DALLA STORIA
La piazza subito dopo l’esplosione
Il 28 maggio 1974, alle ore 10:00, in piazza della Loggia, a Brescia, durante un comizio antifascista, esplose un ordigno nascosto in un cestino della spazzatura. L’attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue. L’atto, riconducibile alla strategia della tensione, portò alla condanna in primo grado di alcuni esponenti dell’estrema destra. Uno di essi, Ermanno Buzzi, fu strangolato in carcere il 13 aprile 1981. Nel 1982 il processo di secondo grado commutò le condanne in assoluzioni, confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione. Un secondo filone di indagine partì nel 1984 e portò ad altri esponenti di destra: gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987 e prosciolti in appello nel 1989 con conferma da parte della Cassazione. Nel corso dei procedimenti giudiziari vennero alla luce indizi del coinvolgimento nella strage dei servizi segreti e di alcuni apparati dello Stato e una lunga serie di inquietanti circostanze: l’ordine del vicequestore Aniello Damaremeno, due ore dopo la strage, a una squadra di pompieri di ripulire frettolosamente con le autopompe il luogo dell’esplosione, spazzando via così reperti e tracce di esplosivo; la misteriosa scomparsa dell’insieme dei reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch’essi di fondamentaleimportanza ai fini dell’indagine; infine la recente perizia antropologica ordinata dalla Procura di Brescia su una fotografia di quel giorno che comproverebbe la presenza sul luogo della strage di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID. Inoltre l’invio nel 1989 da parte del SISMI di una velina, relativa a un’improbabile pista cubana, e la misteriosa fuga di un testimone in Argentina, avvenuta poco prima che i magistrati potessero ascoltarlo, portarono il giudiceistruttore Zorzi a denunciare l’esistenza di un meccanismo “che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”. Una terza istruttoria, nel 2005, ha portato alla richiesta di arresto per Delfo Zorzi, ormai divenuto cittadino giapponese non estradabile. Nel 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi. I primi tre erano, all’epoca, militanti del gruppo neofascista Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti. Francesco Delfino era un ex generale dei carabinieri, responsabile del Nucleo investigativo di Brescia. Giovanni Maifredi era collaboratore dell’allora ministro degli interni Paolo Emilio Taviani. Il 21 ottobre 2010 i pubblici ministeri formularono l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, escluso Pino Rauti, per il quale fu chiesta l’assoluzione per insufficienza di prove, anche se gli venne riconosciuta la responsabilità morale e politica nella vicenda. Il 16 novembre del 2010 la Corte d’Assise si pronunciò con l’assoluzione di tutti gli imputati, con formula dubitativa per Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino e Pino Rauti, il non luogo a procedere per Maurizio Tramonte e la revoca della misura cautelare per Delfo Zorzi. Il 14 aprile del 2012 la Corte d’Appello confermò l’assoluzione per tutti gli imputati e condannò le parti civili al rimborso delle spese processuali. Il 22 luglio 2015 Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi sono stati condannati, in appello, all’ergastolo. Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno posto l’accento sui “troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale,dell’epoca delle bombe” che hanno fatto da contorno allo stragismo neofascista degli anni di piombo, facendo ampio riferimento all’ “opera sotterranea” condotta da un “coacervo di forze” che di fatto hanno reso “impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità”. Queste le motivazioni della sentenza di appello del Tribunale di Milano, il 10 agosto 2016: «Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo, come altri in materia di stragi, è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze di cui ha parlato Vinciguerra [ex ordinovista che si è assunto la responsabilità della Strage di Peteano ndr], individuabili con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere che hanno prima incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema e hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche, visto che sono solo un leader ultra ottantenne e un non più giovane informatore dei servizi, a sedere oggi, a distanza di 41 anni dalla strage sul banco degli imputati, mentre altri, parimente responsabili, hanno da tempo lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe». Un ulteriore troncone di indagine risulta tuttora pendente presso la Procura per i Minorenni di Brescia a carico del veronese Marco Toffaloni. A seguito di rivelazioni del collaboratore di giustizia Gian Paolo Stimamiglio, al quale Toffaloni, ritenuto dagli inquirenti militante di Ordine Nuovo, avrebbe riferito di “aver avuto un ruolo tutt’altro che marginale nella strage”, è stata acquisita una fotografia del giorno della strage che attesterebbe la presenza di Toffaloni, all’epoca diciassettenne, in piazza della Loggia la mattina del 28 maggio 1974, pochi istanti dopo l’esplosione. È stata così disposta dalla Procura una perizia antropometrica al fine di effettuare una comparazione tra la fotografia e altre di Toffaloni della stessa epoca, sequestrate presso i suoi genitori. I risultati di detta perizia, esposti dai consulenti della Procura nel corso dell’incidente probatorio svoltosi il 22 luglio 2016 presso il Tribunale per i Minorenni di Brescia, hanno confermato la presenza di Toffaloni sul luogo della strage. Toffaloni, interrogato sui fatti per rogatoria, poiché residente in Svizzera, dal pubblico ministero titolare dell’inchiesta, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più classificati e sono perciò liberamente consultabili da tutti.
L’omaggio alla stele dei caduti dopo la sentenza
Mary Titton
PRIMO PIANO
“Torneremo Ancora”: l’inedito di Franco Battiato.
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“Torneremo Ancora” è l’inedito scritto e composto da Franco Battiato con Juri Camisasca e inserito nell’omonimo album, pubblicato nel 2019, ultimo della sua lunga carriera che contiene quattordici brani famosi incisi insieme alla London Philarmonic Orchestra, diretta dal Maestro Carlo Guaitoli. Ora che il famoso cantautore siciliano si è spento, all’età di 76 anni, lo scorso 18 maggio nella sua villa di Milo, questo testo appare quasi profetico ed esprime la convinzione che “La vita non finisce, è come il sonno, la nascita è come il risveglio finché non saremo liberi torneremo ancora e ancora e ancora …”. Il brano riflettte ancora una volta l’interesse dell’autore per l’esoterismo, la teoretica filosofica, la mistica sufi (in particolare tramite l’influenza di G.I. Gurdjieff) e la meditazione orientale. Franco Battiato, all’anagrafe Francesco Battiato, nato il 23 marzo 1945 a Riposto, allora Ionia, in provincia di Catania, è stato un cantautore, compositore e regista italiano divenuto famoso per il grande numero di stili che ha approfondito e combinato tra loro in modo eclettico e personale: dopo l’iniziale fase pop degli anni sessanta, è passato nel decennio seguente al rock progressivo e all’avanguardia colta. Successivamente è ritornato alla musica leggera approfondendo anche la canzone d’autore. Fra gli altri stili in cui si è cimentato vi sono la musica etnica, quella elettronica e l’opera lirica. In lui convivevano l’allievo di Stockhausen e l’autore di canzoni pop entrate nella storia del costume, il cultore di filosofie orientali, del Sufismo, della meditazione trascendentale, del pensiero di Gurdjeff e lo spirito del rock, l’amore e la conoscenza profonda della musica antica e classica e lo sperimentatore elettronico che negli anni settanta si avvicinò al rock d’avanguardia, il cantautore di protesta, il pittore e il regista cinematografico. Battiato è stato, però, soprattutto un uomo libero, un intellettuale che ha sempre guardato la società e il mondo da un punto di vista personale e originale, molto spesso in anticipo sui tempi. Durante la sua lunga carriera, in cui ha ottenuto un enorme successo di pubblico e di critica, si è avvalso dell’aiuto di numerosi collaboratori, fra cui il violinista Giusto Pio e il filosofo Manlio Sgalambro, coautore di molti suoi brani. Tra i suoi testi più celebri c’è “Bandiera bianca”, canzone che, pubblicata nel 1981 nell’album “La voce del padrone”, prende di mira alcuni degli aspetti considerati dal cantautore i più immorali della società contemporanea, quali il terrorismo (“in quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore”), la politica (“quei programmi demenziali con tribune elettorali”) e l’eccessiva dipendenza dai soldi (“pronipoti di sua maestà il denaro”). Il ritornello “sul ponte sventola bandiera bianca” fa riferimento ad una poesia di Arnaldo Fusinato “L’ultima ora di Venezia”. Come non citare poi “Alexander Platz” (1982), portata al successo da Milva, morta il 24 aprile scorso, circa un mese prima di Battiato: racconta la storia di due amanti, che hanno deciso di trasferirsi a Berlino Est prima della caduta del muro, e delle difficoltà che incontrano nella vita quotidiana (Alexander Platz è una delle piazze più famose della parte orientale della città). “E di colpo venne il mese di Febbraio/faceva freddo in quella casa/… Alexander Platz aufwiederseen/c’era la neve/faccio quattro passi a piedi/fino alla frontiera:/vengo con te.” Il brano più famoso e amato di questo artista catanese, originale e poliedrico, reinterpretato negli anni anche da cantanti come Fiorella Mannoia, Adriano Celentano e Alice, rimane però senz’altro “La cura” scritta insieme con il filosofo Manlio Sgalambro per l’album “L’imboscata” del 1996. Il testo, ricco di metafore e suggestioni (Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza./I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi,/la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi./Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto …), ha dato adito a diverse interpretazioni, anche quella di una introspezione mossa dall’amore verso se stessi, alla ricerca di risposte sul senso della vita. Resta comunque, nella sua immediatezza, una canzone che parla d’amore, di dedizione totale, protezione della persona amata: “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie/Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via/Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo/Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai/Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore/Dalle ossessioni delle tue manie/Supererò le correnti gravitazionali/Lo spazio e la luce per non farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie/Perché sei un essere speciale/Ed io, avrò cura di te …”
Carla Fracci: “Eterna fanciulla danzante”.
Misia22442, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, attraverso Wikimedia Commons
Così il poeta Eugenio Montale ha definito Carla Fracci per la sua perenne grazia, leggerezza ed eleganza, tali da farne un’icona immortale della danza. Nata a Milano il 20 agosto 1936 da Luigi Fracci, impiegato dell’azienda tranviaria come bigliettaio e da Santina Rocca, operaia alla Innocenti di Milano, Carla Fracci si è spenta nella sua casa di Milano a 84 anni il 27 maggio scorso tra grandi riconoscimenti e manifestazioni di affetto. Racconta di sé nella sua autobiografia “Passo dopo passo”: “A differenza di tante altre bambine, io non ho mai realmente sognato di fare la ballerina … Progettavo di fare la parrucchiera, anche quando, dopo la guerra, ci trasferimmo in una casa popolare a Milano, quattro persone in due stanze. Però sapevo ballare e così allietavo tutti al dopolavoro ferroviario, dove mi portava papà. Fu un’amica dei miei che li convinse a portarmi all’esame di ammissione alla scuola di ballo della Scala. E mi presero solo per “il bel faccino”, perché ero nel gruppo di quelle in forse, da rivedere.” Carla Fracci sin dal 1946 studiò alla scuola di ballo del Teatro alla Scala avendo tra gli insegnanti la grande coreografa russa Vera Volkova. Nei primi anni fu per lei difficile abituarsi all’ambiente rigido della Scala anche per i continui rimproveri della maestra, che la considerava ricca di doti ma svogliata, fondamentale fu poi l’incontro con Margot Fonteyn, che le permise di cogliere il senso di tutto quel lavoro, iniziando a sentire il teatro come “casa”. Dopo solo due anni dal diploma, conseguito nel 1954, divenne solista, poi nel 1958 è già prima ballerina. Tra la fine degli anni cinquanta e gli anni settanta danzò con alcune compagnie straniere, quali il London Festival Ballet, il Sadler’s Wells Ballet, ora noto come Royal Ballet, il Balletto di Stoccarda e il Balletto reale svedese. Tra i grandi ballerini che sono stati suoi partner sul palcoscenico si annoverano Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov, Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi e soprattutto il danese Erik Bruhn, con cui la Fracci danzò “Giselle” in modo così straordinario, che ne fu realizzato un film nel 1969. La sua notorietà è legata, infatti, alle incantevoli interpretazioni di ruoli romantici e drammatici, quali quello di Giselle, La Sylphide, Romeo e Giulietta, Coppélia, Francesca da Rimini, Medea. Regista di molte delle grandi opere da lei interpretate, come pure di balletti perduti e nuove creazioni, è stato suo marito Beppe Menegatti, che le è stato sempre accanto come compagno premuroso. Dal 1996 al 1997 diresse il corpo di ballo dell’Arena di Verona e dal novembre del 2000 al luglio del 2010 quello del Teatro dell’Opera di Roma. Una vita vissuta intensamente la sua, ricca di soddisfazioni e di un mondo interiore che le consentiva di trasmettere sempre l’incanto della danza e dell’arte. Considerata una delle più grandi ballerine del ventesimo secolo, definita nel 1981 dal New York Times prima ballerina assoluta, è stata protagonista di una delle stagioni più significative della cultura italiana, affermandosi a livello mondiale e venendo apprezzata ovunque, soprattutto negli Stati Uniti, che per lei avevano un’autentica predilezione. La Fracci ha fatto della danza la sua ragione di vita e una missione, l’arte le ha permesso di esprimere sentimenti ed emozioni attraverso l’armonia dei passi e dei movimenti. La danza per lei è diventata tutto e tale è rimasta nello scorrere degli anni, procurandole una gioia infinita. Ancora le sue parole: “Ho danzato nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Sono stata una pioniera del decentramento. Volevo che questo mio lavoro non fosse d’élite, relegato alle scatole d’oro dei teatri d’opera. E anche quand’ero impegnata sulle scene più importanti del mondo sono sempre tornata in Italia per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili. Nureyev mi sgridava: chi te lo fa fare, ti stanchi troppo, arrivi da New York e devi andare, che so, a Budrio … Ma a me piaceva così, e il pubblico mi ha sempre ripagato.”