22 gennaio
DALLA STORIA
Lenin muore. Era il 21 gennaio 1924.
Il leader della Rivoluzione russa, il primo capo di stato della Russia sovietica e l’inventore del marxismo-leninismo e, secondo l’Enciclopedia Britannica “l’uomo più importante del XX secolo”, muore, a soli 53 anni, a causa di una gravissima forma di arteriosclerosi dopo essere stato due anni su una sedia a rotelle o bloccato a letto, seguito costantemente dalla moglie. L’ultimo sforzo di Lenin, impedire a Stalin di succedergli, fallì completamente. Poco dopo la sua morte Stalin prese la guida del partito ed in pochi anni divenne il padrone assoluto della Russia, iniziando un’epoca di terrore, carestie, deportazioni ed esecuzioni su scala enormemente più ampia di quella mai immaginata da Lenin. Il primo ministro Winston Churchill, che pure era molto critico nei suoi confronti, scrisse che soltanto Lenin avrebbe potuto impedire alla Russia di imboccare quella tragica strada: “La più grande sfortuna della Russia è stata la nascita di Lenin. La seconda è stata la sua morte”. “La tomba di Lenin è la culla della rivoluzione”, proclamavano con fierezza migliaia di striscioni svettanti su un’enorme folla, nel giorno del funerale del fondatore dell’URSS. Era il gennaio del 1924. Sessant’anni dopo, nel gennaio del 1992, l’URSS cessava di esistere: il comunismo e la rivoluzione erano ormai completamente screditati e le statue dei capi, divelte, giacevano nei parchi, derisoria testimonianza di una gloria svanita. Ma, sulla piazza Rossa, davanti al Cremlino, il mausoleo “culla della rivoluzione” continuava a ospitare il corpo imbalsamato di Lenin esposto per tre quarti di secolo alla devozione delle folle, “reliquia rivoluzionaria”, come diceva Stalin. Oggi, la folla non si accalca certamente più per contemplare l’ “amato capo” (Vojd’), ma il ricordo di Lenin non si è del tutto spento. “L’URSS è ormai rientrata nella Storia e la memoria di Lenin appartiene a coloro che riflettono sugli uomini e sugli avvenimenti, senza preoccuparsi delle esigenze o degli imperativi politici …”. Questa frase descrive l’ambizione che si propone la storica Hélène Carrère d’Encausse attraverso la sua straordinariamente completa, accurata e letteraria biografia dal titolo “Lenin”, (sottotitolo: L’uomo che ha cambiato la storia del ‘900), 1998, ed. Corbaccio, quella di fornire un contributo a togliere la figura di Lenin dalle passioni ideologiche per inserirla nella storia di un secolo che, piaccia o meno, è stato dominato dalla volontà e dalle idee di questo rivoluzionario. L’autrice conosce perfettamente la storia russo-sovietica e non ignora i lati oscuri della personalità di Lenin che hanno accompagnato, in alcune fasi, con la dittatura, il processo di trasformazione di un Paese arretrato, con ancora i servitori della gleba verso un nuovo pensiero economico e sociale; ma, sa anche che il “fondatore di un nuovo mondo” è uno dei grandi protagonisti del secolo che seppe fondare uno Stato. Un tema controverso da trattare con distacco, obiettività, equilibrio. Non basta quindi esorcizzarlo e condannarlo. Occorre ricostruire la sua formazione intellettuale, penetrare nella sua psicologia, descrivere il momento storico in cui agì per conservare la memoria di una fase della Storia mossa da grandi sconvolgimenti e rivolte popolari nella richiesta dei diritti fondamentali crudelmente ignorati dal regime zarista dell’Impero russo. È importante conoscere per capire i passaggi chiave che portano alla dittatura, al verificarsi delle azioni violente fino alle atrocità (per scongiurare il ripetersi), mentre a milioni morivano di stenti ed altri milioni di contadini/soldati morivano in sanguinose guerre per volontà di generali che giocavano alla scacchiera dell’Intesa e alla difesa dei propri possedimenti. Nel libro della d’Encausse si legge nei risvolto del libro. “Molti dittatori del Novecento furono adulati in vita e odiati dopo la morte. Ma il caso di Lenin è alquanto diverso. Nel periodo che precedette la conquista del potere Vladimir Il’c fu il leader indiscusso della fazione bolscevica del partito socialdemocratico. Durante la rivoluzione, la guerra civile e la creazione dello Stato sovietico divenne l’oracolo del comunismo russo e mondiale. Dopo la morte fu venerato e divinizzato, il suo corpo fu imbalsamato e divenne meta di pellegrinaggi riverenti, le sue opere furono diffuse in milioni di copie e il suo volto, riprodotto da migliaia di artisti, fu collocato come una icona negli uffici dei militanti e nelle case dei fedeli, da Mosca e Ulan Bator, da Pyongiang, all’Avana. La scoperta degli errori e delle colpe di Stalin, dopo il XX congresso del partito comunista sovietico, non intaccò la sua immagine. Accadde anzi esattamente il contrario. La crudeltà di Stalin e il culto della personalità divennero “deviazione”, vale a dire imperdonabili tradimenti dell’ “ortodossia” leninista, e resero l’insegnamento del maestro ancora più importante di quanto non fosse stato negli anni precedenti. Anche Gorbacev evitò di rimettere in discussione il fondatore dello Stato e presentò le proprie riforme come un “ritorno al leninismo”. La fine del mito cominciò nel momento in cui la consultazione degli archivi sovietici rivelò la spietata strategia con cui Lenin aveva personalmente diretto il “terrore rosso” negli anni della guerra civile. Liberati dalle costrizioni della censura gli studiosi russi poterono dire liberamente che le “deviazioni” di Stalin e il fallimento del comunismo erano la logica conseguenza degli insegnamenti di Lenin e dei principi con cui egli aveva governato la Russia dalla presa del potere sino alla morte. Molti proposero allora che la mummia venisse rimossa dal mausoleo della Piazza Rossa e sepolta in un cimitero di Pietroburgo, accanto alle tombe dei suoi famigliari. Ma vi sono ancora settori della società russa in cui il culto di Lenin è profondamente radicato, e nessun governo, sinora, ha osato prendere tale provvedimento. Benché spesso chiuso e deserto il mausoleo è divenuto così il simbolo delle reticenze, delle ambiguità e dei compromessi su cui poggia dall’inizio degli anni Novanta la difficile transizione russa”. “In Lenin abbiamo l’uomo creato per quest’epoca di sangue e di ferro”. Trockij; O lenine, Mosca 1924.
Mary Titton
15 gennaio
DALLA STORIA
Debutta in Italia il film “Titanic”.
Sull’onda del successo americano, il 16 gennaio 1998, arrivava nelle sale cinematografiche italiane il film “Titanic”, di James Cameron con protagonisti Leonardo Di Caprio e Kate Winslet. Il film racconta “La tragedia navale più famosa della storia”, l’affondamento del Titanic. Il 14 aprile 1912 alle ore 23,40 il transatlantico Titanic, considerato inaffondabile dai costruttori, nel suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, dopo aver urtato un iceberg, affonda. La collisione provocò delle falle sulla fiancata destra e esattamente 2 ore e 40 minuti dopo l’impatto, alle ore 2,20 del 15 aprile, la nave venne inghiottita dalle gelide acque dell’Atlantico. Morirono 1523 dei 2223 passeggeri compresi 800 uomini dell’equipaggio. La nave era il più grande transatlantico del mondo e il più lussuoso mai costruito. Costò circa 7 milioni di dollari (400 milioni di dollari di oggi), il biglietto di sola andata per New York, in prima classe, costava 3.100 dollari dell’epoca (circa 70.000 dollari di oggi), quello di terza classe 32 dollari (circa 700 dollari di oggi) e fu costruito per garantire collegamenti settimanali con gli Stati Uniti. La tragedia colpì profondamente la coscienza collettiva incredula e spaventata davanti all’inabissamento di una nave all’ avanguardia per la tecnologia dell’epoca, ritenuta assolutamente inaffondabile e, anche se incidentalmente, dimostratasi insicura. Quel disastro aprì il dibattito di come sia discutibile per l’umanità confidare incondizionatamente nella “macchina” e fornì spunti di riflessione sull’ infallibilità della scienza e della tecnica che proprio in quei primi anni del Novecento si stavano affermando. A tale proposito vorrei citare un passaggio dal libro “Trattato del ribelle”, 1990, di Ernst Junger il quale, parlando del rapporto conflittuale tra l’uomo e la tecnica, sostiene: “La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata. In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrarono bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo del comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale. È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. … l’uomo, attualmente, ricorda il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte icerberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza esercitino un’autorità assoluta”. Junger, prosegue poi nel testo con ulteriori approfondimenti che spiegano con chiarezza i vari passaggi della sua analisi. Il pauroso incidente, anche per le ragioni descritte, ispirò numerose pellicole. Bellissima quella del 1953 del regista Jean Negulesco premiata con l’Oscar, ma sicuramente la più importante e ricordata, è Titanic di Cameron che qui raccontiamo attraverso la recensione di Joanna Berry, tratta da “I grandi capolavori del cinema “ ed. Atlante: “I retroscena delle tribolazioni di James Cameron per questo film sono quasi più drammatici del racconto presentato sullo schermo. Con un budget dichiarato di più di duecento milioni di dollari, ancora prima della sua uscita Titanic ha avuto il dubbio onore di essere il film più costoso di tutti i tempi. Gran parte del denaro è stata spesa per i ben sei mesi di riprese in Messico e per la riproduzione lunga circa duecentocinquanta metri del transatlantico affondato nel 1917 a causa di una collisione con un iceberg. Le riprese sono state perseguitate da numerose difficoltà, compresa un ritardo nelle riprese in Nuova Scozia dovuto a un’intossicazione alimentare che ha colpito attori e troupe. Sono circolate voci che Cameron fosse un perfezionista maniacale: la sua attenzione al dettaglio lo ha portato a ingaggiare, per una consulenza, la stessa ditta che aveva arredato il transatlantico negli anni Dieci, affinché gli potesse dare la certezza che ogni candeliere e ogni piatto fosse la copia esatta dell’originale. Incredibile il successo al botteghino (più di un miliardo di dollari di incassi in tutto il mondo) e undici gli Oscar vinti, cosa che non succedeva dai tempi di Ben Hur (1959). L’idea di Cameron si pone a metà storia d’amore fra “L’avventura del Poseidon” (1972) e il telefilm “Love Boat”, poiché storia d’amore e tragedia in alto mare sono presenti in egual misura. Kate Winslet è Rose, una giovane dell’alta società che sta per sposare il viscido Cal (Billy Zane), ma che si innamora del passeggero di terza classe Jack (Leonardo Di Caprio), prima che la nave più famosa del mondo si inabissi nella sua tomba d’acqua. La storia d’amore rappresenta il cuore del film. Cameron abbonda con gli effetti speciali per rendere il terrore provocato dagli avvenimenti e costringe i suoi attori a passare giornate intere immersi nell’acqua gelida per girare le scene in cui l’ “inaffondabile” si spezza e cola a picco. Titanic ha reso Di Caprio una superstar, soprattutto agli occhi delle adolescenti. In termini di produzione e portata epica, questo film rimane uno dei più imponenti della storia del cinema”.