Editoriale/Un’estate fa.

L’anno scorso di questi tempi incominciavamo qui in Italia a riprendere una nuova apparente normalità dopo lunghi mesi di lockdown e tantissime incertezze su tutto. Era come uscire da un sogno assai brutto, da un incubo, con i dati e le conferenze della Protezione Civile ogni giorno, gli ospedali e le terapie intensive allo stremo e poi i morti. Tanti morti, troppi per non pensare ad una catastrofe mondiale. Timori e dolore, tanto dolore, insonnia, stati d’ansia multipli e mai così evidenti e diffusi. Senza difese se non il lockdown appunto, le mascherine, i guanti si i guanti no, il distanziamento individuale. Si tornava nei locali, nei bar, nei ristoranti con molte cautele, per poi ad un certo punto metterle da parte ogni giorno di più procedendo a rotta di collo, spesso con insofferenza e non poche superficialità, verso un’estate che poi si rivelerà un disastro facendoci tornare in qualche modo al punto di partenza. 

Ricordi vicini dopotutto. I campionati di calcio si affannavano ad andare in conclusione e gli Europei a venire erano una vera e propria astrazione marziana. Però nonostante le tante stupidaggini, l’improvvisazione e chi ha fatto di tutto per ingannare e distruggere, il Paese ha tenuto dando una grande prova di determinazione e di equilibrio. Di questo ne dobbiamo tenere dovutamente conto perché non è stato facile. Per niente. Poi sono arrivati i vaccini e una verità sempre più evidente sulle lontane, oscure origini del virus e sulle pesanti responsabilità ancora tutte da ricostruire e da definire ad ogni livello. Ma questa è un’altra storia.

È passato un anno e domenica sera la Nazionale Italiana ha vinto con merito gli Europei dopo 53 anni. Correva allora l’anno 1968 e in quella prima decade di giugno tutto doveva ancora accadere. Per la cronaca prima Gigi Riva, poi Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzo la freccia del Sud, 2 a 0 alla Jugoslavia. L’emozione per quanto Roberto Mancini, i suoi collaboratori e i suoi ragazzi sono stati capaci di fare di fronte ad un mondo ancora stordito e in larghe aree sofferente per la pandemia oltre che per la situazione economica conseguente, non può farci chiudere gli occhi su uno stadio straordinario come Wembley con 60.000 persone e mascherine zero. Distanziamento zero e una sola dose pro capite, forse, di AstraZeneca. Una follia non molto lontana dai festeggiamenti in Italia ad altissimo rischio potenziale. Non si tratta di fare la parte di noiosi censori e men che mai di uccelli del malaugurio, ma purtroppo il problema c’è e non l’abbiamo superato. Il cosiddetto COVID 19, modificato geneticamente in laboratorio, lo conosciamo ancora troppo poco proprio perché è imprevedibile, pericoloso e facilmente mutante. Ci auguriamo che vada tutto bene, che soprattutto i moltissimi giovani con tanta voglia di socialità e di emozioni capiscano che viviamo tutti una finale altrettanto importante e non facciano troppe sciocchezze. Non solo loro. D’altra parte l’Italia, l’Europa, devono ripartire per le ragioni della nostra vita, ma anche perché in un mondo globalizzato non si può non fare riferimento ai principi più elementari della solidarietà e dell’aiuto materiale a chi sta peggio. Vedremo.

Intanto in questi giorni sono venuti meno due personaggi straordinari mille miglia distanti fra loro per professione, storia personale, stili di vita e forse interessi. Raffaella Carrà, al secolo Raffaella Maria Roberta Pelloni (Bologna, 18 giugno 1943) ed Angelo Del Boca (Novara, 23 maggio 1925). La Carrà è stata una vera e propria icona della nostra vita  ed immediato riferimento di riconoscibilità per il Belpaese. Non ho avuto mai occasione ne’ di conoscerla ne’ di vederla dal vivo. Era un’immagine virtuale, un mito senza tempo. Anche Del Boca non lo conoscevo in presenza, ma ci siamo sentiti tante volte per telefono chiamandolo nella sua lontana Torino già a partire dai primi anni ‘80 per svariate e diverse ragioni. Mai nessuno come lui è riuscito a raccontare l’Africa, il nostro tardo retorico colonialismo, le malefatte e poi le atrocità di un impero di cartone fino alla catastrofe e alla tragedia.

Francesco Malvasi


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