “menestrello” dei nostri tempi.
Angelo Branduardi, nato il 12 febbraio 1950, a Cuggiono, piccolo comune alle porte di Milano, è il noto cantautore, che con la dolcezza della sua musica e dei suoi testi, riproduce il fascino delle antiche ballate medievali e delle leggende popolari, soprattutto francesi, ma anche tedesche, inglesi, irlandesi, ebraiche. Dopo aver conseguito il diploma in violino e aver cominciato a suonare la chitarra, mentre frequenta la facoltà di Filosofia a Milano, Branduardi compone la musica di “Confessioni di un malandrino” del poeta russo Esenin e nel 1974 debutta con l’album “Angelo Branduardi”, arrangiato da Paul Buck-master. Il primo grande successo arriva nel 1976 con l’album “Alla fiera dell’Est”, che si ispira alle favole popolari di tutto il mondo: dalla filastrocca ebraica di “Alla Fiera dell’Est” alla tradizione celtica de “La serie dei numeri”, alla poesia tedesca di “Sotto il tiglio”. La produzione di Angelo Branduardi è caratterizzata, infatti, da una proficua ricerca nel campo della musica popolare, barocca e rinascimentale, con incursioni nella musica etnica di tutto il mondo e unisce suggestioni che vanno dagli indiani d’America ai versi di poeti latini. Grande successo ottiene nel 1977 “La pulce d’acqua”, un’altra fiaba densa di riferimenti mitici, che avvince grazie al fascino della title track, alla malia funerea dello stupendo “Ballo in Fa diesis minore” e alle “launeddas”, antichissimo strumento a fiato suonato dal musicista sardo Luigi Lai. Della ricchissima produzione del cantautore lombardo, oltre alle colonne sonore di film come “State buoni se potete”, all’album “Branduardi canta Yeats”, dieci liriche del poeta irlandese William Butler Yeats, tradotte dalla moglie Luisa Zappa, o “L’infinitamente piccolo”, un disco interamente dedicato a San Francesco, ci piace ricordare l’album, pubblicato nel 1979, “Cogli la prima mela”, che con la struggente melodia della title track, ottiene un ennesimo enorme successo in Italia e viene premiato dalla critica tedesca e francese come disco rivelazione dell’anno.
Mercoledì 7 febbraio è morto a Massa Martana Fabio Orsini per lunghi anni nostro Consulente commerciale, ma soprattutto un amico. Aveva vissuto in gioventù a Roma dove si era laureato in Economia e Commercio, per poi passare dal lavoro in banca alla vendita professionale di cui è stato per molto tempo brillante protagonista. La sua spontaneità, il suo carattere, la sua passione ci mancheranno moltissimo. Il suo ricordo rimarrà presente ogni giorno nel corso della nostra attività. Alla moglie Michela e alla sua amatissima Giulia tutto il nostro affetto. Ciao Fabio!
Francesco Malvasi e l’intero staff di Progetto Editoriale
11 febbraio
PRIMO PIANO
I primi 50 anni della Comunità di Sant’Egidio.
Compie 50 anni la Comunità di Sant’Egidio, fondata nel 1968 a Trastevere, nel cuore di Roma, da Andrea Riccardi, giovane liceale, che nel clima di rinnovamento del Concilio Vaticano II, comincia a riunire un gruppo di suoi compagni di scuola, per ascoltare e mettere in pratica il Vangelo. Secondo le parole del presidente Marco Impagliazzo “Sant’Egidio emerge in un contesto storico di grande contestazione da parte dei giovani occidentali, europei e americani, alle strutture fondamentali della società, alla famiglia, alla Chiesa, alla scuola, alle forze armate, alle istituzioni in genere. Una contestazione nella quale Sant’Egidio nasce senza porsi né a favore né contro ma dentro questi rivolgimenti maturando una convinzione molto chiara: lavorare per un mondo unito e una fraternità universale …”. Nel giro di pochi anni l’esperienza di questi giovani si diffonde in diversi ambienti studenteschi e si concretizza in attività a favore degli emarginati dei quartieri popolari della periferia romana. Il primo dei servizi della Comunità fu la scuola popolare per i bambini emarginati delle baraccopoli romane, come il “Cinodromo”, lungo il Tevere, nella zona sud di Roma. Dal 1973, nella chiesa di Sant’Egidio in Trastevere, la prima chiesa della Comunità, si dà il via alla consuetudine della preghiera comunitaria serale, che ha come temi centrali la misericordia di Dio per i malati e per i peccatori, la commozione di Gesù per le folle e l’invito ad annunciare il Vangelo, appuntamento serale aperto a tutti, che continua oggi in tutte le comunità sparse nel mondo. Nella seconda metà degli anni Settanta, la Comunità comincia a radicarsi anche in altre città italiane e negli anni Ottanta a diffondersi in Africa, America e Asia. Sin dalle origini, il servizio ai poveri e il sostegno ai diritti e alla dignità della persona, insieme alla promozione della cultura dell’incontro e all’impegno per la pace, ha caratterizzato la vita della Comunità, che in diversi Paesi ha attuato numerose opere di sostegno ai poveri: mense, scuole di lingua per gli immigrati, scuole pomeridiane per bambini, centri per portatori di handicap, centri per anziani, ambulatori medici e centri per persone con disagio psichico, assistenza a senza fissa dimora e nomadi, a tossicodipendenti e malati di AIDS, carcerati e condannati a morte. Oggi “il popolo delle tre P, preghiera, pace e povertà, è diffuso in oltre 70 Paesi del mondo, con 60mila persone di tutte le età e condizioni sociali. Sant’Egidio è conosciuta per il suo impegno nelle periferie più povere delle città, per l’apertura al dialogo con tutti, per i processi di pace avviati in più punti del pianeta e ultimamente anche per il progetto dei corridoi umanitari che insieme alle Chiese evangeliche sta portando avanti in Italia, Francia e Belgio.”
IL PERSONAGGIO
Oggi parliamo di Mary Quant, più conosciuta universalmente come l’inventrice della minigonna. Eh si, proprio la minigonna vera rivoluzione a partire dagli anni ’60 della moda in campo femminile, ma ben oltre del costume in un’epoca tutto sommato recente anche se ormai lontanissima nel ricordo e nei suoi contenuti, antesignana di quel 1968 che esploderà di lì a poco cambiando per sempre il corso della storia sociale almeno nell’Occidente del mondo. Mary, di origine gallese nasce nel 1934 in un sobborgo di Londra, da genitori entrambi insegnanti universitari. Di carattere creativo e ribelle a sedici anni va via da casa per trasferirsi a Londra dove nel 1955 in uno scantinato apre un ristorante e al piano di sopra una boutique molto stravagante per il tempo. Siamo a Kings Road, nel pieno centro della capitale britannica e il successo è immediato. Con lei c’è quello che diventerà presto suo marito, Alexander Greene nipote del filosofo Bertrand Russel e Archie Mc Nair nella veste di finanziatore per eredità ricevuta. Sono i giovani a frequentare Bazaar con la loro tensione anticonformista, la voglia di cambiamento, i loro atteggiamenti originali ed estremi. Gonne corte per le ragazze, grandi ideali, capelli lunghi di protesta e musica sublime degli emergenti Beatles. La musa della minigonna sarà una giovanissima cameriera di diciassette anni detta Twiggy (per così dire grissino) che diventerà per almeno un decennio una famosissima modella molto fashion e molto “teen ager” a cui si ispireranno in tanti, senza però probabilmente il sapore e il fascino di quegli anni irripetibili. Poco male, Il fashion plasticato a cui siamo purtroppo abituati, ma così è. Tornando a noi le vicende ci dicono che Mary diventerà presto una seria imprenditrice e anche “Baronetto” della Corona, proprio come i mitici ragazzi di Liverpool. Oggi Mary Quant è una adorabile signora di 84 anni, molto ricca ma anche si dice ancora molto vivace.
10 febbraio
PRIMO PIANO
Il Giorno del ricordo: celebrazioni per far chiarezza e non dimenticare.
Oggi, a Basovizza, frazione del comune di Trieste, come in molte altre città d’Italia e nella capitale, si sono svolte cerimonie commemorative delle vittime delle foibe, le cavità carsiche di origine naturale dove, fra il 1943 e il 1947, vennero gettati, a volte legati l’uno all’altro con del filo spinato, vivi o morti, quasi diecimila italiani uccisi dai partigiani jugoslavi comunisti. È questa una pagina tragica del nostro passato prossimo: anche oggi, sulle responsabilità che comunismo e fascismo hanno avuto nel dramma delle foibe, si scontrano tesi opposte, sostenute dai diversi schieramenti politici e non supportate da una adeguata ricerca storica. In particolare, in alcuni ambienti della destra si afferma che le foibe sono state una “barbarie slavo-comunista”, un genocidio di cittadini inermi che avevano la “sola colpa di essere italiani” in preparazione alla successiva pulizia etnica, mentre in alcuni ambienti della sinistra è diffuso un atteggiamento “giustificazionista” e si presentano gli eccidi come una “reazione” alla brutalità e alla durissima occupazione nazi-fascista di quelle terre. Oggi, 10 febbraio, nel Giorno del ricordo, istituito dal Governo italiano con la legge 30 marzo 2004 n. 92, il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, scrive: “Le foibe, con il loro carico di morte, di crudeltà inaudite, di violenza ingiustificata e ingiustificabile, sono il simbolo tragico di un capitolo di storia, ancora poco conosciuto e talvolta addirittura incompreso, che racconta la grande sofferenza delle popolazioni istriane, fiumane, dalmate e giuliane … le foibe e l’esodo forzato furono il frutto avvelenato del nazionalismo esasperato e della ideologia totalitaria che hanno caratterizzato molti decenni nel secolo scorso. I danni del nazionalismo estremista, dell’odio etnico, razziale e religioso si sono perpetuati, anche in anni a noi molto più vicini, nei Balcani, generando guerre fratricide, stragi e violenze disumane … Oggi, grazie anche all’Unione Europea, in quelle zone martoriate, si sviluppano dialogo, collaborazione, amicizia tra popoli e stati”.
IL PERSONAGGIO
Boris Pasternak.
(Boris ritratto da suo padre Leonid, 1910)
Il grande poeta e scrittore nasceva esattamente 128 anni fa a Mosca. Il padre professore di pittura, la madre pianista, l’infanzia e la gioventù in un ambiente di letterati ed artisti, l’élite della cultura di quel tempo che frequentavano casa sua, fra cui uno dei più straordinari interpreti dell’anima russa, Lev Tolstoj. Passato dalla passione per la musica alla poesia, aderì presto al movimento futurista iniziando così a scrivere anche le sue prime poesie e via via diverse raccolte. Erano anni di assoluta eccezionalità. La guerra mondiale, la caduta dello Zar, la Rivoluzione bolscevica. Un vecchio mondo andava drammaticamente a scomparire e un nuovo orizzonte, nuove idee e speranze entravano nella Storia come un fiume in piena. Un tempo forgiato con il ferro e col fuoco, di cui molte tracce autobiografiche di Pasternak si trovano nella sua produzione letteraria ma soprattutto nel suo ineguagliabile capolavoro Il dottor Zivago, scritto nella Dacia di Peredelkino dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’opera, censurata subito dal regime stalinista, fu fonte per l’autore di una vera e propria persecuzione fatta di ricatti e malversazioni, ma anche di vicende proprie di una vera e propria spystory in piena “guerra fredda”. L’editore milanese Giangiacomo Feltrinelli riuscì in maniera rocambolesca ad entrare in possesso del manoscritto nel 1957 facendone un eccezionale successo internazionale. L’anno dopo a Boris Pasternak fu assegnato il Nobel per la Letteratura, ma non poté ritirarlo. Lo ritirerà invece il figlio Evgenij solo nel 1989, trent’anni dopo. Nel 1988 Il dottor Zivago sarà pubblicato per la prima volta in in cirillico in Unione Sovietica grazie a Gorbaciov e alla Perestrojka, altra irripetibile possibilità mancata. Intanto il nostro era morto il 30 maggio 1960 in povertà e immaginiamo con non poche amarezze proprio a Peredelkino, dove oggi c’è ancora ai margini della foresta la lapide della sua tomba per chi avrà voglia di rendergli omaggio, laggiù a pochi chilometri dalla metropoli moscovita. Nel 1965 il romanzo darà vita ad un altro grande successo, il film con Omar Sharif, Julie Christie e Rod Steiger che lo renderà popolare in tutto il mondo a partire dal “tema di Lara”, colonna sonora di Maurice Jarre. Bellissima la pellicola, consigliamo comunque di leggere il libro. Imperdibile.
9 febbraio
PRIMO PIANO
Al via le Olimpiadi invernali di Seul.
A PyeongChang, in una notte freddissima, si sono aperte le Olimpiadi e, come nell’antica Grecia, i Giochi hanno avuto il potere di far tacere le contese: nella cerimonia d’inaugurazione le due Coree hanno sfilato insieme e, cosa inimmaginabile solo due mesi fa, il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in e Yo-jong, sorella del dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un, si sono stretti la mano, compiendo un gesto storico, di buon auspicio per un futuro di pace tra i due Paesi. Il tema della serata è stato, infatti, Peace in motion, la pace in cammino. Al centro dello stadio c’è il ghiaccio, in cielo i fuochi d’artificio, una tigre bianca, simbolo di pace, è la mascotte dei Giochi. Due gli atleti scelti per tenere la speciale bandiera con il disegno di un solo Paese, ora inimmaginabile: per il Nord la giocatrice di hockey Chung Gum Yunjong, che fa parte del team misto unificato proprio per queste Olimpiadi, mentre per il Sud il campione di bob, Hwang Won. Lo spettacolo è ripreso poi con nuove coreografie e canzoni, tra cui anche la celebre “Imagine” di John Lennon, è stata quindi issata la bandiera olimpica e il presidente Moon Jae-in ha dichiarato aperta la 23esima edizione dei Giochi invernali. Quindi ha fatto ingresso nello stadio la fiaccola olimpica e l’onore di accendere il braciere olimpico è toccato alla pattinatrice Kim Yuna, oro olimpico a Vancouver e argento quattro anni dopo nel singolo femminile di pattinaggio, nonché campionessa del mondo nel 2009. Poi hanno sfilato i 2.925 atleti provenienti da 92 nazioni (con le new entry Ecuador, Eritrea, Kosovo, Malesia, Nigeria e Singapore, mai stati finora in una rassegna invernale). Lo squadrone più nutrito è stato quello degli Stati Uniti con 242 atleti, accolti in tribuna dal vicepresidente Mike Pence, seguito dal Canada con 226 partecipanti. L’Italia ha schierato i suoi 121 atleti più due riserve, capitanati dalla portabandiera Arianna Fontana. Stadio in tripudio per l’ultima delegazione, quella mista delle due Coree, che per l’occasione ha scelto una bandiera creata apposta per l’occasione: su uno sfondo bianco l’intera penisola coreana in colore blu. Una speranza, un sogno, “una finestra per arrivarci”, come ha affermato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.
DALLA STORIA
La Valle dei Re.
Il 9 febbraio del 2006 un gruppo di egittologi, al lavoro nella Valle dei Re, individuava una nuova tomba nei pressi di quella di Tutankhamon. Il locale conteneva sarcofagi vuoti e materiali di imbalsamazione, una camera destinata alla mummificazione e alla preparazione funeraria. La Valle dei Re o le tombe dei re di Biban-el Muluk, sulla sponda occidentale del Nilo di fronte a Karnak e Luxor (dove sorgono le enormi sale a colonne e i templi del Nuovo Regno) un tempo ospitava la necropoli di Tebe. Là, durante il Nuovo Regno, si trovavano i sepolcri dei defunti più ragguardevoli e anche i templi per i re e quelli in onore del dio Amun. L’amministrazione e il continuo ampliamento di questa gigantesca città di morti esigeva un gran numero di personale che era soggetto a uno speciale funzionario, il “principe dell’Occidente e capo dei mercenari della necropoli”. I sorveglianti abitavano in caserme; gli scavatori e i muratori, i tagliapietre e i pittori, gli artigiani di ogni sorta e finalmente gli imbalsamatori e i mummificatori che proteggevano l’involucro mortale e creavano l’eterno rifugio per il ka (anima), tutta questa gente viveva in gruppi di case che assunsero col tempo l’entità di piccoli villaggi. Ciò avveniva al tempo del Nuovo Regno, quando l’Egitto era governato dai sovrani più potenti che mai avesse avuto, i “Figli del Sole”, il primo e il secondo Ramsete. Era l’epoca della XVIII e soprattutto della XIX dinastia, all’incirca dal 1350 fino al 1200 a.C. Era un’epoca simile alla nostra, il regno della civiltà quasi pura, il periodo del nascente “cesarismo”. Si verificò allora in Egitto lo stesso fenomeno per cui la Roma dei cesari sviluppò la monumentale cultura della Grecia solo nel senso del “colossale”; così la grandezza delle piramidi dell’antico Egitto trapassò nelle gigantesche costruzioni di Karnak, di Luxor, di Abido. La stessa cosa avvenne a Ninive, la “Roma assira”, per opera di Sanherib, col cesare cinese Hoang-ti e nelle gigantesche costruzioni indiane successive al 1250. Era l’epoca in cui succedeva alla cultura degli Egizi quello che succede oggi a noi, occidentali del Nuovo Mondo gravitante intorno a New York, città dei grattacieli. Ma come si svolgeva la pratica della mummificazione in quelle camere appositamente allestite? Erodoto ci informa di tre sistemi di mummificazione, dei quali il primo era tre volte più caro del secondo; il terzo era il più conveniente e se lo potevano concedere anche gli impiegati inferiori (ma certamente nessuno dei tre era accessibile all’uomo del popolo, che doveva affidare la sorte del proprio cadavere alla clemenza del clima). Nei tempi più antichi si riusciva solo a conservare le forme esteriori del corpo. Più tardi si trovò il modo di evitare il raggrinzamento della pelle e si incontrarono mummie in così buono stato da conservare ancora i tratti del viso in tutta la loro individualità. In genere il cadavere veniva sottoposto al seguente trattamento: dapprima, attraverso le fosse nasali, si estraeva il cervello mediante un gancio metallico. Poi, con una lama di pietra, si apriva la cavità addominale e si asportavano i visceri (l’operazione, probabilmente, veniva eseguita anche attraverso l’ano) che venivano collocati nei cosiddetti “canopi” (brocche o vasi). Il cuore era sostituito da uno scarabeo di pietra. Seguiva poi un completo lavaggio esterno e la salma era sottoposta durante un mese a una “salatura”. Finalmente aveva luogo l’essiccazione, che, secondo alcune notizie, durava fino a settanta giorni. La mummia era tumulata spesso in parecchie bare di legno (che avevano per lo più la forma del corpo umano) o sarcofaghi; altre volte le bare di legno, inserite l’una dentro l’altra, erano racchiuse in un sarcofago di pietra. La salma era collocata in posizione distesa: le mani in croce sul petto o sul grembo o le braccia allungate lungo i fianchi. I capelli degli uomini erano tagliati corti, quelli delle donne lasciati in tutta la loro lunghezza e splendidamente ondulati. I peli del pube venivano rasati. Per evitare l’afflosciamento, il corpo era riempito di sostanze aromatiche e, strano a dirsi, anche di cipolle. Anche i seni femminili erano riempiti. Cominciava poi il lungo procedimento per cui si avvolgeva il corpo con bende e panni di lino che con l’andare del tempo si imbevevano di sostanze asfaltate che gli scienziati non riuscirono sempre a svolgerli accuratamente. Oggi la Valle è meta di innumerevoli stranieri che vengono da tutto il mondo. Uno dei più ricchi tesori che mai sia venuto alla luce da suolo antico, fu scoperto tutto sommato, non tantissimo tempo fa. Ed è emozionante e ridicolo, per chi tiene davanti agli occhi la straordinaria storia della valle del Nilo, dei suoi re e delle sue genti leggere sulla guida: “Le tombe più importanti e il sepolcro di Tutankhamon sono illuminati elettricamente nella mattinata tre volte la settimana!”.
Fonte: “Civiltà sepolte” di Ceram. Ed. Einaudi
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
(Mia Farrow con Robert Redford nel film Il grande Gatsby)
Tanti auguri a Mia Farrow che oggi compie 73 anni! L’attrice ha recitato in tanti film memorabili e ha avuto una vita incredibile tra quattordici figli e una brutta storia con Woody Allen. Interprete in più di cinquanta film, tra cui grandi successi come Rosemary’s Baby, il grande Gatsby e in molti film di Woody Allen: La rosa purpurea del Cairo, Hannah e le sue sorelle, Broadway Danny Rose, Alice, Settembre e tutti gli altri, autentici capolavori, era figlia del regista australiano John Farrow e dell’attrice irlandese Maureen O’Sullivan. A 19 anni iniziò una relazione con Frank Sinatra, di trent’anni più vecchio di lei: si sposarono nel 1966 e restarono insieme due anni. Dal 1970 al 1979 fu la terza moglie del pianista e direttore d’orchestra André Previn (di 16 anni più vecchio), da cui ebbe tre figli, tra cui la piccola coreana Soo-Yi. Dopo il divorzio da Previn iniziò la sua discussa relazione con Woody Allen, che finì nel 1992 quando la Farrow scoprì delle fotografie pornografiche della figlia Soo-Yi, allora ventenne, scattate da Allen (che poi sposò Soon-Yi): fu l’inizio di una battaglia legale per l’affidamento dei figli ma soprattutto di un continuo scambio di pesanti accuse di ogni tipo che continua ancora oggi e che coinvolge alcuni del quattordici figli che Mia Farrow ha avuto, tra naturali e adottati. Negli ultimi anni Mia Farrow si è occupata di iniziative benefiche legate all’infanzia e all’immigrazione (è ambasciatrice dell’ Unicef e molto impegnata in Africa).
8 febbraio
PRIMO PIANO
La prima scoperta archeologica egiziana del 2018.
In Egitto, il 2018 si è aperto con una straordinaria scoperta archeologica. In un cimitero faraonico a Giza è stata rinvenuta una tomba datata 2.400 a.C. circa. Poco lontano dalla piramide di Chefren, la tomba, presentata da Khaled El-Enany, ministro dell’Antichità, durante una conferenza stampa, appartiene alla V Dinastia e presenta affreschi ben conservati. È dalla metà dell’Ottocento che questa necropoli, scelta per la sepoltura di moltissimi funzionari dell’Antico Regno, è oggetto di studio. Dopo gli scavi di Zahi Hawass, solamente pochi mesi fa, sono ripresi gli scavi grazie a dodici missioni, tra cui quella condotta dal segretario generale del Supreme Council of Antiquities, Mostafa Waziry che ha portato alla scoperta della tomba. Una tomba che, denominata G9000, apparteneva a Hetepet, la Sacerdotessa di Hathor (dea dell’amore e della bellezza) e “Conoscente del Re”. Di lei, in realtà, non si sa molto: doveva trattarsi però di una personalità importante, essendo stata sepolta da sola. Realizzata con blocchi di calcare e mattoni di fango, la tomba presenta un corridoio a L che conduce alla cappella, al suo bacino di purificazione e alla tavola per l’incenso e le offerte. Pregevoli sono gli affreschi rinvenuti dai colori accesi e dai motivi originali. Tra le scene di vita quotidiana, con uomini e donne che pescano, coltivano i campi, cacciano, macellano bovini, lavorano il cuoio o i metalli e rendono omaggio a Hetepet con danze e doni, spiccano due scimmie (all’epoca animali domestici), una che raccoglie frutti da un albero e li mette in una cesta, l’altra che balla davanti a un’orchestra durante un banchetto funebre. Tuttavia non si tratta, probabilmente, di una scoperta inedita. Al Liebieghaus di Francoforte e al Neues Museum di Berlino sono custoditi ormai da tempo diversi reperti di Hepetet, frutto di una spedizione tedesca condotta, nel 1909, ma di cui non è mai stato segnalato l’esatto luogo di ritrovamento. Per saperne di più restiamo in attesa di ulteriori sviluppi.
DALLA STORIA
L’embargo contro Cuba.
(Fidel Castro ad un incontro delle Nazioni Unite)
L’embargo contro Cuba, conosciuto anche come el bloqueo, è il blocco economico, commerciale e finanziario, che, imposto dagli Stati Uniti all’isola caraibica all’indomani della rivoluzione castrista, scattò ufficialmente nel 1962 con il Proclama 3447. Prima della rivoluzione guidata da Fidel Castro e Che Guevara, Cuba, sotto la feroce dittatura del generale Batista, era uno Stato fantoccio degli USA, che controllavano il petrolio, le miniere, le centrali elettriche, la telefonia e un terzo della produzione di zucchero di canna, comprando il 74% delle esportazioni e fornendo il 65% delle importazioni dell’isola. Dopo la presa del potere da parte dei rivoluzionari di Fidel Castro, il 17 maggio 1959 venne varata la prima riforma agraria cubana, affidata all’INRA, Istituto Nazionale per la Riforma Agraria, che aveva il compito di espropriare e ridistribuire la terra. La legge di riforma prevedeva la nazionalizzazione delle proprietà al di sopra dei 405 ettari e l’affidamento delle terre espropriate a cooperative agricole o a singoli coltivatori, con un indennizzo per gli espropriati in buoni del tesoro ventennali al 4%. Poiché gli espropri colpirono cittadini e compagnie statunitensi, nell’ottobre 1959 il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower approvò un piano, proposto dal Dipartimento di Stato e dalla CIA, che prevedeva il supporto agli oppositori interni e includeva raid degli esuli contro l’isola, partendo dal territorio statunitense. I rapporti con gli Stati Uniti andarono sempre più deteriorandosi: Cuba stabilì vantaggiose relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica, da cui ottenne un prestito di cento milioni di dollari, e strinse un accordo per scambiare imponenti quantitativi di zucchero cubano con un’importante fornitura di petrolio sovietico; la prima conseguenza fu che il 29 giugno 1960 il ministro dell’industria Che Guevara firmò il decreto di nazionalizzazione delle compagnie statunitensi Standard Oil, Esso e Texaco e della britannica Shell, dopo il rifiuto delle stesse di raffinare 300.000 tonnellate di petrolio acquistate dai sovietici. Il 6 luglio 1960 il Congresso degli Stati Uniti votò una prima misura economica contro Cuba, autorizzando il presidente USA a ridurre o sopprimere le importazioni di zucchero da Cuba, il giorno dopo Eisenhower emanò un provvedimento che ridusse drasticamente tali importazioni per l’anno in corso. Lo stesso 7 luglio il Parlamento cubano rispose con una legge di nazionalizzazione di tutte le società statunitensi operanti a Cuba, prevedendo indennizzi attraverso buoni governativi trentennali al 2%; tale provvedimento provocò il ritiro dell’ambasciatore statunitense e la decisione di ridurre ulteriormente i commerci bilaterali. Il nuovo presidente John Fitzgerald Kennedy, che durante la campagna elettorale aveva accusato Richard Nixon (candidato repubblicano e già vicepresidente con Eisenhower) di aver consegnato Cuba al comunismo, autorizzò, nel febbraio 1961, l’attuazione di un piano segreto di intervento, denominato operazione Zapata, già approvato dall’amministrazione Eisenhower il 17 marzo 1960: l’azione iniziò con alcuni bombardamenti aerei su piccola scala che resero palese l’intento di procedere a un’invasione ed ebbero come prima conseguenza il fermo di molti dissidenti cubani. Il 16 aprile 1961 Castro dichiarò Cuba Stato socialista. Il giorno successivo avvenne lo sbarco nella baia dei Porci, messo in atto da un gruppo di esuli cubani e mercenari, addestrati dalla CIA, che progettavano di conquistare Cuba, cominciando dalla parte sud-ovest dell’isola. L’operazione è conosciuta in inglese come “Bay of the Pigs Invasion”, tra i cubani col nome spagnolo di “invasión de Playa Girón” o “batalla de Girón”. L’invasione si risolse in un clamoroso fallimento: circa 1189 controrivoluzionari furono arrestati, imprigionati e processati, venti mesi dopo, il 23 dicembre 1962, furono rilasciati in cambio di 53 milioni di dollari in alimenti per bambini e farmaci. Sentendosi minacciato dalla vicina superpotenza americana, il governo cubano chiese all’Unione Sovietica l’installazione di batterie di missili nucleari sul proprio territorio: il 14 ottobre 1962 un aereo spia U-2 statunitense evidenziò la costruzione di una postazione missilistica sull’isola, il 22 ottobre il presidente Kennedy annunciò in un appello televisivo la scoperta delle installazioni e dichiarò l’Unione Sovietica direttamente responsabile di eventuali attacchi missilistici provenienti da Cuba. Kennedy ordinò inoltre una “quarantena” navale per l’isola per prevenire ulteriori consegne di materiale militare, evitando di utilizzare il termine blocco navale, in quanto interpretabile come atto di guerra in base al diritto internazionale. Con l’acuirsi, così, della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica il pericolo di una guerra nucleare su scala mondiale fu allora vicinissimo. La crisi terminò il 28 ottobre con il ritiro dei missili sovietici in cambio del ritiro dei missili statunitensi dalla Turchia e della garanzia che gli Stati Uniti non avrebbero appoggiato un’invasione di Cuba, la quarantena navale venne rimossa il 20 novembre. Terminata la crisi dei missili, Kennedy intensificò le sanzioni contro Cuba: il 7 febbraio 1963 venne proibito il trasporto di merci statunitensi su navi straniere che avessero fatto tappa nei porti cubani; l’8 luglio 1963, utilizzando il Trading with the Enemy Act, vennero infine varati i Cuban Assets Control Regulations (CACR), “regolamenti sul controllo dei patrimoni cubani”, con cui si proibiva l’esportazione di prodotti, tecnologie e servizi statunitensi a Cuba sia direttamente che attraverso Stati terzi. Venne inoltre proibita l’importazione di prodotti cubani, sia direttamente che indirettamente, fatta eccezione per materiale informativo e opere d’arte con valore inferiore ai 25.000 dollari. Si sancì pure il totale congelamento dei patrimoni cubani, sia statali sia dei cittadini, in possesso statunitense e venne posto l’assoluto divieto di mandare rimesse a Cuba o di favorire viaggi verso gli Stati Uniti, prevedendo licenze particolari solo in caso di emergenze umanitarie. In questi anni l’ONU si è espressa molte volte contro l’embargo, l’ultima nel 2017, con 191 voti favorevoli e 2 contrari (USA e Israele). Il 17 dicembre 2014 il presidente statunitense Barack Obama annunciò l’intenzione di porre fine all’embargo, tuttavia, per poter essere effettivamente rimosso, sarebbe stato necessario il voto favorevole del Congresso americano, controllato dal Partito Repubblicano, che era contrario. Con la fine della presidenza Obama, il nuovo presidente, Donald Trump, ha fatto marcia indietro e ha rinnovato l’embargo fino a quando non ci saranno libere elezioni nell’isola.
IL PERSONAGGIO
8 febbraio 1931: nasce James Dean! La sola pronuncia del suo nome provoca un’agitazione del sangue. Dean è l’archetipo che la cultura giovanile ha introiettato senza peraltro veder diminuito il suo sottile fascino e la sua attualità. La sua breve vita si riassume perfettamente nel titolo del suo film più celebre: “Gioventù bruciata”, in inglese letteralmente “ribelle senza una causa”; (Il regista lasciò libero Dean di interpretare, nel film, il suo personaggio con una recitazione istintiva e imprevedibile). Restò a Hollywood appena diciotto mesi ed ebbe il tempo di recitare solo in tre pellicole, ma rivoluzionò non soltanto la vita di milioni di teenagers, ma anche lo stile di recitazione di parecchi attori cinematografici. Truffaut scrisse di lui, dopo la sua morte: “Dean va contro cinquant’anni di cinema. Lui recita qualcos’altro da quello che pronuncia, il suo sguardo non segue la conversazione, provoca una sfasatura tra l’espressione e la cosa espressa. Ogni suo gesto è imprevedibile. Dean può, parlando, girare la schiena alla cinepresa e terminare in questo modo la scena, può spingere bruscamente la testa all’indietro o buttarsi in avanti, può ridere là dove un altro attore piangerebbe e viceversa, perché ha ucciso la recitazione psicologica il giorno stesso in cui è apparso sulla scena”. John Lennon giunse addirittura a dichiarare che “senza James Dean non sarebbero mai esistiti i Beatles”, li univa un legame spirituale intessuto con la cultura della musica rock. James Byron Dean, (il suo nome per esteso) star di Hollywood, dio pagano del ventesimo secolo, ruvido e disperato è un mix di esasperato egocentrismo e di una tensione senza fine. Un giovane anticonformista, un vulnerabile ragazzo in jeans, ribelle e impudente che muore come è vissuto, di corsa. Si schianterà contro una Ford sedan sbucata all’improvviso alla guida della sua “bambina”, una Porsche spyder 550, un bolide da trecento chilometri all’ora, all’età di 24 anni.
7 febbraio
PRIMO PIANO
Tra le note di Sanremo 2018.
Ieri sera ha preso il via la 68esima edizione del festival di Sanremo, che con la performance iniziale di Fiorello e il suo duetto con Baglioni, ha toccato il picco di 17,2 mln di ascolti. Il ciclone Fiorello ha travolto l’Ariston con un fuoco di fila di battute su Erdogan, sul festival, sulla politica, sul canone Rai, ha poi impersonato Morandi-Baglioni e duettato con Claudio, al posto della malata Pausini, sulle note di E tu. Baglioni, il direttore artistico del festival che è stato affiancato nella presentazione dalla elegantissima Michelle Hunziker e dal bravo Pierfrancesco Favino, ha mantenuto la promessa della vigilia di dare spazio soprattutto alle canzoni e così è stato: canta Morandi con Baglioni, incantando con “Se non avessi più te” il pubblico, canta Favino, che ha alternato, con ironia, canzoni famose a qualche verso di celebri classici italiani, il cast di A casa tutti bene canta Bella senz’anima, canzone chiave del nuovo film di Gabriele Muccino, nelle sale dal 14 febbraio. E veniamo alle canzoni in gara: molti i motivi apprezzati e gli applausi per Ermal Meta e Fabrizio Moro, Nina Zilli, Noemi, Annalisa, Ron, che ha presentato un brano inedito di Lucio Dalla, Ornella Vanoni che si esibisce con Pacifico e Bungaro. Il colpo di scena è arrivato però con Lo Stato sociale, la band bolognese che ha conquistato il pubblico facendo danzare in Una vita in vacanza Paddy, una anziana ballerina professionista di 80 anni, già stella di Britain’s Got Talent. La serata si è chiusa con una prima classifica, del tutto provvisoria, che divide i cantanti in tre “aree”, alta media e bassa, secondo i voti della giuria demoscopica. Nell’area più bassa ci sono Red Canzian, i Decibel, Diodato e Roy Paci, Avitabile e Servillo, Facchinetti e Fogli, Le vibrazioni, Renzo Rubino; nell’area centrale Barbarossa, Elio e le Storie tese, Caccamo, Biondi, The Kolors e Vanoni-Pacifico-Bungaro. Infine, nella zona più alta, Annalisa, Lo Stato sociale, Max Gazzè, Meta-Moro, Zilli, Noemi e Ron. Stasera, mercoledì, apriranno la gara le Nuove Proposte, seguite dai Campioni. Tra gli ospiti Il Volo con un omaggio a Sergio Endrigo: Canzone per te. Biagio Antonacci duetterà con Baglioni su Mille giorni di te e di me, Sting e Shaggy arriveranno col brano nuovo e con Muoio per te. Fra gli altri ospiti Franca Leosini, il Mago Forest e Pippo Baudo che torna a Sanremo 50 anni dopo il primo Festival.
DALLA STORIA
Rosa Luxemburg. (“La libertà è sempre libertà di dissentire”, Rosa Luxemburg).
(Rosa Luxemburg in una fotografia scattata tra il 1895 e il 1900)
Il 7 febbraio del 1914, sei mesi prima dello scoppio della prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg pronunciava la sua famosa autodifesa, al Tribunale di Francoforte, durante il processo intentatole per incitamento alla diserzione. La Luxemburg aveva manifestato contro la guerra e incitato i soldati alla disobbedienza. (“… che i popoli possono già attualmente limitare il numero delle guerre, opponendosi a coloro che le guerre le fanno e le dichiarano; che questo diritto spetta in modo particolare alle classi operaie, che sono quasi le sole che vengono chiamate al servizio militare e che per questa ragione sono le sole che possono dare una sanzione; … bisogna agire con il massimo impegno onde evitare una guerra fra popolo e popolo che, al giorno d’oggi, in quanto guerra fra i lavoratori, quindi fratelli e cittadini, sarebbe da ritenersi civile…). La Luxemburg, come motivava le sue convinzioni? “Le crisi”, osservava “sono fenomeni organici inseparabili dall’economia capitalistica”, essendo esse “il solo metodo possibile di risolvere lo iato tra la capacità illimitata d’espansione della produzione e gli stretti limiti del mercato. Nello sviluppo del capitalismo, il militarismo svolge un ruolo decisivo rendendo possibile la conquista militare di interi continenti e fra paesi capitalistici per il controllo di aree non ancora capitalisticizzate. Il militarismo è dunque il più fruttuoso alleato del capitalismo. Sicchè, secondo la Luxemburg, è la guerra (come esito necessario del capitalismo), ancor più delle crisi economiche, a rendere necessaria la rivoluzione”. Rosa Luxemburg, questa donna fragile, “con un corpo piccolo, una grande testa e gli occhi profondi, bellissimi”, come la descrisse Lev Trosky, segnata da una malattia che l’aveva resa claudicante, una delle menti più brillanti dell’ideologia marxista è stata una politica, filosofa e rivoluzionaria indomita che dedicò tutta la sua esistenza alle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e per questo assassinata. Rosa Luxemburg verrà uccisa, insieme al suo compagno di lotte Karl Liebknecht, dai Freikorps, corpi militari agli ordini del governo socialdemocratico di Frederich Ebert, durante il moto rivoluzionario spartachista che vuole seguire in Germania l’esempio della rivoluzione bolscevica russa. Ma non precorriamo i tempi. Rosa, polacca di nascita nacque il 5 marzo 1871, anno della Comune di Parigi, a Zamosc, in provincia di Lublino, quando la Polonia era parte dell’Impero russo, oppresso dal duro autoritarismo degli Zar. I Luxemburg, ebrei come un terzo degli abitanti della città, non avevano particolari contatti con la comunità ebraica. In casa non si parlava l’yiddish, ma il polacco e si conosceva bene il tedesco e il russo, la lingua ufficiale. La Luxemburg, autodidatta, imparò a leggere e a scrivere da sola e, quando nel 1884 fu iscritta al Secondo Liceo femminile, rivelò subito un’indole passionaria aderendo al gruppo rivoluzionario clandestino “Proletariat” e, in seguito, all’“Unione dei lavoratori polacchi”, altro gruppo di opposizione fondato nel 1889, entrambi decimati dagli arresti che minacciarono anche lei. La Luxemburg si batteva per concretizzare “Un mondo dove essere socialmente uguali, umanamente diversi e totalmente liberi”. “Nel corso della sua breve vita, conobbe tre grandi rivoluzioni e prese parte ai più importanti dibattiti tra i socialisti internazionali. Questi non avevano un modello di rivoluzione socialista di successo ma erano alle prese con il problema dei lavoratori e del come essi avrebbero dovuto lottare e prendere coscienza del bisogno di cambiamento della società. Quando Rosa si trasferì in Germania, a seguito di una repressione di Stato, si era già affermata tra i socialisti internazionali come pensatrice marxista. Si attivò all’interno del partito socialdemocratico tedesco, il più grande partito a favore della classe operaia del mondo. Schieratasi fermamente nel 1914 contro l’adesione della Socialdemocrazia alla guerra, abbandonò il partito, giudicandolo ormai un “cadavere maleodorante”; e nel 1915 fondò insieme a Karl Leibknecht la “Lega di Spartaco”, un movimento collocato sull’estrema Sinistra e che prendeva il nome da quello Spartaco, un movimento che aveva condotto la rivolta degli schiavi a Roma e che tanto caro era a Marx”. Proprio la “Lega di Spartaco”, dopo il conflitto, promuoverà la fondazione del Partito comunista tedesco. Rosa fu marxista, creativa e ragionevole, pronta a difendere le idee di Marx ed Engels ma predisposta a svilupparle, se necessario”. … (Simona Verchiani e Diego Fusaro). Molto del fascino che esercitava Rosa Luxemburg, infatti, deriva dal suo rifuggire dagli schemi, da tutti gli schemi, così come ce la racconta lo scrittore e giornalista Paolo Soldini in una trasmissione radiofonica a lei dedicata: “… fu socialista, ma sono sue le critiche più feroci ai partiti socialdemocratici del tempo e alla II Internazionale; fu comunista, ma colse e denunciò il pericolo degli esiti dittatoriali della lotta di classe; ammirò la rivoluzione d’ottobre, ma non amava i bolscevichi e diffidava di Lenin presagendo quasi la degenerazione della costruzione tragica sul socialismo in un solo Paese; credeva nella Rivoluzione, ma una crudele beffa della Storia la portò a morire proprio durante una sanguinosa insurrezione che lei non aveva voluto, ma che aveva cercato anzi di evitare perché sapeva che i tempi non erano maturi e alla quale, però, alla fine aveva aderito per lealtà verso i compagni e il loro capo Karl Leibknecht; fu una femminista radicale e coraggiosa, ma riteneva che la vera liberazione della donna potesse arrivare a compimento soltanto nella liberazione delle classi oppresse. Gli elementi della complessità di Rosa Luxemburg, spiegano perché il suo pensiero abbia esercitato ed esercita ancora un peso importante nella cultura della sinistra europea. Le questioni affrontate da lei nella sua breve vita, fu uccisa a soli 48 anni, sono quelle in fondo in cui il movimento operaio socialista europeo ha dovuto fare difficilissimi conti, in parte ancora non del tutto chiusi. Il rapporto con la democrazia politica e il parlamentarismo, per esempio, il ruolo della lotta sindacale, il valore dell’Internazionalismo. Proprio da un contrasto sul valore dell’internazionalismo, nella fase cruciale in cui i partiti socialisti europei si schierarono nella guerra mondiale cui gli imperialismi precipitavano nel Continente, venne la rottura con il riformismo socialdemocratico simboleggiato dalla rottura del sodalizio politico e umano con Karl Kautsky, assieme al quale Rosa aveva lottato contro il revisionismo di Bernstein. Furono queste le scelte della Luxemburg che evidenziano la parte più originale del suo pensiero politico, in cui spicca l’autonomia delle posizioni e la radicalità delle analisi, nell’arco degli ultimi cinque, sei anni della sua vita. …”. Incarcerata più volte per il suo attivismo, scrisse anche durante la detenzione. La Luxemburg lascia una vastissima produzione scritta di carattere teorico, economico e sociale. Dopo la stesura del suo libro più famoso, “L’accumulazione del capitale”, lei stessa commentò: “Il periodo in cui scrissi “L’accumulazione” è tra i più felici della mia vita … il processo del pensiero, quando rigiravo una questione intricata passeggiando lentamente su e giù (…) oppure la stesura, il fatto di dare una forma letteraria con la penna in mano. (…) Ho scritto l’intero libro d’un fiato, in quattro mesi …”. Poche personalità, a cavallo tra fine ‘800, la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’ottobre ebbero la complessità di Rosa Luxemburg. Una complessità contrassegna da un fascino intellettuale che è sotto i nostri occhi ancora oggi, dopo tanto tempo e che produce una vasta bibliografia sulla sua figura che ispira ed è un punto di riferimento per una parte importante della sinistra europea.
Ora è sparita anche la Rosa rossa.
Dov’è sepolta non si sa.
Siccome disse ai poveri la verità
I ricchi l’hanno spedita nell’aldilà.
(Bertolt Brecht, “Epitaffio”, 1919)
(Rosa Luxemburg in una conferenza a Stoccarda nel 1907)
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Ricordiamo oggi un grande attore italiano, Romolo Valli, nato il 7 febbraio 1925, un grande signore fuori e dentro il set. Un intellettuale puro, dalla cultura profonda, laureato in giurisprudenza solo per far contenti i genitori per poi dedicarsi a tutto ciò che era spettacolo, la sua predilezione: spettacoli di rivista, letture sceniche, critiche teatrali e cinematografiche, organizzazione di circoli del cinema, regia di commedie. Attore con la Compagnia del “Carrozzone di Fantasio Piccoli nel 1949 costituì, nella stagione 1954-55, la “Compagnia dei giovani” con Giorgio De Lullo, Rossella Falck e Annamaria Guarnieri, che resta uno dei più importanti e duraturi esempi di compagnia privata ad alto profilo professionale. Romolo Valli si provò in un numero importante di ruoli da lui sempre affrontati con grazia intelligenza e vigore interpretativo, memorabili le sue “performances pirandelliane”. Importante anche la sua carriera cinematografica (vinse tre Nastri d’argento come migliore attore non protagonista) in ruoli incisivi e sotto la direzione dei più grandi registi da De Sica ne “Il Giardino dei Finzi Contini” come in “Novecento”, di Bernardo Bertolucci o Mario Monicelli ne “La grande Guerra” e moltissimi altri. Negli anni ’70 fu direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto e successivamente del Teatro Eliseo e del Piccolo Eliseo di Roma con Giuseppe Patroni Griffi e Giorgio De Lullo, compagno storico nella vita e in teatro. Morì, troppo presto, nel febbraio del 1980 in un incidente sull’Appia Antica.
6 febbraio
PRIMO PIANO
Echi della visita di Erdogan a Roma: real politik e diritti umani.
In una capitale blindata per evitare le manifestazioni di protesta delle comunità curde e dei gruppi che avebbero levato la voce in nome dei diritti umani negati, si è svolta ieri la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che è stato ricevuto in udienza da Papa Francesco per poi incontrare il Presidente della Repubblica Italiana Mattarella e il Presidente del Consiglio Gentiloni. La stampa in genere si è limitata alla notizia, senza darle particolare risalto e tenendo un basso profilo, perché Erdogan non ha per niente le carte in regola, in quanto la repressione dei diritti umani in Turchia, da anni sotto la lente di ingrandimento dell’Unione Europea, si è aggravata dopo il fallito golpe del luglio 2016 a cui è seguita una vera e propria caccia alle streghe, durante la quale sono finite in carcere oltre 51mila persone. Inoltre l’operazione militare turca “Ramoscello d’ulivo” nel Nord della Siria, ufficialmente organizzata da Ankara contro il terrorismo di matrice curda e jihadista, ha già provocato oltre 100 vittime. Erdogan si è recato in udienza in Vaticano per trovare un appoggio nella lotta contro la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendola automaticamente capitale dello Stato d’Israele, e per crearsi un credito di rispettabilità. La porta della Chiesa non si sbatte in faccia a nessuno, ma era opportuno riceverlo come capo di uno Stato che esercita una repressione sistematica e violenta delle minoranze e dei diritti umani? Una donna curda, al sit-in di protesta a Castel Sant’Angelo, ha urlato: “Ecco la vostra democrazia noi siamo qui a difendere le nostre madri e i nostri figli. Oggi avete perso voi e anche il Papa. Il popolo curdo è qui a chiedere la pace. Avete perso l’umanità”. Erdogan è venuto in Italia soprattutto per accreditarsi come leader di primo livello sullo scacchiere internazionale e ha incontrato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il premier Paolo Gentiloni nonché gli amministratori delegati delle più importanti aziende italiane per solleciteare l’ingresso dela Turchia nella UE. Ci chiediamo se tale visita fosse opportuna proprio quando l’Unione Europea ha ribadito la condanna del giro di vite sulla libertà di stampa e sui diritti umani in Turchia. Purtroppo una cosa sono le dichiarazioni di principio e una cosa sono i fatti. Come scrive il giornalista Gabriele Crescente dell’Internazionale “la Turchia è semplicemente troppo importante. Può far riesplodere in un attimo la crisi dei migranti, rompendo l’accordo con l’Unione europea che nel 2016 ha chiuso la rotta balcanica. E può approfondire ulteriormente il suo coordinamento con la Russia, togliendo agli europei qualunque possibilità di influenzare l’esito della guerra in Siria e il futuro assetto del Medio Oriente. Due minacce temibili soprattutto per l’Italia … che ha bisogno della collaborazione della Turchia per stabilizzare la Libia e che ha ad Ankara uno dei partner cruciali del gasdotto Tap e degli altri progetti energetici nella regione.” La Turchia resta uno dei mercati più importanti per l’industria bellica italiana e ha appena firmato un accordo preliminare per lo sviluppo di un sistema di difesa aerea con il consorzio franco-italiano Eurosam, di cui fa parte la Leonardo, l’ex Finmeccanica, controllata dal governo italiano. Dobbiamo constatare che ancora una volta, come sempre dal lontano Seicento, a predominare è la ragion di stato.
DALLA STORIA
Mary Leakey.
(Louis e Mary Leakey esaminano il palato di “Zinyanthropus boisei”)
Nel panorama della ricerca archeologica e prim’ancora in quella antropologica una figura femminile, in un mondo dominato da personalità maschili, si staglia per importanza per aver rinvenuto, grazie alla sua competenza ed intuito, reperti antropologici di valore fondamentale per lo studio sulle origini dell’uomo. Lei è Mary Leakey universalmente considerata l’archeologa e paleoantropologa più famosa del XX secolo. Era nata a Londra, il 6 febbraio 1913 ma, fin da piccola suo padre, famoso pittore di paesaggi la portò con sé nei suoi viaggi in tutta Europa ed in Egitto, dove trovava ispirazione per i suoi quadri che rivendeva poi in Inghilterra. Fu durante un lungo soggiorno nella regione francese della Dordogna, un’area ricca di siti preistorici e archeologici (qui erano stati rinvenuti, per esempio, scheletri di Uomo di Cro-Magnon, una antica forma di Homo sapiens) che Mary provò interesse verso quel lontanissimo mondo primordiale. Interesse che ben presto si trasformò in una grande passione che l’accompagnerà per tutta la vita. Con la morte del padre, avvenuta prematuramente nel 1926, Mary subì un brusco cambiamento nello stile di vita. Ritornò con la madre a Londra e fin da subito rivelò un carattere ribelle tanto da venire espulsa dalle varie scuole a cui la madre la iscriveva. Era insofferente all’insegnamento scolastico verso il quale non provava alcun interesse ma, dimostrò una particolare abilità nel disegno che la portò a seguirne, non iscritta, alcuni corsi. Lì incontrò Mortimer Wheeler, un importante archeologo inglese che le chiese di seguirlo in alcuni scavi. Mary, a soli diciassette anni, partecipò così come illustratrice a una campagna di scavi in un sito del Neolitico, nel sud dell’Inghilterra. Per due anni illustrò l’avanzamento degli scavi realizzando schizzi e disegni dei resti fossili e degli utensili preistorici rinvenuti sotto la guida dell’archeologo Dorothy Liddell. Nel 1930 intraprese studi universitari di archeologia e biologia specializzandosi in paleoantropologia, senza però laurearsi. Nel frattempo i suoi disegni attirarono le attenzioni di un’altra archeologa, Gertrude Caton Thompson, che nel 1933 le chiese di illustrare il suo libro. Nello stesso anno, all’Università di Cambridge incontrò il famoso e carismatico paleontologo Louis Leakey che sposerà nel 1936 e con il quale, a partire dalla fine degli anni Trenta, parteciperà a numerose spedizioni in Africa orientale. I coniugi Leakey trascorreranno lunghi periodi fra Kenya e Tanzania, presso la gola di Olduvai, sito archeologico nella pianura del Sergenti. Le conoscenze e le competenze accumulate sul campo nel corso degli anni consentirono a Mary di poter lavorare in piena autonomia. La sua prima scoperta importante risale al 1948, anno in cui nell’isola keniota di Rusinga ritrova un teschio fossile di Proconsul, un primate estinto del Miocene. Nel 1959 Mary e il marito fanno la loro prima grande scoperta: nella gola di Olduvai, un canalone eroso dalle acque, profondo un centinaio di metri, a nord-est del lago Eyasi (Tanzania) viene ritrovato un cranio ben conservato di Australopithecus boisei, che chiamarono Zinyanthropus boisei, o più semplicemente “Ziny”. È il primo ben conservato e anche il più antico resto di ominide conosciuto all’epoca. Il sistema di datazione potassio-argo, applicato alle ceneri vulcaniche, gli assegna infatti un’età di un milione e ottocentomila anni. “Ziny”, chiamato anche “schaccianoci” per l’eccezionale potenza delle sue mascelle, rese di colpo la famiglia Leakey famosa in tutto il mondo. All’inizio degli anni ’60 Mary e Louis Leakey si trasferirono definitivamente in Tanzania, in modo da potersi dedicare costantemente alle ricerche nella gola di Olduvai. Nel 1964 marito e moglie ebbero un altro grande successo: scoprirono una nuova specie, più antica dell’erectus di un milione di anni. Venne battezzata Homo habilis, dalla sua capacità di scheggiare ciottoli. Nel 1974 Mary iniziò gli scavi nelle vicinanze di Laetoli e nel 1976 il suo team portò alla luce un gran numero di impronte animali fossilizzate dalla cenere di un vulcano. Nel 1978 fece la sua più grande scoperta: alcune file di impronte fossili lasciate da ominidi bipedi. Dopo la morte del marito Mary sarà la responsabile di tutte le successive campagne di scavo per ritirarsi, dall’attività sul campo, nel 1983 trasferendosi a Nairobi, dove morì il 9 dicembre 1996, all’età di 83 anni.
IL PERSONAGGIO
Ricordiamo oggi l’anniversario di nascita di un celebre poeta e scrittore italiano, Ugo Foscolo, tra i letterati il massimo esponente del Neoclassicismo. Foscolo nasce a Zacinto (oggi Zante) il 6 febbraio 1778, isola del Mar Ionio allora governata dalla Repubblica di Venezia. Il padre, Andrea, è medico; la madre, Diamantina Spathis, è greca. L’essere nato in terra greca e da madre greca ha sempre rivestito molta importanza per Foscolo, sentendosi per tali origini profondamente legato alla civiltà classica e suo ideale erede. L’isola natia è rimasta sempre nella memoria come simbolo di bellezza, gioia vitale, fecondità e l’ha cantata più volte nella sua poesia. Buon ascolto a tutti!
A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
https://www.youtube.com/watch?v=PIXkdINYKqs
5 febbraio
PRIMO PIANO
La cronaca e l’orrore.
I fatti sono noti. Quello che è successo nei giorni scorsi a Macerata ci rimanda ancora una volta a quel tempo buio che scorre spesso impalpabile ma onnipresente a fianco dei nostri giorni normali. Come dire, il buio oltre la siepe. Oltre il giardino di casa.
Ricapitoliamo, Pamela Mastropietro, una giovane ragazza tossicomane si allontana dalla Comunità di accoglienza dove era ricoverata probabilmente alla ricerca del suo veleno abituale e si imbatte in un pusher nigeriano. Poi succede (non si sa ancora bene come) che muoia lì a casa dello spacciatore e venga letteralmente fatta a pezzi al fine di sbarazzarsi in fretta del suo corpo in due trolley abbandonati lungo una strada fuori città. Agghiacciante, ma ancora di più che il suo cuore e le sue viscere non si trovino, scomparse, rimandando al peggio che si conosce da tempo circa la mafia nigeriana, in preoccupante espansione in Italia così come in Europa. Alla sua proverbiale crudeltà e ai suoi allucinanti riti tribali di iniziazione. Il carnefice massacratore viene arrestato quasi subito.
Passano quindi solo due giorni dal ritrovamento dei poveri resti di Pamela e un’altro giovane di 28 anni, fascista dichiarato ed ex candidato della Lega nel 2017 alle Comunali di Corridonia, centro lì a pochi chilometri, pensa bene di dar vita ad un raid punitivo, altrettanto criminale, impazzando in auto per le strade della città sparando allo “straniero”. Sei feriti, di cui 2 gravi. Dopo due ore di vero e proprio panico procurato, si ferma, scende dalla macchina, si copre con il tricolore, inneggia al suo credo demenziale e si consegna senza fare resistenza alle forze di polizia davanti al monumento ai caduti.
Una follia devastante collega questi due gravissimi episodi che sarebbero potuti capitare dovunque e non necessariamente nella tranquilla città marchigiana, comunque non nuova in passato da altri fatti terribili e feroci.
Riteniamo però che non si possa imputare tutto alle pericolose e tante patologie che accompagnano questo nostro tempo. Proviamo a capire. In primo luogo, al di là delle responsabilità soggettive, non si può dire che lo “spaccio” riguarda solo gli extracomunitari, di cui tanti sono impegnati senza dubbio in questo vigliacco commercio, ma qui da noi (prima gli italiani) non ci facciamo mancare proprio niente in proposito, anzi. Proprio ieri la Cronaca romana di Repubblica ricordava un caso similare del 2014 finito anche quello in tragedia, ma senza successiva macelleria. In quel caso il pusher non era un africano bensì un nostro compatriota, adesso sotto processo. Stesso discorso per il massacro riservato a Pamela. Lo scorso ferragosto sempre a Roma, un insospettabile concittadino residente fece a pezzi la sorella, distribuendone i resti in sacchi della spazzatura distribuiti nei cassonetti del quartiere Parioli. Come detto in altre occasioni, non si tratta di minimizzare un fenomeno reale quale quello dell’immigrazione clandestina che crea indubbiamente disagio e insicurezza a prescindere, dando vita molto spesso a tensioni sociali evidenti, ma capire una volta per tutte che ci troviamo a fare i conti con un fenomeno biblico di portata epocale, rispetto al quale non sono possibili né scorciatoie, né tantomeno una facile e pericolosissima demagogia d’accatto. Siamo in presenza di un flusso inarrestabile di persone, esseri umani come noi, donne uomini bambini che fuggono via da guerre, umiliazioni, violenze, carestie o più semplicemente da condizioni terribili di esistenza e pensano di salvare le proprie vite ed il proprio futuro attraversando deserti e montagne, solcando il mare, per trovare anche loro una condizione più degna, a cui la nostra società ci ha abituati, anche nelle sue pieghe più marginali e difficili. Quale colpa possono avere costoro se non quella di essere nati sfortunatamente in un’altra parte del mondo? Certo fra milioni di individui in fuga ci sono sicuramente delinquenti comuni, razziatori, mercanti di schiavi così come veri e propri criminali. Non potrebbe essere altrimenti. Però è responsabilità dei governi e fra questi quello italiano in particolare, predisporre una politica adeguata che dia regole precise ai flussi, alla distribuzione sui territori, ai criteri di selezione e ai rimpatri, senza dimenticare contemporaneamente che è prioritario e indispensabile creare allo stesso tempo reali condizioni di accoglienza tali da favorire si l’integrazione, ma anche un pieno rispetto delle leggi e dei contesti ospitanti.
Non è facile. Ci vuole tempo, coesione e pazienza, così come è urgente una iniziativa internazionale forte e sincera nei Paesi di provenienza, facendo comunque prevalere sempre la stella polare della libertà, della democrazia e dei diritti, che non può non ispirarsi ad un principio generale di ridistribuzione della ricchezza e di progressiva riduzione delle diseguaglianze.
Ogni logica che proponga invece semplificazioni autoritarie, che agiti fantasmi e paure per ragioni di bassa politica, è destinata a condurci inevitabilmente verso un buio della mente ancora più profondo della “follia vendicatrice” del giovane giustiziere di Macerata.
E’ una strada già drammaticamente conosciuta nel passato, tale da generare piccoli e grandi mostri, ma soprattutto una frantumazione delle coscienze, facile mercé della xenofobia, del razzismo, dell’intolleranza e della violenza.
A breve ci sarà nel nostro Paese una incerta tornata elettorale che potrà essere ci auguriamo un banco di prova per interrogarci tutti circa il nostro cammino, con la speranza che si possa ritrovare la via maestra della fiducia, ma soprattutto del buon senso e una dimensione di un sentire comune oggi dispersa.
F.M.
DALLA STORIA
La storia non si ripete ma fa le rime.
Riprendiamo oggi le pubblicazioni del DayByDay attraverso alcune riflessioni sollecitate dagli articoli di approfondimento che hanno contrassegnato questa rubrica dedicata, accanto alla cronaca della notizia del giorno, alla narrazione degli avvenimenti storici. Fatti del passato che tracciano non solo date e percorsi storiografici ma che cercano, nello sviluppo narrativo, attraverso le testimonianze, la ricerca documentata e le divergenti opinioni, di rinnovarne la memoria per trarne, se possibile, insegnamento. Oggi, perciò, vogliamo dedicare lo spazio dell’approfondimento al tema della memoria per richiamare l’importanza fondamentale e la condizione indispensabile che essa rappresenta, per non dimenticare. La memoria, dunque, come possente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del presente. “La Storia non si ripete, anche se spesso fa le rime con se stessa”. (Mark Twain). Guardando al passato pensiamo, così come ci ricorda Carlo Greppi, dottore di ricerca in Studi storici che “è doloroso rendersi conto del fatto che, in quanto uomini e donne, possiamo essere terribili quanto possiamo essere meravigliosi”. Di fronte all’attuale crescita dei movimenti xenofobi, al ritorno del nazionalismo, agli sbarramenti e alla tendenza autartica del mercato, si coglie un clima che rimanda, per analogia, agli anni della Repubblica di Weimar, dove il Governo sottovalutando la ferocia nazista ne decretò l’avvento. Nell’intervista rilasciata al giornalista Marco Sferini, lo storico Carlo Greppi pensa che è fondamentale sapere riconoscere le rime e che questi movimenti dovrebbero essere combattuti con le parole, innanzitutto, anche se è faticoso e anche se può essere persino pericoloso. “Bisognerebbe cominciare” sostiene il professor Greppi “dal nostro vocabolario, abolendo la parola “identità”: gli antropologi lo scrivono da anni, e sono rimasti inascoltati. Ciascuno è identico solo a se stesso (e forse neanche in questo caso) e se i promotori delle nuove crociate identitarie si fermassero a riflettere anche un solo secondo, scoprirebbero che tutto ciò che credono di essere è stato in gran parte costruito a tavolino, neanche troppi anni fa. … la nostra autopercezione è gran parte una costruzione culturale capace di produrre dei danni spaventosi”. Pensando al tema della “zona grigia” che lo storico ha affrontato nel suo ultimo libro (Uomini in grigio), statisticamente, se il presente dovesse prendere una direzione drammatica come la storia di cui stiamo parlando, la stragrande maggioranza di noi non sarebbe carnefice o cacciatore di uomini, né sarebbe vittima, ma starebbe in quel magma indistinto tra i due estremi. Questo tema, a lungo ignorato, è tuttora oggetto di feroci polemiche”. Se la società attuale è sempre più omologata, un posto dove si innalzano muri invalicabili e dove i sentimenti di odio e di paura fanno vedere l’altro, il “diverso”, come il nemico da eliminare e così via, “è certamente più comodo pensare che il male sia sempre una faccenda lontana da noi, che sia stato un affare di altri, in un tempo lontano, che non può tornare. “Ma certe rime”, continua Greppi “si fanno sempre più sentire, e se provo a guardare il nostro presente con gli occhi degli storici del futuro, mi chiedo: come ci definiranno? Cosa diranno di noi, di noi che sapevamo tutto o quasi? Come racconteranno il nostro tempo?
Mary Titton
IL PERSONAGGIO
Il 5 febbraio del 1944 nasce a Cervia in Romagna Piero Focaccia, cantante italiano abbastanza famoso soprattutto negli anni ’60. Proprio nel 1963 incide e lancia Stessa spiaggia e stesso mare, canzone che rimarrà nel tempo il suo più grande successo, ma anche tormentone che per più di tre anni invaderà le spiagge italiane e le sale bar un po’ d’appertutto, gettonata implacabilmente fra flipper e calciobalilla, fra una sambuca e un Rosso Antico. Scritta da Edoardo Vianello sarà incisa anche da Mina. Il buon Piero partecipa a diverse edizioni del Festival di Sanremo e di Un disco per l’estate. Ricordiamo in proposito altri due pezzi di successo: Permette signora del 1970 e Il sabato a ballare dell’anno successivo. Nel 1972 trasferisce tutta la sua esuberanza romagnola in un film di Mariano Laurenti, La bella Antonia, prima monica e poi dimonia, interpretando fra l’altro come autore la canzone La mutanda (sic!). È attualmente vispo e attivo nelle tante serate fra locali e balere di cui è mattatore assoluto. Musica ragazzi.
https://m.youtube.com/watch?v=qvaCyff7Jn4
2 febbraio
RIPRENDIAMO LE TRASMISSIONI …
da lunedì prossimo il DayByDay riparte con la sua cadenza giornaliera e ci accompagnerà come in questi due anni precedenti, lungo il corso di tutto il 2018. Ci saranno molte novità sia nell’impostazione ma anche sotto il profilo tecnico per rendere quanto più fruibile ed interessante questa nostra piccola ma importante rubrica che, come scrivevamo nei saluti di Natale, ci sta riservando non poche gradite sorprese, per numero di utenti e per l’assidua frequentazione degli stessi. Forse un po’ ingenuamente pensavamo che già a gennaio, saremmo stati pronti con la nuova veste editoriale di cui avevamo dato notizia, ma la complessità del lavoro e degli interventi necessari avrebbero fatto invece slittare almeno per ancora altri due mesi la ripresa delle pubblicazioni. Pertanto abbiamo deciso di procedere comunque secondo programma, però lavorandoci giorno per giorno, dando modo a tutti i nostri lettori di vivere con noi in diretta le novità e i cambiamenti previsti.
… quindi, continuate a seguirci affezionatamente.
Buona lettura a tutti!
25 gennaio
ci siamo quasi. La redazione nel confermarvi che il DayByDay sarà presto di nuovo in linea, ricorda che nel 2017 fra le notizie, a nostro giudizio maggiormente degne di nota, figura sicuramente il caso Regeni. Oggi nel secondo anniversario del ritrovamento del corpo di Giulio, abbandonato in un fosso lungo l’autostrada che porta ad Alessandria d’Egitto, non possiamo non proseguire nella campagna di ricerca della verità sulla sua morte. Il giovane ricercatore, scomparso al Cairo la sera del 25 gennaio 2016, ritrovato cadavere dopo alcuni giorni, merita almeno questo da parte di chiunque abbia a cuore un elemento anche minimo di giustizia. Partecipiamo quindi idealmente alle iniziative in corso in molte città d’Italia e siamo vicini ai genitori, che mai si sono arresi di fronte ai silenzi e alle difficoltà che hanno caratterizzato sul fronte egiziano l’inchiesta fin dall’inizio.